domenica 19 aprile 2020

TRA AUMENTO DEL DEFICIT E PATRIMONIALE


Perché la patrimoniale è giusta ed equa | Left
Mentre attendiamo risposte dall'Europa,tra Mes,Eurobond e altri aspetti di un mondo,quello finanziario,che è fatto per arricchire sempre e comunque il ricco ed estorcere denaro ai più poveri,il discorso del come si possano pagare tutti gli stanziamenti necessari sia in campo sanitario che in quello lavorativo per fronteggiare l'emergenza coronavirus,va avanti.
Ma con differenze sostanziali in quanto l'aumento del deficit per ora è la via più facilmente percorribile e che nel breve tempo non avrà ripercussioni tragiche,ipotesi che fino a febbraio di quest'anno era considerata puro tabù ma che invece ora è stranamente fattibile.
La via per una patrimoniale giusta,che il Pd in una maniera molto annacquata ha comunque avuto il coraggio di proporre(vedi il secondo contributo:www.repubblica.it/politica )che è una sorta di contributo di solidarietà per chi percepisce più di 80 mila Euro a scaglioni maggiori in base al reddito,è discussa soprattutto in ambienti extraparlamentari visto che anche forze che dovrebbero parlare di ciò(ad esempio Liberi e Uguali:madn liberi-da-cosa-e-uguali-chi? )e sono al governo se ne stanno zitti(vedi anche:madn il-capitalismo-comandasoluzioni alternative esistono ).
Forse per non aggravare le polemiche subito nate già all'interno della maggioranza stessa con i renziani ed i grillini contrari così come tutta l'opposizione che quando si parla di togliere i soldi ai ricchi parlano la stessa lingua.
Se ne parla nel primo articolo(contropiano la-giusta-patrimoniale-e-i-suoi-nemici ),abbastanza lungo ma l'idea di fondo è quella che non si attacca il reddito ma la ricchezza accumulata,con tanto di cifre e di idea di fondo che chi osteggia questo,i più grandi oppositori a questo tipo di prelievo,sono gli industriali e gli stessi politici finanziati da chi ha le proprie holding con residenza fiscale in paesi come Lussemburgo,Irlanda e Olanda,i paradisi a bassa tassazione che non versano contributi in Italia.

La giusta patrimoniale e i suoi nemici.

di  Coniare Rivolta* 
Siamo ancora nel pieno della tempesta, con l’emergenza sanitaria che continua a mordere. Ma problemi almeno altrettanto drammatici sono all’orizzonte, poiché si apre una fase di crisi economica in cui serviranno tantissime risorse per finanziare le misure di sostegno al reddito, di supporto all’occupazione e di rilancio dell’economia necessarie ad evitare un disastro sociale.

Una domanda sorge spontanea: come paghiamo il conto e chi lo deve pagare? Una delle possibilità ventilate è quella di un’imposta patrimoniale. Ma questa opzione è davvero possibile dentro il quadro istituzionale europeo? Cerchiamo di capirci qualcosa.

Un’imposta patrimoniale è una tassa che colpisce non il reddito delle persone, bensì la loro ricchezza accumulata. L’idea è quella di prendere i soldi lì dove stanno, nelle tasche dei ricchi, anziché sbattere il muso sul muro di gomma che le istituzioni europee hanno posto alla possibilità di ricorrere alla leva del debito.

La patrimoniale viene dipinta come la soluzione ideale per risolvere una vera e propria emergenza, evitando di scontrarci con i problemi sistemici che ci impongono dall’alto la scarsità delle risorse: sfuggire al ricatto del debito evitando di contrarre debito, e andando a prendere quelle risorse, in tempi brevissimi, direttamente a casa dei ricchi, o meglio sul loro conto in banca.

 Un’opzione che avrebbe il doppio effetto positivo di supplire al fabbisogno finanziario necessario e, allo stesso tempo, praticare una redistribuzione delle risorse dall’alto al basso: un potente strumento di gettito fiscale immediato e, contemporaneamente, di giustizia sociale.

Purtroppo, i ricchi sono ricchi anche perché non si lasciano prendere così facilmente e, come ci insegna anche la storia recente del nostro Paese, le imposte patrimoniali implementate fino ad oggi sono ricadute regolarmente sulla testa della classe lavoratrice.

Proveremo a spiegare che ciò avverrebbe verosimilmente anche in questo frangente, e principalmente in virtù della particolare architettura istituzionale dell’Unione Europea. Insomma, come vedremo, l’idea della patrimoniale disegnata per colpire i ricchi si scontra con una cornice istituzionale che è stata costruita esattamente per mettere i ricchi al riparo da qualsiasi rivendicazione: se vogliamo promuovere una giusta patrimoniale, capace di redistribuire risorse dall’alto verso il basso, non possiamo esimerci dal chiamare in causa i massimi sistemi, cioè quei Trattati europei che appaiono oggi, nel dramma dell’epidemia, come una vera e propria camicia di forza imposta al corpo sociale.

Una giusta patrimoniale è un’imposta disegnata in modo da colpire i grandi patrimoni, perché opererebbe una redistribuzione del reddito, sottraendo risorse ai grandi proprietari e restituendole alla collettività attraverso opere e servizi pubblici, a partire dalla sanità.

La ricchezza netta presente in Italia ammonta a 9.300 miliardi di euro, circa quattro volte il debito pubblico del Paese. Questa ricchezza si può suddividere in due categorie principali: la ricchezza finanziaria, consistente in denaro depositato su conti correnti, azioni e obbligazioni, che ammonta a circa 4.300 miliardi di euro; e la ricchezza non finanziaria, essenzialmente patrimonio immobiliare, che rappresenta i restanti 5.000 miliardi.

Per immaginare una giusta patrimoniale dobbiamo analizzare la distribuzione di questa ricchezza, perché vogliamo levare ai ricchi per dare ai poveri, e non possiamo permetterci di colpire quel briciolo di ricchezza diffusa tra la classe lavoratrice.

Un recente Rapport Oxfam sulle disuguaglianze mette in luce un dato inequivocabile: il 10% più ricco della popolazione detiene più della metà di quella ricchezza. Questo significa che la ricchezza nel nostro Paese è pesantemente concentrata nelle tasche di una classe agiata, e dunque esiste un potenziale, circoscritto bersaglio di una giusta patrimoniale.

La base imponibile di tale patrimoniale, cioè il patrimonio di questa classe agiata, ammonterebbe a circa 5.000 miliardi di euro.

Concentriamoci, in quanto segue, sulla sola parte finanziaria di questa ricchezza, pari a circa 2.000 miliardi di euro tra denaro e titoli: si tratta di quella quota del patrimonio che è già liquida o è immediatamente liquidabile, e dunque è idonea a fornire una fonte di gettito fiscale immediato e certo.

Al contrario, il coinvolgimento del patrimonio immobiliare appare molto più farraginoso, perché il valore degli immobili non è immediatamente aggredibile: non si può pagare l’imposta con il patrimonio stesso, e dunque può essere necessario prima liquidare, cioè vendere quel patrimonio, e questo potrebbe generare una serie di ricadute economiche negative, con la corsa alla svendita da parte dei grandi proprietari, lo scoppio di una bolla immobiliare che danneggerebbe anche i piccoli proprietari di prime case.

Infine il rischio di una successiva maggiore concentrazione del patrimonio immobiliare (con le grandi banche pronte, passata la patrimoniale, a fare incetta di immobili svalutati, mentre le famiglie che hanno contratto un mutuo si troverebbero tra le mani una casa dal prezzo sensibilmente inferiore al valore del debito).

Dunque, guardiamo a quei 2.000 miliardi di conti correnti e titoli di proprietà del 10% più ricco del Paese, che appaiono immediatamente aggredibili, e chiediamoci: come andarli a prendere?

Nel rispondere a questa domanda, ci renderemo conto che una giusta patrimoniale appare impraticabile dentro all’Unione europea, perché la libertà di movimento dei capitali, uno dei pilastri del processo di integrazione europea, consente alla grande maggioranza di quei patrimoni di sfuggire a qualsiasi tentativo di redistribuzione della ricchezza operato tramite la leva fiscale.

L’impalcatura ideologica dell’Unione europea vuole che i capitali siano liberi di muoversi, poiché poggia sull’idea che solo il libero agire delle forze di mercato possa condurre alla migliore allocazione delle risorse, generando crescita e benessere.

Dietro questa patina di teoria economica dominante si cela l’interesse del capitale a muoversi liberamente per cercare gli impieghi più profittevoli e fuggire qualsiasi forma di tassazione.

Se dunque ci proponessimo di imporre una patrimoniale capace di colpire i più ricchi, saremmo praticamente certi di arrivare ai loro conti quando i buoi sono già usciti, diretti magari non verso località esotiche, ma verso i porti certi dei paradisi fiscali interni all’Unione europea quali il Lussemburgo, l’Olanda o l’Irlanda, Paesi che hanno incentrato il loro equilibrio economico sul continuo afflusso di capitali esteri attratti proprio dal trattamento favorevole garantito alle grandi ricchezze finanziarie.

Viviamo in un’epoca in cui basta un click per spostare milioni di euro da un capo all’altro del pianeta: una persona qualsiasi può, in pochi minuti, aprire un conto corrente in qualsiasi Paese del mondo e trasferirvi il proprio denaro.

Tuttavia, ciò non basterebbe ad eludere l’imposta, dal momento che il fisco colpisce chiunque abbia la residenza fiscale in Italia: la persona qualsiasi di cui sopra si sarebbe liberata del malloppo senza modificare la base fiscale, procedura articolata e complessa che impone di fornire prove circa il trasferimento all’estero del proprio baricentro economico o sociale (lavoro, impresa, famiglia).

Una strada davvero impervia per una persona qualsiasi, appunto, ma il problema è che noi non stiamo parlando di persone qualsiasi, bensì delle circa 2,5 milioni di famiglie più ricche d’Italia, che hanno – solo per la parte finanziaria, cioè pur escludendo oltre metà del loro patrimonio, costituito da beni immobili – una media di 800.000 euro tra conti correnti e titoli azionari e obbligazionari (dati Banca d’Italia).

Bene, a meno di credere che queste persone abbiano vinto tutte la lotteria, o abbiano accumulato pian piano questi risparmi con umili lavoretti – cioè a meno di credere alle favolette borghesi che le classi agiate amano raccontare – è del tutto evidente che stiamo parlando, per la grande maggioranza, di persone radicate nel mondo degli affari, e dunque già abbondantemente inserite in una fitta rete di società estere, holdings e altre complesse forme di schermatura del patrimonio che sono l’ecosistema naturale delle grandi ricchezze.

Anche assumendo che una piccola parte di queste famiglie danarose sia rappresentata da risparmiatori particolarmente ‘fortunati’ e poco avvezzi a manovre finanziarie, e non quindi da speculatori e squali pronti a sguazzare alla ricerca di paradisi fiscali, non si tratterà in generale di persone qualsiasi.

A loro basterà davvero un click per trasferire fondi da uno dei loro conti, aperto in Italia, ad una società lussemburghese a loro collegata.

Giusto per fare un esempio, la cassaforte della famiglia Agnelli è una società olandese denominata Giovanni Agnelli BV, una scatola (asset mangement company) che controlla la holding Exor, che a sua volta controlla FCA, Ferrari e decine di altre imprese e fondi di investimento, anch’essi ramificati in nodi societari distribuiti in Europa e nel mondo.

Non appena si profilasse all’orizzonte l’ipotesi di un’imposta patrimoniale, pensate che gli Agnelli in persona dovranno mettersi a spostare la loro residenza fiscale altrove? Evidentemente no, gli basterà muovere le loro ricchezze da una scatola societaria all’altra in modo da eludere l’imposizione fiscale.

Insomma, i veri ricchi non hanno bisogno di imbarcarsi su un cargo battente bandiera liberiana per sfuggire al fisco: il loro capitale ha già una rete di conti e società più o meno fittizie su cui muoversi alla velocità di un click per eludere qualsiasi tipo di imposizione patrimoniale.

Pertanto, la stragrande maggioranza di quelli che vorremmo raggiungere con la giusta patrimoniale e che si trovano al di sopra della parte più bassa della piramide dei ricchi sono esattamente gli unici ad avere i mezzi necessari a schivare il colpo. La loro ricchezza, cioè proprio l’obiettivo su cui è puntata l’imposta, è essa stessa la chiave per eludere il fisco senza alcun ostacolo.

Si tratta di una chiave capace di aprire tutte le porte?

La risposta a questa domanda chiama in causa il contesto entro cui è organizzata la nostra economia. Infatti, la possibilità di eludere l’imposta patrimoniale dipende in maniera cruciale dall’assenza di qualsiasi limite al movimento dei capitali. I ricchi avranno pure la loro rete di conti esteri, ma la possibilità di portare il denaro fuori dall’Italia verso una di quelle destinazioni dipende dalla cornice di libera circolazione dei capitali che è stata definitivamente sancita, nel nostro Paese, con il Trattato di Maastricht (1992), dopo un percorso già definito e avviato all’inizio degli anni ’80.

Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) fornisce la disciplina di dettaglio, e prevede esplicitamente, all’art. 63, il divieto di qualsiasi restrizione alla libera circolazione dei capitali e ai pagamenti internazionali, una regola accompagnata da alcune eccezioni specificate nel successivo art. 65.

Proviamo a capire se tali eccezioni forniscono agli stati strumenti utili ad impedire che i grandi patrimoni sfuggano ad un’imposta patrimoniale.

La prima deroga alla libera circolazione dei capitali è prevista al comma 1, lettera a), laddove si consente agli Stati membri “di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale“.

Partiamo male, insomma, perché questa norma serve esattamente agli scopi opposti rispetto a quelli che ci interessano: garantisce infatti “agli Stati membri la possibilità di praticare una tassazione agevolata per i non residenti al fine di favorire l’afflusso nei loro territori di capitali provenienti dall’estero”.

In pratica, la norma stabilisce la legittimità dei regimi fiscali agevolati per non residenti che hanno garantito a Paesi come il Regno Unito, l’Irlanda e l’Olanda ingenti flussi di capitali esteri.

La seconda deroga è contenuta, sempre al comma 1 dell’art. 65 del TFUE, nella successiva lettera b), e ci dice che sono consentite “tutte le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, o di stabilire procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo di informazione amministrativa o statistica, o di adottare misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza”.

Sono individuate dunque due distinte fattispecie entro cui appare possibile bloccare il movimento dei capitali: i casi di “violazione” di leggi nazionali – e qui si cita esplicitamente il settore fiscale – ed i casi in cui venga compromesso l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza.

Il primo caso, nonostante le apparenze, non ci aiuta in alcun modo, perché colpisce solamente quei movimenti di capitale operati per violare la normativa fiscale, cioè per evadere le tasse. Vale qui la pena ricordare quale sia la distinzione tra evasione ed elusione fiscale: sono entrambi metodi per sfuggire al fisco, ma mentre l’evasione passa per la violazione delle leggi, l’elusione si muove sul crinale della legalità, consistendo in tutte quelle manovre che sfruttano le pieghe della legge per sottrarre base imponibile al fisco.

Ecco, i Trattati europei ci dicono che possiamo fermare i capitali che stanno fuggendo dopo essere stati dichiarati base imponibile, cioè dopo essere stati oggetto di un’obbligazione a pagare.

Ma la stragrande maggioranza dei nostri ricchi, veri gentleman che non vogliono certo sporcarsi la reputazione, si muovono più che agevolmente dentro alle regole, e hanno tutti gli strumenti per spostare il denaro in maniera perfettamente legittima e ben prima che arrivi la cartella del fisco.

I grandi patrimoni finanziari tagliano la corda non appena sentono l’odore di una patrimoniale in lontananza. Si pensi che tra il giugno 2011 e il giungo 2012, cioè quando l’Italia fu investita dalla crisi del debito pubblico che portò al Governo tecnico presieduto da Mario Monti, il Fondo Monetario Internazionale ha stimato un deflusso di capitali dall’Italia pari a circa il 15% del Pil, circa 235 miliardi di euro.

Non si trattava certo di un governo socialista, ma bastarono un dibattito su una Mini-Patrimoniale pari all’1 per mille della ricchezza finanziaria e sentori di instabilità finanziaria per dare il via alla fuga. Immaginatevi cosa potrebbe accadere se si parlasse dell’1 per cento, o addirittura di un’aliquota più alta, quale quella che ci piacerebbe poter introdurre per operare un po’ di sana redistribuzione dei redditi.

Per questo, i movimenti di capitali che vorremmo bloccare noi non rientrano nella prima fattispecie del comma 1, lettera b) dell’art. 65 del TFUE, ma si muovono agevolmente dentro al quadro normativo europeo, anche perché spesso e volentieri assumono la veste di investimenti diretti esteri (IDE).

Questi sono investimenti volti all’acquisizione di partecipazioni ‘durevoli’ (di controllo) in un’impresa estera o alla costituzione di una filiale all’estero, che comporti un certo grado di coinvolgimento dell’investitore nella direzione e nella gestione dell’impresa partecipata o costituita.

 Nella maggior parte dei casi, gli IDE sono destinati alla costituzione di holding companies nei paradisi fiscali: nessun investimento in una reale attività industriale, ma mere scappatoie per i patrimoni in fuga dal fisco.

Prendiamo un dato che vale più di mille parole: le statistiche di Banca d’Italia mostrano come Lussemburgo, Olanda e Regno Unito siano le mete preferite dei capitali in uscita dal nostro Paese. Nel 2018 lo stock di investimenti diretti era pari a 48 miliardi verso il Lussemburgo, 73 miliardi verso l’Olanda contro soltanto 32 miliardi diretti negli Stati Uniti. Pensate forse che il Lussemburgo o l’Olanda abbiano una struttura produttiva capace di attrarre più investimenti produttivi degli Stati Uniti?

Ovviamente, dietro agli IDE si celano meri trasferimenti di fondi, tutt’altro che investimenti produttivi: le autostrade create dall’Unione europea per far viaggiare i capitali in libertà hanno molte corsie e non ammettono ostacoli agli interessi dei più ricchi.

Per quanto riguarda l’ultima deroga, si parla dei casi in cui sia compromessa la pubblica sicurezza o l’ordine pubblico. Si tratta di una fattispecie creata per arginare i movimenti di denaro delle organizzazioni terroristiche e criminali, oppure per tutelare la stabilità finanziaria di un Paese (e dunque dell’intera Unione monetaria, in virtù delle forti interconnessioni tra le economie), come è avvenuto nei casi di Grecia e Cipro. Nulla che possa favorire l’applicazione di una giusta patrimoniale.

In sintesi, i capitali in fuga dalla patrimoniale non starebbero violando alcuna legge, né starebbero compromettendo l’ordine pubblico o la sicurezza pubblica, e quindi avrebbero – come sempre è avvenuto – il semaforo verde da parte delle istituzioni europee.

Eccoci giunti alla conclusione che, purtroppo, nessuna patrimoniale giusta, come nessuna forma di sostanziale redistribuzione, è possibile nel contesto di libera circolazione dei capitali imposto dai Trattati europei.

Tornando all’oggi, promuovere l’introduzione di un’imposta patrimoniale per raccogliere le risorse necessarie e fronteggiare l’epidemia è un nobile segnale del desiderio di provare ad invertire una tendenza che vede la ricchezza concentrarsi sempre di più nelle mani dei pochi.

Rischia, tuttavia, di essere poco più che una lodevole enunciazione di principi, a causa dell’architettura istituzionale dell’Unione europea: se opportunamente disegnata in modo tale da colpire solo i ricchi, l’imposta finirebbe per raccogliere poco o nulla a fronte di una rapida ma ordinata fuga dei capitali.

Per questa ragione, è altamente probabile che si opti per una patrimoniale ben diversa da quella che sogniamo, e cioè per la solita patrimoniale che ricade sulla testa dei lavoratori, sulla quota di ricchezza diffusa tra i piccoli e piccolissimi risparmiatori, quelli che non hanno i mezzi per eludere il fisco. Lavoratori e pensionati che pagano il conto della crisi: è la ricetta dei nostri nemici, non ci stupiamo se il PD la mette sul tavolo, ma evitiamo di portare acqua a quel mulino.

La lotta per una patrimoniale giusta è una necessità, un dovere politico. Per poter condurre questa lotta in maniera coerente e non solo testimoniale, siamo però costretti a muoverci oltre i confini del possibile che ci sono imposti dall’Unione europea. Siamo costretti a mettere in discussione i Trattati, la libera circolazione del capitale e tutti i vincoli che impediscono ai lavoratori di ambire ad una vita migliore.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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Covid tax, il Pd: "Un contributo di solidarietà da chi ha redditi più alti". Ma arriva la bocciatura di 5Stelle e Italia Viva.

La proposta del gruppo dem alla Camera: "Dovrà versarlo chi guadagna più di 80mila euro all'anno e andrà alle fasce più povere". Le opposizioni: "È una Corona-tax"

Prelevare ai ricchi per dare ai poveri. I parlamentari del Pd propongono un contributo di solidarietà, da parte delle fasce più agiate, per contrastare la povertà in questo periodo di emergenza Coronavirus. "II cittadini con redditi più elevati di 80.000 euro dovranno versare un contribuito di solidarietà che inciderà sulla parte eccedente tale soglia", l'idea di Graziano Delrio e Fabio Melilli, capigruppo del Pd rispettivamente alla Camera e in commissione Bilancio.  "La somma versata sarà deducibile e andrà da alcune centinaia di euro fino a decine di migliaia per redditi superiori al milione. Il gettito atteso è 1,3 miliardi annui". Ma la proposta già spacca la maggioranza con il no secco di Italia Viva e Cinquestelle e scatena le proteste dell'opposizione.

La proposta

La pandemia che si è abbattuta sull'Italia e sugli altri Paesi del mondo ha provocato una crisi economica che ha accentuato le situazioni di povertà. Motivo per cui il governo ha recentemente stanziato 400 milioni di euro per finanziare i buoni spesa che ogni Comune ha destinato alle fasce più deboli.

"Ci sono famiglie che in questi giorni non hanno risorse sufficienti per provvedere all'acquisto nemmeno dei beni di prima necessità: c'è un rischio povertà per un ulteriore milione di bambini", hanno sottolineato Delrio e Melilli. "Un grande e solidale paese come l'Italia non può non porsi il tema di come le classi dirigenti e coloro che dispongono di redditi elevati debbano essere chiamati a contribuire a favore di chi non ce la fa".

Da qui la proposta del gruppo del Pd alla Camera: "Deve essere introdotto nel provvedimento che arriva ora alla Camera un contributo di solidarietà a carico dei cittadini con redditi superiori ad 80.000 euro e che inciderà sulla parte eccedente tale soglia. La somma versata, rispettando i criteri di progressività sanciti dalla nostra Costituzione, sarà deducibile e partirà da alcune centinaia di euro per le soglie più basse fino ad arrivare ad alcune decine di migliaia di euro per i redditi superiori al milione".
   
Le fasce di reddito e il contributo

Il contributo, sarebbe del 4% oltre 80.000 euro, del 5% oltre 100.000 euro, del 6% oltre 300.000 euro, del 7% oltre 500.000 euro, dell'8% oltre un milione di euro. In base alla tabella che accompagna il testo, sarebbero 110 euro l'anno per 200mila contribuenti che guadagnano sopra gli 80mila euro (200 euro lordi, ma con la possibilità di dedurre 90 euro). Da 90.000 a 100.000 euro il contributo sarebbe di 331 euro al netto della deducibilità; 718 euro da 100.000 a 120.000 euro e di 1408 euro da 120.000 a 150.000, aumentando mano mano che cresce il reddito.

Ma la proposta dei parlamentari pd come è stata presa dai vertici del partito? Dal Nazareno fanno sapere che il segretario Nicola Zingaretti era a conoscenza della discussione, all'interno del gruppo Dem, sul contributo di solidarietà, ma che la proposta non sarebbe stata formalizzata in questi termini.

Le reazioni

L'idea di un contributo di solidarietà non piace però agli altri partiti di maggiorana. "Non esiste", la bocciatura lapidaria dei Cinque Stelle. "Questo è il momento di dare, non di mettere le mani nelle tasche", dicono.

Il contributo di solidarietà  "è una loro iniziativa, noi con garbo e spirito unitario abbiamo proposto ai parlamentari di tagliarsi lo stipendio, cosa che il M5s già fa senza ricevere risposta. Ora non è il momento di chiedere ulteriori sacrifici agli italiani, rimaniamo contrari a qualunque forma di patrimoniale", chiarisce il capo politico M5s, Vito Crimi.  "Le risorse - dice - le dobbiamo trovare dentro il Paese, ridiscutendo interventi non necessari come la Tav e attraverso l'Europa, con strumenti nuovi e realmente efficaci". E il sottosegretario grillino Stefano Buffagni: "Se i dem vogliono un prelievo, partano dai loro stipendi".

Contraria anche Laura Castelli, viceministro M5s dell'Economia. "Siamo stati sempre contrari alla patrimoniale, una misura che spacca il Paese - sostiene - oltretutto in questo caso per recuperare un miliardo di euro: per le cifre di cui si parla, nella battaglia anti Covid19, siamo veramente a una cifra poco considerevole". Per il viceministro "il Coronavirus non fa distinzione di reddito, a maggior ragione non è questo il momento di mettere le mani nelle tasche dei cittadini. Piuttosto, chi ha di più e può farlo doni alla Protezione civile, visto che abbiamo detassato le donazioni".

Il presidente di Italia Viva, Ettore Rosato, si sfoga su Twitter: "Ai nostri partner di governo in 24 ore ho sentito no alla riapertura graduale delle imprese, no all'attivazione del sostegno europeo tramite il Mes e si alla patrimoniale. Auguri Italia!".

"Le tasse vanno diminuite, non aumentate. Parlare di patrimoniale per chi guadagna 3.500  euro al mese è assurdo. Il Pd è sempre di più il partito delle tasse", il commento, su Twitter, del presidente dei senatori di Italia Viva, Davide Faraone.

Ostile all'idea di un contributo di solidarietà è anche Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia. "Il messaggio e' chiaro: niente soldi dalla Ue? Li prendiamo dai risparmi degli italiani. Per noi la patrimoniale e' un furto e lo impediremo con ogni mezzo", precisa su Twitter.

"Si scrive contributo di solidarietà, si legge Coronatassa. Il Partito democratico esce allo scoperto, vuole mettere le mani nelle tasche degli italiani per far fronte all'emergenza Coronavirus", attacca la capogruppo Forza Italia alla Camera, Mariastella Gelmini. "Il calcolo - dice - magari verrà fatto con la prossima dichiarazione dei redditi, relativa cioè al 2019, anno nel quale professionisti e partite Iva hanno fatturato e guadagnato regolarmente: tanti che oggi non lavorano dovrebbero anche pagare". Parla di un "vecchio cavallo di battaglia del Pd,il contributo di solidarietà, ossia la patrimoniale", Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia.

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