venerdì 28 febbraio 2020

ANCORA GUERRA AL CONFINE TRA SIRIA E TURCHIA


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Si torna a parlare del conflitto siriano che a parte qualche periodo di tempo molto breve di una parvenza di tregua non si è mai visto un cessate il fuoco decente,con sempre qualche screzio a ridosso del confine con la Turchia,ma in queste ore si è tornati alla vera e propria battaglia tra Damasco ed Ankara(infoaut possibile-escalation-tra-siria-e-turchia-ad-idlib )
Ora è la città di Idlib che sta vivendo momenti di tragedia per i repentini scontri e bombardamenti che hanno causato 33 vittime tra i turchi e un numero imprecisato di decessi per i sostenitori di Assad,con la Russia che è tornata a mostrare i denti ad Erdogan(vedi:madn l'attacco e le minacce di erdogan )e questi che oltre ad aver lasciato alla seta un milione di cittadini del Rojava sta esercitando ancora la minaccia di lasciare in Europa milioni di migranti siriani che stanno fuggendo da un conflitto che a breve raggiungerà il decennio di durata.

Possibile escalation tra Siria e Turchia ad Idlib.

Continuano ad acuirsi le tensioni tra Siria e Turchia intorno all'area di Idlib.

Ieri in nottata è giunta la notizia della uccisione di 33 soldati turchi da parte dell'aviazione siriana. I militari turchi operavano nel territorio di Idlib, enclave siriana vicina al confine turco, dove risiedono le ultime sacche delle bande sostenute da Ankara.

La tensione stava aumentando da settimane al punto che la Russia, che fino a questo momento ha svolto la funzione di mediatore e garante nel conflitto, ha irrigidito i propri rapporti diplomatici con la Turchia.

L'esercito di Ankara per tutta risposta ha dichiarato di aver preso di mira tutte le postazioni siriane conosciute nell'area al fine di vendicare i soldati uccisi. Inoltre Erdogan e i suoi ministri hanno minacciato l'apertura delle frontiere per i profughi verso l'Europa.

A questo punto nei prossimi tempi potrebbe riaprirsi uno scenario di guerra dispiegata con un riallinearsi degli assetti tra potenze regionali e globali. La Siria di Assad continua ad avere il sostegno di Russia e Iran e la Turchia potrebbe approfittare della fase politica per riavvicinarsi alla NATO con cui negli ultimi tempi non scorreva buon sangue. Gli Stati Uniti d'altronde avrebbero interesse a mettere sotto pressione il governo siriano in chiave anti-iraniana.

Nel frattempo i miliziani filoturchi continuano a bombardare i villaggi e le città della Confederazione del Rojava, hanno interrotto il flusso dalla stazione idrica di Allouk (lasciando senz'acqua un milione di civili) e cercano di rompere l'isolamento intorno ad Idlib spingendo per invadere le aree curdo-siriane.

Sulla testa dei civili siriani, e sulle vite dei rifugiati si continua a giocare una partita al massacro per le mire egemoniche dei diversi attori.

giovedì 27 febbraio 2020

KARMA


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Alla fine una sorta di compensazione cosmica ci è tornata indietro,da essere un popolo convinto di essere nel giusto nell'escludere altre persone dai propri territori a finire con l'essere gli emarginati,certo per poco tempo e parecchio in ritardo sulla tabella di marcia ma questo deve farci capire che stare dall'altra parte,quella dei reietti,non è particolarmente simpatico.
E tutto ciò grazie ad un virus che non è nemmeno tra i più letali che siano in giro,poi moriamo degli effetti dell'inquinamento,sempre restando nel novero delle malattie delle vie respiratorie,lascio stare le morti sul lavoro,incidenti stradali e domestici a altre casistiche che fanno incetta di cadaveri.
L'articolo di Infoaut(non-facciamoci-contagiare )a bocce ferme parla degli aspetti sociali e politici di tale evento che sta monopolizzando il parlare e purtroppo di più il sentito dire in Italia,prendendosela giustamente con chi manomette a scopi elettorali le notizie su questo malanno(Salvini è sempre il primo sciacallo in questo),e di come gli italiani siano delle pecore impaurite che al primo spavento ruzzolano intorno senza scopo né meta.
Il secondo invece è più un contributo selettivo(corriere.it coronavirus-rientrati-40-italiani-mauritius )e parla dell'odissea(se possiamo usare questo termine a casaccio)dei turisti lombardo-veneti che non sono stati fatti scendere alle Mauritius(potevano farlo ma aspettando un periodo di quarantena)che in poche ore hanno dato fuori di matto che nemmeno un migrante che ha visto morire decine di compagni di un viaggio(mica in aereo)durato mesi nel più totale disagio,e che se arrivato in Italia è costretto in gabbia a dividere un cesso con centinaia di persone e gli va bene se prima non ha subito violenze o torture di ogni sorta,peggio se donna.
Capisco l'incazzatura ma la prossima volta che sentiranno parlare di questa gente che scappa dalla propria casa per la guerra e la fame dovranno essere per forza più empatici perché hanno vissuto forse l'1%(largo di manica)di quello che devono sopportare loro al posto di disprezzarli nelle più rosee aspettative se non odiarli.

Non facciamoci contagiare dalla confusione. Alcune riflessioni sugli aspetti socio-politici del Coronavirus.

Abbiamo atteso alcuni giorni prima di scrivere sull'arrivo del contagio del Coronavirus alle nostre latitudini. Abbiamo scelto di aspettare perché il tema è estremamente complesso e gli sviluppi quotidiani del fenomeno cambiano continuamente gli scenari.

Abbiamo letto i punti di vista su facebook tra gli "ambienti di movimento" che sostanzialmente si attestano su due posizioni: una che vede l'allarmismo e le misure conseguenti come giustificati e l'altra che tende a minimizzare la portata di quello che sta succedendo. Questo tipo di dibattito ci pare assurdo, innanzitutto perché sostanzialmente ricalca il dibattito che c'è in campo borghese. Gli interessi divergenti sono evidenti: c'è chi vuole più "stato di emergenza", più discrezionalità dall'alto per affrontare il virus, ma non solo, ha interessi nella propagazione della paura (ci torneremo più avanti), e chi invece è preoccupato per i rovesci economici che un eccessivo allarmismo potrebbe portare. Queste due posizioni attraversano la società ben oltre il campo borghese, ma è da lì che scaturiscono. In secondo luogo è un dibattito paradossale perché condotto senza gli strumenti adeguati: ci si affida al punto di vista espresso da questo o da quel virologo, medico, biologo in base alla tesi che si vuole sostenere, senza considerare anche qui che la scienza non è un campo neutro e che spesso anche inconsciamente i vari scienziati rispondono a una lettura del problema e del rapporto con la società che è politica. Purtroppo fa pensare che anche nei nostri contesti ci si è ammalati di "espertite". Ciò non vuol dire rifiutare i pareri di chi ne sa più di noi, ma provare a contestualizzare quei pareri nelle diverse storie da cui scaturiscono e provare a costruirsi un sapere dal basso, condiviso su quanto sta accadendo.

Dunque ad oggi non siamo in grado di entrare nel dibattito scientifico, ma possiamo comunque fare alcune considerazioni sui comportamenti socio-politici dei soggetti che si muovono intorno a questa vicenda.

Iniziamo dai media: il loro comportamento ondivago tra l'allarmismo (a dire il vero molto più martellante) e la rassicurazione è un riflesso del dibattito di cui sopra. Ma soprattutto non bisogna mai dimenticarsi che nel mondo capitalista quello dell'informazione è un mercato che vende prodotti specifici. Indubbiamente in questa fase vende molto di più la paura, i titoli sensazionalistici, il terrorismo mediatico. I giornali, i grandi gruppi editoriali e le tv si orientano su questo meccanismo di mercato con sfaccettature più o meno profonde. Dunque è inutile, o comunque superficiale, prendersela con chi va a comprare le mascherine o svuota gli scaffali dei supermercati, perché i comportamenti di massa di alcuni settori della popolazione sono influenzati dal clima costruito ad hoc dai media. Puntare il dito su questi comportamenti ha solo l'effetto di rendersi antipatici (in un senso quasi etimologico) a chi è sinceramente preoccupato dal virus e dalle condizioni in cui viene affrontato. Piuttosto sarebbe necessario costruire una posizione critica sull'atteggiamento dei media, elaborare un sapere fondato dal basso da opporre, contestare apertamente le informazioni più ambigue e tossiche.

Allo stesso modo l'azione istituzionale risponde principalmente a due meccanismi: quello elettorale e quello dei grandi interessi. E' evidente che se c'è una grande preoccupazione tra la popolazione (derivata in parte significativa dall'azione dei media, come detto sopra) misure più dure e restrittive verranno adottate senza che ci sia alcun dibattito su di esse, anzi con l'approvazione di buona parte dei cittadini. Il paradigma dell'emergenza si basa proprio su questo: la confusione nella popolazione derivata da un evento catastrofico o inedito viene sfruttata per avere maggiore discrezionalità da parte dello stato e delle borghesie nel campo dell'organizzazione della società. Se non c'è nessuno organizzato per porre domande su come viene gestito il fenomeno, per opporre resistenze, le misure che vengono adottate passano sotto silenzio e tra le norme scelte ve ne possono essere alcune imposte con scopi diversi dall'aiuto alle popolazioni colpite che magari rimarranno attive per molto tempo dopo la fine della crisi. D'altro canto è chiaro che misure di un certo tipo sono lesive dell'economia e del mercato nel breve termine, ma non dimentichiamoci che ogni crisi, per il capitalismo, è anche un'opportunità. Questa discrezionalità è evidente quando ad essere chiusi sono luoghi di assembramento come cinema, teatri, manifestazioni (sportive o meno), ma allo stesso tempo i trasporti non vengono fermati, i centri commerciali restano aperti e i posti di lavoro (dove tra l'altro vi è uno stazionamento in gran numero per più tempo) non solo non sono interdetti, ma vengono regolati all'insegna di una maggiore produttività. Perché non si insiste sulla sicurezza sul lavoro? Senza poi parlare dei migliaia di precari che lavorano nel terzo settore e che senza alcuna garanzia verranno lasciati a casa per via delle misure messe in campo. Perché non si rivendicano ammortizzatori sociali per tutte queste figure produttive invece che sperticarsi sulla gravità o meno del contagio?

E se il numero dei malati aumenterà che tipo di misure ulteriormente restrittive verranno prese? Cosa comporterebbe una eventuale militarizzazione dei territori su scala più ampia di quanto sta succedendo a Codogno e nei paesi limitrofi?

Nonostante la situazione poche sono le parole che vengono spese sulle condizioni della sanità pubblica che rischia il collasso, e sui lavoratori di questo settore. Ma perché se la sanità pubblica è a rischio non si approvano piani di spesa straordinari (come ad esempio in Cina) per risolvere i problemi? I famigerati vincoli di bilancio? Chi è che dovrebbe fare pressioni perchè ciò accada?

Molte sarebbero le domande, per ora senza risposta (non avendo elaborato ancora un sapere all'altezza della sfida di cui parlavamo sopra), che sarebbe importante farsi. Ne proponiamo ancora alcune: ad esempio, siamo sicuri che l'autoquarantena sia una soluzione adeguata (pare che a Wuhan abbia rappresentato un problema inizialmente perché i malati rinchiusi in casa hanno infettato i propri familiari contribuendo alla diffusione del contagio)? Siamo sicuri che accettare la segregazione sia il miglior modo per affrontare un'eventuale malattia? E se si come si può evitare che il virus diventi una colpa individuale da assumersi e che invece ci sia una cooperazione sociale tra malati e non malati anche solo attraverso il virtuale?

Crediamo che invece che stare su facebook a dibattere se il virus sia una banale influenza, o una pandemia sarebbe importante elaborare collettivamente delle risposte a queste domande, provare ad immaginare quali possono essere dei modi per stare a fianco di chi viene colpito e anche solo di chi ha paura di esserlo, capire quali discrezionalità nello stato d'emergenza si possano qualificare come veri e propri abusi di potere piuttosto che come modi per spegnere il contagio e elaborare strategie per affrontarli dal basso in maniera condivisa. Indubbiamente di fronte a un problema serio come questo non si può continuare la propria vita e militanza come se niente fosse, ma non bisogna neanche adeguarsi alla narrazione istituzionale e piuttosto comprendere le sfide locali e globali che questi fenomeni e il modo in cui affrontarli pongono.

Sul piano della gestione emergenziale siamo di fronte ad un assaggio di quello che potrebbe succedere se questa epidemia diventasse più seria, o se si presentassero malattie future più intense e mortifere. Crediamo che nell'emergenza, nell'immediato, sia difficile muoversi a livello operativo, sicuramente approfondire e costruirsi un sapere condiviso e degli strumenti è l'obbiettivo primario. Bisogna iniziare a pensare a chi pagherà i costi di questa ennesima crisi, e se si aprono possibilità di organizzarsi preventivamente dal basso per casi di questo tipo, e immaginare nuove reti sociali capaci almeno di porre il problema di far pagare il costo sociale delle distopie sanitarie del sistema in cui siamo OBBLIGATI a vivere.

Per una lettura più generale di ciò che sta accadendo consigliamo l'ascolto di questa puntata di Voci dall'Antropocene

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Coronavirus, rientrati 40 italiani da Mauritius: «Un incubo, trattati come pacchi»

Volti scuri, malcontento e rabbia per i 40 turisti veneti e lombardi arrivati nella notte di lunedì a Fiumicino con un volo Alitalia dalle Mauritius: «Un disagio assurdo».

di Redazione Online
«È stato un incubo». Volti scuri, malcontento e rabbia per i 40 turisti italiani arrivati a Fiumicino con un volo Alitalia dalle Mauritius, nell’Oceano Indiano. «Non è giusto. Abbiamo subito una vessazione fuori dal comune, un disagio assurdo. Non capiamo perché solo noi, lombardi e veneti, non siamo scesi alle Mauritius. Perché solo noi, e gli altri? Sono stati con noi sul volo, quindi sono contagiati anche loro dal Coronavirus», raccontano alcuni ragazzi. Il gruppo, composto da persone provenienti da Lombardia e Veneto, faceva parte dei 212 passeggeri arrivati ieri mattina nella capitale dell’arcipelago.
 
Proprio per volontà delle autorità locali, ai 40 cittadini veneti e lombardi, che non mostravano alcun sintomo influenzale o disturbi di altro genere, è stata data la scelta tra sbarcare per sottoporsi a un periodo di quarantena in due ospedali della capitale Port Louis oppure rientrare subito in Italia. Tutti hanno scelto il rientro e Alitalia si è attivata immediatamente. Arrivati a Fiumicino c’è poca voglia di parlare e la rabbia sale tra chi, dopo mesi di sacrifici, aveva messo da parte i soldi per una vacanza in famiglia. «Chiederemo un risarcimento. Siamo partiti da Malpensa e nessuno ci ha controllato, neanche qui a Roma siamo stati controllati. Alle Mauritius potevano farci scendere tutti, abbiamo respirato la stessa aria, quindi siamo tutti infetti o tutti in salute. Noi italiani siamo stati trattati da profughi, uno schifo. Erano scene da film, andavano bene per Checco Zalone e Verdone», spiega Tamara, moglie e mamma di due adolescenti, che questa notte dormirà a Fiumicino e martedì mattina partirà per Milano.

E c’è anche chi attacca direttamente Alitalia. «Un incubo, siamo stati trattati come pacchi postali. Adesso andremo in albergo, torneremo a Milano Linate e poi a Torino. Non ci hanno dato neanche l’acqua sull’aereo. Niente assistenza, uno schifo. Alitalia con me, con la mia famiglia, ha chiuso. E le Mauritius pure, non possiamo entrare. Potevano dircelo prima però», si indigna Ilde, torinese, che «vuole solo lasciarsi tutto alle spalle». Sul Coronavirus le opinioni si dividono. Molti hanno paura di tornare nelle rispettive città, ma c’è anche chi è felice di riabbracciare i propri cari.

mercoledì 26 febbraio 2020

CALABRIA:FORZA ITALIA,FRATELLI D'ITALIA E LA 'NDRANGHETA


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La serie ormai infinita di arresti in Calabria di politici di tutte le provenienze ma soprattutto di centrodestra,visto che la regione è un focolaio di questo tipo di ideologia politica legata strettamente alla criminalità,ha due nomi eccellenti tra le 65 ordinanze di custodia cautelare su ordine della Dda di Reggio Calabria(contropiano.org ).
Domenico Creazzo è sindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte,e da bravo trasformista politico era passato in Fratelli d'Italia nell'ultima campagna acquisti della Meloni,transfughi legati alla 'ndrangheta che come l'avvocato Pittelli(madn un-carcere-intero )hanno visto spalancarsi le porte delle carceri.
Invece per quanto riguarda Mario Siclari,di Forza Italia,l'arresto domiciliare deve passare dal Parlamento in quanto senatore e coperto da immunità,per il reato di scambio elettorale politico-mafioso,mentre le altre decine di imputati ci sono accuse di favoreggiamento,spaccio di sostanze stupefacenti,detenzioni d'armi,violenza privata e molto altro il tutto aggravato dal metodo mafioso.

Un altro esponente di Fratelli d’Italia arrestato per mafia. E’ il quinto in otto mesi.

di  Federico Rucco
Un neo consigliere regionale di Fratelli d’Italia in Calabria, Domenico Creazzo, è stato arrestato ieri e posto ai domiciliari nell’ambito di una operazione antindrangheta, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria. L’operazione ha determinato 65 ordinanze di custodia cautelare di cui 53 in carcere e 12 agli arresti domiciliari.

Domenico Creazzo non è però l’unico politico coinvolto, è stata infatti chiesta anche una autorizzazione a procedere, con l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso, per il senatore di Forza Italia Marco Siclari, fratello del sindaco di Villa San Giovanni, a sua volta coinvolto, nel dicembre scorso, in un’altra inchiesta della Procura di Reggio. Per il parlamentare sono stati invocati gli arresti domiciliari.

I 65 arrestati sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, vari reati in materia di armi e di sostanze stupefacenti, estorsioni, favoreggiamento reale, violenza privata, violazioni in materia elettorale, reati aggravati dal ricorso al metodo mafioso e dalla finalità di aver agevolato la ‘ndrangheta, nonché di scambio elettorale politico mafioso.

Creazzo è il sindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte e risultava fino a poco fa era vicino al centrosinistra calabrese (anche questo piuttosto “poroso” alle infiltrazioni ndranghetiste, ndr). Recentemente era passato nelle fila di Fratelli d’ Italia, grazie al quale il 26 gennaio scorso, per la prima volta è stato eletto in consiglio regionale, portandosi dietro un pacchetto di di 8mila preferenze personali.

Un caso isolato? Non si direbbe. E i ripetuti arresti sollevano legittimi dubbi sulla inquietante natura della crescita di consensi a Fratelli d’Italia. A luglio scorso, dopo alcuni arresti di esponenti politici del partito nel nord, il capogruppo di FdI alla Camera Francesco Lollobrigida aveva dichiarato a Il Fatto che “Gli anticorpi ci sono e funzionano”.

Ma passato appena un mese, i fatti sembrano aver smentito clamorosamente questa tesi.

Ad agosto Giorgia Meloni in Calabria aveva fatto Una sorta di “campagna acquisti” e il gruppo di Fratelli d’Italia alla regione era diventato in poche settimane il secondo, subito dopo quello del Partito Democratico. Poi a gennaio la geografia politica della Regione Calabria è nuovamente cambiata piuttosto brutalmente.

Con i nuovi acquisti calabresi la Meloni aveva organizzato addirittura una kermesse di presentazione a Roma per i 7 neoconsiglieri. In gran parte si tratta di ex Forzaitalia, vecchi centristi, trasformisti di vario tipo, pronti a salire sul carro del vincitore, fiutato il vento.

Tra questi spiccava, Alessandro Nicolò, ex berlusconiano, e detentore di un bel gruzzolo di voti nella provincia di Reggio Calabria. Meloni lo aveva sponsorizzato come capogruppo in regione ed era una sorta di fiore all’occhiello della campagna calabra di Fratelli d’Italia.

Ma ad agosto la polizia, su mandato della Dda di Reggio lo ha prelevato dalla sua abitazione e tradotto in carcere. Le accusa contestate a lui ed altri indagati sono a vario titolo di associazione mafiosa, concorso esterno e tentata corruzione.

Ancora prima, a luglio, c’erano stati gli arresti nel giro di pochi giorni di altri esponenti di Fratelli d’Italia per inchieste legate alle infiltrazioni ndranghetiste nelle amministrazioni pubbliche. Erano finiti in carcere Giuseppe Caruso, presidente del consiglio comunale di Piacenza, e il consigliere comunale di Ferno (Varese) Enzo Misiano.

Più recentemente, nel dicembre 2019 invece era toccato al Piemonte, dove è stato arrestato l’assessore Roberto Rosso, anche lui approdato a Fratelli d’Italia e accusato di voto di scambio con la ‘ndrangheta. Il 59enne, in politica da 40 anni e per cinque legislature era stato parlamentare di Forza Italia, poi aveva deciso di passare a Fratelli d’Italia.

L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è stato ad esempio condannato a sei anni. La sentenza, connessa a uno dei filoni dell’inchiesta Mondo di mezzo, è stata emessa dai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Roma. Secondo il tribunale Alemanno avrebbe ottenuto illecitamente denaro dall’organizzazione capeggiata da Massimo Carminati. L’ex sindaco è stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. E il movimento creato da Alemanno (Movimento Nazionale per la Sovranità), il 7 dicembre scorso ha deciso di aderire a Fratelli d’Italia. E sempre nel Lazio già nel 2013, agli esordi di Fratelli d’Italia, c’era stato un arresto eccellente, quello del consigliere regionale Giancarlo Righini.

Insomma tra luglio e febbraio sono stati arrestati cinque esponenti di peso su quel “territorio” che Fratelli d’Italia e la Meloni iconizzano come terreno di crescita elettorale. Una crescita e una campagna acquisti che sembra con tutta evidenza molto legata a cordate/pacchetti di voti trasferibili dai contorni piuttosto inquietanti. Le connessioni tra organizzazioni fasciste con le reti malavitose su vari territori (la Calabria certo ma anche il Lazio) non sono certo un fulmine a ciel sereno, al contrario. Ma qui si delinea una proiezione politica generale di queste connessioni, e allora il discorso si fa enormemente più serio.

Come noto abbiamo l’allergia alle campagne sulla legalità, ma l’allergia diventa totale soprattutto quando a farsene promotore sono partiti che stanno rivelando troppi scheletri nell’armadio, e poi magari chiedono di mettere fuorilegge… i comunisti.

martedì 25 febbraio 2020

SANITA' E SANTITA'


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In un periodo dove la sanità e l'emergenza dovuta al coronavirus sono al primo posto nelle notizie,anzi è solamente la notizia,l'articolo preso da Contropiano(la-piaga-della-sanita-lombarda )non traccia un bilancio troppo lusinghiero della sanità lombarda,che da noi si soul dire essere l'eccellenza di tutta Italia.
Andando per ordine non si parla male di tutti gli operatori,dai primari agli addetti ai servizi,ma si traccia una linea discendente per quanto riguarda quello che si fa e ciò che si potrebbe fare se gli investimenti del governo non fossero mirati ad altro o semplicemente ad agevolare la sanità pubblica a scapito di quella privata.
La differenza è enorme e comunque gli ospedali pubblici sono ancor migliori,nella maggior parte dei casi,rispetto alle strutture private dove però puoi avere tutto e subito,non male visto che si parla della vita umana salvo il fatto che solamente chi se lo può permettere può venire esaminato ed eventualmente curato e guarito(madn serve-di-piu-dellabolizione-del-super.ticket ).
In Italia comunque ci sono operatori capaci in tutta Italia,solamente le aziende ospedaliere o meglio le strutture ed i mezzi sono differenti,c'è più redditività,perché ormai è di questo che si parla,al nord rispetto che al sud,e l'esodo dei malati è un fatto ben noto.
I dirigenti più che i medici fanno il cattivo tempo in Lombardia,esempi lampanti ce ne sono stati(madn sorridi-leghistanon-sei-su-candid-camera! )riguardo a tangenti e mazzette,Formigoni e Mantovani ce lo ricordano ancora,ed il fatto che considerino il paziente un numero e se abbiente ancora meglio,è la triste pagina quotidiana che milioni di persone vivono sulla loro pelle.

La piaga della sanità lombarda.

di  Leo Essen * 
La sanità lombarda è un sistema integrato di strutture pubbliche e private, nel quale le strutture pubbliche sono al servizio di quelle private.

Le porte di ingresso al sistema sono due, il medico di base (pubblico) e l’infrastruttura telematica di prenotazioni (App Salutile – pubblica). La ricetta rossa permette, con uno sconto sul prezzo finale, di prenotare visite in ogni struttura accreditata, pubblica e privata.

Il medico di base, in genere, non ha alcun problema a rilasciare una ricetta rossa per visite specialistiche ambulatoriali generiche o di diagnostica strumentale. Anzi, è indotto alla prescrizione da una sana ragionevolezza economica, la quale impone di fornire utenti a un apparato “industriale” (privato) che non può permettersi il lusso di azzerare il tasso di profittabilità (ROI).

Le sale di accettazione dei centri diagnostici sono allestite come catene di montaggio. Una schiera di receptionist, accoglie, registra, incassa, prepara, e, dopo anche un’ora o due di attesa, instrada la folla verso sgabuzzini, dove ogni paziente è accolto da tecnici ecografi o radiografi, oculisti, otorini, gastroenterologi, tutti assistiti da uno o due preparatori professionali, i quali fanno spogliare o stendere o accomodare il malato presso macchinari e apparecchiature Siemens, mentre lo specialista laureato briga con un dittafono, collegato ad un computer desktop, nell’intento di fissare in 5 minuti nel fascicolo sanitario elettronico un referto stereotipato.

Solo ai più anziani, tutta questa scienza e tecnologia, ammassata in capannoni situati nelle ex aree fordiste, ricorda Il medico della mutua di Alberto Sordi. Solo essi hanno la spiacevole sensazione di essere trattati come malati immaginari, come ipocondriaci; di essere trattati come numeri contabilizzati da una macchina che macina profitti, una macchina che li avvicina con quella spocchia e sufficienza che insinua nel paziente l’idea che lui (il malato) si sia inventato tutto, che sia lì perché non sa come svoltare la giornata.

Il mito dell’efficienza della sanità lombarda è costruito intorno al concetto di produttività e di valore aggiunto, ovvero alla differenza tra il valore in ingresso (input) e il valore in uscita (output).

Quand’anche si misurasse il prodotto in termini di unità fisiche (e non di valore) si troverebbe che il sistema lombardo è a più alto valore aggiunto di quello calabrese. Ma ciò non dimostra in modo incontrovertibile che la sanità lombarda sia migliore di quella calabrese, dimostra solo la sua maggiore redditività.

A tutto ciò si potrebbe obiettare che il paziente non è un numero, che ogni caso ha una storia a sé, e che il malato è una persona e non va trattato come una unità statistica in un sistema massificato di valorizzazione. Ma non è questo il punto.

Il punto è che il sistema sanitario è una tessera del sistema complessivo di benessere, e che l’avanzamento nella qualità della vita e nella sua durata sono un risultato diretto del sistema di protezione sociale complessivo. Sistema formato interamente dalle conquiste dei lavoratori nel corso del Novecento, e composto da: 1) diritto alla riduzione dell’orario e dei ritmi di lavoro; 2) diritto a luoghi di lavoro salubri e sicuri; 3) diritto ad una sana alimentazione; 4) diritto alla casa con bagno e acqua corrente e locali riscaldati e adeguati al numero degli occupanti; 5) diritto all’istruzione e alla conoscenza; 6) diritto alla pensione, eccetera.

Un sistema sanitario, svincolato dal sistema di protezione sociale complessivo, nel migliore dei casi può solo tamponare le falle, mettere qualche toppa, sistemare qualche osso rotto, recidere un cancro o un’appendice infetta – e bisogna ringraziare i dottori e gli infermieri del servizio sanitario pubblico, i quali, tagliando e cucendo, talvolta senza interruzione, si accollano il compito di ricevere quei pazienti che la macchina della sanità privata accetta solo fin tanto che si realizza un ritorno del capitale investito.

Quando si presenta un caso complesso, come quello del coronavirus, che mette in gioco strumenti di analisi statistica ed epidemiologica o di biopolitica – di controllo del corpo e delle popolazioni – i nodi vengono al pettine, e non è sufficiente puntare i riflettori sulla sanità (pubblica e privata), e dimenticare lo smantellamento della rete di protezione sociale, dimenticare che ci sono persone che lavorano e vivono in case sovraffollate, che si nutrono di junk food, che non si lavano con acqua calda, che non possono pagare il riscaldamento della casa, che non possono comprare medicine, che sono costrette sistematicamente a lavori straordinari, che dormono poco, che vedono nero, per sé e per i proprio figli.

Queste persone, questi lavoratori, siamo noi, e quando siamo circondati da un cordone sanitario fatto da altri lavoratori come noi, con gli occhi rossi per i doppi turni, come noi, non abbiamo solo la consapevolezze che in Lombardia la nuova sanità è stata un fallimento, ma che il sistema di protezione sociale, sponsorizzato in questi ultimi quaranta anni, è stato, nel complesso, un fallimento.

Se credete di riuscire ad arrestare il virus con le pistole e i fucili, mandate pure l’esercito, noi siamo qui.

 * da Coku

giovedì 20 febbraio 2020

LE MANI SPORCHE DI SANGUE


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Quello accaduto ieri sera ad Hanau,a venti chilometri da Francoforte,è frutto di una violenza sempre più marcata e allo stesso tempo organizzata,anche se parimente si parla di un solo attentatore,e aiutata dalla politica europea che ancora fa troppo poco per arginare il sempre più dilagante reflusso nazifascista che soprattutto in Germania(con i"fenomeni"dell'Afd)seminano sangue e terrore(www.ecn.org/antifa ).
In Italia non si è ancora arrivati a situazioni così orribili,ma l'esempio di Macerata nell'ottobre del 2016(madn traini-ha-agito-per-odio-razzialeoltre.che ad un palese rincoglimento )è solamente stato un non compimento di una stessa idea-motivazione che ha portato il nazista Tobias Rathjen ad uccidere nove stranieri,quasi tutti di origine turca e curda ma anche un bosniaco e una polacca,rei di non essere tedeschi.
Anzi non solo la politica europa come già detto sopra ha le sue colpe e non riesce a fare passi concreti ma addirittura fa di peggio(madn la-mozione-anticomunista-del-parlamento europeo ),come l'aver equiparato in nazismo ed il comunismo rendendo sempre più agibili politicamente e socialmente questa feccia dell'umanità,ricordandoci che i voti decisivi hanno visto assieme il Pd,Fratelli d'Italia,Lega e Forza Italia,e nessuno escluso di questi oggi parla di tristezza e cordoglio per quello avvenuto,quando hanno tutti le mani sporche di sangue.

Germania, uomo spara nei locali della comunità turca ad Hanau: 11 morti e 4 feriti gravi. “Movente politico, killer era estremista di destra”.

Un sostenitore dell’estrema destra tedesca che ha agito con un movente politico. Sarebbe questo, l’identikit di Tobias R., l’uomo che intorno alle 22 di mercoledì 19 febbraio ha preso di mira alcuni locali frequentati dalla comunità turca di Hanau, cittadina di 100 mila abitanti ad una ventina di chilometri a est di Francoforte, in Germania, e ha sparato uccidendo almeno nove persone e ferendone altre quattro in modo grave. Poi, dopo sette ore di ricerche da parte della polizia, è stato ritrovato senza vita nella sua abitazione, assieme al cadavere della madre. Secondo quanto riferisce il quotidiano tedesco Bild, nel corso delle perquisizioni nel suo appartamento e nella sua auto, gli inquirenti hanno ritrovato un video e un biglietto in cui l’uomo fornisce le motivazioni del suo gesto, spiegando di aver agito spinto dall’odio nei confronti di alcuni popoli immigrati che non si possono più espellere dalla Germania e devono essere “annientati”. Il killer era un cittadino tedesco con regolare porto d’armi. A guidare le indagini è la Procura federale tedesca.

Le sparatorie – Stando alle prime ricostruzioni, Tobias R.sarebbe arrivato intorno alle 22 di mercoledì sera nel centro della città di Hanau a bordo di un’auto scura e poi avrebbe iniziato a sparare all’impazzata all’interno di due diversi shiha-bar, locali turchi dove si fuma il narghilè. I primi colpi sono stati esplosi in un locale del centro storico della città, il ‘Midnight‘ a Heumarkt: qui un testimone ha detto di aver sentito fra gli otto e i nove colpi da arma da fuoco. Subito dopo, è stato preso di mira un secondo locale di narghilè nel quartiere di Kesselstadt, l’’Arena bar & Cafè’, nella Karlsbader Strasse: il killer avrebbe bussato alla porta, per poi aprire il fuoco attorno a sé nell’area fumatori. La notizia di un terzo agguato, a Lamboy, è stata invece smentita.Fra le vittime, stando alla Bild, ci sarebbero anche dei cittadini curdi. Le zone colpite sono al momento transennate e inaccessibili.

Le sparatorie hanno innescato una lunga caccia all’uomo durata sette ore e conclusasi con il ritrovamento del corpo senza vita del killer, mentre la polizia era in cerca inizialmente di più assalitori. Ora sono in corso perquisizioni nel suo appartamento e nella sua auto, dove sono state trovate armi e munizioni. Nella notte c’era stato anche un arresto, ma il sospettato è stato rilasciato dopo poco: l’ipotesi di chi indaga è che Tobias R. abbia agito da solo.

Merkel: “Commesso un terribile crimine” – “Stamattina i pensieri vanno agli abitanti di Hanau, nel cuore della quale è stato commesso questo terribile crimine”. Così ha scritto su Twitter il portavoce della cancelliera tedesca, Angela Merkel, commentando la strage. “Profonda solidarietà alle famiglie colpite, che sono in lutto per i loro morti”, ha dichiarato in un tweet Steffen Seibert auspicando una “rapida” guarigione dei feriti.

 https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/02/20/germania-uomo-spara-nei-locali-della-comunita-turca-ad-hanau-11-morti-e-4-feriti-gravi-movente-politico-killer-era-estremista-di-destra/5711338/

martedì 18 febbraio 2020

DIE WEISSE ROSE


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Il collettivo di ragazzi bavaresi che a cavallo del 1942 e 1943 con metodi pacifici di resistenza non violenta cercarono di svegliare le coscienze tedesche dal torpore maligno e dalla nefandezza tragica del nazismo,si chiamarono Weisse Rose,Rosa Bianca,ed il 18 febbraio del'43 vennero arrestati alcuni tra i membri fondatori del gruppo successivamente messi a morte per decapitazione nei giorni successivi.
Fautori di un'idea di Europa unita ancora allo stato embrionale dopo il Manifesto di Ventotene del 1941,purtroppo nulla poterono a fronte della Gestapo e di tutto un tessuto d'informatori e di sciacalli che ne causarono l'arresto di trentotto persone e la morte complessiva di altre quindici.
A loro va il pensiero di essere stati coraggiosi con i loro opuscoli e dei loro slogan e messaggi anti hitleriani e antinazisti,dopo essere stati testimoni dell'inumanità della guerra vissuta in prima persona ai fronti russi e francesi nonché contro le atrocità compiute contro gli ebrei e i dissidenti.
Articolo di Infoaut(storia-di-classe/18-febbraio-1943-la-rosa-bianca ),per maggiori informazioni :wikipedia.org Rosa_Bianca .

18 febbraio 1943: la rosa bianca.

Noi non taceremo, noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza; la Rosa Bianca non vi darà pace.

Nella Resistenza tedesca, spicca la presa di coscienza culturale e morale di quel gruppo di giovani bavaresi della "Weisse Rose", la Rosa Bianca, che nel '42-'43, a Monaco, oppongono una straordinaria resistenza non violenta al nazismo, negli anni della guerra, in condizioni difficilissime, in nome della libertà e per una Germania federale in un'Europa federale, diffondendo volantini e svolgendo un'intensa attività antinazista.

Quindici membri della Rosa Bianca saranno condannati a morte, altri trentotto incarcerati.

Guidano il gruppo due fratelli di vent'anni, Hans (24 anni) e Sophie Scholl (21 anni): sorpresi a gettare volantini antinazisti all'università di Monaco il 18 febbraio del '43, furono arrestati.

La notte dello stesso 18 febbraio fu arrestato anche un altro membro del gruppo, Willi Graf (25 anni). Si racconta che fu lui stesso a costituirsi. Imprigionarono anche la sorella. Anneliese. Il giorno dopo toccò ad un altro studente del gruppo, Christoph Probst (23 anni, sposato, padre di tre figli). Quattro giorni dopo, il 22 febbraio, Hans, Sophie e Christoph furono condannati a morte per decapitazione. Furono ghigliottinati appena tre ore dopo la sentenza. Alexander Schmorell (25 anni), ch’era riuscito a fuggire (aveva perfino tentato di espatriare in Svizzera) e sulla cui testa fu posta una taglia con pubblicazione su un giornale locale, fu arrestato dopo sei giorni: il 24 febbraio 1943.

Infine venerdì 26 febbraio fu arrestato anche il professor Kurt Huber, cinquantenne, professore straordinario di filosofia e incaricato di psicologia sperimentale e applicata, nonchè professore in scienza musicale e in canto popolare.

In un nuovo processo del 19 aprile 1943, furono processate una decina di persone. Oltre a varie condanne a pene detentive, si ebbero altre tre condanne a morte riguardanti Schmorell, Graf e il professor Huber. Schmorell e Huber furono ghigliottinati il 13 luglio 1943. Graf tre mesi dopo, il 12 ottobre 1943.

lunedì 17 febbraio 2020

L'ARROGANZA DI RENZI


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Renzi verrà ricordato in politica,sperando ancora per poco,come il personaggio giullaresco fiorentino che ha consegnato e forse lo farà ancora la destra al potere,colui che ha sdoganato il fascismo e per ultimo ma non meno importante,ha fatto delle balle e delle promesse non mantenute(il famoso"Se perdo il referendum me ne sto a casa")una prerogativa del suo essere allo stesso tempo arrogante e vigliacco(vedi:madn nonon-e-un-inciuciorenzi ).
D'altronde la sua virata a destra da quando era a capo del Pd,già da Bersani c'erano già state delle avvisaglie,è stata netta,soprattutto i suoi flirt con Berlusconi che non sono mica finiti sono stati la prova tangibile di un partito che non ha nulla a che spartire con la sinistra,e oggi di certo Zingaretti non ha fatto ancora niente per tornare indietro.
Ora lo spauracchio del suo manipolo di senatori che possono fare cadere il governo è molto più che un discorso teorico,sul tema della giustizia e delle prescrizioni il"garantista"non vuole schiodarsi dalle sue idee conservatrici,ben legato alla destra che vota contro per ovvi motivi di fidelizzati teoricamente alla sbarra,e queste settimane potrebbero essere decisive per il futuro di un esecutivo che comunque regge su delle palafitte con l'acqua in burrasca.
L'articolo di Left(renzi-e-i-gonzi )riprende in parte uno di Repubblica,un editoriale di Serra,un altro venduto alla causa centrista del Pd,uno che osannava Renzi e che ora lo critica,anche se tutto il contributo sembra comunque una sorta di appello a redimersi al giullare fiorentino piuttosto che un'accusa seria,oggi ci sono i modi ed i tempi per andarci già pesantemente.

Renzi e i gonzi.

di Giulio Cavalli
Scrive Michele Serra su Repubblica:

«Matteo Renzi rischia di passare alla storia come un Bertinotti di destra. Dunque senza neanche il fascino della radicalità, niente Chiapas e molta Leopolda, e nemmeno il pretesto romantico di avere perso l’orientamento nella Selva Lacandona; al massimo lo ha perduto nei corridoi di Palazzo (Chigi), e non è la stessa cosa. Pareva l’uomo che con il quaranta per cento faceva volare il centrosinistra, è invece l’uomo che con il tre per cento ha il potere di affondarlo. Ex giovane leone del maggioritario, in grado di attrarre alle primarie anche lunghe comitive di elettori di centrodestra (e non fu un demerito), eccolo diventato un tardivo eroe del minoritario, nella migliore delle ipotesi un Ghino di Tacco fuori tempo massimo, nella peggiore un Mastella che tiene per le palle – come si dice in Irpinia e a Rignano – chi ha dieci volte i suoi voti».

Qui la questione non è tanto il ricredersi di chi è stato fan di Renzi e non è nemmeno la battaglia (legittima) sulla riforma della prescrizione. Qui c’è, per l’ennesima volta, il parlare di Renzi in quanto Renzi, rappresentante di se stesso: un Joe Gambardella che non voleva solo partecipare alle feste ma voleva avere il potere di farle fallire, solo che qui non c’è nemmeno la poesia di Sorrentino.

Come scrive giustamente Daniela Ranieri su Il Fatto Quotidiano «Renzi ha portato il Pd al 18%, se n’ è andato convinto di avere il 40, si ritrova col 3» e con quel 3 vorrebbe essere mister 51%. Libero di farlo, sia chiaro, e noi liberi di credere che non sia nient’altro che la sua natura che non riesce a trattenere, come nella favola lo scorpione che uccide la rana morendo annegato per non essere riuscito a tenere a freno la sua natura.

Ora il primo impegno che si potrebbe prendere è quello di non essere gonzi a innamorarsi di una figurina qualsiasi e smetterla una volta per tutte di credere ai santi salvatori che ciclicamente ci si inventa. Se c’è qualcuno che spicca rispetto agli altri facciamo che gli si chiede cosa ha intenzione di fare, come abbia intenzione di farlo e poi si valutano i risultati. Sì, lo so, è difficile leggere la politica uscendo dal tifo eppure è l’unico modo per non essere gonzi ad oltranza. Perché a forza di essere gonzi poi siamo noi a pagare pegno, mica il Renzi di turno. No?

Buon lunedì.

venerdì 14 febbraio 2020

SALVINI NON ANDRA' IN GALERA COMUNQUE


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Il tanto rumore per nulla che comporterà la decisione di portare Salvini a processo per la vicenda della nave Gregoretti(madn salviniun-criminale-italiano )è un caso che ovviamente se davvero l'ex ministro dell'inferno verrà giudicato,cosa ancora lontana nonostante il voto positivo del Senato,sarà un inutile spreco di soldi pubblici perché la sentenza d'assoluzione è già scritta.
Il tronfio bullo cresciuto d'età infatti nonostante sputi a destra e manca contro i giudici e i magistrati,orrendamente di"sinistra",sa già che fondamentalmente il presunto reato sequestro di persona non sarà mai dimostrato e usa tale clamore mediatico solamente per il proprio tornaconto elettorale.
L'articolo di Contropiano(la-mega-pagliacciata-del-salvini-a-processo )spiega perché quello che in tanti vorrebbero,un criminale giustamente dietro le sbarre,sarà utopico vederlo per questa vicenda,ma anche per altre tipo quelle delle ruberie di partito tanto per citare quella più clamorosa,ed un politico cesso come Salvini sa sempre dove e come pararsi il culo,sacrificando pedine per uscire sempre lindo esteriormente alla faccia del popolo plagiato,mentre sabbiamo bene dentro come sia,una merda dalla testa ai piedi.

La mega-pagliacciata del “Salvini a processo”.

di  Dante Barontini 
Un povero cittadino, già di suo preoccupato di non perdere il lavoro o di vedere i figli che finalmente ne trovano uno decente (di “lavoretti” ne hanno pieni i cabbasisi), avrebbe dovuto commuoversi per la telenovela Salvini?

Nonostante la grande collaborazione dei media – soprattutto di quelli che si dicono (dicono soltanto…) – anti-salviniani, pare proprio di no.

La sceneggiata è stata disgustosa dall’inizio (il blocco della nave Gregoretti in mare) fino alla fine (i leghisti che escono dall’aula a momento del voto, dopo che “il Truce” aveva giurato che li avrebbe fatti votare a favore dell’autorizzazione a procedere).

Diciamolo subito chiaro: fanno schifo tutti.

Tutti infatti sapevano – o avevano ampia facoltà di sapere – che questo voto pro o contro il “mandare Salvini a giudizio” era fuffa completa.

La richiesta di autorizzazione per l’autorizzazione a procedere contro un (ex) ministro per reati commessi nell’esercizio della sua funzione è infatti arrivata dalla Procura di Catania, cui torneranno ora “gli atti”.

In teoria, secondo una sentenza della Corte Costituzionale, l’iter dovrebbe essere quello normale per qualunque altro cittadino: «secondo le forme ordinarie, vale a dire per impulso del pubblico ministero e davanti agli ordinari organi giudicanti competenti».

Ma in pratica non è neanche chiaro quale ufficio del tribunale dovrà occuparsene. L’iter normale prevederebbe infatti che a istruire il processo fosse lo stesso collegio che ha richiesto l’autorizzazione a procedere. Ma il procuratore capo Carmelo Zuccaro, secondo autorevoli cronisti ben introdotti nei labirinti giudiziari, starebbe pensando di mandarlo invece davanti a un Gup (giudice dell’udienza preliminare).

In ogni caso, quello stesso procuratore aveva già espresso il suo parere sulla vicenda della nave Gregoretti, richiedendo l’archiviazione dell’indagine perché non ci sarebbe stato alcun reato. Secondo quell’ufficio, infatti, il periodo di blocco in mare (quattro giorni) non sarebbe stato “congruo” per giustificare il reato di sequestro di persona. E già qui ci sarebbe da ridere: se sequestriamo qualcuno per 24 ore allora non c’è reato? Oppure non c’è solo se lo fa – lo ordina – un ministro?

Il procuratore Zuccaro, del resto, è anche quello diventato popolarissimo – a destra – per aver sostenuto qualche tempo fa una tesi piuttosto hard: “A mio avviso alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti, e so di contatti, un giro di soldi, quello dell’immigrazione che parte dalla Libia che sta fruttando quanto quello della droga”.

Un procuratore non è però un opinionista, ha il potere di muovere la polizia giudiziaria per raccogliere prove di quel che dice. Ma non cercò o trovò nulla.

Al contrario, abbiamo saputo poi, era il governo italiano ad aver stretto accordi con il capo dei trafficanti, che guarda caso era ed è ancora il comandante della cosiddeta “guardia costiera libica” (lato Tripoli, cioè Al Serraj). Ossia con quel tal “Bija” ricercato dall’Onu ma che veniva accolto come un ospite gradito in sedi ministeriali e basi militari italiane in Italia.

A rigor di logica, insomma, la procura di Catania avrebbe dovuto aprire indagini contro i ministri che avevano firmato quegli accordi con quella fazione libica: ossia prima Marco Minniti (Pd) e poi Matteo Salvini (Lega). Naturalmente non è stato fatto nulla.

A contestare al “Truce” il sequestro di persona per la nave Gregoretti – una nave militare italiana, non un “vascello nemico” – era stato infatti un altro magistrato, della procura di Caltanissetta, la cui indagine era poi stata assunta “per competenza territoriale” dalla sede di Catania.

Tutta questa ricostruzione serve a chiarire un fatto semplice e noto a tutti gli “addetti ai lavori”: Salvini non “rischia” niente da questa inchiesta. “L’accusatore” ha già chiesto il proscioglimento e in ogni caso aveva – incautamente, per un giudice – espresso le stesse convinzioni (infondate) del poi ministro dell’interno.

Però tutta la popolazione di questo disgraziato Paese è stata intrattenuta per mesi su una telenovela priva di sostanza.

P.s. Nonostante questo, “il Truce” ha pensato bene di non mantenere la sua stessa promessa. Invece di farli votare a favore dell’autorizzazione a procedere, ha spinto i suoi senatori a uscire dall’aula (non potevano neanche astenersi, perché al Senato, per regolamento, l’astensione vale come voto contrario; in questo caso all’”ordine del giorno Gasparri” che consigliava di rigettare l’autorizzazione a procedere).

Questo è il rapporto di Salvini con le sue stesse promesse. Come dicono negli Usa: “acquistereste da quest’uomo un’auto usata?”. E se non comprereste da lui neanche una vecchia auto, come potete pensare di dargli un qualsiasi potere? E a chi dice di “avversarlo”: non vi vergognate di utilizzare un tizio del genere presentandolo come un “grandissimo pericolo”?

giovedì 13 febbraio 2020

IL GASDOTTO NEI TERRITORI INDIGENI CANADESI

Dopo la rivolta dei Sioux Dakota del 2016 che varcò i confini statunitensi in quanto nei loro territori avrebbe dovuto passare la Dakota Access Pipeline(vedi:madn la-vittoria-dei-nativi-americani ),ecco che in Canada stanno arrivando in tutto il mondo le proteste nel territorio dei nativi americani nel Wet'Suwet'en,dove vivono degli indigeni del popolo dei Dakelh.
Anche qui si parla della costruzione di un gasdotto che ad ora rappresenta il più grosso investimento privato in terra canadese,e se ne parla ormai da un paio di anni,e questo ha creato le giustificate rimostranze degli abitanti che hanno manifestato fin da subito e che negli ultimi giorni hanno bloccato delle linee ferroviarie,mentre il Presidente Trudeau vuole incontrare le parti in conflitto dicendo che è giusto che si protesti ma anche che venga rispettata la legge,insomma una dichiarazione che non è di buon auspicio per una soluzione positiva per questo problema(vedi:infoaut costruzione-di-un-gasdotto ).

Ferrovie canadesi bloccate contro la costruzione di un gasdotto nei territori indigeni.

Ormai da un paio di giorni vanno in scena in tutto il Canada blocchi ferroviari contro la costruzione di un nuovo gasdotto, il Costal GasLink Pipeline Project, all'interno dei territori indigeni del Wet'Suwet'en.

Il Wet'Suwet'en è una nazione a predominanza indigena che si trova nella Columbia Britannica, nel nord ovest del Canada. Gli abitanti del Wet'Suwet'en sono considerati un ramo del popolo Dakelh o Carrier. Il loro territorio si estende per circa 22mila kilometri quadrati. La nazione non è coperta da alcun trattato e da generazioni le popolazioni del Wet'Suwet'en vivono e si governano secondo le loro leggi. Già in passato si erano opposte con successo a condotte o progetti di altro tipo sul loro territorio, considerandone gli effetti nefasti per la salute e per l'ambiente.

La lotta contro il nuovo gasdotto, che sarebbe il più grande investimento privato di questo genere in Canada (intorno ai 6,6 miliardi di dollari), va avanti dal 2018 e ha visto diversi punti di frizione tra il governo federale e le popolazioni indigene. Con i blocchi stradali gli abitanti della nazione hanno cercato di impedire, tra fine 2018 e inizio 2019, l'avanzata delle compagnie petrolifere sul loro territorio. Il primo momento di rottura ha avuto luogo nel gennaio 2019 quando la polizia canadese ha imposto ai manifestanti di rimuovere un blocco dopo che un'ingiunzione giudiziaria era stata emessa a favore del Costal GasLink Pipeline Project.

Nel dicembre 2019 poi la Corte Suprema canadese ha concesso alla GasLink un'ingiunzione allargata che gli permetteva di fatto di prendere completamente possesso dei territori interessati dalla costruzione della condotta e di rimuovere qualsiasi blocco sulla loro strada. Gli abitanti di Wet'Suwet'en per risposta hanno notificato un avviso di sfratto nei confronti dell'azienda poiché essa viola le leggi tradizionali e hanno rafforzato i blocchi interrompendo la viabilità stradale con tronchi e barricate.

Il 6 Febbraio la polizia ha iniziato ad attaccare i blocchi delle popolazioni indigene e ha arrestato 28 persone tra cui un capo ereditario della nazione. L'atteggiamento della polizia e gli arresti hanno fatto molto scalpore in tutto il Canada spingendo la gente a mobilitarsi in favore delle popolazioni del Wet'Suwet'en. Di fatto l'azione delle forze dell'ordine canadesi è stata letta come una sostanziale subalternità del governo e dei gestori dell'ordine pubblico alle compagnie private. Inoltre molti giornalisti durante gli sgomberi sono stati allontanati dai territori in questione per nascondere il modo in cui venivano condotte le operazioni. Dunque in tutto il paese hanno iniziato a fiorire iniziative in solidarietà con gli abitanti della nazione, tra occupazioni delle sedi istituzionali e blocchi ferroviari. Il Women's Coordinating Committee for a Free Wallmapu di Toronto riferisce che ieri ci sono stati 6 blocchi ferroviari in zone sensibili della rete canadese. A Tyendinaga e Kahnawake le popolazioni Mohawk si sono attivate per interrompere il traffico dei treni, così come a Listuguj i Mik'maq, a New Hazelton, a Squamish e ad Halifax. A Winnepeg oltre 400 persone hanno bloccato la strada e ad Ottawa, Toronto e Victoria giovani ed indigeni hanno occupato alcune sedi di uffici istituzionali tra cui il Ministero della giustizia federale. Le iniziative stanno coinvolgendo anche i molti giovanissimi impegnati nelle lotte per la giustizia climatica in tutto il Canada.

mercoledì 12 febbraio 2020

IL CAPITOLO FINALE SUI MANDANTI DELLA STRAGE DI BOLOGNA


Risultato immagini per strage di bologna fascisti
Sull'orribile vicenda della strage alla stazione di Bologna(vedi:madn 2-agosto-1980 )si è messo il sigillo finale,dopo quarant'anni finalmente si è conclusa l'indagine sui mandanti di quel giorno maledetto dove tra depistaggi e insabbiamenti,coperture delle più alte cariche dello Stato e intromissioni straniere si è arrivati ad avere nomi e cognomi che purtroppo non pagheranno mai perché già morti.
Oltre ai già condannati Mambro,Fioravanti e Ciavardini cui si è aggiunto Cavallini nelle ultime settimane, ci sono Bellini,Gelli,Ortolani,D'Amato e Tedeschi,tutti politici,un banchiere,fascisti repubblichini passati al neofascismo,un prefetto:tutti in combutta con lo Stato che fino alla loro morte li ha coperti assieme alla Nato e alla Cia.
Personaggi come Licio Gelli(madn allinferno )che per decenni alla guida della loggia massonica P2 fece da tramite da Andreotti a Berlusconi,ebbe le mani in pasta a tutto ciò che di becero avvenne in Italia dal dopoguerra alla sua morte(golpe Borghese,Gladio,Calvi,Ior,Sindona)oltre al fatto di essere sempre stato un fascista fin dalla sua militanza nella Repubblica di Salò.
Una brutta vicenda che ha segnato l'acme della strategia del terrore di matrice fascista che come in altri casi vide la partecipazione attiva dello Stato con i suoi politici,prefetti e militari che risultarono fondamentali come i fascisti nell'organizzare e portare a termine numerosi attentati dove morirono centinaia d'innocenti.
Qui sotto gli articoli(www.ecn.org/antifa/strage-di-bologna-chiusa e contropiano strage-fascista-e-di-stato ).

Strage di Bologna, chiusa l’inchiesta sui mandanti. “Gelli finanziatore, un prefetto tra gli organizzatori. Ex generale del Sisde indagato per depistaggio”.

Tra i destinatari, Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale, ritenuto esecutore che avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, questi quattro tutti deceduti e ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori, oltre che i concorso con i Nar già condannati.

A poco più di un mese dalla sentenza che ha inflitto l’ergastolo per l’ex Nar, Gilberto Cavallini, un altro capitolo giudiziario viene scritto dai magistrati di Bologna. La Procura generale di Bologna ha chiuso, notificando quattro avvisi di fine indagine, la nuova inchiesta sulla Strage del 2 agosto 1980. Tra i destinatari, Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale, ritenuto esecutore che avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, questi quattro tutti deceduti e ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori, oltre che i concorso con i Nar già condannati: ovvero Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini. I primi tre in via definitiva e l’ultimo in primo grado. Nell’avviso di conclusioni indagini si legge anche “con altre persone da identificare”. La preparazione del massacro, stando agli inquirenti, sarebbe iniziato nel febbraio del 1979 “in una località imprecisata”.

Altri tre avvisi riguardano ipotesi di depistaggio e falsità ai pm. Gli altri tre indagati, nell’ambito dell’inchiesta firmata dall’avvocato generale Alberto Candi e dai sostituti pg Umberto Palma e Nicola Proto che hanno coordinato le indagini di Guardia di Finanza, Digos e Ros sono Quintino Spella – ex generale del Sisde – e Piergiorgio Segatel – ex carabiniere – per depistaggio, mentre Domenico Catracchia risponde di false informazioni al pm al fine di sviare le indagini in corso. Gelli e Ortolani sono indicati quali mandanti-finanziatori, D’Amato come mandante-organizzatore, Tedeschi come organizzatore per aver aiutato D’Amato, ex prefetto ed ex capo dell’ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, nella gestione mediatica della strage, preparatoria e successiva e nell’attività di depistaggio delle indagini. Cadracchia era responsabile delle società che affittavano gli appartamenti di Via Gradoli, nei quali nel 1981 trovarono rifugio alcuni appartenenti ai Nar. Per gli inquirenti Spella, in quanto dirigente del Sisde di Padova, negò di aver incontrato il 15, il 19 e il 22 luglio e il 6 del 1980 “il magistrato di Padova Giovanni Tamburino” che gli avrebbe riferito di aver saputo da Vettore Presilio, detenuto a Padova, della preparazione di un attentato “di notevole gravità la cui notizia avrebbe riempito le pagine dei giornali di tutto il mondo, nonché del progetto di attentato al giudice Stiz”.

Paolo Bellini, 66 anni, ex ‘Primula nera’ di Avanguardia Nazionale, era finito nel registro degli indagati dopo la revoca da parte del giudice Francesca Zavaglia del proscioglimento del 28 aprile 1992. Una revoca che era stata richiesta dalla Procura generale che ha avocato a sé il fascicolo di indagine sui mandanti dell’attentato del 2 agosto 1980, 85 morti e oltre 200 feriti. Gli inquirenti avevano selezionato un fotogramma che compare in un filmato amatoriale Super 8 girato da un turista tedesco in cui si notava una “spiccata somiglianza” fra una persona immortalata quella mattina nei pressi del primo binario poco dopo l’esplosione e Bellini. All’epoca, a differenza di quello che avviene oggi con gli smartphone, le riprese amatoriali erano rarissime ed erano realizzate solo da pochi appassionati in possesso di videocamere. Il turista filmò dal treno l’arrivo in stazione sul primo binario, alle 10.13, 12 minuti prima dello scoppio. Poi il video proseguiva, con immagini di poco dopo l’esplosione, e, andando verso la sala d’aspetto, vengono riprese una serie di persone presenti, mentre si inizia a scavare tra le macerie.

Nei mesi scorsi i difensori dei familiari delle vittime, gli avvocati Andrea Speranzoni, Giuseppe Giampaolo, Nicola Brigida e Roberto Nasci hanno avevano depositato in Procura generale una rielaborazione del filmato, recuperato nell’Archivio di Stato, con fotogrammi ingranditi delle varie persone filmate. Uno di questi mostrava una persona con i capelli ricci, i baffi e le sopracciglia folte, simile a com’era Bellini nelle foto dell’epoca a cui inizialmente attribuita una diretta partecipazione nell’attentato. Negò la sua presenza, indicata da due testimoni, a Bologna la mattina del 2 agosto e fornì un alibi che destò sospetti di falsità, come ricordava anche la procura generale nella richiesta di revoca della sentenza, ma fu prosciolto per mancanza di riscontri.

C’era poi anche un altro particolare, emerso da un’intercettazione ambientale del 1996, che aveva portato la procura generale a chiedere di indagare sulla primula nera di Avanguardia nazionale: Carlo Maria Maggi, ex capo di Ordine Nuovo, condannato per la strage di Brescia e morto, parlando con un familiare disse di essere a conoscenza della riconducibilità della Strage di Bologna alla banda Fioravanti e che all’evento partecipò un “aviere“, che portò la bomba. Bellini era infatti conosciuto nell’ambiente della destra per la passione per il volo tanto che conseguì il brevetto da pilota. La sua posizione sarà discussa in un’udienza il 28 maggio, quando il gip dovrà decidere se gli elementi portati dagli inquirenti sono sufficienti per procedere all’iscrizione di Bellini nel registro degli indagati per il reato di concorso in strage.

 Originario un passato in Avanguardia Nazionale, condito da diversi arresti mancati che gli hanno fatto conquistare sul campo il soprannome di Primula Nera, quella di Bellini è una storia da film: esperto di opere d’arte, fuggito in Brasile, noto per diversi anni come Roberto Da Silva, nel 1999 finisce in manette e decide di collaborare con la magistratura, confessando una decina di omicidi, tra cui quello dell’esponente di Lotta Continua Alceste Campanile. Poi collabora anche con la procura di Palermo che indaga sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Racconta anche di aver conosciuto Nino Gioè e di aver intrattenuto con lui una sorta di trattativa parallela: i mafiosi avrebbero fatto ritrovare alcune opere d’arte rubate, e in cambio avrebbero ottenuto l’alleggerimento del carcere duro. Ipotesi mai andata in porto, ma una delle tante piste dietro alle stragi di Firenze, Roma e Milano, conduce proprio alla Primula Nera, che sarebbe stato l’ispiratore degli attentati mafiosi al patrimonio artistico italiano. Per la procura siciliana, tra l’altro, Bellini si trovava a Enna quando Totò Riina ordinò agli altri boss mafiosi di rivendicare omicidi e stragi commessi dal 1992 in poi con l’oscura sigla della Falange Armata. Le stragi, la Trattativa, gli anni di piombo, gli omicidi e ora anche la strage di Bologna: pezzo di un puzzle dove Bellini compare più volte. Forse anche in un filmino amatoriale girato da un turista tedesco in stazione. Pochi minuti prima di una strage.

 https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/02/11/strage-di-bologna-chiuse-le-indagini-sui-mandanti-per-procura-generale-anche-licio-gelli/5702723/

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Strage fascista e di Stato.

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo) 
La Procura di Bologna ha chiuso le indagini sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, 85 morti 200 feriti, la più grave strage terroristica della storia italiana.

Per gli inquirenti bolognesi i colpevoli che si aggiungono a quelli già condannati sono:

Paolo Bellini fascista di Avanguardia nazionale, esecutore.

Licio Gelli fascista della Repubblica di Salò, capo della Loggia P2, mandante.

Umberto Ortolani banchiere e bancarottiere, finanziatore e mandante.

Federico D’Amato, prefetto e capo dei servizi segreti legato alla CIA, mandante e depistatore.

Mario Tedeschi, fascista della Repubblica di Salò senatore del MSI del fucilatore Almirante a cui si vogliono dedicare strade, mandante.

Questi nomi confermano ciò che abbiamo sempre denunciato, la strage, come tutte le altre che hanno insanguinato il paese per un decennio, fu di mano fascista e con mandanti nel sistema di potere e nello Stato, con complicità e coperture nella NATO e negli USA.

A questo bisogna aggiungere che il presidente Cossiga fu a sua volta responsabile di un vergognoso depistaggio sulla strage di Bologna, indicando nei palestinesi e in chi era vicino a loro i responsabili di essa. E poi mai bisogna dimenticare che alla Loggia P2 appartennero politici, generali, giudici, affaristi vari, giornalisti, uno dei quali, Berlusconi, è stato a lungo capo di governo nella seconda repubblica. Che guarda caso ha finito per assomigliare sempre più a quella delineata da Licio Gelli nel suo Piano di Rinascita Democratica.

In questo paese dove trionfano ufficialmente i falsi ricordi e la vuota memoria, sarebbe necessaria che la storia del golpismo fascista e di Stato che insanguinò il paese diventasse STORIA.

Questo paese non sarà mai immune dal fascismo vecchio e nuovo fino a che non avrà il coraggio di ricordare e condannare almeno nella memoria gli autori, i mandanti, i complici, delle stragi che hanno colpito non solo le persone, ma la democrazia. E poi c’è bisogno di pulizia sulle viltà, sugli opportunismi, sui giochi di potere che hanno permesso agli assassini di farla franca e di morire sereni nel proprio letto.

La strage è fascista e di Stato e tanti, troppi non hanno voluto dirlo quando sarebbe più servito. Dopo quarant’anni diciamolo ora.

martedì 11 febbraio 2020

IL SINN FEIN VINCE IN EIRE


Risultato immagini per marie lou mcdonald sinn fein
Il complicato scrutinio che l'Irlanda col suo sistema elettorale particolare ha necessitato non poco tempo per capire di chi fosse la vittoria tra i due partiti di centro protagonisti del bipolarismo che ha contraddistinto per decenni la politica irlandese,il Fine Gael e il Fianna Fail,ed i repubblicani del Sinn Fein,tutti al 22% circa delle preferenze,ha visto vittoriosi proprio questi ultimi per la prima volta nel paese.
L'articolo di Contopiano(tiocfaidh-ar-la-cosa-cambia-con-le-elezioni-in-eire )fa un po di storia politica ed economica dell'Irlanda da quando da paese prettamente agricolo e tra i più poveri d'Europa ha voluto un piano d'industrializzazione che ha portato l'isola ad essere appetibile negli anni a venire ai capitali esteri soprattutto negli ultimi anni viste le agevolazioni fiscali che hanno portato colossi dell'e-commerce e altre multinazionali ad investire qui.
Causa poi speculazioni ed intrecci tra politici e miliardari senza scrupoli e l'esplosione di bolle economiche,i dati che davano un costante aumento della produzione del Pil irlandese si sono scoperti montati oltre le cifre dichiarate,col risultato del solito arricchimento di pochi e dell'impoverimento di molti,con un emergenza abitativa e sanitaria mai avuta negli ultimi decenni.
Su questi temi oltre a quello delle pensioni ha fatto leva il Sinn Fein della leader Mary Lou McDonald che ha preso il testimone da Gerry Adams,e grazie a questa campagna elettorale non basata sulla Brexit come gli altri ma su quello che realmente chiede la gente e nonostante la presenza in solo un quarto dei seggi in tutto il paese ha avuto la meglio sulle formazioni che avevano dominato la scena politica dell'Erie fino ad ieri.
Un segnale si era avuto negli anni precedenti con i referendum sui matrimoni omosessuali e sull'interruzione di gravidanza,in un paese tra i più cattolici e conservatori al mondo,ed ora si guarda con fiducia alla formazione di questo governo(la promessa è quella di non cercare alleanze con i conservatori)guardando ai verdi e alla radicale People Before Profit,sperando in un futuro referendum sulla riunificazione irlandese tra cinque anni,una battaglia durissima ma dove un partito che fino a qualche anno fa era illegalizzato per essere stato la sponda dell'Ira è pronto a combattere.

“Tiocfaidh ár lá”: cosa cambia con le elezioni in EIRE.

di  Giacomo Marchetti 
Per comprendere la posta in gioco del voto irlandese tenutosi questo sabato 8 febbraio occorre ricostruire le linee di tendenza dello sviluppo capitalistico nell’isola, capire i cambiamenti nelle recenti dinamiche politiche, comprendere gli scenari futuri post-Brexit che si possono delineare sia per l’EIRE che per l’Irlanda del Nord.

Il sistema elettorale irlandese è unico, insieme a quello maltese, è complesso e implica a volte alcuni giorni per lo spoglio completo prima di ottenere i risultati definitivi.

Si tratta di un scrutinio proporzionale a voto unico trasferibile, in cui gli elettori scelgono i loro candidati per ordine di preferenza. Un candidato è eletto deputato (Teachta Dála in gaelico, o TD) nel momento in cui raggiunge la quota di voci prefissate, in seguito diversi “turni” sono organizzati per ripartire i voti restanti tra gli altri candidati, in funzione dell’ordine di preferenza fino a completare i 160 eletti.

Andiamo con ordine.

La “Tigre Celtica” – così venne definito il Paese durante il suo periodo di boom, precedente allo “scoppio” della bolla immobiliare – deve il suo attuale profilo economico dagli investimenti del capitale straniero (in particolare nord-americano), che ha aperto le proprie sedi in EIRE grazie ad un trattamento fiscale di favore, per la presenza di mano d’opera anglofona qualificata, oltre alla sua collocazione geografica che si prestava ad essere una piattaforma ideale delle big della “New Economy” in direzione del mercato unico europeo.

Allo stesso tempo il tessuto imprenditoriale “autoctono” di media e piccola grandezza è fortemente connesso all’economia britannica.

In questo Paese con circa 5 milioni di abitati, 90.000 imprese importano od esportano con il Regno Unito, che riceve il 40% delle esportazioni totali dell’Isola, così come sono intensi gli scambi tra Nord e Sud, dove 4 milioni di camion attraversano il confine ogni anno, oltre a quelli tra l’Est e l’Ovest, con il “corridoio aereo” tra Dublino e Londra diventato il secondo più utilizzato al mondo.

Allo stesso tempo la Gran Bretagna è stata fino a qui la porta d’accesso per l’Irlanda all’economia continentale, con un percorso delle merci che parte dal porto di Dublino per approdare in Galles, e da lì – attraverso il “ponte terrestre” – fino a Douvres prima di giungere a Calais.

Investimenti delle multinazionali ed uno stretto rapporto con la Gran Bretagna sono due caratteristiche principali dell’economia dell’Isola.

Lo sviluppo irlandese attuale ha le sue basi nel rapporto redatto nel 1958 intitolato Economic Development, redatto da uno degli architetti dell’EIRE contemporanea, T.K. Whitetaker, un alto funzionario del ministro delle finanze.

L’idea era quella di passare da una economia fortemente agricola e ad una pianificazione industriale, con l’ausilio del capitale straniero per ridurre la dipendenza dalla Gran Bretagna, anche per uscire dal decennio di austerity conosciuto dal Paese negli Anni Cinquanta.

L’Irlanda faceva fatica ad uscire da quell’endemica emorragia demografica che la caratterizzava ancora nel dopoguerra, e che contraeva il mercato interno rendendolo inadatto ad essere un “vettore” dello sviluppo industriale.

Gli anni sessanta furono un notevole “cambio di passo”, con un tasso di crescita medio annuale del 4%, un aumento del valore delle esportazioni del 200% e l’installazione di 350 nuove imprese che davano lavoro, nel 1973, ad un terzo della popolazione operaia irlandese, prefigurando una possibile via d’uscita dalla povertà endemica che l’aveva fino ad ora caratterizzata.

Certamente l’Isola è un “nano” economico rispetto alle altre realtà continentali quando si appresta ad entrare nella Comunità Economica Europea, nella prima metà degli anni settanta, essendo il PIL dell’EIRE nel 1973 – anno della suo ingresso – appena il 58,5% della media europea.

Durante questi anni, comunque, il tasso di crescita mantiene i suoi livelli anche grazie all’arrivo di nuove compagnie statunitensi nell’elettronica e nella chimica.

Il perseguimento della strategia degli incentivi agli investimenti stranieri nel corso degli anni Ottanta avviene con il dumping fiscale, con una tassazione attualmente al 12,5%, ma che era addirittura al 10% prima del 2003.

La leva fiscale è lo strumento principe della “competitività” irlandese, questo naturalmente a scapito della politica di spesa pubblica, perché non drena nelle casse dello Stato una parte consistente dei super-profitti fatti dalle multinazionali – che li reindirizzano in patria – e non permette lo sviluppo di una industria “autoctona”, in grado di uscire dalla fascia bassa del valore aggiunto.

Nonostante i “fondamentali” dell’economia migliorino, secondo un ottica liberale,  con un deficit pubblico che si riduce all’inizio degli anni Novanta ed un tasso di disoccupazione che scende dal 17 al 13% dal 1987 al 1991, il welfare incomincia a soffrire di una cronaca mancanza di investimenti.

Tra le principali vittime è la sanità pubblica, non a caso all’oggi al centro delle preoccupazioni popolari secondo i recenti sondaggi elettorali ed uno dei punti qualificanti del Sinn Fein.

L’EIRE diviene sempre più dipendente dagli investimenti delle multinazionali, che trovano nell’Isola un vero e proprio paradiso fiscale – nel 2006, 13 aziende su 15, tra i leader mondiali del settore farmaceutico, hanno sede in Irlanda – ed un terreno privilegiato della speculazione edilizia, creando un nefasto intreccio tra big dell’immobiliare, banche e sistema politico Una dinamica molto simile ad altri Paesi PIGS (Spagna ed Italia, per esempio).

Nonostante la retorica dell’economia liberale, le cifre del “boom irlandese” risultano falsate, e difficilmente utilizzabili anche da coloro che per mestiere devono valutarne la solidità, tanto che accanto al PIL, viene pubblicato un dato che “scorpora” i profitti delle multinazionali; cioè un Prodotto Nazionale Lordo Modificato (RNBA in francese) che prende in considerazione solo gli introiti generati dagli attori nazionali, comprese quelli localizzati oltre confine.

Lo scarto tra questi due valori è enorme, a differenza che negli altri Paesi, dove tende a convergere.

Mentre il PIL nel 2016 era di 275,6 miliardi di Euro, il RNBA corrispondeva a 189,2 miliardi di Euro, cioè un terzo di meno.

«Non è tutto: una volta escluse le operazioni delle multinazionali, la bilancia corrente irlandese (…) non appare più in eccedenza, ma in deficit», registra Marie Charrel in un articolo pubblicato su Le Monde, nel luglio del 2017.

Già solo questo dato mostra l’attuale “fragilità strutturale” dell’economia irlandese, ed inoltre ci mostra come siano ancora più costringenti ed arbitrari i criteri economici valutativi usati dalla stessa Unione Europea, imponendo di fatto una politica di austerity legata a parametri come il PIL. utilizzato per valutare i livelli di deficit pubblico tra gli Stati membri o per calcolare il contributo al budget comune.

Ma le bugie hanno le gambe corte e chi si è nascosto dietro l’ostentazione del “boom economico” – come il premier ed il suo partito – rischia di fare un bagno di realtà con queste votazioni, anche perché la crescita artificiale dell’economia è servita come mannaia reale nelle politiche di austerity imposte dalla UE, considerato che si basavano su cifre di fatto falsate.

Dodici anni dopo la crisi economica irlandese, è ripresa la spirale speculativa che ne ha caratterizzato lo sviluppo, ad incominciare dal boom edilizio, facendo apparire ancora più paradossale agli occhi degli irlandesi il disagio abitativo di cui soffrono: l’aumento esponenziale degli affitti – dal 2014 il costo dell’affitto di un monolocale a Dublino è raddoppiato – , l’impossibilità di acquistare casa, la cronica mancanza di alloggi popolari e l’aumento dei senza-tetto (circa 10.000), che colpisce in particolarmente gli abitanti di Dublino.

Ed insieme alla Sanità è proprio la questione abitativa è al centro delle preoccupazioni dell’elettorato, il che ha aumentato l’appeal nei confronti della proposta del SF, che ne ha fatto uno dei propri cavalli di battaglia.

Mentre il Real Estate fa soldi a palate, gli irlandesi soffrono.

«Gli edifici ormai trovano un acquirente prima ancora di essere completati», dichiara Keith O’Neilm, direttore della branca d’investimenti immobiliari commerciali della banca PNB Paribas Real Asset.

Dopo la cura da cavallo imposta con il piano di FMI, BCE e UE – che hanno sbloccato un prestito d’urgenza nel 2010 da cui l’EIRE è uscita nel 2013, ma che le cui conseguenze ancora sono avvertite – i dati ufficiali sembrano dare ragione al governo, con una eccedenza budgetaria ed un debito pubblico dimezzato, ormai inferiore al 60% del PIL.

I salvataggi bancari in seguito allo scoppio della “bolla immobiliare” avevano “gonfiato” il deficit pubblico del 30%!

Il Piano spalmato su tre anni prevedeva un prestito di 85 miliardi in cambio dell’attuazione di una politica d’austerity draconiana, tra cui il drastico abbassamento degli stipendi dei dipendenti pubblici – da allora un 15% in meno senza che all’oggi il gap sia stato colmato – e l’aumento della pressione fiscale che ha colpito la popolazione e non le multinazionali, nonché la riduzione della spesa pubblica.

IDA, l’agenzia irlandese per gli investimenti esteri è, al centro di questa “nuova fase” dello sviluppo dell’Isola.

Dal 2015 sono stati realizzati più di 1.200 investimenti da parte di multinazionali straniere, e più del 10% della manodopera irlandese lavora per queste imprese, tra cui i giganti della Silicon Valley presenti al gran completo a Dublino o nel resto del Paese. Google per esempio, impiega 8.000 lavoratori…

Solo una parte  di chi vive in Irlanda, quindi, ha potuto avvantaggiarsi della ripresa economica e far aumentare anche la domanda interna di merci, mentre il resto della popolazione fuori dalla filiera delle multinazionali e dell’immobiliare ha visto la propria condizione peggiorare, tra l’altro con l’aumento dell’età pensionabile…

L’età della pensione è infatti la terza maggiore preoccupazione dell’elettorato. È stata portata a 66 anni nel 2014, 67 nel 2021 e 68 nel 2028: il Sinn Fein vuole riportarla a 65 anni.

Fine del bipolarismo irlandese

Un sondaggio pubblicato sabato sera di Ipsos-MRBI, che comprende un margine d’errore dell’1,3%, dava il partito del Premier Leo Varadkar, il Fine Gael, in testa con il 22,4% delle preferenze, davanti al partito repubblicano Sinn Fein con il 22,3%; dietro, l’altro partito di “centro” che per novanta anni ha co-dominato la scena politica irlandese, il Fianna Fail di Michael Martin, con il 22,2%.

Percentuali risicatissime quindi, anche tenendo conto del possibile errore di calcolo delle stime, che concorrono ad accreditare l’ipotesi di un exploit della formazione repubblicana che si presenta solo in 42 seggi sui 160 totali – e che mentre scriviamo sembra averne conquistati con sicurezza almeno ben 37! -, a differenza del Fine Gael e del Fianna Fail presenti in una ottantina di collegi.

Sia il Fine Gael che il Fianna Fail, che fino all’indizione recente dell’elezioni anticipate governavano assieme il Paese hanno escluso un possibile coalizione governativa con il Sinn Fein, così come la possibilità di ritornare a governare insieme.

La McDonald, leader del partito, esclude una partecipazione governativa con il Fine Gael o con il Fianna Fail, ma apre a sinistra, ai Verdi e alla radicale “People Before Profit”.

È la fine del bipolarismo irlandese, e il possibile inizio di un impasse politico che rischia di trascinarsi a lungo, considerando piuttosto peregrina l’ipotesi che un partito guadagni più di 80 seggi.

Ci vollero ben settanta giorni dopo le elezioni del 2016, per i due partiti che per novanta anni hanno dominato la politica irlandese e che hanno una visione d’insieme sostanzialmente identica, per mettersi d’accordo sulla formazione del governo.

Le due famiglie politiche si differenziano ormai solo rispetto alla posizione avuta durante la guerra civile irlandese nella prima metà degli anni venti del secolo scorso.

La sinistra è ora il Sinn Fein

La dinamica politica in Irlanda è mutata.

Il Partito Laburista è stato sostituito “a sinistra” dal Sinn Fein, pagando pesantemente la scelta della partecipazione alla coalizione governativa nel 2011 con il Fine Gael, rendendo possibili le politiche di austerity imposte dalla Troika.

I verdi, che con la tematica del “cambiamento climatico” sembravano al centro delle preoccupazioni della popolazione poco meno di un anno fa, sembrano ora confinare il loro voto solo ad una gioventù urbana istruita, essendo le priorità espresse dalla popolazione più legate ora alle questioni sociali (sanità, alloggi, pensioni) che alla transizione ecologica tout court, tema comunque caldeggiato dal Sinn Fein.

Il premier uscente ha giocato la sua narrazione sulla “presupposta” prosperità economica, e sul suo ruolo di protagonista nell’accordo sulla Brexit; ma le storture dello sviluppo economico irlandese sono ormai percepite dai più e trovano una soggetto in grado di dare rappresentanza politica a tale istanza.

In realtà nel mentre il Primo Ministro ne faceva l’asse della propria campagna elettorale, la questione della Brexit – a differenza che nelle recenti elezioni britanniche –  nell’ipotetica agenda delle preoccupazioni dei ceti popolari è stata derubricata, a differenza di ciò che appariva nel novembre scorso.

Un altro fattore importante per comprendere la situazione attuale è il fatto che i due ultimi referendum hanno ridato fiducia all’elettorato sulla propria capacità di cambiare lo status quo, tramutando in legge l’orientamento della maggioranza della popolazione.

Nel 2015 l’esito del referendum sul matrimonio omosessuale, ed in maniera più significativa nel 2018 quello sull’interruzione di gravidanza, sono stati non solo un “barometro” di come la società irlandese sia cambiata nel suo complesso, ma hanno permesso di incidere sulle scelte politiche di un sistema che sembrava bloccato, di fatto spianando la strada ad una possibile alternativa, oltre al bipartitismo irlandese.

Il possibile referendum sull’unificazione dell’Irlanda nel 2025 potrebbe diventare il prossimo passaggio post-elettorale su cui costruire una prospettiva che permetta di rafforzare il consenso repubblicano e sbloccare una ipotesi “remota”, anche se contenuta teoricamente negli Accordi del Venerdì Santo del 1998, che hanno posto fine al conflitto armato in Irlanda del Nord.

Su questo tema, tradizionale strumento d’agitazione del Sinn Fein, c’è da registrare che proprio la nuova leadership del partito ha preferito puntare su temi più “sociali” per ampliare il proprio consenso, e non farne un tema “divisivo” com’è è stata invece la Brexit tra le file dei laburisti.

Un dato estremamente interessante del sondaggio citato viene dalla risposta alla domanda circa l’aver goduto o meno dei benefici della crescita economica negli ultimi anni.

Il 63% per cento ha risposto che non ne ha tratto alcun beneficio.

Il Sinn Fein si quindi candida ad essere il partito degli “esclusi” dal patto sociale configurato da grande capitale nord-americano e Unione Europea.

Tutto fa supporre che si stia andando verso la fine del bipolarismo irlandese e l’inizio di una nuova stagione politica, dove il Sinn Fein giocherà un ruolo chiave, dopo i deludenti risultati dello scorso anno alle elezioni municipali e alle europee, con i “volti” nuovi di Pearse Doherty ed Eoin ó Broin ad offrire soluzioni concrete ai problemi irlandesi.

Un percorso lungo e travagliato, quello della formazione repubblicana che, da ex “sponda politica dell’IRA”, “rischia” di divenire il primo partito di una possibile Irlanda unita.

È nel 1986 che il Sinn Fein, sulla spinta di Gerry Adams, abbandona la politica astensionista e sceglie di competere per il parlamento irlandese, ottenendo nel 1987 quasi il 2%, e conquistando il suo primo parlamentare solo nel 1997, dopo che l’IRA aveva dichiarato il “cessate il fuoco” nel 1994.

Da allora la progressione elettorale del Partito è stata costante, pur restando sotto il 10% per il primo decennio del nuovo millennio, ed arrivare al 13,8% solo nel 2016, quando ha conquistato 23 seggi.

Mary Lou McDonald, 50 anni, leader succeduta nel 2018 a Gerry Adams, nel suo discorso per il “passaggio di testimone” l’ha riconosciuto come proprio mentore politico concludendo con l’espressione Tiocfaidh ár lá, cioè “il nostro giorno verrà”.

Ed oggi questa esclamazione, assume un significato del tutto particolare.

lunedì 10 febbraio 2020

IL GIORNO DEI REVISIONISTI


Risultato immagini per lepa radic
Ci risiamo con la commemorazione di questo giorno del ricorco istituito dal governo Berlusconi nel 2004 con il bene placito del Pd che è stato voluto come contraltare al giorno della memoria dedicato alle vittime dei nazifascisti(vedi:madn il-revisionismo-non-puo-vincerese.abbiamo buona memoria! ).
In un periodo dove i fascisti hanno rialzato la testa grazie all'inefficace esercizio della memoria che si è smarrita lungo la strada soprattutto per demerito di chi una volta era comunista e che è passato verso il così detto centro sinistra,questo giorno non è solamente l'unico dove i fascisti avevano qualcosa da ricordare a scapito di enormi esagerazioni storiche,non è proprio il caso di essere negazionisti ma i numeri sono enormemente gonfiati così come annacquata è stata la storia,ma alzano la cresta durante tutto l'anno.
Il risultato lo si vede ogni giorno,con politiche di chi non ammette ancora la sua indole fascista(vedi Lega)e con una serie di violenze fisiche e verbali che non hanno memoria dal dopoguerra,legittimati e coadiuvati da una politica che parla di antifascismo solo quando fa loro comodo.
Gli articoli di Contropiano( i-fascisti-celebrano-le-foibe-come-una-inaccettabile-par-condicio e il-revisionismo-storico-diventa-verita-di-stato )fanno luce sui fatti storici che hanno segnato la storia del confine italo-jugoslavo negli anni appena prima e dopo il secondo conflitto mondiale,in un contesto storico creato dagli italiani con i partigiani dapprima delle Jugoslavia e poi anche dai nostri che hanno dovuto subire episodi di violenza inenarrabili,e che hanno contribuito a liberare quella zona di territorio dall'immonda presenza nazifascista,onore a questi combattenti,non esiste nessun paragone tra fascismo e comunismo,Smrt fašizmu,sloboda narodu!Morte al fascismo, libertà al popolo!

I fascisti celebrano le foibe come una inaccettabile “par condicio”.

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo) 
Il 10 febbraio tutti i neofascisti italiani sono in piazza dal lato dello Stato e dell’opinione pubblica ufficiale. Li legittima pienamente la  festa del ricordo,  istituita nel 2004  dal centrodestra e a dal centrosinistra assieme, con il meritorio voto contrario dei comunisti allora presenti in Parlamento.

In verità la rivendicazione di una giornata per ricordare le vittime italiane della liberazione antifascista della Jugoslavia era un obiettivo di tutti i neofascisti italiani e del loro partito,  il MSI,  fin dal 1947. Solo negli anni 2000 però questo obiettivo storico dell’estrema destra potè realizzarsi,  grazie a quella sinistra che poi sarebbe diventata il PD e che nel suo decennale processo trasformista scelse anche di riscrivere la storia.  Cosa che un esponente di quel partito,  Luciano Violante, aveva iniziato a fare nel 1996 quando da presidente della Camera aveva chiesto comprensione per la scelta sbagliata dei “ragazzi di Salò.

La destra neofascista nel dopoguerra ha sempre usato Trieste, l’Istria, la Dalmazia, che non è mai stata italiana se non per una città, e naturalmente le foibe come contraltare alla  Resistenza e alla lotta di liberazione al nazifascismo. Era una sorta di par condicio che la destra rivendicava: ci sono stati i campi nazisti e lo sterminio degli  ebrei, ma ci sono state anche  le foibe e la persecuzione degli italiani da parte degli slavi comunisti.

Per tutta la prima Repubblica solo formazioni reazionarie,  legate al golpismo degli apparati dello stato,  e il MSI sostennero questa rivendicazione, che invece tutto l’arco delle forze costituzionali respingeva,  proprio perché non accettava alcuna equiparazione  tra la violenza e le stragi del nazifascismo e quanto avvenne tra i popoli liberati nell’immediato dopoguerra.

Anche eventuali eccessi nella liberazione venivano addebitati alla scia di sangue e terrore che i nazifascisti avevano lasciato in ogni angolo dell’Europa. La memoria del fascismo era viva e sembrava puro e semplice orrore qualsiasi  attenuazione delle sue  responsabilità su ogni evento di guerra. Altrettanto viva era la memoria del contributo determinante dato dall’Unione Sovietica e dai comunisti alla sconfitta del nazifascismo.

Queste memorie vive permettevano di superare una  storica area  grigia nei ricordi ufficiali del nostro paese, quella che nascondeva la violenta oppressione, la pulizia etnica, la negazione dello stesso diritto all’esistenza, per  le popolazioni slave dei territori acquisiti dall’Italia nel 1918 e di quelli occupati dai fascisti fino al  1943.

Le infamie commesse dagli italiani nei confronti degli slavi erano  rimosse anche nella prima repubblica e questa rimozione è stata alla base della falsificazione storica e politica successiva. Crollata l’URSS, distrutta la Jugoslavia con la guerra, costruito un nuovo sistema europeo fondato sul liberismo e sulla espansione della NATO ad est, in Italia il nuovo sistema politico,  che aveva cancellato il PCI, la DC, il PSI, fece propria la vecchia  rivendicazione neofascista. Da un lato Berlusconi sdoganò i fascisti nel centro destra, dall’altro il centrosinistra,  nella furia di apparire  diverso dal passato comunista,  scelse di essere più realista del re.

Così in Italia con la decisione bipartizan sul giorno del ricordo fu anticipata quella risoluzione del Parlamento UE che ha recentemente equiparato nazismo e comunismo. Siamo stati i primi a riscrivere la storia della guerra  in funzione del potere e come in altre anticipazione reazionarie abbiamo fatto scuola. Le foibe sono diventare l’altro peso sulla bilancia di Auschwitz e le celebrazioni degli orrori del nazismo sono state equilibrate da quelle degli orrori del comunismo. Ciò che in Italia negli anni cinquanta chiedeva il gruppo eversivo di Pace e Libertà è diventata l’ideologia della Repubblica.

Poco importa che storici valenti e documentati abbiano dimostrato che la costruzione sulle foibe e sulle traversie degli italiani sia una montatura e distorsione di fatti che hanno altre ragioni e dimensioni.

C’è una foto che è il simbolo di questa falsa costruzione, essa mostra soldati che fucilano civili inermi ed  è stata a  lungo diffusa come prova visiva dello sterminio degli italiani da parte degli slavi comunisti.  Ma in realtà quella foto simbolo della festa del ricordo rappresenta un fucilazione di ostaggi slavi inermi da parte delle truppe italiane di occupazione. La realtà non conta quando ha di fronte la sopraffazione della ideologia dominante ed infatti i poveri  storici che cercano di raccontarla sono oggetto di ostracismo e minacce violente.

Del resto la stessa data scelta per il giorno delle foibe è significativa del significato revisionista e revanscista della celebrazione.

Il 10 febbraio 1947 l’Italia firmò il trattato di pace con  coloro che aveva aggredito ai tempi del fascismo. Fu una firma giusta e noi oggi dovremmo celebrarla come il giorno del ritorno del nostro paese nella comunità internazionale,  che riconosceva la  definitiva cancellazione dell’Italia fascista, per opera degli italiani stessi con la Resistenza. Dovremmo festeggiare da un lato e anche ricordare con dolore tutto ciò che il fascismo ha fatto pagare al paese, compresa la perdita di una parte del territorio nazionale.

Invece il 10 febbraio la seconda repubblica  maledice chi ha avuto un milione di morti per vincere  la guerra contro il fascismo e nei fatti rivendica l’italianità di territori che ha perso e che non le spettano più. I fascisti ringraziano ed ora attendono che il 25 aprile sia celebrato con i libri di Pansa. E che disegnare la falce e martello sia reato peggiore che disegnare una svastica.

Quando le anime belle si chiedono  perché in Italia la Costituzione antifascista conti così poco e perché figure reazionarie e inquietanti come Salvini pesino così tanto, pensino anche al 10 febbraio, al giorno del falso ricordo.

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Il “revisionismo storico” diventa “verità di Stato”.

di  Redazione Contropiano   
Offriamo qui una serie di articoli che affrontano da un punto di vista storiografico rigoroso la “questione delle foibe”. La quale, fin dalla Liberazione, è stata ingigantita e strumentalizzata dai fascisti per ricercare una “parità di dignità” con i combattenti della Resistenza in tutta Europa.

Ingigantita nei numeri delle vittime, come vuole la pompa della propaganda stile Goebbels (“mentite, mentite, qualcosa resterà”), nonostante la ricerca abbia progressivamente avvicinato una stima realistica.

Utilizzata per cancellare le proprie responsabilità nei massacri e nella pulizia etnica messa in azione con l’invasione della Jugoslavia nel 1940.

La “novità” degli ultimi decenni è però costituita dall’adozione della visione fascista da parte delle istituzioni repubblicane, e quindi dallo Stato italiano. Un’adozione cauta, che formalmente richiama anche vaghe responsabilità del nazifascismo, ma che sostanzialmente puntava – ed ora esplicita – l’”equiparazione tra nazismo e comunismo” votata in una mozione del cosiddetto parlamento dell’Unione Europea. Una mozione votata con entusiasmo anche dai fascisti italiani ed europei, il che spiega benissimo il “taglio” di questa ricostruzione storica falsificante.

Un mattone importante a questa opera di falsificazione lo ha portato anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non nuovo in questo ruolo, che ieri ha anticipato le cerimonie del “giorno del ricordo” adottando in pieno il revisionismo storico presuntamente “super partes”.

“La persecuzione, gli eccidi efferati di massa – culminati, ma non esauriti, nella cupa tragedia delle Foibe – l’esodo forzato degli italiani dell’Istria della Venezia Giulia e della Dalmazia fanno parte a pieno titolo della storia del nostro Paese e dell’Europa“.
“Si trattò di una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono – per superficialità o per calcolo – il dovuto rilievo. Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi che conobbero nella loro Madrepatria, accanto a grandi solidarietà, anche comportamenti non isolati di incomprensione, indifferenza e persino di odiosa ostilità“.
“Si deve soprattutto alla lotta strenua degli esuli e dei loro discendenti se oggi, sia pure con lentezza e fatica, il triste capitolo delle Foibe e dell’esodo è uscito dal cono d’ombra ed è entrato a far parte della storia nazionale, accettata e condivisa. Conquistando, doverosamente, la dignità della memoria“.

Una “lettura istituzionale” che si nutre a piene mani della ignoranza della Storia reale. Se le parole di Mattarella corrispondessero alla verità, infatti, ci sarebbe stata una immotivata “persecuzione di italiani” in un territorio prima pacificamente popolato da comunità etnico-linguistiche diverse.

Dimenticati dunque, con il semplice metodo dell’omissione, l’invasione fascista di quei territori in seguito all’entrata in guerra al fianco della Germania nazista, l’espulsione delle popolazioni non italiane e comunque l’”italianizzazione forzata” (reato parlare lo sloveno e il croato), l’infoibamento dei resistenti e dei civili jugoslavi, i tre anni di persecuzioni nazifasciste in quei territori.

Resta – in questa “ricostruzione” – soltanto quanto avvenuto dopo, quando la Resistenza jugoslava, sull’onda dell’avanzata delle truppe sovietiche dalla vittoria di Stalingrado in poi, riprese il controllo di quei territori. Come sempre avviene nelle guerre di liberazione e di guerra anche civile (i “collaborazionisti” con l’invasore non mancano mai), ci fu spazio anche per le vendette e i processi sommari, fino all’uso delle foibe esattamente come avevano fatti i fascisti quattro anni prima.

Nessun studioso di Storia, in questo e altri paesi, nega che questo sia avvenuto. Ma colloca anche questi episodi nel solco di una successione di eventi che hanno origine nell’invasione fascista e nei “metodi” usati dai nazifascisti.

Al contrario, Mattarella si è scagliato proprio contro questi studiosi, parlando di “piccole sacche di deprecabile negazionismo militante”, verosimilmente da reprimere (togliendo cattedre o ostacolandone pubblicazioni e attività) e progressivamente eliminare (stabilendo una “verità di Stato” che contraddice proprio i “valori” che si dichiara di difendere). 

In questo solco benedetto dalle massime istituzioni dilagano i fascisti, che occupano ormai snodi importanti come la Rai, seminando cazzate senza fondamento al riparo della veste “pubblica”.

Perciò, proprio in occasione della “giornata del ricordo”, vogliamo proporvi alcuni dei contributi alla ricerca storica – ed anche alla polemica storiografica – che rimettono i fatti nella loro successione esatta. E quindi anche nella valutazione politica. Perché l’antifascismo non è una coccarda da indossare il 25 Aprile, ma una pratica quotidiana senza fine.

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L’agguerrito esercito della negazione della storia 

Angelo D’Orsi – il manifesto

Ci risiamo. La ricorrenza del 10 febbraio – il cosiddetto “Giorno del ricordo”, istituito con legge “bipartisan” Berlusconi imperante (l. n. 92 del 3 marzo 2004) – eccita gli animi, in modo ogni anno più parossistico: è il primo paradossale risultato di quella legge sciagurata, che in nome della “pacificazione” e delle “memorie condivise” ha prodotto l’opposto effetto. Com’era ovvio, perché le memorie degli uni non solo non si pareggiano con quelle degli altri, ma, al contrario, emergono con rinnovato sentimento oppositivo. Gli eredi, biologici o politici, dei fascisti occupanti la Jugoslavia negli anni ‘40, autori di stragi inaudite, di devastazioni e vessazioni ai danni della popolazione locale, non sembrano più in cerca di una semplice (e impossibile) autoassoluzione per il loro ruolo di carnefici, ma ormai si propongono, con crescente protervia, nei duplici panni di vittime, e, addirittura, di «eroi». Si vedano gli annunci di iniziative delle associazioni degli esuli istriani e dalmati, o di circoli neofascisti, in cui ricorre accanto o invece del termine «martiri» quello appunto di «eroi»: gli eroi delle foibe.

Ecco, i neofascisti: chiamiamoli come preferiamo, ma qui siamo in presenza di un eccezionale rigurgito di fascismo aggressivamente «nostalgico». Tra la legalità garantita da una Costituzione democratica e l’illegalità di azioni che quella stessa Legge contrasta, i fascisti del terzo millennio, e i loro amici e sodali, stanno cavalcando «le foibe» in un disegno politico-ideologico davanti al quale la cultura democratica e la ricerca storica appaiono in disarmo, capaci al massimo di flebili voci di protesta. Vediamo in campo, da un lato, un esercito agguerrito e all’attacco, e dall’altro un esercito in rotta o in disarmo. Più spazio viene lasciato, a proposito della questione del «Confine orientale», alla destra, meno spazio rimane non per la sinistra, ma per la ricerca della verità e la sua difesa.

E di anno in anno lo squilibrio fra i due eserciti si aggrava, in una sostanziale indifferenza della cosiddetta opinione pubblica democratica. Ora siamo ad un paradosso: la destra, quella più becera e ignorante, nell’ormai antica pretesa di impartire lezioni di metodo storico, ha compiuto un’operazione indubbiamente degna di attenzione: ha sottratto all’arsenale sia della metodologia della storia, sia della cultura democratica, una parola che finora esprimeva una certo concetto, ma ora non più. La parola è «negazionismo». Nei manuali di metodologia della ricerca storica, si indica con questo «ismo» una delle forme estreme del revisionismo in tema di campi di sterminio nazista, quello che precisamente nega se non la loro esistenza, la loro funzione sterminazionista, cercando spiegazioni (risibili) per le camere a gas e i forni crematori: insomma nega il progetto genocidario del lager nazista.

Ora capita che la destra che sta costruendo proprio disegno egemonico, dai tanti aspetti, si sia impadronita della parola, rovesciandone in certo senso il concetto, facendolo trapassare dal campo democratico-antifascista a quello opposto. E con un cortocircuito, facilitato dalla vicinanza tra il 27 gennaio e 10 febbraio e dalla stessa terminologia (Giorno della memoria, (Giorno del ricordo), foibe e lager vengono avvicinati, poi sovrapposti e infine confusi, generando una cappa di nuvolaglia graveolente, sotto la quale si agitano i professionisti della «verità politica», che nulla ha a che spartire con la verità storica.

Davide Conti ha parlato su questo giornale di «populismo storico»: la formula è efficace, ma andrebbe corretta in «populismo storiografico», in quanto il chiacchiericcio mediatico, accanto a iniziative di politici e di amministratori, pretende di far scaturire come verità quello che «la gente» anela sentirsi dire, dopo essere stata opportunamente manipolata. E tutto questo con una crescente aggressività che vede presi a bersagli i pochi studiosi autentici del tema, compresi coloro che hanno lavorato in modo discreto cercando di non schierarsi troppo esplicitamente. Interdizioni, minacce, impedimenti opposti a quanti, singoli o associazioni, provano a fare onestamente il proprio lavoro: il populismo storiografico mescola le carte, dà non solo per acquisite, ma per scontate pseudo-verità, e si appella ai sentimenti di un nuovo pseudo-patriottismo, che dovrebbe interpretare in modo «spontaneo» i sentimenti diffusi, il senso comune, il pensiero della gente della strada, divenuta, non si sa in base a quale principio, depositaria delle «verità nascoste» (ovviamente dai comunisti) delle foibe.

E la storiografia, quella vera, arretra, tace, balbetta. Mentre dovrebbe sfoderare tutte le sue armi, e chiamare l’intero mondo intellettuale a propria tutela, e non esitare a pretendere dal ceto politico l’abrogazione di quella legge, generatrice di menzogne e, come stiamo vedendo, di un clima persecutorio.

Le foibe al tempo del «populismo storico»

Davide Conti – il manifesto

Si è tenuto ieri un seminario, presso la Sala degli Atti Parlamentari della Biblioteca del Senato della Repubblica, con storici di rigore e professionalità, riconosciuti a livello nazionale e internazionale.

Come Giovanni De Luna, Franco Ceccotti e Anna Maria Vinci e Marta Verginella, e che, per il solo motivo di essersi svolto, è stato «contestato» da esponenti dell’estrema destra italiana che lo hanno definito «un oltraggio agli esuli istriani e dalmati infoibati vittime dell’odio comunista» ed un’iniziativa «dal chiaro obbiettivo negazionista». L’episodio esprime in modo visibile l’emersione di un fenomeno che le «politiche memoriali», organizzate attorno all’istituzione di leggi ad hoc finalizzate all’uso pubblico della storia, hanno finito progressivamente per alimentare fino alla sua tracimazione nel discorso pubblico: il populismo storico. Esso ha progressivamente preso corpo in tutte le società democratiche del continente, ne è esempio la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre scorso sui totalitarismi, e rappresenta il superamento del revisionismo e una sua manifestazione a base «di massa», cioè non più chiusa entro il solo perimetro del dibattito storiografico o pubblico-divulgativo. Sul piano della comunicazione nella società il populismo storico è organizzato su una reciprocità dialettica con ciò che si definisce «senso comune». Il suo impatto mediatico e la diffusione dei suoi rovesciamenti storiografici si alimentano della capacità di «ritorno» che questi ultimi producono sull’opinione pubblica, trasformata in fonte di forza e ispirazione per spinte, sempre più oltranziste, verso il ribaltamento del senso della storia.

Presentato dai suoi animatori come espressione di novità e liberazione antidogmatica dalla cosiddetta «storia ufficiale» (vale a dire dall’esercizio metodologico della disciplina e dalla trasmissione del sapere scientifico) il populismo storico ricava le proprie istanze dall’uso del più vecchio e consunto degli armamentari ideologici quello della negazione, dell’autoassoluzione e della memoria selettiva. In questo quadro la «complessa vicenda del confine orientale» richiamata nell’articolo 1 della stessa legge istitutiva del giorno del ricordo viene sistematicamente elusa dal dibattito pubblico. Sono in questo modo cancellati dalla memoria nazionale «il fascismo di frontiera» (lo squadrismo delle camice nere contro le popolazioni jugoslave prima della marcia su Roma), la guerra di aggressione scatenata dal regime di Mussolini il 6 aprile 1941; i crimini di guerra contro civili e partigiani compiuti dalle truppe del regio esercito e dalle milizie fasciste in Jugoslavia; l’impunità garantita alle migliaia di «presunti» criminali di guerra inseriti nelle liste delle Nazioni Unite per essere processati in una «Norimberga italiana» mai celebrata in ragione degli equilibri geopolitici della «Guerra Fredda». Correlata a questo si porrebbe anche la questione della «continuità dello Stato» nel quadro della transizione dal nazifascismo alla democrazia in Italia, nonché la scabrosa vicenda dei risarcimenti, dovuti e non pagati, ai familiari delle vittime delle stragi nazifasciste in Europa.

La strumentalizzazione che la destra politica compie attorno alla vicenda delle foibe riassume i caratteri nazionali di un Paese che non avendo fatto i conti col proprio passato cerca di superarlo riscrivendolo. La contestazione dei «populisti storici» agli storici, e alla storia stessa, si incardina così in quello «spirito dei tempi» che la società contemporanea si trova a vivere oggi, nel pieno di una delle sue crisi più profonde.

La funzione della storia rimane quella di organizzare un «orizzonte di senso» rispetto al tempo trascorso attraverso il metodo scientifico ovvero un processo in grado di comporre una relazione di significati il più possibile precisa che connetta le vite diverse di generazioni di persone, popoli e società. La storia, in sostanza, non solo spiega da dove veniamo e rende visibili le radici d’origine ed i processi d’impianto delle nostre società ma soprattutto ci mostra le ragioni e gli sviluppi attraverso cui siamo diventati ciò che siamo, nel bene e nel male.

Enucleata dall’onere specifico e dirimente di offrire una «resa di complessità» la storia finisce per essere rappresentata attraverso forme monodimensionali o retorico-celebrative che ne impoveriscono il portato culturale o la trasfigurano in strumento propagandistico della debole politica dei giorni nostri come forma di regolazione e controllo selettivo della memoria collettiva, finalizzato al governo del presente. Su questo terreno diviene indispensabile la resistenza della cultura e delle coscienze.

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“Giorno del ricordo”, dove sta il problema?

A. Martocchia * (segretario, Jugocoord Onlus –intervento alla iniziativa “Resistenza jugoslava. Foibe o fratellanza?“, tenuta a Roma domenica 24 febbraio 2019)

L’iniziativa di oggi non nasce per esigenze di rito, né per la affermazione di meri principi o per testimonianza. E la mia non sarà una semplice Introduzione – anzi mi scuso da subito e vi chiedo pazienza per la lunghezza del mio intervento.Con quanto è successo quest’anno attorno al 10 Febbraio, nel nostro paese abbiamo oltrepassato il livello di guardia.È stato infatti abbattuto ogni residuo tabù in merito alla possibilità di offendere i valori antifascisti fondanti la nostra Repubblica, di distorcere in modo indecente la auto-percezione e coscienza storica della nazione. Siamo stati inoltre gettati in un clima di intimidazione permanente, una vera e propria “caccia alle streghe” – come l’ha definita Alessandra Kersevan – nei confronti dei pochi che non si allineano alla canea revisionista e revanscista.

 Giorno del ricordo 2019

Quest’anno, le urla di Antonio Tajani per “Istria e Dalmazia italiane” hanno causato un nuovo incidente diplomatico con Slovenia e Croazia  Alla trasmissione in prima serata televisiva del film di propaganda fascista “Red Land / Rosso Istria” non hanno fatto seguito formali proteste da parte di alcuno, così come non ci sono state reazioni importanti alle affermazioni deliranti di Salvini su “i bimbi delle foibe e i bimbi di Auschwitz”. Alle invettive di Mattarella, che non è uno storico, contro gli storici da lui definiti “negazionisti”, ha fatto eco il presidente della Regione FVG secondo il quale tale “negazionismo è lo stadio supremo del genocidio“.

Dopo che alla Commissione Cultura della Camera è passata una nuova Risoluzione che nega nelle scuole la facoltà di parola agli antifascisti in tema di Confine Orientale, gli squadristi di Blocco Studentesco hanno diligentemente applicato il provvedimento interrompendo, due giorni fa, una conferenza dell’ANPI all’Istituto Giordano Bruno di Roma. Per non parlare dei divieti di utilizzo delle sale comunali e pubbliche per le nostre iniziative, divieti che ogni anno abbiamo subito ma che sono oramai divenuti sistematici.

Ecco dunque sotto agli occhi di tutti le conseguenze ultime della istituzione del Giorno del Ricordo; conseguenze “gravissime” e non semplicemente “gravi” come le ha definite un paio di anni fa lo storico moderato, di area democristiana, Raoul Pupo. Noi andiamo lamentando tale gravità sin dall’inizio, cioè dal 2004 – anno di promulgazione della Legge istitutiva. In effetti la propaganda su “foibe” ed “esodo” era stata scatenata a livello di massa già prima, dalla metà degli anni Novanta, sulla base di molte menzogne e di lenti di ingrandimento ad hoc che fanno apparire come abnormi fatti sostanzialmente assimilabili a quelli accaduti ovunque durante la Seconda Guerra Mondiale. 

Inizialmente poteva sembrare che tale propaganda fosse solo la vendetta morale di chi avendo perso la guerra voleva adesso una rivincita dal punto di vista del giudizio storico; certamente, questa propaganda è anche la modalità specifica italiana di partecipare a quella riscrittura della Storia, che è in corso in Europa, dalla Croazia all’Ucraina alla Polonia, ovunque la politica abbia bisogno di un puntello ideologico alla operazione di inversione degli esiti della Seconda Guerra Mondiale.

Tuttavia, la vera e propria escalation cui assistiamo di anno in anno, e la crescita degli investimenti in risorse finanziarie e di altro tipo, soprattutto da quando è stato istituito il Giorno del Ricordo, non sono spiegabili se non riferendosi ad interessi molto concreti e strutturali. 

Dove vogliono andare a parare

Il noto massone Augusto Sinagra, legale di fiducia di Licio Gelli ed avvocato dell’accusa nel “processo foibe” che fallì ignominiosamente negli anni Novanta, all’epoca dichiarò che “il disfacimento della Jugoslavia” riapriva “per l’Italia prospettive un tempo impensabili, per dare concretezza all’irrinunciabile speranza di riportare il Tricolore nelle terre strappate alla Patria dal diktat [cioè dal Trattato di pace] e dal trattato di Osimo”.

Negli anni successivi, l’integrazione di Slovenia e Croazia nella UE ha reso ardua, almeno per la fase attuale, tale prospettiva neo-irredentista, cioè di vero e proprio cambiamento dei confini. Ciononostante rimane un interesse geo-strategico ad esercitare pressioni ai danni dei nuovi piccoli Stati balcanici, sorti dallo squartamento della Jugoslavia, i quali non possono efficacemente difendersi né dalle campagne propagandistiche – essendo stati essi stessi fondati sulla diffamazione dell’esperienza jugoslava – né tantomeno dalle mire neocoloniali dei paesi limitrofi. In particolare, si punta tuttora:

1) a rinfocolare la vertenza sui cosiddetti “beni abbandonati” dagli esuli, mettendo in discussione il Trattato di Osimo e la soluzione già molto favorevole all’Italia che era stata concordata allora;

2) ad agevolare una più generale penetrazione economica sulla costa adriatica, aumentando l’influenza geopolitica italiana in quello scacchiere.

Queste sono le chiavi di lettura materiali, alle quali nessuno fa mai riferimento, ma che invece dovrebbero incardinare il nostro discorso critico ogni volta che si scatena la propaganda sul Confine Orientale.

Noi possiamo organizzare infatti 100mila iniziative su questo o su quell’aspetto specifico riguardante il Confine Orientale, sui crimini italiani o sui falsi delle foibe, ma se non sintetizziamo una analisi critica complessiva sul perché lo Stato italiano da una ventina d’anni abbia investito tanti milioni di euro per una narrazione anti-fattuale su questi temi, non andremo mai al cuore del problema. 

Come intervenire

Dico questo perché, rispetto alla feroce offensiva in atto, esistono tra gli antifascisti strategie diverse, idee diverse sulle priorità, cioè su cosa sia più importante fare o evidenziare. Qualcuno dice: dobbiamo ricordare e celebrare il carattere internazionalista di quella Resistenza. 

Si tratta allora di ricordare i 40mila partigiani italiani inquadrati nell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, oppure di rievocare anche la storia simmetrica, quella degli antifascisti jugoslavi dapprima internati nei tanti campi di concentramento italiani e poi operanti nella Resistenza sul nostro Appennino, vicenda cui noi ci stiamo dedicando da qualche anno.

Qualcun altro dice che si deve piuttosto parlare dei crimini italiani, cioè del contesto di occupazione militare e di prevaricazione nazionale da parte del nazifascismo.

Altri ancora ritengono che sia prioritario entrare nel merito della questione “foibe” con ricerche di carattere storico e statistico che sbugiardano le esagerazioni della vulgata. Ecco allora, ad esempio, il nuovo ottimo libro di Claudia Cernigoi “Operazione Plutone”.

In effetti, di iniziative controcorrente importanti, anche dirompenti e di alto livello, ne sono state organizzate molte fino ad oggi. Su questi temi hanno lavorato egregiamente i ricercatori del gruppo Resistenza Storica formatosi attorno alla editrice KappaVu. Esistono comitati antifascisti, come quello di Parma, che ogni anno promuovono iniziative pubbliche di controinformazione nel Giorno dei Ricordo. Sono state iniziate campagne, come quella su “Magazzino 18” di Simone Cristicchi, che hanno fortemente disturbato i manovratori in alcuni frangenti. Abbiamo creato siti internet come Diecifebbraio.info dove si può trovare tutta la documentazione rilevante su questi temi, per contrastare la propaganda dominante.

Ogni approccio ovviamente va bene: ogni iniziativa è opportuna soprattutto se accresce la conoscenza e se permette di rifuggire dalla sterile dimensione dello scambio di insulti via Facebook. Tuttavia non basta! Non basta, perché il problema principale che dobbiamo affrontare quando arriva il Giorno del Ricordo è proprio… il Giorno del Ricordo! Cioè questa ricorrenza che è stata introdotta per legge nel calendario civile, con il suo significato e le sue conseguenze.

L’Anpi e il “giorno del ricordo”

Per spiegarmi faccio l’esempio della posizione ufficiale dell’ANPI, che appare mirata a “limitare il danno” derivante dalla istituzione del Giorno del Ricordo. All’origine l’ANPI non espresse una contrarietà netta, evidentemente risentendo dell’influenza del Partito Democratico i cui esponenti avevano partecipato al processo istitutivo (sin dall’incontro Fini-Violante a Trieste nel 1998) fino ad approvare il testo della Legge n.92/2004 contentandosi del fatto che esso contiene un accenno alla contestualizzazione nella “più complessa vicenda del confine orientale”.

Perciò, già nel primo decennio della Legge le sezioni ANPI sono andate in ordine sparso, talvolta promuovendo iniziative fortemente critiche, talaltra partecipando a incontri con esponenti dell’associazionismo revanscista istriano-dalmata nella logica della “memoria condivisa”. 

Quest’ultimo spirito è quello che sottende anche alla “pacificazione” promossa in Friuli attorno alla questione di Porzûs, per cui reduci partigiani garibaldini si sono incontrati con reduci combattenti “osovani”.

Solo nel 2015, a seguito dello scandalo scoppiato sul caso del repubblichino Paride Mori e quindi alla scoperta di centinaia di riconoscimenti assegnati a caduti che “facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia” – riconoscimenti di cui ci dirà in dettaglio Sandi Volk – l’ANPI ha chiesto di sospendere gli effetti della Legge sul Giorno del Ricordo. 

Viceversa, però, i termini per i suddetti riconoscimenti sono stati prorogati per ulteriori 10 anni: di qui nel 2016 una lettera dell’allora presidente nazionale ANPI Carlo Smuraglia con richiesta di chiarimenti, in particolare, agli esponenti PD Del Rio e Serracchiani, lettera cui non è stata data alcuna risposta pubblica.

A dicembre 2016 il Comitato Nazionale ANPI approvava il documento “Il confine italo-sloveno. Analisi e riflessioni”, sintesi di un seminario interno, nel quale però non si affronta la questione dei “premiati” né si contesta l’istituzione del Giorno del Ricordo.

Nel 2018 la neo-presidente nazionale Carla Nespolo salutava il convegno di Torino “Giorno del Ricordo. Un bilancio”, oggetto di un attacco politico-giornalistico e del divieto di celebrazione in una sala comunale. Tuttavia nel 2019, con una svolta di 180°, la stessa Carla Nespolo ha criticato come “non condivisibile” il convegno di Parma “Foibe e Fascismo”, quattordicesimo di una serie che per lunghi anni aveva sempre avuto la partecipazione dell’ANPI. 

Allarme rosso per l’Anpi

Con questa presa di posizione della Nespolo parrebbe iniziare una fase di aperto distanziamento dell’ANPI dalle ricerche storiche che su questi temi hanno realizzato in particolare il gruppo di ricercatori indipendenti di Resistenza Storica e Diecifebbraio.info. Questo è ovviamente molto inquietante, ma a ben vedere è difficilmente evitabile se si assume la premessa dell’avversario, cioè che, a prescindere da ogni ricerca scientifica nel merito e da ogni distinguo sulla moralità della Resistenza, le “foibe” sono comunque state “una tragedia nazionale” – espressione che quest’anno abbiamo sentito usare identica da due persone: Carla Nespolo e Sergio Mattarella.

Io stesso sono un iscritto all’ANPI e credo che l’attività che svolge l’ANPI sia lodevole e preziosa e vada tutelata. Perciò in questa sede lancio un segnale d’allarme alle istanze dell’ANPI a tutti i livelli, dagli iscritti ai dirigenti nazionali passando per le tantissime sezioni: guardate che l’istituzione del Giorno del Ricordo ha messo l’ANPI e l’antifascismo italiano in una trappola mortale. 

Se si accetta che esista per lo Stato italiano una celebrazione per i cosiddetti “infoibati” quando non ne esistono di analoghe non dico per le vittime dei bombardamenti angloamericani, ma nemmeno per le vittime delle grandi stragi nazifasciste, da Marzabotto a Sant’Agata sulla Majella passando per le Fosse Ardeatine, allora possiamo chiudere baracca e burattini. Istituendo il Giorno del Ricordo è stata aperta la falla che farà affondare la nave. Inoltre, non contestare le conseguenze della Legge – cioè l’attribuzione di riconoscimenti di Stato a centinaia di fascisti e collaborazionisti del nazismo –, non chiedere la sospensione degli effetti della Legge, significa lasciare aperto il varco dal quale stanno scappando tutti i buoi.

Non ci si può allora lamentare se agli antifascisti viene negata la parola nelle scuole.

Squadrismo storiografico e dissidenza

Ho già menzionato il convegno “Giorno del Ricordo. Un bilancio” che abbiamo organizzato a Torino un anno fa. Con esso volevamo mettere a fuoco le conseguenze devastanti della istituzione di questa ricorrenza. Il convegno è stato ovviamente ostacolato dal solito tandem politico-giornalistico, al punto che abbiamo dovuto presentare una denuncia penale per diffamazione contro la giornalista Lucia Bellaspiga, organica alla lobby degli esuli, denuncia della quale ancora aspettiamo l’esito. 

Ciononostante, quel convegno si è tenuto, con grande clamore e partecipazione di pubblico. Eppure non possiamo dirci soddisfatti del suo esito. Non siamo soddisfatti perché i quesiti fondamentali e le necessità che il progetto del convegno voleva evidenziare sono stati scarsamente compresi e valorizzati anche da chi era in quel progetto assieme a noi. L’obiettivo, che avremmo dovuto coronare con la pubblicazione degli Atti del convegno, era quello di dare a questi temi una nuova dignità pubblicistica, uscendo dal solito giro dei “fissati” delle questioni del Confine Orientale. 

Come ho già detto, in passato sono state fatte tante iniziative, libri ed anche convegni, e di ottimo livello, su “foibe ed esodo”; ma nonostante la gravità di quanto accaduto con l’istituzione del Giorno del Ricordo siamo oggettivamente intrappolati in una dimensione autoreferenziale, per cui la polemica è troppo spesso condotta con toni e strumenti più consoni alla lite di condominio che non alla storiografia o all’analisi delle relazioni internazionali.

Una delle poche strade forse ancora percorribili per il necessario salto di qualità poteva allora essere la presa di responsabilità da parte di un pezzo di mondo scientifico-accademico, che avrebbe dovuto rendere “oggetto scientifico” ad es. il dato di fatto che il numero degli “infoibati” onorati dallo Stato italiano è prossimo a trecentocinquanta, e tra questi la maggiorparte sono nazifascisti e loro collaboratori, mentre degli altri nemmeno uno è vittima di “pulizia etnica titina” – come spiegherà Sandi nel seguito. 

Però tale assunzione di responsabilità non c’è stata, e così noi rimaniamo confinati nel solito angolino di protesta minoritaria, con le solite coazioni a ripetere tipiche dei minuscoli ambienti della dissidenza nelle società totalitarie – per usare due categorie, quelle di “dissidenza” e “totalitarismo”, che a me non piacciono ma che dovrebbero far riflettere chi è abituato ad usarle.

Quanto ci costa

Per concludere voglio dunque richiamare i temi di quel convegno di Torino, elencando le voci di tale necessario “bilancio” di 15 anni di esistenza del “Giorno del Ricordo”.

Innanzitutto, quanto ci è costato il Giorno del Ricordo finanziariamente? Quanto incide sulle tasche dei contribuenti?

Per rispondere dovremmo innanzitutto andare a vedere le spese per le realizzazioni in termini di Monumenti e di Toponomastica.Poi fare la somma dei costi delle Cerimonie di Stato, o organizzate da Enti Locali a tutti i livelli, o da enti terzi (non esclusi gli Istituti di Storia).

Si dovrebbero quantificare i costi delle produzioni di telefilm (come il “Cuore nel Pozzo”), film (come “Red Land”), o spettacoli come quelli di Cristicchi.Nota bene: Renzo Codarin presidente della ANVGD ha affermato che per «Red Land» hanno «compiuto un enorme sforzo economico» e nemmeno con i fondi del Giorno per Ricordo bensì con quelli «della legge dello Stato 72 del 2001 che finanzia le attività che noi svolgiamo per divulgare la nostra storia.»Quantifichiamole allora tutte, le elargizioni alle singole associazioni degli «esuli» ed alla loro Federazione. 

Ricordiamoci che già nel 2010 la trasmissione Report di RAI3 aveva sollevato lo scandalo dei milioni di euro elargiti ogni anno all’associazionismo revanscista in virtù della Legge istitutiva del Giorno del Ricordo. Ed oltre alle elargizioni in denaro, ricordiamo le cessioni di beni immobili, come ad esempio qui a Roma, a S. Giorgio al Velabro.E che dire dei finanziamenti mirati agli ISMLI, alle Deputazioni di Storia Patria, alle Università, per orientare le attività di ricerca e celebrative?
 E quanto sono costate le iniziative «didattiche» del MIUR, i corsi di formazione annuali, i viaggi degli studenti a Basovizza?

Parlando dunque delle scuole, veniamo a quanto ci è costato il Giorno del Ricordo dal punto di vista culturale.

Parliamo della aperta violazione della libertà di insegnamento, prevista dall’Art.33 della Costituzione, esemplificata dalla azione squadristica di ieri all’Istituto Giordano Bruno di Roma. I provvedimenti di censura derivano direttamente dalle Risoluzioni votate all’unanimità dalle Commissioni Cultura del Parlamento e non colpiscono più solamente gli storici non-allineati ed i ricercatori più coraggiosi, ma anche direttamente l’ANPI; e la teppa di Blocco Studentesco, Casapound, Forza Nuova ed affini possono presentarsi come i più consequenziali garanti del “nuovo ordine” storiografico. Veti e censure sono operanti da anni, specialmente con il diniego sistematico di sale comunali per le iniziative.

Ma la involuzione culturale la misuriamo anche nelle intitolazioni (toponomastica, sale pubbliche, ecc.) in onore di personaggi compromessi con il nazifascismo. E poi, nel dilagare del revisionismo storico in TV, al cinema, al teatro, su giornali e riviste.Ci viene infine alienato il vocabolario: i termini «negazionisti», «giustificazionisti», «revisionisti», «pulizia etnica», «sterminio» non riguardano più necessariamente fatti e colpe del nazifascismo.

Il danno arrecato dalla istituzione del Giorno del Ricordo è quindi per la cultura di massa, ma è anche per il mondo scientifico e accademico, dal quale, già l’ho accennato, l’antifascismo è progressivamente marginalizzato. D’altronde, in questo scontiamo anche il declino verticale e generale del comparto della conoscenza e della funzione intellettuale, che ha altre cause sulle quali non posso soffermarmi qui. 

In ogni caso, la conseguenza è che non esiste un ambito di validazione scientifica per le ricerche di Claudia Cernigoi o di Sandi Volk, cioè: si può fare un enorme lavoro per pubblicare un libro che “scandaglia” la foiba Plutone ma i risultati di queste ricerche non sono materia di studio né di successivo sviluppo in alcuna Università o Istituto di Storia. Il dirottamento delle disponibilità accademiche (fondi, persone) è totale. Chi non si allinea è espulso dagli ambienti della ricerca, come è successo in prima persona a Sandi, licenziato dal posto di lavoro.
 In tale maniera viene garantito il controllo di Stato sulla scrittura della Storia.

Vediamo infine cosa comporta l’esistenza del Giorno del Ricordo sul piano della politica.

La retorica su questi temi ha accompagnato il processo di equiparazione fascismo-antifascismo, o “memoria condivisa”, su cui si fondano la “Seconda” e “Terza” Repubblica.

Questa retorica è un formidabile piede di porco per lo svuotamento del dettato costituzionale.

Un’altra conseguenza è l’arretramento dell’ANPI e dell’associazionismo antifascista, arretramento che arriva dopo quello della sinistra “radicale” e dopo il vero e proprio tradimento della sinistra “storica”. La non comprensione dei processi storici al Confine Orientale complica inoltre la già difficile opera di chiarificazione sulle questioni jugoslave attuali. 

Assistiamo ad una paradossale diffamazione della esperienza della RFS di Jugoslavia, multietnica e internazionalista, accusata di essere il contrario di quello che era. Ovviamente anche questo fa il gioco di chi ha voluto la divisione e la guerra tra i nostri vicini.

Per concludere: qual è quindi il problema del Giorno del Ricordo? Sono i numeri delle foibe? Il fatto che non si parla dei crimini italiani? Il fatto che si offendono anche i partigiani italiani? Certamente anche tutto questo, ma soprattutto il problema del Giorno del Ricordo è l’esistenza stessa del Giorno del Ricordo. Di fronte a ciò, le

Cose da esigere, in ordine di urgenza

sono le seguenti:

– Rilanciare la proposta avanzata dalla segreteria nazionale ANPI nel 2015 di sospensione degli effetti della Legge n.92/2004 spec. per quanto riguarda l’attribuzione delle onorificenze, e di un riesame di quelle finora attribuite. I materiali istruttori della Commissione che se ne è occupata devono essere resi pubblici.

– Operare per la abrogazione della Legge oppure, in subordine, trasformare il 10 Febbraio da giornata della recriminazione in giornata dell’amicizia tra i popoli che abitano le due sponde dell’Adriatico (questo può essere tentato con una proposta di revisione della Legge).

– Al MIUR vanno ribadite le richieste di cui alla Lettera Aperta firmata il 10/2/2017 da numerose personalità antifasciste (inclusa la stessa Carla Nespolo) ad evitare ulteriori derive della didattica in senso revisionista, revanscista, anticostituzionale.

– Effettuare un bilancio complessivo dei finanziamenti pubblici che da 15 anni a questa parte sono andati a iniziative di ogni tipo su questi temi.

– Riesaminare le modifiche alla toponomastica introdotte negli ultimi anni, con due finalità:

(1) scongiurare che siano celebrati personaggi non degni (criminali di guerra, militanti fascisti); 

(2) eliminare le intitolazioni ai “martiri delle foibe” laddove introdotte, poiché trattasi di allocuzione letteralmente “fuori legge” in quanto l’espressione “martiri” non appare in alcun punto della stessa Legge 92/2004.