venerdì 30 settembre 2016

IL VOTO IN GALIZIA E IN EUSKAL HERRIA


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Domenica di voto settimana scorsa nelle regioni autonome di Galizia e di Euskal Herria dove non si sono visti cambiamenti memorabili all'interno dei vari governi locali ma che comunque hanno dato qualche indicazione soprattutto se raffrontate a quelle nazionali dello scorso 26 giugno(madn una-spagna-nuovamente-ingovernabile ).
Partiamo dalla Galizia dove ha trionfato il PP come da pronostico visto che la regione è da sempre roccaforte del partito di Rajoy con una percentuale del 47,5% mentre la coalizione En Marea (Podemos e altre realtà di sinistra)è al secondo posto solo perché il Psoe di Sànchez è crollato verticalmente come i socialisti di mezza Europa d'altro canto.
Discreto risultato del BNG(Bloque Nacionalista Galego)dei nazionalisti di sinistra mentre il centrodestra di Ciudadanos ha ottenuto solo qualche spicciolo di percentuale come in Euskal Herria dove hanno vinto i nazionalisti di centrodestra del Pnv(37,9%)seguiti dalla coalizione dell'izquierda abertzale di EH Bildu ma a molta distanza mentre Elkarrekin Podemos al terzo posto ha visto dimezzare le preferenze rispetto a giugno.
Anche nei Paesi Bachi tracollo dei socialisti anche se potrebbero governare assieme al Pnv in una maggioranza sempre più risicata ma con la minoranza di Bildu e Podemos in "lotta" tra di loro visto l'elettorato dello stesso bacino.
C'è stato ancora un dato molto rilevante dell'astensionismo anche se più basso rispetto che da noi:comunque volendo vedere alla fine i risultati la Galizia è saldamente nelle mani del centrodestra del PP mentre Euskal Herria avrà maggiori problemi di governabilità(articolo preso da contropiano internazionale ).

Galizia e Comunità Autonoma Basca: vincono PP e Pnv,Podemos arretra, benino gli indipendentisti.

di Marco Santopadre
Mentre alle Cortes di Madrid continua il balletto tra le varie forze politiche per dare allo Stato Spagnolo un governo che salvo miracoli non vedrà la luce costringendo così il sovrano a sciogliere di nuovo il parlamento e ad indire nuove elezioni natalizie, ieri si sono tenuti due importanti test elettorali nella Comunità Autonoma Basca ed in Galizia.
Difficile fare “una media” del risultato delle due elezioni regionali e trarne indicazioni valide per tutto lo stato, trattandosi di due contesti politici assai diversi tra loro e di due comunità che rispetto alle altre godono di uno statuto speciale e quindi di un discreto margine di autogoverno.
Ma alcuni elementi di tendenza balzano agli occhi. Intanto il vero e proprio tracollo delle locali federazioni socialiste, uscite con le ossa rotte dal confronto con le alleanze guidate da Podemos che riescono a sottrarre un gran numero di voti al partito di Sanchez.
Al tempo stesso però Podemos rincula, ottenendo buoni risultati ma al di sotto delle aspettative, confermando così la tendenza già registrata alle ultime elezioni legislative.
La destra del Partito Popolare conferma la tendenza al recupero dei consensi che aveva contraddistinto le legislative spagnole del 26 di giugno. Nella Comunità Autonoma Basca, dove il partito di Rajoy non è mai stato al centro della scena politica, il PP contiene i danni, mentre in Galizia, suo feudo storico, la formazione mantiene la maggioranza assoluta e addirittura supera i livelli della scorsa tornata.
Nel Paese Basco i regionalisti del Partito nazionalista basco, che temevano il sorpasso da parte di Podemos, resiste al primo posto ed anzi incrementa i seggi. Gli indipendentisti di sinistra e centrosinistra di Eh Bildu confermano la tendenza al ridimensionamento del proprio elettorato, in parte perso a vantaggio del partito di Pablo Iglesias, ma la coalizione ‘abertzale’ contiene i danni rispetto alle previsioni e ai magrissimi risultati delle legislative piazzandosi in seconda posizione.

Discreto il risultato per i nazionalisti di sinistra del Blocco Nazionalista Galiziano che calano rispetto alle precedenti regionali ma evitano la disfatta registrata alle elezioni generali estive.
Quello che sembrava l’astro nascente del centrodestra spagnolo, Ciudadanos, sparisce invece sia in Galizia che nella Cav.

Disaggregando il dato, le elezioni ‘autonomiche’ di ieri nella Comunità basca hanno prodotto il parlamento regionale di Gasteiz più plurale della storia dell’istituzione nata dall’autoriforma del franchismo. Il Partido Nacionalista Vasco – regionalista, autonomista, di centrodestra – ha ottenuto il 37.5% e 29 seggi, due più che durante la precedente legislatura e molto meglio rispetto al 25% preso alle recenti elezioni generali (anche se trattandosi questa volta di elezioni autonomiche ed essendo l'elettorato orientato a partire da altre priorità la comparazione ha solo un valore indicativo e relativo anche se significativo vista la vicinanza temporale). Inoltre i democristiani e liberali baschisti si piazzano in prima posizione in tutte e tre le province che compongono la CAV.
EH Bildu, con il 21.5% e 17 seggi (quattro persi), rimane al secondo posto ma perde il primato in Gipuzkoa. Gli indipendentisti però risalgono parecchio rispetto al disastroso 13.3% di giugno. Elkarrekin Podemos, alleanza che includeva anche la sezione basca di Izquierda Unida ed Equo, ottiene il 14.8% e 11 parlamentari, ben lontani da quel 29% raggiunto il 26 giugno scorso.
Nonostante l’incremento, gli jeltzales rimangono però lontani dalla maggioranza assoluta di 38 seggi e dovranno quindi fare di nuovo ricorso al sostegno dei socialisti, come negli anni scorsi. Come socio di governo potrebbero contare su un Partito Socialista fortemente ridimensionato dall’irruzione sulla scena di Elkarrekin Podemos. Il PSE infatti è crollato da 16 a 9 parlamentari attestandosi all'11.9%, anche peggio del 14.2 raggiunto a giugno. I Popolari ne prendono altrettanti con solo il 10.1% dei voti, perdendone solo uno rispetto alle elezioni del 2012, quando il PP non doveva ancora fare i conti con il terremoto politico creato dalla nascita di Podemos e dallo sdoganamento a livello statale di Ciudadanos. Quest’ultima formazione riesce a raggranellare solo il 2% e non ottiene nessun seggio. Potremmo anzi affermare che il partito di Rivera ne perde uno, visto che nel parlamento regionale appena rimpiazzato sedeva un rappresentante del partito di centrodestra e nazionalista spagnolo UPyD, eletto in Araba. La formazione, nata da una scissione di destra del Psoe questa volta ha deciso di non presentarsi visto che nelle ultime tornate aveva visto il proprio elettorato transitare in blocco verso l’analogo ma più appetibile Ciudadanos.
L’astensione è stata protagonista della giornata di ieri, con un tasso di disaffezione pari al 37.9%, il più alto nella storia delle elezioni regionali nella Comunità Autonoma Basca.
La vittoria del Pnv e la probabile formazione di un governo di coalizione con i socialisti lascerà di fatto tutto com’era, anche se la maggioranza a disposizione sarà assai più risicata. Anche l’ingresso di una nutrita pattuglia di parlamentari di Elkarrekin Podemos nell’emiciclo di Gasteiz difficilmente farà saltare i consolidati equilibri politici locali. Da notare che, dal punto di vista dei rapporti di forza tra gli schieramenti, la nuova ‘Camera’ basca vede una maggioranza schiacciante a favore dei sostenitori del ‘diritto a decidere’, ben 57 seggi su 75, ovvero il 76% del totale. Ovviamente a voler raggruppare sotto questa generica dizione tanto gli indipendentisti di EH Bildu, quanto i regionalisti del Pnv fino ai federalisti di Elkarrekin Podemos.
Da vedere quale sarà la strategia degli indipendentisti per far fronte all’assalto di Podemos, respinto solo in parte. Una volta noti i risultati definitivi, lo storico leader della sinistra basca Arnaldo Otegi – candidato a lehendakari (presidente) della Cav ma inabilitato dal Tribunale Costituzionale per motivi politici dopo parecchi anni passati in cella per reati di opinione – ha definito entusiasmanti i risultati della coalizione che dirige. “Ci davano per seppelliti, dicevano che eravamo una cosa vecchia, del passato…ma questo paese è tornato a dimostrare che gli indipendentisti di sinistra sono il presente ed il futuro” ha urlato Otegi tra gli applausi e gli slogan a favore dell’indipendenza della piccola folla che si era nel frattempo radunata.

Su molte questioni – sociali e ambientali innanzitutto, forse anche economiche e di altro tipo – le due formazioni potrebbero fare fronte comune a Gasteiz contro l’asse conservatore Pnv-Pse-PP. Ma appare più che ovvio che Podemos ed EH Bildu sono concorrenti diretti e si contengono almeno in parte lo stesso elettorato, e che gli indipendentisti se vogliono risalire la china devono convincere una parte di quella che fu la base sociale ed elettorale – spesso anche militante – di Herri Batasuna e di Batasuna a tornare a sostenere un movimento accusato di essersi eccessivamente istituzionalizzato, di aver abbandonato il conflitto e di aver rinunciato ad alcune rivendicazioni storiche dell’izquierda abertzale, come l’amnistia per i prigionieri politici o la riunificazione dei territori divisi tra Spagna e Francia.
 

Le dichiarazioni di Otegi di ieri fanno pensare ad una possibile collaborazione, se non ad un patto, tra EH Bildu e le altre formazioni che almeno a parole difendono il ‘diritto all’autodecisione’. Se questo accordo sarà possibile e su quali direttrici eventualmente si baserà ce lo diranno le prossime settimane, ovviamente dipendendo in buona parte anche dall’evoluzione della situazione politica statale.
Completamente diversa la mappa elettorale uscita dalle elezioni regionali galiziane stravinte dalla destra nazionalista spagnola guidata a livello locale da Alberto Núñez Feijóo. In Galizia il PP ottiene la maggioranza assoluta con 41 seggi e riesce addirittura a superare la percentuale ottenuta nel 2012 conquistando mediamente il 47.53%, e nelle province dell’interno come Ourense e Lugo addirittura, rispettivamente, il 53 e il 52%. Al contrario che nella CAV, l’astensione si è ridotta di nove punti rispetto al 2012, toccando quota 36.2%.
All’exploit dei popolari fa da contraltare il tonfo dei socialisti del PSdeG, che scendono da 18 a 14 deputati ottenendo solo il 18% dei voti, il peggior risultato da quando esiste un parlamento autonomico galiziano.
La coalizione En Marea ottiene lo stesso numero di seggi dei socialisti -14 – ma supera il PSdeG in percentuale, ottenendo il 19%. La confluenza formata da Podemos e da alcuni movimenti locali autonomisti, nazionalisti di centrosinistra – come Anova – ed ecologisti, guidata dal magistrato Luis Villares, riesce quindi a piazzarsi in secondo posizione per circa 16 mila voti. Ma solo grazie al pessimo risultato dei socialisti. A ben guardare infatti la coalizione tra Podemos, Anova, Izquierda Unida e le ‘maree’ – movimenti di contestazione alle politiche governative che hanno subito un certo processo di politicizzazione – ieri ha perso ben 4 punti percentuali rispetto alle elezioni del 26 giugno e addirittura 7 rispetto a quelle del 20 dicembre 2015.
Da parte sua invece il Bloque Nacionalista Galego(BNG),ottiene 6 seggi, solo uno in meno rispetto alle elezioni del 2012 ma comunque un buon risultato. Pur ottenendo i peggiori risultati dal 1989 – ma occorre considerare la concorrenza di En Marea e in particolare di Anova, nata da una scissione del Blocco – i nazionalisti di sinistra guidati da Ana Pontòn triplicano con l’8.4% il pessimo 2.9% collezionato alle elezioni generali del 26 giugno.
Ovviamente il boom dei popolari ha lasciato pochissimo spazio a Ciudadanos che ottiene poco più del 3% dei voti e nessun seggio. Nella prossima Xunta – come si chiama in lingua galiziana il governo regionale – Feijoo potrà fare il bello e il cattivo tempo, utilizzando la schiacciante vittoria di ieri per lanciarsi come sfidante di Rajoy alla guida del Partito Popolare a livello statale. Non ci può certo dire che l’affermazione della destra in Galizia – nonostante la corruzione, la crisi sociale, i continui scandali, il malgoverno – sia il risultato della divisione o della litigiosità della varie opposizioni. Sommando i voti andati a En Marea, al PSdeG e al BNG si arriverebbe ad una quota comunque inferiore del 6% rispetto a quella inanellata dal solo PP galiziano.
 
Marco Santopadre

giovedì 29 settembre 2016

TORNA GRILLO A COMANDARE DIRETTAMENTE(E DITTATORIALMENTE)

La due giorni tenutasi a Palermo nello scorso fine settimana voluta da Grillo che si è ripreso la guida del Movimento 5 stelle dopo aver rilasciato centinaia di interviste sul come stesse facendo il contrario,è stata proposta in stile Vaffaday ed è riuscita a fare dei passi indietro alle idee che i pentastellati,poche e sempre più confuse,che come riportato dal redazionale di Senza Soste(grillo-a-palermo )sono state proposte ai soli seguaci e non portate all'attenzione dell'intero paese.
Un Movimento ancora giovane ma già sputtanato e che perde acqua da tutte le parti con le amministrazioni in mano loro che sono riuscite solo a vivacchiare e non a produrre(ma anche solo proporre)cambiamenti epocali come quelli promessi.
La situazione romana,escludendo il discorso olimpiadi,è sempre più caotica e come qualcuno ha detto da quando si è sindaca la Raggi sono stati già cambiati tre assessori al bilancio e tre capi di gabinetto,col risultato di sembrare molto sfortunata o molto stupida(ilsussidiario ).
Evidentemente Grillo,che mai ha abbandonato la sua creatura,se vuole tornare a comandare direttamente e dittatorialmente(sentire Pizzarotti a Parma)il movimento un motivo c'è,oltre quello di prestigio personale e diciamolo economico,e fin quando si parla della democrazia dal basso e che invece viene decisa da lui e da un direttorio di cinque persone(ora già quasi esautorato)i cinque stelle non saranno mai credibili.
Vedi anche militant-blog .

Non siamo tra quelli che si terrorizzano per l'egemonia dello spettacolo nella politica. Il movimento 5 stelle però questa egemonia l'ha naturalizzata, come ha fatto il Pd, un po' troppo velocemente 
A Palermo è andato in scena uno spettacolo valido più per il movimento 5 stelle, e sostenitori, che per il paese. Non che ci sia qualcosa di male, salvo il dettaglio che il movimento si candida, parole sue, a governare il paese.
Il centro dello spettacolo di Palermo è stato quindi, come prevedibile, il movimento 5 stelle e le sue vicende. Non il cammino che dovrebbe intraprendere il paese in una crisi storica. Di una portata tale da ricordare la crisi del seicento sulla quale diversi storici si sono cimentati per capire il declino strutturale della penisola italiana nel XVII secolo.
Il movimento 5 stelle si posiziona, invece, su qualcosa di molto, molto più immediato: fare spettacolo, aiutato anche dai media che cercano di evidenziare ciò che ritengono essere il negativo di questo spettacolo, con il resto del paese a fare da spettatore. E' già avvenuto in diversi comuni pentastellati, dove comportamenti e atti della giunta sono ridotti, nel male e nel bene, a spettacolo con il resto della società a fare da spettatore. C'è un problema però: se si vuole governare un paese, durando, bisogna esercitare un'egemonia profonda. La Dc, per capirsi, si è talmente identificata col paese da sopravvivere alla propria scomparsa politica nelle pratiche, nelle reti di potere persino nelle modalità di conflitto tra cartelli interni (importate, come si è capito, dallo stesso movimento 5 stelle in altre forme). Niente di questa identificazione si è intravisto sino a oggi e niente di sostitutivo. Come non si vede un obiettivo, porlo era tradizione del Pci, da proporre a tutta la società. Senza egemonia, di linguaggio e di pratiche, e senza una direzione risulta molto difficile governare un paese. Figuriamoci per un movimento che, come accaduto a Palermo, ha cercato di tornare alle origini per ovviare alla propria crisi di crescita.
Il movimento 5 stelle, nella fase dell'incubazione del suo successo, è stato un equilibrio, sempre conflittuale, tra potere carismatico e gerarchico e potere di base, orizzontale, tra comunicazione aziendale, la Casaleggio, e comunicazione dal basso. Roma ha aggiunto una nuova fase, quella del governo in quanto rappresentanza e mediazione di interessi in nome del consenso elettorale. Non è andata finora bene e la due giorni di Palermo ha rappresentato quel ritorno alle origini, movimentiste, che si vuole in grado di sciogliere le tensioni interne generate dalla vicenda romana e di riparare il danno di immagine verso l'elettorato.
I sondaggi, come ha detto Grillo, rispetto alla fase più acuta della vicenda romana, sono migliorati e Palermo favorisce questa tendenza. Ma, essendo la giunta Raggi seduta su un casino epocale, il movimento 5 stelle è destinato a vivere di saliscendi nei sondaggi: da una parte salirà quando i disastri del governo Renzi saranno ineludibili, dall'altra scenderà quando l'attenzione dei media sarà su Roma. La tattica del movimento 5 stelle se non è pensata è perlomeno obbligata: gestire le contraddizioni, interne e di governo locale, giocando sull'immagine, mettendo tra parentesi i nodi irrisolvibili rimandandoli di elezione in elezione. Fino alla promessa che l'elezione finale, le politiche, rappresenterà, a sua volta. una sorta di benefica soluzione finale. Ovviamente non sarà così in ogni caso: se vincesse il movimento 5 stelle si troverebbe entro una serie di tensioni globali, non risolvibili diplomaticamente, di cui l'esperienza di Syriza rappresenta un drammatico, e finora inascoltato, case study. E questo, fino ad oggi, senza esprimere un Varoufakis. Anzi, dopo aver espresso, in una società dove se non hai una chiara indicazione economica sei nulla, una serie di apprendisti stregoni economici di cui uno, che speriamo affossato assieme al direttorio di cui faceva parte, ha espresso opinioni lisergiche, da feste californiane degli anni '60. Forte del suo bagaglio culturale, che l'ha portato ad essere responsabile M5S di scuola e università, che poggia sulla convinzione, declamata in un discorso in Parlamento, che "l'uomo non è mai andato sulla luna".
Ma il problema del movimento 5 stelle non è solo di personale da formare, pessima parola ma evita di dover arruolare nelle giunte tecnici provenienti dal mondo che si vuol abolire e che finiscono invece per farlo valere, e di mancanza un modello organizzativo profondo, di respiro, radicato nella società italiana. E neanche, almeno oggi, di assenza di elaborazione egemonica. E' proprio l'uscita dalla fase ombelicale, quella che indica ad una intera società, non al "movimento", gli obiettivi. Certo altamente complessi perché senza una linea di massa su comunicazione, tecnologie, economia ti resta solo il moralismo sui costi della politica, finché dura. Ma anche qui, una linea di massa su questi temi dovrebbe partire dalla rilettura di tanti temi open source che, invece, dovrebbero convivere con una piattaforma organizzativa, Rousseau, che si basa su software proprietario. E questo in un movimento dove il fondatore, Grillo, si è presentato semplicemente sul palco dicendo "io sono di nuovo il capo", saltando ogni tipo di deliberazione democratica. Difficile fare ricorso al sapere diffuso, di base di un paese che ne ha invece bisogno. Molto difficile farlo se si vuol governare un paese storicamente, e geopoliticamente, complicato avendo dietro non un'armata ma un gruppo di persone che si sbrana alla prima seria questione riguardante le competenze di un assessorato. Ma c'è un'astuzia della società, di quelle che che bisogna saper vedere, di cui il movimento 5 stelle farebbe bene a tener conto, quello della strumentalità del voto verso i pentastellati che ha una grossa parte dell'elettorato. Che vota per usare Grillo e suoi soprattutto come dinamite contro il sistema politico attuale. Dopo, si vedrà, del resto la società è ormai abituata a cambiare referente elettorale con la frequenza con cui cambia lo smartphone. E, se la società ha spontaneamente destinato il movimento 5 stelle al ruoli di dinamite, il rischio è quello di praticare fino in fondo il ruolo assegnato esplodendo.
Certo, non si vuol fare la predica a nessuno ci mancherebbe. Fare politica oggi è altamente complesso, i problemi ci sono per tutti, e il moralismo è l'estasi dei frustrati. A fare la predica ci penseranno, verso se stessi, gli stessi protagonisti di questa vicenda. Dopo aver picchiato duramente sul muro della storia. A questa velocità e con questa direzione di marcia il problema, naturalmente, non è il "se" ma il "quando" avverrà. Certo, in ogni caso, se deve avvenire che accada dopo la dissoluzione del renzismo e delle reti di potere ad esso correlate. Naturalmente, se avvenisse, quanta energia sprecata. Ma la storia è impietosa con i soggetti politici che si guardano troppo addosso. Guardare oltre l'ombelico potrebbe essere salutare. Il problema è che riproducendo ideologia, quella della fine delle ideologie, si perde di vista una caratteristica del politico classico: la saggezza espressa nei momenti drammatici.
redazione, 26 settembre 2016

FALCHI,COLOMBE ED AVVOLTOI


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L'ornitologico titolo del post odierno parla della morte dello statista israeliano Shimon Peres morto dopo alcuni giorni a causa di un ictus,l'ultimo rappresentante della costituente dello Stato di Israele e stretto collaboratore del padre della patria Ben Gurion.
I media hanno insistito sul binomio del falco diventato colomba,per la verità questo presunto cambiamento di piumaggio è avvenuto già con l'età della saggezza(anch'essa ipotetica)e dopo aver avuto la paternità della guerra di Suez,aver contribuito a far di Israele una potenza nucleare e per essere stato uno dei principali fautori della colonizzazione dei territori palestinesi(come se già la stessa costituzione di Israele non lo fosse).
Io preferirei definirlo avvoltoio con le zampe ed il becco grondante di sangue di donne e bambini palestinesi,di militari israeliani mandati a morire per guerre di ampliamento del proprio territori,di tutti i giornalisti e volontari uccisi nelle ormai incalcolabili numero di rappresaglie e guerre lampo nate e mai concluse in queste ultime decine di anni.
Sicuramente non all'altezza del predecessore Rabin che almeno una parvenza di pace quasi sincera ce l'aveva ed infatti si è vista la fine che ha fatto,e dopo aver fatto carriera tra i laburisti,essere diventato Ministro della difesa proprio sotto il governo Rabin e poi primo ministro e Presidente dello Stato di Israele.
Venerdì ci saranno i funerali con i big del mondo e con Netanyahu che parlerà di stima e di affetto verso un personaggio che simpatico non gli è mai stato(ma come al solito tutti da bambini sono belli e tutti da morti sono santi)mentre a pochi chilometri di distanza si ammazza ancora.

Shimon Peres:è stato davvero una "colomba"?

Figura controversa, l’ex capo di stato israeliano, considerato un uomo di pace in Occidente, era detestato da tanti palestinesi che lo accusavano di mascherare, con la sua retorica pacifista, il volto intransigente di Israele


di Michele Giorgio
Gerusalemme, 28 settembre 2016, Nena News - Si è spento la scorsa notte, all’età di 93 anni, in un ospedale di Tel Aviv, Shimon Peres,ex presidente di Israele e uno degli uomini politici israeliani più noti nel mondo. Colpito da una grave emorragia cerebrale il 13 settembre, Peres non si era più ripreso. Ieri le sue condizioni si sono improvvisamente aggravate ed è morto poco dopo le 2. Ai suoi funerali, previsti venerdì, parteciperanno capo di stato e di governo di tutto il mondo, tra i quali il presidente americano uscente Barack Obama.
Il nome di Shimon Peres resterà legato soprattutto agli Accordi di Oslo del 1993 tra israeliani e palestinesi di cui fu l’artefice con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat e che gli valsero il premio Nobel per la pace nel 1994. Accordi che crearono l’illusione di una conclusione negoziata del conflitto israelo-palestinese, sulla base del principio “due popoli, due Stati”, e che dopo il loro fallimento si sono rivelati una prigione per i palestinesi e le loro aspirazioni.
Per molti, specie in Occidente, Shimon Peres è stato il politico israeliano che più di altri ha insistito sul dialogo con palestinesi e arabi e cercato la pace. In realtà Peres era soprattutto un abile oratore, convinto che accordi di pace fondati su concessioni minime da parte israeliana avrebbero permesso allo Stato ebraico di ottenere enormi vantaggi, a cominciare dal riconoscimento definitivo dei palestinesi e della maggioranza dei Paesi arabi. La sua immagine di pacifista non poche volte è servita a coprire, presso l’opinione pubblica internazionale e i governi alleati, la reale portata di devastanti operazioni militari nei Territori palestinesi occupati, a cominciare da quelle contro Gaza.
“Colomba” peraltro Peres lo era diventato solo verso i 50 anni di età. Nato in Polonia nel 1923, immigrato con la famiglia a Tel Aviv e cresciuto nei kibbutz, Peres già da giovanissimo entrò in contatto con i massimi leader del movimento laburista come il “fondatore di Israele” David Ben Gurion, mettendosi in luce come un “falco” e non come una “colomba”. Ebbe le brevi esperienze militari ma ciò non gli impedì di avere importanti incarichi in questo settore. Nominato direttore generale del Ministro della Difesa nel 1953, svolse un ruolo decisivo nell’acquisto di armi sofisticate per Israele e nello sviluppo del programma nucleare nazionale. E’ stato, grazie all’aiuto della Francia, “il padre” della bomba atomica israeliana (Tel Aviv continua a non ammettere di possedere ordigni nucleari).
Eletto alla Knesset nel 1959  e nominato per la prima volta ministro dieci anni dopo, Peres cominciò a manifestare una predisposizione  al compromesso con nemici e avversari a partire dalla fine anni 70. In precedenza aveva manifestato simpatia persino per la colonizzazione dei Territori occupati, anche allo scopo di mettere in difficoltà il premier e suo storico rivale nel partito laburista, Yitzhak Rabin.
Per brevi periodi primo ministro, Peres dalle elezioni ha quasi sempre ricevuto cocenti delusioni, anche per quella sua retorica pacifista che poco convinceva gli elettori israeliani poco inclini al compromesso con gli arabi. Due sue bocciature alle elezioni hanno aperto la strada del potere alla destra. Nel 1977 al governo guidato da Menachem Begin e nel 1996, poco mesi dopo l’assassinio di Rabin, al primo governo di Benyamin Netanyahu. Proprio nel tentativo (fallito) di sbaragliare Netanyahu e di conquistare consensi a destra, Peres non esitò a lanciare, nella primavera del 1996, una vasta offensiva militare nel Libano nel sud – ufficialmente contro i guerriglieri sciiti di Hezbollah – culminata il 18 aprile di quell’anno nel Massacro di Qana, quando fu bombardata – “per errore” secondo la versione ufficiale israeliana – una base delle Nazioni Unite in cui si erano rifugiati circa 800 civili. Razzi e bombe uccisero almeno 102 persone, tra le quali donne e bambini.
Peres è stato soprattutto un ministro degli esteri di successo all’estero, dove ha goduto per decenni di forte stima oltre i suoi meriti effettivi e i risultati politici conseguiti. Dopo il fallimento totale degli accordi di Oslo nel 2000 e lo scoppio della seconda Intifada, ha comunque tenuto i contatti con i palestinesi. Nel 2005 ha appoggiato il ritiro di soldati e coloni israeliani da Gaza e lasciato il partito laburista per entrare nella formazione centrista Kadima, fondata da Ariel Sharon (uscito a sua volta dal Likud).
Infine la nomina nel 2007 a capo dello stato che lo ha riconciliato con quella parte di Israele, piuttosto ampia, che non lo aveva mai stimato. Lasciata la presidenza nel 2014, Peres ha continuato a fare politica fino all’ultimo.
Per i palestinesi, in particolare le persone comuni, Peres è stato più dannoso della destra, in ragione, spiegano, della sua immagine di pacifista servita a mascherare all’estero il vero volto intransigente di Israele. Nena News

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Shimon Peres,la retorica della pace.

Obama, Merkel, Blair e altri hanno potuto nascondersi dietro le parole vuote di Peres così da non doversi confrontare con la necessità di una politica vera a favore della pace, scrive l’analista israeliano Zvi Schuldiner 

di Zvi Schuldiner 
Roma, 29 settembre 2016, Nena NewsTutta Israele si sta preparando a un funerale spettacolare con leader internazionali a dargli un gran risalto, e a ribadire che la pace è tanto positiva. Dalla collina di Gerusalemme dove Shimon Peres sarà sepolto, non si sentono le armi che massacrano i siriani a centinaia di migliaia – non poche sono state mandate proprio dai leader «pacifisti» che arriveranno qui – e il concerto di piagnistei, a parole a favore della pace, sarà guidato dalla battuta del premier Benjamin Netanyahu.
Quest’ultimo già ieri ha commosso tanti con una brillante orazione funebre in memoria di Peres, elogiando in particolare gli sforzi del defunto a favore di quella pace così poco agognata dal governo in carica.
Shimon Peres morto non è il Shimon Peres che la maggioranza degli israeliani odiava, diffamava, calunniava; Netanyahu – oggi suo grande ammiratore – è fra i molti che hanno sempre visto in Peres un nemico detestabile. Volavano pomodori nel 1981, nel confronto elettorale fra Begin e Peres; il suo stesso accento, che ne tradiva le origini europee, lo rendeva ancor più odioso agli occhi degli ebrei orientali; e non lo aiutò nemmeno il suo passato da falco. Peres fu l’uomo di Ben Gurion nei primi anni dello Stato di Israele; fu l’architetto del patto con la Francia che portò alla guerra di Suez nel 1956 e alla costruzione della potenza nucleare israeliana. Trattò con Begin per cercare di defenestrare il premier Eshkol prima della guerra del 1967, così da far tornare Ben Gurion.
Restò fedele al «vecchio», anche se molti anni dopo parve schierarsi con la scuola del grande oppositore di Ben Gurion, Sharet, che esplorò strade verso la pace. Peres fu ministro della difesa di Rabin nel suo primo mandato (1974-1977) e, come ha detto oggi commossa Daniela Weis – una delle leader più discusse delle colonie israeliane nei territori occupati -, fu un architetto importante della colonizzazione dei territori. Così, i già pochi tentativi di Rabin per cercare un cammino verso la pace furono ostacolati dal suo stesso ministro della difesa.
Come premier, nel 1984, Peres cercò di promuovere un accordo con il re della Giordania, vedendovi la migliore soluzione al problema dei Territori. E varò un piano economico che risolse la grave crisi del paese, ma significò anche l’inizio di una fase neoliberista che continua ai nostri giorni.
Nel 1992 Shimon Peres, dopo aver grandemente contribuito al nuovo apparato di sicurezza israeliano in tutti i settori possibili, passò alle invenzioni diplomatiche diventando ministro degli esteri. Con gli accordi di Oslo si convertì in gran rètore della pace, senza per questo porre un freno alle avventure militari quando, dopo l’assassinio di Rabin, diventò premier a interim fino alle elezioni che perse di misura contro Netanyahu nel 1996. Autorizzò azioni dei servizi segreti che provocarono una escalation del terrore e nel corso di una tristissima settimana portò avanti un’offensiva in Libano culminata con il massacro di cento civili a Qana.
Quando diventò un grande statista di livello internazionale, presidenti, re, premier di governo e politici di ogni genere ascoltavano avidamente il grande Peres che elaborava meravigliosi piani per il futuro. Nel frattempo – soprattutto quando, nel 2005, si unì al partito fondato da Ariel Sharon – egli fu il più efficace protagonista dell’opera di sbianchettamento della politica israeliana.
Anche come presidente, alcuni anni dopo, mentre il premier Netanyahu continuava a mettere in atto una politica disastrosa che non aveva niente a che vedere con la pace, mentre le forze israeliane bombardavano Gaza, mentre proseguiva la repressione nei territori occupati da Israele, sempre c’era Peres, a parlare in segreto con Obama, con Putin, con Merkel, con tutti, a dire che dietro le quinte stava maturando un’altra linea, che c’era una strada verso la pace, verso un Medio Oriente positivo, ottimista e splendido. Solo dieci giorni fa ha affascinato l’uditorio in Italia con un discorso elaborato e positivo, assicurando un futuro migliore. Ma il Medio Oriente resta in fiamme.
Peres era il grande rètore, che aiutava a mantenere una visione ottimista di mondi possibili, ben lontani dalle azioni reali della leadership israeliana. Leader come Obama, Merkel, Blair e altri hanno potuto nascondersi dietro queste cortine di parole vuote, così da non doversi confrontare con la necessità di una politica vera a favore della pace.
E le esequie? Sull’onda della frase pronunciata dal grande premier Netanyahu, tutti piangeranno per la pace e ricorderanno commossi le grandi capacità retoriche di un leader israeliano molto problematico, che fu un grande falco e morì da possibile colomba.

mercoledì 28 settembre 2016

CI RISIAMO CON IL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA


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Se davvero il detto che dice che al peggio non c'è mai limite ieri dal palco allestito per onorare il compleanno ultracentenario della Salini Impregilo,il colosso delle costruzioni o delle devastazioni territoriali dipende da che lato si vedono le loro opere in tutto il mondo,Renzi ha dato l'assist proprio ai dirigenti del gruppo per il rilancio del progetto del ponte sullo stretto di Messina di berlusconiana memoria.
Visto che le speranze di avere le olimpiadi a Roma per il 2024 si sono ridotte al lumicino ecco che i soldi che non ci sono devono essere investiti in un'altra grande opera inutile,visto che il progetto Tav è ormai portato avanti con determinazione solo dall'Italia visto che Germania e Francia stanno disinvestendo nei progetti sulle alte velocità ferroviarie.
Quello che da più fastidio è proprio il contesto dal quale è partito il rilancio del ponte,non da un altro twitter cazzata del premier ma proprio dal pulpito di chi,se dovesse partire il bando,con quasi assoluta certezza se lo aggiudicherebbe.
L'articolo preso da Infoaut parla in maniera specifica del discorso ponte(renzi-sempre-peggio )mentre quello di Senza Soste parla in maniera più ampia della sparate del mago di Firenze che mettono a repentaglio la vita degli italiani di tutti i giorni(il-declino-di-renzi-tra-una-cazzata )parlando di politiche in materia sociale,sanitaria,di lavoro e pensioni.

Renzi sempre peggio: rilancia addirittura il Ponte sullo Stretto!

Chissà se dopo oggi anche quelli del "Renzi non mi piace, ma da qui a paragonarlo a Berlusconi ce ne vuole" si toglieranno le fette di salame dagli occhi e guarderanno la realtà per quella che è. Immediatamente dopo la decisione sulla data del referendum, che si terrà il 4 dicembre, il premier fa capire a quali forze vuole rivolgere la sua attenzione per ottenere sostegno nella (difficile) consultazione elettorale. Dal palco allestito per i 110 anni di Impregilo, una delle aziende da sempre all'avanguardia nella devastazione dei territori, il premier ha esposto il suo sostegno nientepopodimenoche..per il Ponte sullo Stretto, ovvero quella che sin dagli anni dell'apogeo di Berlusconi è considerata il massimo esempio di grande opera inutile!
La promessa sollecita qualche riflessione: o Renzi è in grande confusione mentale, o la sua strategia è ormai ben chiara. Non sembrano comprensibili infatti le motivazioni di lanciare una boutade come questa, dal dubbio appeal, ad una società che a poco più di un mese dalla tragedia di Amatrice è ormai conscia che prima anche solo di pensare ad opere del genere si debba provvedere a mettere in sicurezza i territori, a rilanciare gli investimenti sulla sanità, a rinforzare in qualche modo i redditi provati da anni e anni di crisi. Probabilmente, dopo il boccone amaro da ingoiare per le lobby dell'edilizia costituito dallo stop alle Olimpiadi, Renzi doveva assicurare qualche nuova torta da sbranare agli appetiti famelici di aziende come appunto la Impregilo.
La stessa popolazione del Sud Italia, la cui vita è stata devastata da anni di non-investimenti sulle necessità reali, sa che negli anni delle morti per i binari unici delle linee ferroviarie il Ponte sullo Stretto non è altro che l'ennesima speculazione politica sulle loro esistenze. Altro che Italia che riparte! Non sarà l'enigmatico e francamente poco credibile appello alla costruzione di una fantomatica "gigabyte society" a far guadagnare qualche punto a Renzi, nel momento in cui le priorità, come detto, sono ben altre, come mettere mano ad una disoccupazione alle stelle, all'assenza di una rete accettabile di trasporto pubblico di base, al dissesto idrogeologico che caratterizza la gran parte del nostro paese.
Renzi dimostra ulteriormente quale sia la sua linea: tirare dritto sulla strada della ricerca del consenso dei giganti dell'economia nostrana, sapendo che neanche l'enfasi - anch'essa molto berlusconiana - sui 100.000 posti di lavoro che l'opera porterebbe con sè riuscirà a fargli guadagnare consenso. Del resto tutti i sondaggi mostrano come il NO sia in forte vantaggio, nonostante un'informazione a senso più che unico e l'appoggio pressochè totale di tutti i poteri che contano, dall'ambasciatore americano a Confindustria. Appoggi guadagnati grazie a misure come il JobsAct e la BuonaScuola che lungi dall'aver portato benefici reali alle persone hanno ulteriormente innalzato i processi di disciplinamento negli istituti come sui luoghi di lavoro, in una coerente strategia ultraliberista.
La china di Renzi verso la consultazione appare sempre più chiara: una costante politica degli annunci, il più possibile dal forte impatto mediatico, volti ad accreditarsi con maggiore forza possibile verso i padroni del vapore, unici suoi alleati: una strategia che nasconde la dura realtà, quella di una sfiducia fortissima nei confronti del governo che andrà incentivata sempre di più soprattutto con pratiche di attivazione dal basso, a partire dall'assemblea di questo sabato, 1 ottobre, che si interrogherà a Roma su come costruire nei territori il NO sociale al governo Renzi.

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Non tutti i presidenti del consiglio di centrosinistra sono uguali: tra un premier di scuderia (Letta) e uno acquisito (Monti) abbiamo avuto delle vere iniezioni di serietà. Sia nelle forme della comunicazione, Letta parla un ottimo inglese che Renzi si è messo in testa di imitare con l'effetto che sappiamo, che nelle intenzioni. Peccato che le politiche fossero disastrose, tipiche di chi vuol restare dentro un modello di sviluppo bollito perchè, almeno con quello, ha una rendita certa. Basti ricordare che, con Monti, l'Italia ha finanziato il salvataggio dei crediti delle banche tedesche e francesi, rimasti incagliati nelle banche greche e portoghesi, in misura molto maggiore di quanto sia intervenuta sulla situazione bancaria nazionale.
Matteo Renzi che, a parole, è arrivato a palazzo Chigi per dare una spinta al paese, è altrettanto disastroso e, in compenso, non è neanche serio. Oltretutto la riforma costituzionale, sulla quale si gioca la testa (politicamente parlando), non ha alcun peso economico. E le eventuali oscillazioni di borsa, prima o dopo il referendum, nel caso saranno collegate allo stato del settore bancario, scosso magari anche dall'ennnesima crisi di comando, piuttosto che alla Costituzione magari non approvata. La riforma Renzi-Boschi della costituzione non consente un risvolto neanche contabile: Cnel e province, che sarebbero abolite con un "si" al referendum, sono enti svuotati da tempo senza possibilità di rinascita. L'abolizione della riforma del titolo V della Costituzione, promossa da Renzi, se non la faranno l'elettorato o il parlamento ci penserà l'eventuale pressione dei mercati finanziari.
Insomma, Matteo Renzi si gioca tutto su una riforma non organica, non epocale. Probabilmente la Costituzione riformata serviva più a una nuova grande coalizione (quella morta dopo il Nazareno) che alle esigenze di una finanza che ha già le mani libere. La vera riforma costituzionale l'ha fatta il centrosinistra di Bersani assieme a Monti: l'introduzione del pareggio di bilancio. Un orrore economico-sociale che ha accompagnato il crollo degli investimenti pubblici e privati nel paese. Nessuno che ci abbia fatto caso, dove c'è l'obbligo del pareggio del bilancio il pubblico non può investire e il privato non vuole (non si investe in un paese fermo), ma in Italia quando ci si è riempiti la bocca col "rigore" ci si considera politicamente arrivati.
Il punto però è che Renzi questa benedetta riforma, che contiene articoli che sono un inno al contenzioso presso la Corte Costituzionale (il famigerato articolo 70 ad esempio), deve farsela approvare. Per poi continuare a tirare politicamente a campare quanto possibile. E allora vai, prima di tutto, con trasmissioni a reti unificate: una muraglia crossmediale di dichiarazioni di Renzi e dei suoi prossimi, tutte uguali e tutte accolte in modo acritico, che tessono l'elogio della propria riforma. E poi vai con le promesse: dai centomila posti di lavoro con il ponte sullo stretto, al raddoppio della quattordicesima per le fasce di pensionati piu' indigenti, al bonus di 5000 euro per trovare un nuovo lavoro. Un diluvio di promesse di sconti, di vantaggi, di benefit come se si fosse appena scaricato un volantino Unieuro piuttosto che un programma di palazzo Chigi. Certo, la dice lunga sullla concezione che il governo ha della società italiana. Quale sia il rapporto tra la quattordicesima "raddoppiata" ai pensionati e l'abolizione della riforma del titolo V della costituzione è un mistero. Anzi, il rapporto viene, di fatto, negato. Eppure, l'insistenza di Renzi, in termini di messaggio di propaganda, serve proprio per rafforzare questo legame: se votate la riforma il governo tiene allora arrivano le pensioni. E' uno dei punti piu' bassi della storia della repubblica, pur in un paese rotto ad ogni cialtroneria: un governo senza prospettiva economica, emarginato in Europa (basta leggere lo scherno con il quale la stampa tedesca tratta Renzi da sempre), senza consento maggioritario cerca la strada del consenso spicciolo. Quello strappato a suon di piccole promesse, di bonus immaginari, di promesse improbabili (la mitica riduzione delle tasse, tirata fuori in primavera poi lasciata cadere in discrezione) nella speranza di rosicchiare qualche voto e rimanere cosi' in sella.
Il cantore della rottamazione, ottimo per gonfiare il petto alle serate presso la platea amica della Leopolda, prova così, di cazzata in cazzata, a sopravvivere come il presidente del consiglio di un governicchio balneare dei tempi andati. Della boria e della baldanza tipiche della partenza è rimasta, quella si, la disinvoltura nello spararle sempre più grosse. Eppure Renzi era arrivato anche a dire che l'Italia sarebbe cresciuta più della Germania. Il successore, che si tratti di un proconsole di qualche fondo di "assistenza" europea o di un sobrio interprete dello stile littorio-liberista ministeriale, non sarà così vivace. Dopo il carnevale renziano, con i suoi personaggi improbabili e chiassosi, la quaresima sarà tra le più luttuose di sempre.
redazione, 27 settembre 2016

martedì 27 settembre 2016

SELEZIONE NATURALE


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Già da quando Darwin in aperta contrapposizione con la teoria creazionista voluta ed imposta dalla chiesa per secoli enunciò la sua teoria sull'evoluzione si parlò per la prima volta della selezione naturale e della sopravvivenza di chi meglio sapeva adattarsi alle situazioni e ai cambiamenti che possono essere per l'appunto naturali,climatici ma anche sociali e d'opportunità.
Partendo da una tragedia che poteva costare altre vite umane e riportata un po da tutti gli organi d'informazione e che ha visto una giovane ragazza morire per essersi filmata a 170 all'ora in un tratto di autostrada nei pressi di Bologna,allargo lo spettro di quella che è stata una bravata costata carissima al fatto che gesti del genere compresi i famigerati selfie possono essere pericolosi e letali.
L'articolo sotto(motorionline )parla della cronaca dell'accaduto di venerdì scorso mentre a questo link(dailybest selfie-morte )ci sono dati anche un poco datati in cui ci sono decine di casi di ignoranza e di sottovalutazione di rischi e che hanno portato alla morte tante persone nell'atto di farsi autoscatti col lo smartphone.
Come detto forse altre volte il livello d'intelligenza "grazie" a queste nuove mode di è abbassato enormemente andando di pari passo con l'abuso di cellulari e con una generazione ma anche più di una che rincoglionisce davanti a un telefonino e che non vede al di la delle poche decine di centimetri davanti loro(proprio in senso fisico visto che lavorando spesso li vedo schiantarsi contro cose o persone).
Insomma chiunque perisca in queste che sono tragedie ma non troppo ma spesso frutto d'incoscienza possono essere vittime proprio della selezione naturale di darwiniana memoria(col sottoscritto che i selfie li ha subiti raramente per incapacità fisica e psichica temporanea:-).
Ogni volta che si scatta un selfie qualcuno dice "assolutamente sì"...tra pessime abitudini grammaticali,comportamentali e selezione naturale...ma su quelle grammaticali se ne parlerà presto

In autostrada a 170 km/h, si filma e perde il controllo: morta 25enne.

In provincia di Bologna l'incidente fatale per una ragazza rumena. Nel telefono ritrovato il video della folle corsa

di

Si stava filmando mentre percorreva a 170 km/h l’autostrada A1 all’altezza di Calcara di Crespellano (Bologna):una 25enne romena è morta sul colpo dopo aver perso il controllo della sua Fiato Punto probabilmente a causa della distrazione e dell’alta velocità: la sua vettura si è scontrata contro il new jersey, è rimbalzata per metri, e alla fine si è ribaltata, uccidendola. Come riportato da il Resto del Carlino, venerdì sera, pochi minuti prima delle 22, la donna stava guidando sola in auto, probabilmente diretta verso Varese, dove vivono i genitori.
La polizia stradale, una volta rinvenuto il cellulare, ha scoperto il video, girato un minuto prima dello schianto, che riprende la strada e il tachimetro. I sanitari del 118, giunti sul luogo, non hanno potuto fare niente per salvare la 25enne. Per estrarla dalle lamiere è stato necessario l’intervento dei vigili del fuoco. Pezzi di lamiera e motore sono schizzati sulla corsia nord dell’A1.

I CURDI(QUASI)DA SOLI CONTRO TUTTI

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Si è tenuta sabato a Roma la grande manifestazione indetta ai primi di settembre in solidarietà del popolo curdo dopo che la Turchia ha invaso il confine siriano ed in accordo con Al Qaeda ed i "ribelli " siriani ha ceduto in mano alle milizie Isis la città di Jarablus,importante per la sua logistica nella guerra che i curdi combattono quasi da soli(sono supportati solo dalla Russia e combattenti internazionalisti)contro gli estremisti islamici.
Rivendicando la liberazione che sta proseguendo nel territorio del nord della Siria del Rojava e quella della città simbolo di questa zona di guerra Kobane,migliaia di persone da semplici cittadini ad associazioni di curdi,centri sociali e collettivi che sostengono la lotta per la liberazione dei loro territori,non ci sono stati scontri nonostante la massiccia presenza della polizia che ha impedito l'accesso nella zona dove è situata l'ambasciata turca.
Articolo preso da Senza Soste(politica ).

Alessandro Avvisato - tratto da http://contropiano.org
Migliaia di persone hanno sfilato in piazza oggi pomeriggio a Roma in solidarietà con la resistenza del popolo curdo, per la libertà di “Apo” Ocalan e contro la politica repressiva e genocida della Turchia. Il corteo è partito intorno alle 15.30 da Porta Pia. Nei pressi c’è l’ambasciata della Turchia intorno alla quale un ingente spiegamento di polizia aveva chiuso praticamente tutte le strade. La manifestazione è sfilata per Castro Pretorio, università, San Lorenzo per concludersi a Piazza Vittorio.
Il corteo era aperto dalle organizzazioni curde in Italia e via via tutte le reti e le organizzazioni politiche, sociali e sindacali solidali con la lotta dei curdi. Un corteo numeroso – e niente affatto scontato in tal senso – a conferma che quando un popolo lotta trova l’attenzione e la solidarietà che merita. Oggi il progetto nazionale curdo – attraverso l’ipotesi di una confederazione democratica, progetto ben diverso da quello clanistico realizzato nel kurdistan iracheno – cerca di farsi spazio dentro la violenta ridefinizione della mappa geopolitica in Medio Oriente. Una ridefinizione che sta rimettendo in discussioni i confini ereditati dal colonialismo e dal trattato Seys-Piquot ma che nasce da presupposti ben diversi da quelli del nazionalismo panarabo. Su questo progetto di destabilizzazione dell’esistente convergono da un lato gli Usa, l’Unione Europea  e Israele, dall’altro le ambizioni di potenza della Turchia e del polo islamico/sunnita manifestatesi sia direttamente che indirettamente attraverso i finanziamenti e gli armamenti forniti per anni al progetto dello Stati Islamico. Vi si oppone la Siria e la sua alleanza con Iran, Russia, Iraq ed Hezbollah. In mezzo popolazioni come quella curda (sparpagliata in quattro stati) e quella palestinese. Per la prima il problema principale resta la Turchia, per i secondi l’occupazione coloniale e la pulizia etnica israeliana. Dentro questo quadro di instabilità e violente ridefinizione delle frontiere, i curdi stanno cercando di giocare la loro partita di uno stato nazionale. Che vi riescano è difficile a dirsi, Nel frattempo hanno dovuto dimostrare di esistere sul campo di battaglia respingendo e infliggendo la prima sconfitta militare alle milizie dell’Isis a Kobane.
La manifestazione di oggi è stata preceduta anche da distinguo e critiche, “molto italiane” per la verità. La congiunturale convergenza tra i combattenti curdi in Rojava e i bombardamenti statunitensi sulle postazioni dell’Isis è stata vista, erroneamente a nostro avviso, come un passaggio di campo del Pkk. In realtà le cose non stanno così. Le alleanze a geometria variabile e la logica del nemico del mio nemico come mio amico sta imperando ormai negli ultimi anni in tutto il Medio Oriente, con effetti disastrosi evidentemente, soprattutto per le popolazioni civili strette in mezzo ai conflitti. La destabilizzazione, i regime change e la disgregazione della mappa del Medio Oriente sono stati indubbiamente perseguiti dalle potenze imperialiste prima in Iraq, poi in Libia ed infine in Siria.  Ma se il disordine diventa grande sotto il cielo, si aprono però opportunità prima inesistenti per chi, dopo decenni di oppressione, sta cercando di dare concretezza al proprio progetto nazionale e democratico. Forse solo una conferenza regionale come quella di Vestfalia alla fine della Guerra dei Trenta Anni in Europa  potrebbe avere la forza di mettere mano alle soluzioni. Ma per fare questo deve liberarsi delle ingerenze statunitensi, europee  ed israeliane. Per queste ragioni, così come per la resistenza palestinese, anche quella curda deve meritare la nostra attenzione critica e la nostra solidarietà.
25 settembre 2016

lunedì 26 settembre 2016

AIUTIAMOLI A CASA LORO?

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Il referendum che ha visto vincere il sì per privilegiare i ticinesi nelle assunzioni lavorative voluto dal centrodestra dell'Udc e dalla Lega ticinese,parente stretta della Lega nord italiana,per ora non rappresenterà problemi per i frontalieri residenti quasi esclusivamente nelle province comasche e varesine,ma è l'ennesimo segnale di una Svizzera sempre più chiusa in se stessa anche se è situata nel cuore dell'Europa.
Di cui però non fa parte come stato membro della comunità anche se l'Ue bacchetta e cerca di indirizzare alcune decisioni degli stati della confederazione elvetica che stanno ponendo veti sulla libera circolazione.
Già nel 2014 c'era stata una consultazione simile(madn anche-noi-siamo-sud-di-qualcuno )con lo stesso esito e come allora il presidente lombardo Maroni ha messo subito in chiaro la tutela di chi fa la spola per lavoro con il Canton Ticino,sulla base di decisioni prese come detto sopra dai cugini della Lega ticinese che in una faida familiare d'ora in poi privilegeranno gli indigeni,facendo propaganda elettorale con uno dei tanti slogan cari a Salvini,"prima i nostri".
Chissà se i ticinesi parlando dei frontalieri diranno parlando degli italiani"aiutiamoli a casa loro"e se saranno davvero coerenti non accettando nelle proprie banche anche i capitali che sfuggono al fisco italiano oltre che i lavoratori migranti.
L'articolo è preso da Contropiano:internazionale-news .

Il Ticino alza il muro verso i “fratelli” lumbard.

E' un colpo di tosse, nulla di più. Ma segnala che la tubercolosi si va diffondendo rapidamente. Il Canton Ticino ha approvato ieri al 58% – tramite referendum – l'articolo costituzionale "Prima I nostri", che invita a privilegiare, nelle assunzioni, la manodopera indigena.
Due cose sono da sottolineare: a) il Ticino è il cantone “italiano” della Svizzera, con capoluogo Lugano, ovvero la sede delle banche che ospitano i capitali portati all'estero illegalmente dalla borghesia lombarda piccola e grande; b) il referendum mira a colpire esplicitamente i frontalieri italiani che, per questione meramente geografica, sono quasi tutti lombardi.
I capitali possono restare, gli umani no. Nulla di differente da quel che accade ovunque.
Terza cosa notevole, che illumina la follia ideologica dei costruttori di muri, il referendum è stato promosso e vinto dall'Udc, di centrodestra ed euroscettico (anche se la Svizzera non fa parte dell'Unione Europea a nessun livello, pur essendone circondata), insieme alla Lega Ticinese, parente stretta della Lega salviniana al di qua del confine.
Una faida in casa, insomma, tra teste vuote che ragionano nello stesso modo cortomirante.
Sul piano pratico, il referendum non impedisce l'ingresso dei frontalieri italiani, né nuove assunzioni di lavoratori stranieri. Ma obbliga – vedremo con quanta forza al momento di trasformare in leggi e regolamenti il quesito referendario – imprenditori privati di ogni livello ad dare la preferenza ai cittadini ticinesi, a parità di competenze.
Ma in quali settori è diffusa la manodopera frontaliera? Come in Italia, gli stranieri trovano posto soprattutto lì dove gli stipendi sono più bassi, snobbati dai residenti. Sanità e ristorazione, in primo luogo. Naturalmente bisogna aver presente che il concetto di “basso salario”, in Svizzera, non corrisponde affatto al nostro. Per legge, lì, il salario minimo viaggia intorno ai 3.000 franchi al mese, circa 2.750 euro, al cambio attuale. Ovvio che anche i prezzi siano in proporzione molto più alti ma, per l'appunto, i frontalieri “vicini di casa” – i lombardi che attraversano ogni giorno o settimana il confine, abitando a pochi chilometri dal posto di lavoro – vengono visti come “privilegiati” che possono contare su un salario svizzero e prezzi italiani per quanto riguarda casa, tariffe, alimentari, vestiario, ecc. Ossia come “parassiti” che non spendono in Svizzera il salario lì guadagnato.
Ironizzando un po', in definitiva, come “esportatori di capitali”. Un vero affronto, per i ticinesi che lavorano soprattutto nelle banche che, invece, importano capitali “frontalieri”, in chiaro o in nero che siano.
Gli effetti concreti di questo referendum sono tutti da verificare. Intanto perché riguarda un solo cantone su 26, in particolare quello che ha con più evidenza un problema di frontalieri (francesi e tedeschi, nei cantoni linguisticamente affini, hanno presenze assai minori). E soprattutto perché l'Unione Europea sta premendo da tempo sul governo federale perché contenga al massimo pulsioni contro la libera circolazione.
Con quanta credibilità, visto il montare di muri e di opinioni pubbliche favorevoli a moltiplicarli, è tutto da vedere.

domenica 25 settembre 2016

IL GIORNALISTA NAHED HATTAR UCCISO PER UNA VIGNETTA SATIRICA

E' notizia dell'ultim'ora l'assassinio del giornalista e scrittore giordano Nahed Hattar,che negli ultimi giorni era stato nell'occhio del ciclone per aver condiviso una vignetta su un social network ritenuta offensiva per il mondo islamico.
L'articolo preso da La Stampa(www.lastampa.it )spiega brevemente l'esecuzione in stile mafia del giornalista ammazzato mentre si stava recando in tribunale per rispondere proprio a questa accusa,e che è stato freddato da tre colpi di pistola alla nuca.
Hattar,sostenitore del siriano Assad,forse non avrà lo stesso riscontro mediatico proprio per questo motivo e non verrà glorificato da morto come i vignettisti di Charlie Hebdo come avvenne nel gennaio dello scorso anno(madn la-strage-nelle-sede-del-charlie-hebdo ).

Nahed Hattar, giornalista e scrittore giordano, cristiano, controverso per il suo sostegno al regime di Assad, è stato ucciso con tre colpi di pistola alla nuca mentre si recava in tribunale.

Nahed Hattar, giornalista e scrittore giordano, cristiano, controverso per il suo sostegno al regime di Assad, è stato ucciso poco fa da tre colpi di pistola alla nuca mentre si recava in tribunale per l’udienza dopo l’accusa di aver condiviso su Facebook una vignetta ritenuta offensiva per l’Islam. Nella vignetta c’è un uomo, jihadista dell’Isis, a letto tra donne. Chiede a Dio di portargli vino e noccioline.
La vignetta era stata subito tolta dal profilo del giornalista quando erano montante le polemiche, e lui aveva detto che si trattata di satira contro Daesh, e non contro la religione. In Giordania ci sono appena state le elezioni, le prime cui si sono presentati in 9 anni i Fratelli musulmani.

sabato 24 settembre 2016

NON ESISTONO FAVOLE NEL MONDO DEL CALCIO

L'articolo odierno fa le pulci in tasca a uno dei proprietari di società calcistiche italiane di serie A che è stato anche il residente di Confindustria,il bergamasco Giorgio Squinzi,che poi con i soldi del "sindacato"degli imprenditori ha creato una squadra dal nulla,il Sassuolo,che gli ultimi anni è approdata per l'appunto nella massima serie(sassuolo-via-i-mercanti-dal-tempio ).
Un pezzo scritto l'indomani della prima storica gara di Europa League vinta 3-0 contro l'Athletic Bilbao e che è polemico e direi anche giusto e che attacca ferocemente il calcio moderno e le compagini nate a tavolino e che hanno rubato lo stadio ad altre società ree di non avere un patrimonio cospicuo alle spalle ma una storia calcistica di buon livello.
Infatti prima i modenesi e poi i reggiani e credo per molti anni hanno visto il proprio fortino,il Braglia e ora l'ex Giglio ora Mapei stadium-Città del tricolore sede delle partite interne del Sassuolo con proteste e manifestazioni delle squadre sovra citate e anche comunque dei tifosi del Sassuolo che hanno dovuto emigrare di trenta chilometri(vedi anche questo interessante link:iogiocopulito.ilfattoquotidiano.it ).
Da quest'ultimo risalta il fatto che il Sassuolo non è una favola del calcio italiano ma un giocattolo costruito ad hoc e che gioca in uno stadio quasi sempre deserto se non fosse per presenze cospicue di tifoserie in trasferta.
Al pari di altri presidenti e proprietari di serie A,anche se adesso si sta virando sempre più verso cordate o ingressi societari di stranieri,Squinzi è un imprenditore che non ha la passione del Sassuolo(è milanista)e credo nemmeno del calcio,infatti il proprietario della Mapei ha cominciato la sponsorizzazione sportiva col ciclismo:un altro caso riguarda il palazzinaro Percassi che alla guida dell'Atalanta continua a incassare plusvalenze dietro altre svendendo giocatori per poi non rimpiazzarli...anche se questo è ovviamente un racconto troppo di parte.


Temporeggia su Sabin per poi rientrare verso il centro del campo, nello scatto palla al piede si libera contemporaneamente dello stesso Sabin, che aveva provato a stargli dietro, e a un timido tentativo di Benat. Allungandosi il pallone e avanzando a lunghe falcate riesce a far fuori anche Laporte, che spettacolo.
Quella che doveva essere una ripartenza palla al piede che prima di vedere l’area di rigore avrebbe richiesta 5-6 passaggio grazie all’estro in fase di spinta di un diciannovenne spagnolo si è trasformata di un’azione di straordinaria bellezza. A questo punto se la porta sul sinistro e tanti saluti al povero Herrerin.
Sassuolo 1-0 Athletic Bilbao, il primo goal della squadra-rivelazione italiana degli ultimi anni in Europa è firmato dallo spagnolo Lirola.
Bello, bellissimo. Da rivedere mille volte su YouTube in quei filmati che promettono un HD inesistente con musichette da colossal americano anche per la traversa sullo 0-0 di Tizio in Scapoli-Ammogliati. E così ho fatto eh, me lo sono rivisto più e più volte perché, nonostante la difesa bilbaina ci abbia spiegato l’elementare motivo per il quale Messi e Ronaldo arrivano a 70 goal a testa a stagione, è proprio un goal meraviglioso.
Ma qualcosa dentro di me sapeva che quello che stavo facendo era sbagliato.
Perché quelli che vivono uguale 
hanno un’idea della bellezza così volgare 
pensano che sia 
una cosa che serve per scopare.
Sapevo, dentro di me, che un atto di estrema bellezza come quello di Lirola si svuota di ogni significato se fatto in nome di qualcosa di profondamente sbagliato.
Come sacrificarlo sull’altare del debutto europeo del Sassuolo di Squinzi, ad esempio.
Una società praticamente invisibile ai riflettori del Grande Calcio prelevata dal Presidentissimo di Confindustria e amministratore unico di Mapei Giorgio Squinzi che acquista la società nella vecchia C2 e del giro di poco più di 10 anni la trascina fino al goal di Lirola contro l’Athletic Bilbao. Una favola, verrebbe da dire. Anche no.
Ad aspetti sicuramente positivi della gestione sassolese made in Squinzi – come un’indubbia encomiabile scalata calcistica e il voler puntare molto su giovani italiani (anche se è sempre valido quello che scriveva un anno fa Bauscia Cafè – “no, non farò presente che nei tre gironi del Campionato Primavera su 1163 giocatori ci sono 189 stranieri. Darebbe la dimensione della stronzata appena ascoltata, sì, ma non è questo il punto“) – se ne affiancano diversi che fanno cadere il castello della favoletta italiana con i soldi di Confindustria – anche se già questo dovrebbe far riflettere.
Il problema, ovviamente, non sono i soldi. Investimenti di un miliardario in una squadra di calcio sono fondamentali nell’Anno Domini 2016 e lamentarsene significherebbe avere una concezione anticapitalistica del mondo che vede la Terza Categoria come la Rivoluzione d’Ottobre. Ridicolo. È bene rendersi conto dove siamo e in che contesto storico, e i soldi non sono mai un problema. Il problema è l’uso che se ne fa di questa montagna di soldi.
Affrontiamo il problema dalla base. Alla base del gioco del pallone c’è l’appartenenza a quello che è il territorio, in primis. Una squadra senza il suo territorio è una squadra finta, costruita a tavolino. Come l’MK Dons.
O il Sassuolo, per esempio.
Sì, perché una delle prime decisioni di Squinzi è stata quella di strappare il Sassuolo da, appunto, Sassuolo, e iniziare un lungo pellegrinaggio tra Modena e Reggio Emilia, sempre con l’arroganza dei padroni e sempre osteggiati da chi in quello stadio ci gioca da sempre.
Ne è venuta fuori una delle società meglio allestite d’Italia (forse d’Europa) che però incarna perfettamente quello che è la peggior degenerazione del calcio moderno: business prima che passione.
Sulla favola-Sassuolo potremmo passare sopra a tante cose, davvero. Alla fede milanista di Squinzi, all’aver strappato il Sassuolo ai sassolesi per renderlo una marca nazionale, a degli strani collegamenti con la Juventus, all’aver letteralmente occupato stadi di altre società con la massima ostilità da parte dei tifosi che ti avrebbero dovuto ospitare in casa loro. Possiamo anche fare un respirone e convincerci che stiamo sbagliando. Che il mondo non è tutto bianco o nero, che il Sassuolo è una bellissima realtà che fa crescere giovani italiani e sta raccogliendo i frutti di un allenatore giovane e preparato migliorando l’immagine del calcio italiano in Europa.
Poi però arriva la partita più importante della tua storia, l’esordio in Europa contro l’Athletic Bilbao – non proprio l’ultima della classe – e ottieni una vittoria fantastica. Giochi da dio e ti imponi per 3-0.
Tutto questo però lo fai in uno stadio deserto – con i seggiolini colorati per non farlo notare troppo – e per di più a Reggio Emilia, 30 km da casa tua.
Allora capisci che un calcio così non è quello del quale ti sei innamorato. Che, se tu fossi uno dei fedelissimi sassolesi che c’erano anche in C2, questa non sarebbe più la tua squadra, che soffriresti a vederla segnare e vincere contro l’Athletic Bilbao. Che se tu fossi un tifoso della Reggiana ti sentiresti una vittima di un calcio che non guarda in faccia a nessuno. Perché questo non è calcio, diciamoci la verità. È il gioco del calcio, quello senza dubbio, ma non quello che intendiamo e vogliamo noi. È altro, è business, capitalismo, interessi, finzione, efficienza, progetto serio. Ma non è passione, e quindi non è roba per noi.
Gli interessi degli Squinzi li conosciamo fin troppo bene. Sono i vostri che mi sfuggono. Il Sassuolo dovrebbe essere osteggiato e boicottato ad ogni giornata, a grandi linee quello che succede in Germania con il RB Lipsia. L’eterno bisogno della ricerca della favola sta diventando una cancrena per il calcio italiano. La favola non ve la regalerà mai Confindustria, la favola la dovete costruire voi con le vostre mani.
Partecipando, tifando, vivendo la squadra.
18 settembre 2016

venerdì 23 settembre 2016

MANIFESTAZIONE PER LA LIBERTA' DI NEKANE E DI TUTTI I PRIGIONIERI POLITICI BASCHI



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Sono passati più di cinque mesi dall'incarcerazione preventiva a danni della compagna basca Nekane Txapartegi Nieve,una giornalista militante della sinistra indipendentista di Euskal Herria e che ha già dovuto subire l'iter riservato ai prigionieri politici baschi nel 1999,ovvero il periodo d'isolamento senza possibilità di comunicare all'esterno(incomunicacion)durante il quale è stata torturata e stuprata.
Fuggita dalla Spagna per non venire nuovamente arrestata nel 2007 per accuse di compagni che hanno ceduto alle torture e dichiarato il falso,Nekane ora è in prigione a Zurigo dove potrebbe essere estradata nella terra dove sicuramente verrà nuovamente a contatto col regime di carcere illegale(vedi:madn dottrina-parotnograzielo-dice-leuropa )usato contro proprio chi come lei è accusata di reati politici e di affiliazione all'Eta.
L'articolo sotto è la chiamata del Collettivo Scintilla che organizza per domani pullman da Lugano e Bellinzona per far si che i compagni italiani e ticinesi possano recarsi a Berna per manifestare per la sua libertà e per quella di tutti i prigionieri politici baschi.

Sabato 24 SETTEMBRE a BERNA si terrà una grande manifestazione nazionale per la liberazione di Nekane Txapartegi, giornalista basca e militante della sinistra indipendentista, la quale è stata arrestata dalle autorità svizzere e incarcerata a Zurigo l'8 aprile 2016, a seguito di una domanda di estradizione depositata dallo Stato spagnolo.
Nel 1999, Nekane è stata arrestata e incarcerata una prima volta dalla Guardia Civil, corpo paramilitare della polizia spagnola, incaricato delle “operazioni antiterroriste”. Durante i primi giorni di detenzione, lei e un altro prigioniero sono state rinchiusi in isolamento (incomunicacion), pratica
nella quale le detenute e i detenuti accusati di “terrorismo” scompaiono in un buco nero per giorni, senza poter aver contatti con l'esterno, neppure un avvocato, subendo un utilizzo quasi sistematico della tortura durante gli interrogatori. In quell'occasione Nekane è stata violentemente torturata dai
militari spagnoli è ha subito uno stupro da parte dei suoi torturatori. Ciò che ha dovuto patire in carcere è stato denunciato poche settimane più tardi.
Dopo una rapida archiviazione della denuncia da parte delle autorità spagnole, gli avvocati di Nekane sono riusciti a fare riaprire la procedura qualche anno 
più tardi, prima che il caso fosse definitivamente insabbiato. Nonostante numerosi certificati medici che dimostrano che Nekane sia uscita dall'incomunicacion con numerosi ematomi su tutto il corpo e nonostante testimonianze di compagni di cella indicando che una volta giunta in carcere Nekane fosse in stato di shock e non riusciva né a camminare, né a muovere le mani, i magistrati spagnoli hanno rifiutato di identificare i suoi aguzzini. Solo uno di loro è stato finalmente sentito, per video conferenza e in forma anonima, senza però rispondere alle domande della difesa. Così come in decine di altri casi, che hanno portato alla condanna della Spagna da parte di organi internazionali, la denuncia è stata archiviata dalle autorità spagnole e i torturatori di Nekane sono rimasti impuniti.
Dopo nove mesi di detenzione preventiva, Nekane è stata rilasciata su cauzione e nel 2007 è fuggita dallo Stato spagnolo per evitare una nuova incarcerazione basata unicamente sulle testimonianze ottenuta sotto tortura. Infatti, durante il maxiprocesso contro numerose organizzazioni della sinistra indipendentista basca, denominato “Sumario 18/98”, è stata condannata a una pena di sei anni e nove mesi con l'accusa di appartenenza in prima istanza, e di collaborazione in appello, con un' ”organizzazione terrorista” (ETA). Nel corso di questo processo Nekane ha nuovamente denunciato quanto ha dovuto subire in carcere nel 1999 (video: https://www.youtube.com/watch?v=8Y67p5TR4pM) e, come massima ignominia, ha dovuto pure confrontarsi con uno dei suoi torturatori, intervenuto in tribunale in qualità di “esperto”. Le colpe principali che le sono state imputate sono quelle di aver partecipato a una riunione con degli attivisti indipendentisti baschi a Parigi e di aver consegnato due passaporti a dei membri di ETA.

Il Collettivo Scintilla organizzerà un trasporto collettivo dal Ticino per essere presenti in massa a questa manifestazione. Chi volesse partecipare può scrivere un messaggio privato a questa pagina oppure a scintilla@canaglie.net.

giovedì 22 settembre 2016

OLIMPIADI:C'E' CHI HA DETTO NO


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Ieri pomeriggio ha avuto enorme risalto la dichiarazione del sindaco di Roma Virginia Raggi che dopo settimane di traballamenti e di ribaltoni interni alla giunta,per dirla in poche parole pasticci che non avevano portato al nulla cosmico(madn anche-con-gli-immacolati-roma-senza-pace ),ecco la prima e molto importante decisione che vuole Roma fuori dal novero delle candidature per l'organizzazione dell olimpiadi 2024.
A suo modo una decisione storica anche se non definitiva visto che potrebbero esserci sorpassi e ingerenze pesanti sulla sovranità della capitale,un passo in avanti contro gli interessi degli speculatori e dei palazzinari,che va contro la cementificazione e la distruzione dell'ambiente e che evita lo sperpero di denaro pubblico.
L'articolo proposto preso da Infoaut(infoaut olimpiadi-un-no-che-pesa )analizza le dichiarazioni della Raggi mentre a questo link vi è scritto anche parte del suo discorso(senza soste no-alla-candidatura-olimpica-la-vera-rottura-raggi )con un Malagò presidente del Coni furioso perché è stato snobbato per ben 35 minuti di attesa vana dall'entourage del sindaco(benvenuto nel mondo reale)e che se ne è andato via con la coda tra le gambe.
E con lui le velleità degli appaltatori,dei costruttori,degli speculatori,delle mafie e della criminalità,della politica bipartisan centro destra e centro sinistra unite dall'intento di guadagnare sul pubblico denaro riservandosi una fetta per se e un'altra ai palazzinari e agli sfruttatori del lavoro temporaneo,un NO che speriamo sia di buon auspicio per quello referendario di fine anno.

Olimpiadi: un NO che pesa.

La conferenza stampa con cui la Raggi ha annunciato pubblicamente il no alla candidatura alle olimpiadi del 2024 merita di essere presa sul serio.
I giornali di oggi si concentrano sul metodo della scelta: la regia opaca del direttorio pentastellato, la “scortesia” riservata a Malagò lasciato ad aspettare mezz'ora in sala d'aspetto (come ogni altro privato cittadino verrebbe da dire), lo streaming rifiutato, la chiusura sul referendum, per arrivare a chi a sinistra si spertica in ricostruzioni puntigliose per dimostrare un'incoerenza nelle dichiarazioni del sindaco.
Ci sembra che ci si concentri su questo aspetto perché nel merito le motivazioni presentate lasciano pochi spazi alla critica.
Nonostante il tentativo dell'ampio fronte pro-olimpiadi di circoscrivere la questione grandi eventi alla diatriba sul rischio corruzione, la Raggi ha espresso una critica al “modello di sviluppo” di cui le olimpiadi sono espressione. Speculazione edilizia, gigantismo infrastrutturale completamente sproporzionato rispetto alle necessità del territorio, lavoro gratuito e temporaneo, creazione di nuovo debito pubblico per l'amministrazione comunale. Mettendo al centro questi temi il bersaglio diventa immediatamente l'agenda urbana che ha orientato le politiche degli enti locali nell'ultimo trentennio, di cui Roma ha rappresentato il “modello”.
In ossequio all'ideologia neoliberista nel periodo che va dai mondiali di calcio del 1990 fino allo scoppio della crisi nel 2008 (che anticipa di un anno i mondiali di nuoto del 2009, momento di implosione di quella stagione a scala locale) le amministrazioni che si sono alternate al Campidoglio hanno inseguito la competitività internazionale attraverso la realizzazione di grandi opere e grandi eventi: se nella prima categoria rientrano tanto le grandi opere infrastrutturali come la metro c quanto le grandi opere architettoniche (la nuvola di Fuksas, l'ara pacis, la chiesa di Meier a tor tre teste, la vela di Calatrava) nella seconda rientrano tanto i due giubilei e i mondiali di calcio e di nuoto quanto le notti bianche e il festival del cinema.
Questo modello di sviluppo ha trasformato la città contribuendo a una concentrazione della ricchezza che può essere colta anche nelle dinamiche demografiche: la città consolidata ha perso abitanti a favore della così detta città anulare generando un fenomeno di sprawl senza uguali in Europa. Oggi l'80% dei romani abita in una fascia intorno al raccordo anulare distante in media una quindicina di chilometri dal centro storico, in zone di recente costruzione con bassissima densità insediativa, con pochi servizi, senza spazi pubblici e il cui collegamento con il centro è di fatto affidato al trasporto privato.
Ormai diversi studi evidenziano come questa divisione spaziale traduca una divisione degli abitanti romani per reddito, livello d'istruzione e accesso ai servizi. Su tale divisione il movimento 5 stelle romano ha fatto le sue fortune elettorali riuscendo ad ottenere un consenso bulgaro nelle così dette nuove periferie. E ad alla composizione di questi quartieri parla esplicitamente la Raggi nella conferenza stampa di ieri quando dice che la priorità della sua amministrazione è dotare di servizi le periferie piuttosto che fare ancora regali al partito del mattone.
Questa ci sembra la prima novità degna di nota: dopo tre mesi passati in balia delle polemiche giornalistiche la Raggi esce dall'angolo parlando alle periferie ed entrando in rotta di collisione con gli interessi della classe dirigente cittadina e nazionale (mai così coesa come sulla partita delle olimpiadi) lo fa rigirando la leva del debito pubblico: se per il partito della nazione il debito degli enti locali impone tagli ai servizi, privatizzazioni e licenziamenti per il 5stelle diventa strumento per far saltare i piani speculativi del partito del mattone. A conferma che il debito pubblico lungi da essere questione meramente tecnico amministrativa è in realtà terreno di scontro tra interessi incompatibili.
In questa ottica risultano comprensibili i mal di pancia mal celati dei sinistri. A chi ha passato gli ultimi anni a convincere il proprio elettorato che non c'è alternativa al modello di sviluppo neoliberale, trovando nel debito degli enti locali la “scusa” per seguire ossequiosi i dettami del governo Renzi, il rifiuto della candidatura olimpica dimostra che, per chi ne ha il coraggio, è possibile opporsi alla devastazione dei territori, allo sperpero di risorse pubbliche, all'arricchimento dei palazzinari, il vero nodo è che tale opposizione è incompatibile con la partecipazione al banchetto degli enormi utili che questo modello di sviluppo ha garantito alla classe dirigente e alle lobby.
Questa vicenda parla della possibilità di affrontare il ricatto del debito alzando il costo sociale della città, mettendo in contrapposizione gli interessi dei suoi abitanti con quelli di chi governa il paese, piuttosto che formulare astratti piani di ri-contrattazione degli interessi con cassa depositi e prestiti o incartarsi su richieste di audit.
Per evitare ambiguità occorre dire che sul piano della proposta il 5 stelle dimostra ancora una volta tutte le sue tare: questa fantomatica città della scienza nella vela di calatrava parla il linguaggio dell'ideologia di un astratto sviluppo tecnico-scentifico da contrapporre alla speculazione, così come pare evidente la diffidenza nutrita dalla raggi rispetto agli spazi di partecipazione di massa: si parlava di un annuncio pubblico in una piazza di periferia si è scelto ancora una volta di rimanere chiusi a palazzo senatorio. L'enfasi di questo articolo non deve dunque essere scambiato per entusiasmo pentastellato, le potenzialità che vediamo sono tutte relative alla contraddizione che si apre tra la rigidità grillina (non necessariamente su posizioni progressiste) e i piani della governance nazionale, ci dispiace per chi continua ad essere convinto che il ruolo dei movimenti debba essere fare la stampella alle varie amministrazioni (a Roma negli ultimi anni sono state ribaltate tutte le consuetudini politiche, l'unica che non conosce ripensamento è la tendenza di pezzi di movimento ad accreditarsi con l'amministrazione di turno) per noi il compito è inserirsi in questa contraddizione, perché nei nostri quartieri si inizi a pretendere di più, per passare all'attacco. Tra le macerie della città neoliberale, organizziamoci per riprenderci tutto.

Abbiamo accompagnato l'articolo con una foto che ritrae l'allenatore della palestra popolare del Quadraro che si allena nella Vela di Calatrava, vogliamo chiuderlo invitando tutti all'inaugurazione della Palestra popolare del Quarticciolo in via ostuni 4 sabato 24 settembre.


Progetto Degage Roma