mercoledì 30 settembre 2020

IL GOVERNO SUCCUBE DI CONFINDUSTRIA

Il raduno di Confindustria di ieri aperto al governo ha fatto capire senza troppi giri di parole che l'attuale esecutivo(come quelli passati)sono prostrati e a completa disposizione del sindacato dei capitalisti.
Tutti i ministri che ieri hanno parlato dal palco,compreso il premier Conte,hanno ricevuto generosi applausi dalla platea,segno che per i lavoratori il futuro già alquanto compromesso per la somma delle crisi,sarà sempre peggiore(senza dimenticare che Confindustria in molte regione soprattutto la Lombardia premette per fare lavorare e ammalare di Covid-19 migliaia di persone a inizio pandemia).
Si è parlato pure dei prossimi interventi statali nel privato che foraggeranno sempre maggiormente le imprese che poi avranno la libertà di poter licenziare ugualmente e di fare affari milionari con i soldi pubblici.
Nell'articolo di Contropiano(confindustria-punta-alla-cassa )le nubi nere che sia addensano sulle teste di milioni di lavoratori che già da novembre potranno venire licenziati per giusta causa in quanto la cassa integrazione verrà disincentivata e quindi gli industriali avranno mano libera al taglio degli operai.
Un altro atto di prepotenza da parte di Bonomi(madn carlo-bonomiil-volto-nuovo-di confindustria )che sin dal primo istante del suo insediamento in pieno periodo di chiusura ha premuto sull'acceleratore per spianare tutti i diritti della classe operaia sempre più alle strette e sempre meno consapevole del triste destino che l'attende.

Confindustria punta alla Cassa.

di  Coniare Rivolta*

Ed eccoci all’ennesima puntata della crociata contro il mondo del lavoro. Se qualche giorno fa le bellicose intenzioni contro i lavoratori erano emerse dalle parole del Presidente di Confindustria Carlo Bonomi, ora è il turno del Ministro Gualtieri che ci mostra la posizione di questo Governo riguardo al mercato del lavoro e agli ammortizzatori sociali.

La sostanza del discorso di Bonomi era, nella sua semplicità, una vera e propria dichiarazione di guerra, riassumibile pressappoco così: gli ammortizzatori sociali, ossia tutto quell’insieme di misure di sostegno al reddito per coloro che si trovano in una condizione di disoccupazione, sono ancora troppo legati all’idea della conservazione del posto di lavoro. Occorrerebbe quindi passare a un sistema che abbia l’obiettivo di permettere all’azienda di sbarazzarsi con maggiore facilità dei lavoratori ritenuti non più necessari.

Il lavoratore che perde il lavoro, dunque, nella proposta di Confindustria, dovrà rimettersi sul mercato del lavoro e, magari, formarsi per ridiventare utile al sistema produttivo.

Proprio a questa filosofia sembra ispirarsi il Ministro dell’Economia Gualtieri nelle sue recenti dichiarazioni. Ma per capirne il significato riavvolgiamo il nastro e partiamo dalla realtà attuale degli ammortizzatori sociali in Italia. Durante il lockdown, con il ‘decreto Cura Italia’ e il ‘decreto Rilancio’, il Governo aveva esteso sostanzialmente a tutte le aziende la possibilità di far ricorso ai trattamenti di integrazione salariale, la cosiddetta cassa integrazione normalmente limitata a determinati settori produttivi e ad aziende con più di 15 dipendenti.

Ricordiamo che la cassa integrazione è quell’istituto consistente in un’erogazione di denaro da parte dell’INPS in caso di crisi aziendali sostitutiva dello stipendio, e che consente di mantenere il posto di lavoro fino a ripresa ordinaria dell’attività produttiva. Accanto all’estensione della cassa integrazione, era stato poi introdotto il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. In questo modo si perveniva a una sorta di accordo: non licenziate i lavoratori e il Governo vi sosterrà aiutandovi a pagare gli stipendi.

Con il recente ‘decreto agosto’, però, le cose cambiano profondamente. Da un lato, la scadenza del divieto di procedere al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo viene resa, in un certo senso, mobile. Con il ‘decreto Rilancio’ di maggio, infatti, il divieto di licenziamento era valido fino alla data del 17 agosto 2020.

Con il nuovo decreto, invece, viene stabilita la regola che sarà impossibile procedere a questo tipo di licenziamento fino all’esaurimento delle diciotto settimane di cassa integrazione previste dalla legislazione vigente. Ciò implica che nel mese di novembre 2020 il divieto di licenziamento comunque cesserà definitivamente per tutte le imprese.

Nel decreto di agosto viene introdotta, inoltre, una clausola per la quale le aziende che vorranno accedere alla cassa integrazione (per un periodo ulteriore rispetto alle prime nove settimane) dovranno pagare una contribuzione aggiuntiva.

Tale contribuzione sarà pari al 9% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate, per quelle aziende che abbiano fatto registrare riduzioni di fatturato, nel periodo gennaio-giugno 2020 rispetto allo stesso semestre del 2019, inferiori al 20%. Per le aziende che, invece, non hanno subito alcuna riduzione di fatturato, la contribuzione aggiuntiva è pari al 18%.

A questo punto ci si potrebbe interrogare sul perché di questi paletti alla cassa integrazione. Trovare una risposta, purtroppo, è facile: senza denari non si cantano messe. E, a dispetto delle fanfare con cui sono stati accolti gli strumenti europei del Recovery Fund e del SURE, il prestito destinato proprio a finanziare la cassa integrazione, è evidente che questi ultimi costituiscono strumenti del tutto insufficienti a sostenere le economie dei Paesi così profondamente colpiti dalle conseguenze della pandemia. Insufficienti e legati a pesanti condizionalità riassumibili con la solita solfa: austerità e riforme a favore del capitale. Ed ecco che per finanziare gli interventi di integrazione salariale è necessario trovare risorse aggiuntive.

Ma questa novità ha dato una bella idea all’attuale compagine di Governo: perché non sfruttare l’occasione per rendere sistematica la contribuzione aggiuntiva per poter usufruire della cassa integrazione? E allora ecco la proposta di Gualtieri: “stop alla cassa integrazione generalizzata e gratuita per tutti come durante il lockdown”. Dal 2021 si paga. E, per quel che riguarda una più generalizzata riforma degli ammortizzatori sociali, l’obiettivo è quello di investire sulle “deficitarie politiche attive del lavoro”.

In altri termini, dopo aver messo sostanzialmente la parola fine sul blocco dei licenziamenti con il ‘decreto agosto’, Gualtieri si impegna a realizzare la seconda parte della lista dei desideri di Confindustria: disincentivo a utilizzare la cassa integrazione e maggiori risorse dedicate alle politiche attive.

Se è vero che il disincentivo all’uso della cassa integrazione sarebbe legato a un contributo a carico delle imprese, e questo in qualche modo sposterebbe in piccola parte l’onere dell’istituto dalla collettività al capitale, allo stesso tempo è evidente che le imprese non avendo alcun obbligo di far ricorso alla cassa integrazione in caso di crisi aziendale e potendo ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sarebbero incentivate a sbarazzarsi della forza lavoro in eccedenza puntando poi, nella fasi di ripresa, a riassunzioni molto convenienti di altri lavoratori formati a spese della collettività tramite le promesse politiche attive del lavoro.

A differenza della cassa integrazione, queste politiche non comportano la continuità del rapporto di lavoro e, anzi, servono a fornire ai lavoratori una formazione in funzione delle necessità delle imprese senza alcuna garanzia occupazionale, lasciando così all’impresa un enorme margine di flessibilità nella determinazione dei livelli occupazionali di periodo in periodo.

E così, mentre si piccona, pietra dopo pietra, il sistema degli ammortizzatori sociali disincentivandone l’uso e favorendo di fatto il ricorso ai licenziamenti, ci si lega a un futuro di ulteriore austerità e di maggiore precarietà del posto di lavoro. Il tutto con l’obiettivo di rendere i lavoratori sempre più ricattabili e scaricare su di loro il peso dell’incertezza derivante dalle conseguenze della crisi economica in atto.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

martedì 29 settembre 2020

IL CONFLITTO ARMENO-AZERO

Il Caucaso non riesce ad avere pace e la riprova sono le scintille che stanno via via scatenando un nuovo inferno tra le due repubbliche ex sovietiche dell'Armenia e dell'Azerbaijan che già frequentemente nei decenni passati(ancor prima nel periodo antecedente il primo conflitto mondiale)si erano fatti guerra spietata.
L'articolo di Infoaut(cosa-sta-succedendo-tra-l-armenia-e-l-azerbaigian )parla dei nuovi scontri che hanno già provocato vittime nel territorio del Nagorno-Karanakh che è in territorio azero ma abitato in maggioranza da armeni che dal 1991 stanno rivendicando e combattendo per l'annessione all'Armenia.
Uno scenario che vede sempre una divisione di popoli in confini diversi e che da sempre,assieme agli immancabili interessi economici,sono i motivi principali di qualunque conflitto in qualsiasi contesto e periodo storico.
Con la Turchia da sempre alleata con l'Azerbaijan diventato negli ultimi anni un paese ricco con una capitale che ha cambiato volto grazie ai proventi delle risorse di gas naturale,di cui pure l'Armenia è ricca ma ci sono anche dei contrasti sui gasdotti che passano nella zona e che le nazioni alleate(gli armeni invece proprio in chiave anti-turca sono vicini alla Russia e all'Iran)vorrebbero controllare a proprio piacimento.

Cosa sta succedendo tra l'Armenia e l'Azerbaigian? 

La notte scorsa è esploso nuovamente il conflitto sul Nagorno-Karabakh che vede contrapporsi dal 1991 Armenia e Azerbaigian. Un conflitto che viene da lontano e che ha già fatto più di trentamila morti, con diverse schermaglie nel passato recente, ma che oggi assume un'intensità inedita almeno dalla guerra degli anni 90.

Ma da dove viene questo conflitto?

Il Nagorno-Karabakh è una regione a maggioranza armena che, insieme al Naxçıvan, fu al centro di una sostanziale contesa tra Armenia e Azerbaigian già all'alba dell'Unione Sovietica. Se inizialmente la disputa sulla frontiera tra i due paesi sembrava risolversi in favore dell'Armenia, nel 1921 un trattato tra Turchia e URSS, nella persona di Stalin, concesse definitivamente questi territori all'Azerbaigian. Da allora le due regioni contese, seppur con una significativa autonomia amministrativa, rimasero sotto controllo azero. Almeno fino alla fine della pax sovietica. Con il crollo dell'URSS infatti riemerse immediatamente questo conflitto sopito. Lamentando l'azerificazione forzata della regione operata da Baku, la locale popolazione armena, con il supporto ideologico e materiale dell'Armenia stessa, cominciò a mobilitarsi per riunire la regione alle madrepatria.

Nel settembre 1991 il soviet locale dichiarò la nascita di una nuova repubblica. Seguirono un referendum ed elezioni, ma nel gennaio dell'anno seguente vi fu una dura reazione militare azera che portò a una guerra devastante per la regione e senza termine. Infatti la guerra si interruppe nel 1993 con un cessate il fuoco mediato dal Gruppo di Minsk, ma nessun trattato di pace è stato firmato fino ad ora. Il Nagorno-Karabakh continuò ad essere formalmente parte dell'Azerbaigian, ma di fatto è in gran parte sotto il controllo della Repubblica dell'Artsakh, Stato a riconoscimento limitato nato dopo la dichiarazione d'indipendenza del 1991 e sotto l'influenza dell'Armenia. Da allora ciclicamente il confine è luogo di tensioni e schermaglie tra l'esercito dell'Azerbaigian e quello della Repubblica supportato dagli Armeni.

Come mai è riemerso proprio adesso?

Difficile fare delle ipotesi compiute, certamente però l'area del Caucaso è una zona di contesa strategica tra potenze tanto regionali quanto mondiali. L'Azerbaigian è tradizionalmente legata alla Turchia, mentre l'Armenia è alleata alla Russia e all'Iran proprio in funzione anti-turca (in questo senso è necessario ricordare il genocidio degli armeni operato dall'Impero Ottomano nel 1915 che ha causato 1,5 milioni di morti e che non è stato mai riconosciuto dalla Turchia). Oltre alle questioni di carattere storico nell'area sussistono tensioni di carattere economico legate ai cosiddetti Corridoi del Gas. L'Azerbaigian ad esempio è la fornitrice del gas estratto nel Mar Caspio attraverso piattaforme offshore che dovrebbero rifornire il TAP - TANAP, oltre al Gasdotto Trans-Caspico. Viceversa l'Armenia è rifornita di gas naturale attraverso un impianto di 140 kilometri che la collega all'Iran.

Alcuni sostengono che la ripresa del conflitto dipenderebbe da uno scenario internazionale particolarmente favorevole per l'Azerbaigian: da un lato un sostegno più netto della Turchia, dall'altro la crisi istituzionale dell'OSCE, l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Infatti i rappresentanti dei 57 Stati che compongono l'organismo, nel corso della riunione dello scorso luglio a Vienna non sono riusciti a trovare il consenso sull’estensione dei mandati del Segretario generale e dei vertici dei principali organi dell’organizzazione: il Rappresentante per la libertà dei media, l’Alto commissario per le minoranze nazionali ed il direttore dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani.

Nel frattempo la Turchia ha espresso il suo massimo sostegno all’Azerbaijan e nella giornata di ieri c'è stata una conversazione telefonica tra il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con la controparte armena, Zohrab Mnatsakanyan: Mosca ha chiesto vengano immediatamente fermati i combattimenti.

Mentre i media italiani trattano marginalmente l'ennesimo conflitto esploso ai confini dell'Europa uno scenario a tinte fosche si fa avanti, ancora una volta dettato dagli intrecci tra imperialismi, interessi economici e giochi di potenza, di cui a farne le spese sarà solamente la popolazione e il suo diritto all'autodeterminazione.

venerdì 18 settembre 2020

SULLA RESPONSABILITA' DEI DATORI DI LAVORO

La questione sulla responsabilità del datore di lavoro nel caso di contagio da Covid-19 di un proprio dipendente era stata preventivamente discussa ancora a maggio grazie all'assist di Berlusconi,ai tempi latitante in Costa Azzurra e decisamente imbeccato da Confindustria(vedi:madn berlusconi-invoca-lo-scudo-penale-per gli imprenditori ),mentre in queste ore sulla diatriba intervengono a sostegno dell'ex premier dalla carica virale da macho un fronte allargato che comprendono FdI,Italia viva e la Lega.
Mentre l'Inail ormai da tempo avvalla quello che dice Confindustria,praticamente sarebbe giuridicamente impossibile stabilire se un lavoratore abbia o meno contratto il coronavirus sul posto di lavoro,solamente dal fatto che lo scompenso dei valori economici in campo non permetterebbe una difesa da parte di avvocati per il lavoratore stesso.
Nel redazionale di Contropiano(storie-colonna-infame-renziani-e-salviniani-a-difesa-di-confindustria )una breve considerazione che dev'essere fatta per farci capire che i difensori dei diritti dei lavoratori a parole non lo sono nei fatti,con possibili sanzioni verso gli imprenditori che non adotterebbero misure contro i contagi per gravi inadempienze,mentre su troppi posti di lavoro ormai il distanziamento sociale e la misurazione della temperatura sono ormai ricordi lontani.

Storie da colonna infame. Renziani e salviniani a difesa di Confindustria.

di  Redazione Contropiano   

“In caso di accertamento di infezione da Covid-19 in occasione di lavoro, il datore di lavoro è escluso da ogni responsabilità, civile e penale, anche ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 2087 del Codice civile”. E’ questa la sostanza dell’emendamento che Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Italia Viva presentano al “decreto agosto”  che dovrebbe diventare legge entro il mese prossimo.

Questa “brillante” idea, già accennata ai tempi del piano Colao su forte “suggerimento” di Confindustria, si fa strada oggi tra le fila dell’opposizione e definisce le posizioni del partito di Renzi, in aperta opposizione alle forze di governo.

Se fino ad oggi il governo era riuscito in un qualche modo a frenare questa istanza, rimettendosi a pareri inconcludenti dell’INAIL, oggi, grazie anche alla presa di posizione dei renziani, ci sono tutte le condizioni per cui venga introdotto il principio di deresponsabilizzazione delle imprese nei confronti della gestione della prevenzione al contagio, lasciando i lavoratori privi di ogni garanzia.

L’emendamento, in sostanza, inverte l’approccio alla responsabilità dell’imprenditore, che secondo il codice civile dovrebbe garantire e tutelare “l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, ma che potrebbe invece ora liberare il padronato da ogni responsabilità, fatto salvo il caso di “gravi violazioni” delle norme sulla prevenzione.

Quale sia poi il limite tra la “grave violazione” e la sostanza delle condizioni di lavoro di migliaia di lavoratori, soprattutto nei settori meno tutelati e, guarda caso, più colpiti dal contagio, non è dato sapere.

Il governo Conte si troverà presto quindi di fronte a una scelta politica di campo: cercare di insabbiare la discussione, ricorrendo alla fiducia, o emendare il decreto a favore di Confindustria, come già successo in piena pandemia, quando il braccio Conte-Confindustria si tradusse in una chiusura non-chiusura delle aziende, con tutte le conseguenze che ben ricordiamo sulla diffusione del virus.

Ma al di là della battaglia interna ai partiti dell’imbroglio, che da Lega a M5S al PD collaborano su vari fronti ad un piano antipopolare contro gli interessi della popolazione, il dato che emerge dalla politica di palazzo in questo Paese, è che ancora una volta la salute dei lavoratori e dei cittadini viene messa in ultimo piano rispetto ai privilegi riservati alle classi imprenditoriali.

Bisogna produrre, se crepate non fa niente…

giovedì 17 settembre 2020

PARLANDO DI BLASFEMIA,DEI CANI,PORCI E ALTRI ANIMALI SACRI

In Francia ha avuto inizio in questi giorni il processo per le stragi che hanno visto coinvolte la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo e il supermercato Hyper Cacher dove le vittime in totale furono diciassette,tutte ammazzate per via dell'estremismo islamico legato ad un assurdo fanatismo.

Ma è nel primo attacco avvenuto il 7 gennaio 2015(vedi:madn la-strage-nelle-sede-del-charlie-hebdo )che ha visto come movente astratto e ingiustificabile la blasfemia per una vignetta su Maometto pubblicata dal giornale satirico che il dibattito oltralpe sulla blasfemia sta tornando in auge visto che bestemmiare,criticare i governanti e il Presidente(come ribadito da Macron recentemente)è un diritto figlio della libertà d'espressione.

In Italia invece la blasfemia è stato un reato ormai depenalizzato ma si potrebbe rischiare una sanzione in quanto risulta essere ancora un illecito amministrativo,frutto della palla al piede del Vaticano che come altri altri aspetti socioculturali italiani ha ancora una larga influenza su certi aspetti della vita di tutti i giorni e tutti negativi.

L'articolo(left.it/2020/09/16/ )parla della situazione francese nata appunto a più di cinque anni dopo i fatti sanguinosi di Parigi dove il processo su queste stragi sarà seguitissimo ed anche se gli imputati che hanno ucciso materialmente le vittime sono stati tutti eliminati dalla polizia a margine degli attacchi terroristici vi sono altri idioti fanatici che saranno giudicati per reati legati alla complicità ed al supporto logistico ai vili attacchi oltre che il nuovo confronto sulla blasfemia.

Il processo sulla strage di Charlie Hebdo riapre il dibattito sul diritto alla blasfemia.

Il presidente Macron, poco prima dell’inizio delle udienze a Parigi, ha ribadito che «essere blasfemi» è un diritto. In Italia, invece, oltraggiare la divinità è ancora illegale

Afavore di numerose telecamere, usate dalle autorità francesi per raccogliere materiale che andrà a comporre archivi storici, è iniziato quello che gran parte dei giornali transalpini definiscono come un processo storico. Il 2 settembre si sono aperti i dibattimenti a Parigi per gli attentati contro la sede della rivista satirica Charlie Hebdo e il supermercato kosher Hyper Cacher del 7 gennaio 2015 nella capitale francese. Novanta media si sono accreditati per poter seguire il processo, tra cui ventinove stranieri, che garantiranno all’iter giuridico una risonanza internazionale. A cinque anni dai fatti, l’apertura del processo ha riaperto il dibattito sulla libertà di espressione.

La mattina del 7 gennaio 2015, i fratelli Chérif e Said Kouachi, armati di kalashnikov, si introdussero nella redazione del periodico francese. I due terroristi francesi uccisero dodici persone quella mattina, di cui otto redattori del giornale. La pubblicazione di alcune caricature del profeta Maometto aveva reso il settimanale un bersaglio dei jihadisti. L’8 gennaio, poi, un altro terrorista, Amedy Coulibaly – che era in precedenza entrato in contatto coi fratelli Kouachi – aprì il fuoco contro la polizia francese in strada, e il giorno successivo prese in ostaggio i clienti di un supermercato ebraico, l’Hyper Cacher, a Porte de Vincennes, in una zona ad est di Parigi, uccidendone cinque.

I tre autori delle stragi furono poi uccisi dalle forze speciali di polizia e gendarmeria. Sono loro, dunque, i grandi assenti di questo processo in cui quattordici persone saranno giudicate per diversi motivi: associazione a delinquere terrorista, appoggio logistico e complicità in omicidio terroristico. Un processo difficile. Le immagini e i video della sparatoria sono stati nuovamente proiettati. Sono state poi ascoltate in aula le testimonianze dei sopravvissuti alla strage, che hanno ripercorso quei momenti terribili.

In occasione dell’apertura del processo, Charlie Hebdo ha scelto di ripubblicare i disegni blasfemi, scatenando una forte reazione del mondo musulmano: in Pakistan sono scoppiate alcune manifestazioni di protesta, la Repubblica islamica dell’Iran ha condannato la nuova diffusione delle caricature bollandola come una “provocazione”, il Regno del Marocco ha deciso di vietare la pubblicazione del settimanale. Ma queste contromosse non hanno fermato il giornale. «Perché non ci inginocchieremo mai» ha affermato nel suo editoriale del 2 settembre scorso Laurent Sourisseau detto “Riss”, sopravvissuto della sparatoria e divenuto poi direttore del settimanale satirico.

Il diritto alla blasfemia in Francia esiste sin dalle leggi sulla libertà della stampa del 1881. Zineb El Rhazoui, scrittrice e giornalista di Charlie Hebdo tra il 2011 e il 2017, in un dialogo del 2015 con la direttrice di Left Simona Maggiorelli, chiarì: «Una cosa è criticare un dogma o decostruire una credenza, altra cosa è attaccare la persona. Quando critico anche aspramente l’Islam non voglio colpire le persone che si definiscono musulmane». In questo modo spiegando che il diritto alla blasfemia è la libertà di criticare la religione, e non le persone, i credenti. Al pari di quanto facciamo rispetto alle ideologie politiche, dobbiamo poter criticare e deridere la religione. Si tratta di un diritto indispensabile per permettere a ciascun cittadino di godere di una piena libertà di pensiero. Numerosi Paesi nel mondo, però, non riconoscono il diritto di blasfemia. Come l’Italia, in cui la bestemmia è considerata dall’articolo 724 del Codice penale come un illecito amministrativo: pur essendo stato depenalizzato il reato resta la possibilità di incorrere in una sanzione. A riprova di come l’Italia debba ancora lavorare molto per arrivare a garantire il pieno godimento della libertà di espressione ai propri cittadini.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha recentemente riaffermato l’importanza di questa libertà. Durante una conferenza stampa a Beirut, il primo settembre, ha dichiarato che «in Francia si possono criticare i governanti, un presidente, e si può essere blasfemi». Una libertà che, ha ribadito, è «collegata alla libertà di coscienza». Tuttavia, la società francese negli ultimi anni non sempre l’ha difesa fino in fondo. Ad inizio 2020, un’adolescente francese, Mila, ha dichiarato in una diretta Instagram: «Odio la religione, il Corano è una religione di odio. (…) La vostra religione è della merda». Le sue parole, diventate virali in rete, avevano fatto scoppiare un caso. La ministra della Giustizia francese è intervenuta sulla vicenda, affermando che: «L’offesa alla religione è ovviamente una violazione alla libertà di coscienza». Nonostante la blasfemia sia un diritto in Francia, dunque, la sua effettiva applicazione pare controversa e fragile. Un sondaggio dell’Ifop (Istituto francese dell’opinione pubblica) realizzato quest’anno dimostra che il 50% dei francesi non sono favorevoli al diritto di blasfemia.

In questo contesto, secondo il direttore “Riss” le riedizione delle vignette blasfeme di Charlie Hebdo è un modo per lottare contro «un’ideologia fascista che nutre le viscere della religione». Sul quotidiano francese Le Monde sessantanove personalità, tra cui Elisabeth Badinter, hanno detto “grazie” a Charlie Hebdo per la sua «bellissima lezione di coraggio» nella battaglia per la difesa della libertà di espressione.

mercoledì 16 settembre 2020

AH,BRAMO

Quando di dice che per sconfiggere nemici comuni si è pronti a fare alleanze anche col diavolo ecco che il trattato dal nome evocativo"Abramo"siglato tra Usa,Israele,Bahrein ed Emirati arabi non vale,come racconta il portavoce di Hamas,nemmeno la carta sulla quale è stata scritta.
Paesi arabi che sia alleano con i sionisti israeliani non si era mai visto,e la conquista della Cisgiordania da parte di Netanyahu è solo ritardata e proseguirà con l'appoggio degli Stati arabi e di chiunque nel futuro prossimo aderirà a questo accordo che è l'inizio della fine dello Stato palestinese.
L'articolo di Contropiano(medio-oriente-questa-volta-abramo-ha-ucciso-il-figlio )spiega perché si è arrivati a questo,con un Medio Oriente sempre più stretto dalla morsa tra la Turchia e l'Iran,sempre con un piede e mezzo in guerra e con un'instabilità geopolitica che è l'unica cosa certa in quelle zone grazie alle ingerenze esterne statunitensi e talvolta dell'Ue in appoggio a Israele,laddove le monarchie del petrolio e i dollari che ne derivano regnano.

Medio Oriente. Questa volta Abramo ha ucciso il figlio.

di  Sergio Cararo   

L’hanno chiamato con un nome biblico evocando il padre di tutti i popoli: Abramo. Ma l’evocazione appare del tutto eccessiva, perché gli accordi siglati a Washington tra Israele, Emirati e Bahrein hanno ucciso il figlio che più di altri aveva diritto e necessità di aiuto e protezione: il popolo palestinese.

Inutile dire che per Trump (per il quale qualcuno propone addirittura il Premio Nobel per la Pace,ndr) si tratta una “giornata storica”, che segna “l’alba di un nuovo Medio Oriente” ha detto rivolgendosi all’israeliano, Benjamin Netanyahu, e ai ministri degli Esteri di Emirati e Bahrein, Abdullah bin Zayed Al-Nahyan e Abdullatif al-Zayani, arrivati a Washington per partecipare alla cerimonia.

Israele si è impegnata a sospendere l’annessione dei Territori Palestinesi della Cisgiordania, ma il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha specificato di aver semplicemente deciso di “ritardare” l’annessione come parte dell’accordo con Abu Dhabi.

E mentre alla Casa Bianca si celebravano gli Accordi di Abramo, dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati una quindicina di razzi (ma solo alcuni hanno superato la difesa antimissile israeliana) e sono risuonate le sirene di allarme nelle città israeliane di Ashkelon e Ashdod; ci sono stati due feriti causati dalle schegge. “Gli accordi di normalizzazione tra Bahrein, Emirati e l’entita’ sionista non valgono la carta sulla quale sono scritti”, ha commentato un portavoce di Hamas, subito dopo il lancio dei missili, ribadendo che il popolo palestinese “continuera’ la sua lotta fino a che non avra’ ottenuto tutti i suoi diritti”.

Gli accordi di Abramo sono stati annunciati dalla Casa Bianca con una nota congiunta il 13 agosto come una “svolta diplomatica storica che fara’ avanzare la pace” e al contempo “sblocchera’ il grande potenziale nella regione”. L’obiettivo di Washington e Tel Aviv e’ che ad Abu Dhabi seguano le altre petromonarchie del Golfo, inclusa l’Arabia Saudita che è il vero burattinaio dell’operazione. 

Tra i paesi del Golfo, solo il Qatar e, per ora, il Kuwait tengono le distanze dall’accordo con Israele. Il primo è impegnato in un braccio di ferro a tutto campo con le altre petromonarchie. Il secondo, fino ad adesso, fa sfoggio di coerenza con l’identità nazionale araba.

La decennale rivalità con Iran e le ambizioni della Turchia nella regione, spingono le ricche ma deboli petromonarchie a stringere alleanze ieri impossibili con Israele.

Lo scorso 9 settembre la Lega Araba aveva respinto una bozza di risoluzione presentata dai palestinesi, in cui veniva condannato l’accordo annunciato il 13 agosto, relativo alla normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati Arabi Uniti.

I paesi arabi hanno ribadito il proprio sostegno alla causa palestinese e si sono impegnati a perseguire gli obiettivi stabiliti con l’Iniziativa di Pace araba del 2002, tra cui una soluzione dei due Stati basata sul principio di “una terra per la pace”, senza, però condannare esplicitamente l’accordo Trump, come veniva richiesto dai palestinesi. 

Della Lega Araba fanno parte 22 paesi arabi: Algeria, Bahrein, Comore, Gibuti, Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Kuwait, Yemen, Libano, Libia, Mauritania, Marocco, Oman, Palestina, Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Siria, Tunisia.

In una riunione a Ramallah a cui hanno partecipato tutte le organizzazioni palestinesi, è stato costituito un comitato che guiderà la “resistenza globale” contro l’occupazione israeliana, con l’obiettivo di difendere i diritti legittimi della popolazione palestinese. Per le organizzazioni palestinesi riunitesi a Ramallah, il comportamento di alcuni paesi arabi a favore della normalizzazione con Israele è una “pugnalata alle spalle”.

martedì 15 settembre 2020

IL CARCERE PER DANA

Dopo essere passati più di otto anni dai fatti del marzo 2012 accaduti in Val Susa in uno dei presìdi che ci sono stati dopo gli atti che avvennero da parte della polizia che bruciarono auto dei No Tav,fecero irruzione in locali pubblici oltre che minacciare manifestanti e giornalisti(madn guerriglia-in-val-susa )ecco che la mano lunga repressiva della questura torinese da sempre accanita contro il movimento contro il Tav obbliga a due anni di carcere l'attivista Dana Lauriola.
Le motivazioni che hanno portato a questa decisione stanno nel fatto che Dana non si sia mai dissociata dai compagni No Tav e che si sia rifiutata di andare a vivere lontana dalla Val di Susa dove avrebbe potuto in teoria usufruire dei domiciliari come da lei scritto in una lettera prima di vedere le porte del carcere aprirsi come riportato nel contributo odierno(contropiano accanimento-giudiziario-contro-i-no-tav-dana-dovra-andare-in-carcere ).
Così come la storia di Nicoletta Dosio(madn finale-col-botto-per-i-no-tav )un'altra donna colpita dal regime carcerario per una vicenda di cui i politici si riempiono la bocca solamente quando c'è da riempirsi la pancia,e con i vertici dei pentastellati che cavalcarono l'onda proprio del movimento No Tav per trovare un varco verso una visione più ampia a livello mediatico che se ne stanno mestamente zitti.

Accanimento giudiziario contro i No Tav. Dana va in carcere.

di  Redazione Contropiano

Da giorni si attendeva l’esito della sentenza del tribunale di Torino. I fatti contestati a Dana Lauriola, attivista No Tav, sono la giornata di lotta del 3 marzo 2012. A 8 anni di distanza si concretizza così un altro pezzo di criminalizzazione del movimento No Tav. Dana in particolare, secondo i giudici che così si sono espressi, dovrà scontare 2 anni di carcere. Sono state rifiutate tutte le misure alternative proposte dalla difesa. Una delle motivazioni della sentenza è che Dana non si sarebbe allontanata nè dal movimento No Tav nè dal territorio continuando a vivere in valle a Bussoleno.

Dopo la vicenda della carcerazione di Nicoletta Dosio, attivista di 73 anni e malata di tumore portata in carcere nel dicembre 2019, un nuovo caso di accanimento giudiziario del tribunale di Torino contro il movimento popolare in Val di Susa.

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Qui di seguito la lettera di Dana

Ho la fortuna di potervi salutare tutt* ancora da qui in attesa di essere tradotta in carcere. 

Questa vicenda rivela la vergognosa condotta del tribunale, della Questura e della procura di Torino che hanno lavorato intensamente, in vista della ripresa dei lavori, per eliminare dalla loro strada chi può dare forza al movimento No Tav.

Uno dei motivi per cui vado in carcere, scritto nero su bianco, che non mi sono dissociata dalla lotta No Tav, l’altro che ho continuato a vivere in Valle di Susa. 

Sono tranquilla per tutte le scelte che ho fatto in questi anni, ho amato la valle e la lotta No Tav per oltre 15 anni e continuerò a farlo anche se fisicamente lontana. 

Intanto vi abbraccio, vi farò avere mie notizie. Vi chiedo di continuare la lotta, con tutta la forza e il coraggio che avete. 

A presto compagn*

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Il comunicato della rete universitaria Noi Restiamo

DANA SARÀ PORTATA IN CARCERE: RIFIUTATE TUTTE LE MISURE ALTERNATIVE.

Il tribunale di Torino continua con la sua opera di persecuzione e repressione del movimento #NoTav arrivando a confermare due anni di carcere per Dana.

Dopo l’arresto dei mesi scorsi di Nicoletta e decenni di persecuzione giudiziaria lo Stato italiano prosegue nel tentativo di fermare un movimento popolare che mette in critica le radici di questo modello di sviluppo.

La lotta non si arresta,

Avanti No Tav!

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Il messaggio di Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo).

La Bielorussia è in Val Susa, Dana libera!

Voi governanti ipocriti che sbandierate i diritti umani e la democrazia là ove vi indirizzano affari, strategie militari e potere,

voi che deprecate gli arresti di chi scende in piazza nei paesi che considerate nemici,

voi siete responsabili che in Valle Susa, Piemonte, Italia, una repressione poliziesca e giudiziaria senza precedenti opprima un intero popolo in lotta.

Dana Lauriola è una compagna dell’Askatasuna e una militante NO TAV che andrà in carcere perché le sono stati negati gli arresti domiciliari.

La motivazione da Comma 22 del tribunale di Torino è che Dana non può scontare la pena a casa, perché la sua casa è in Valle Susa e lei non si è dissociata dalla lotta contro l’alta velocità.

Una vergogna da codice Rocco che ora conduce in carcere Dana per le stesse ragioni che vi portarono all’inizio dell’anno Nicoletta Dosio. Dana, Nicoletta e altri dieci militanti NoTAV sono stati condannati a complessivi 18 anni di pena per mezz’ora di presidio al casello dell’autostrada nel marzo 2012.

Un presidio pacifico che ebbe solo l’effetto di far passare gratis il casello alle auto, con un danno complessivo per la società autostradale pari 700 euro; il che vuol dire che per ogni 37 euro di “danno” è stato comminato un anno di carcere.

Questo del resto è il metro di misura con cui il tribunale di Torino e tutti gli apparati dello stato trattano la lotta della Valle Susa, con centinaia e centinaia di persone condannate, sottoposte a regimi di limitazione della libertà e con una occupazione militare del territorio che è giunta a schierare l’esercito.

Il tutto per difendere un’opera devastante, inquinante, costosa e inutile che solo la malafede della classe politica, da Berlusconi a Salvini e a Meloni, da Conte a Zingaretti e a Di Maio, fa andare avanti. Il TAV è solo un danno, ma la classe politica questo danno continua a procurarlo; e siccome ora i lavori ripartono, Dana deve andare in prigione, come rappresaglia e monito verso tutte tutti coloro che lottano.

E che non si fermeranno certo per questo nuovo momento di brutale repressione.

Un grande abbraccio a Dana che entra in carcere, a Nicoletta che è arrestata a casa, al popolo NOTAV che si sentirà ancora più forte per la fermezza ed il coraggio di queste meravigliose compagne. Noi non siamo solo solidali, noi siamo partecipi e complici.

Libertà per Dana, Nicoletta per tutte e tutti i NOTAV, facciamoci sentire perché la Bielorussia è in Valle Susa.

lunedì 14 settembre 2020

SCUOLA:L'INCERTEZZA E' L'UNICA CERTEZZA

Una pausa così lunga difficilmente e speriamo in bene il mondo dell'istruzione non l'ha mai vissuta e a distanza di sei mesi ecco che si ricomincia,alcuni l'hanno già fatto ed altri si rimetteranno alla pari nei prossimi giorni ma la data ufficiale dell'inizio dell'anno scolastico 2020-2021 è proprio oggi.
L'incertezza è l'unica certezza viste le difficoltà e le regole che la pandemia impone con la sua emergenza che accompagnerà presumibilmente per tutta la stagione sia quest'anno scolastico e tutte le attività ordinarie della società,con dei presupposti positivi che vengono spiattellati man mano che le scadenze arrivano,in primavera il virus doveva essere sconfitto in estate e arrivati alla fine della stagione si è messo un ulteriore step alla fine del prossimo inverno.
Quindi per quest'anno le regole ci saranno e dovranno essere rispettate nonostante come riportato nell'articolo di Contropiano(il-rientro-a-scuola-fantasie-ministeriali-e-dura-realta )regni un caos che dal Ministero di competenza vogliono far credere comunque controllato per quanto questo ossimoro possa valere:infatti come già detto dall'Azzolina il rischio zero non esiste e su questo giocherà molte delle sue carte nel futuro alla guida della pubblica istruzione,qualunque sia ancora il suo tempo a disposizione.
Dal caso banchi di scuola a quello del numero dei docenti quelli che saranno penalizzati maggiormente resteranno gli studenti,che già rispetto ai loro coetanei europei hanno un'istruzione media peggiore e che con questi rebus sulla presenza o meno in classe(con la didattica a distanza istituzionalizzata da un mese tanto per mettere ulteriormente le mani avanti)la loro situazione non migliorerebbe.
Mentre ancora non si pone l'attenzione sulla privatizzazione scolastica che i vari governi degli ultimi anni hanno favorito e contribuito senza guardare le differenze partitiche,con questa falsa pubblicità di quello attuale che annuncia miliardi di Euro per l'istruzione quando ne servirebbero almeno il doppio(vedi:madn la-scuola-e-linformazione ).

Il rientro a scuola, fantasie ministeriali e dura realtà.

di  Maurizio Disoteo   

Così è arrivato il 14 settembre, la tanto agognata ma anche temuta data di riapertura delle scuole. Questo anche se, in effetti, alcune regioni hanno riaperto le scuole il 7 settembre, e altre lo faranno il 16, il 22 e il 24. 

È vero che il calendario scolastico è di competenza delle regioni, ma forse in questo caso sarebbe stata confortante una data d’inizio unica sul piano nazionale. Ma ciò non è stato possibile perché il Ministero, nella sua ormai conclamata incapacità di gestire la situazione d’emergenza, ha delegato tutto alle diverse competenze autonome, dalle regioni, ai comuni sino alle singole scuole. 

Che la ripresa scolastica sarebbe stata difficile lo si sapeva da mesi e questo avrebbe dato modo al Ministero di preparare il rientro in modo più decente. Al contrario, si sono sprecati questi mesi in chiacchiere, istituendo la “Commissione Bianchi” i cui documenti dormono ormai in qualche polveroso cassetto, immaginando “tavoli regionali” con enti pubblici (e privati) locali, “conferenze di servizio degli enti locali”, tutte miseramente non attuate o fallite. 

Tutte queste trovate sono state accompagnate da una stucchevole demagogia sugli investimenti governativi, presentati come ingenti, quando è evidente che quattro miliardi per la scuola sono al contrario pochi, in una situazione che di emergenza sarebbe anche senza la pandemia, dopo anni di definanziamenti che hanno falcidiato gli organici e ridotto le strutture al lumicino.

Infine, si è organizzata una grottesca messa in scena, sui “banchi monoposto di nuova generazione” annunciando una spesa di due milioni e mezzo di euro per queste costose e inutili attrezzature. 

In rete gira un video di una scuola che ha trasformato i propri banchi doppi in singoli spendendo 34 € al pezzo e soprattutto, si sarebbe potuto adottare la soluzione cubana di far sedere gli alunni in una disposizione non affiancata, senza spendere un soldo, idea peraltro imitata nelle scuole d Bolzano. 

Infine, la compulsione di questo governo nel voler nominare “commissari straordinari” come il commissario tuttologo Arcuri, che invece nulla sa di scuola e che ancora dichiara, di fronte all’evidenza del contrario, che il 14 settembre tutte le scuole avranno mascherine per alunni e docenti. 

Nei continui rimpalli tra ministero, commissioni di esperti e commissari straordinari, si è ignorato il solo provvedimento che avrebbe potuto garantire una ripresa più sicura e anche un miglioramento dell’offerta formativa: l’assunzione in ruolo di un numero adeguato di docenti, a partire dai precari che da anni lavorano nella scuola e che dovranno sostenere, per l’ostinazione della ministra Azzolina. 

Un concorso, ovviamente “meritocratico”, di cui non si conosce ancora la data e che è comunque a rischio a causa delle restrizioni causate dalla pandemia. 

L’assunzione di un numero adeguato di docenti avrebbe potuto garantire la diminuzione del numero degli alunni per classe, passato negli anni gelminiani e post-gelminiani da 25 (20 se in presenza di un disabile) a 30, ma con troppe colpevoli deroghe, che hanno portato ben oltre il numero di allievi per classe. 

Tutto ciò per non scrivere della situazione dell’edilizia scolastica e degli spazi. Il patrimonio edilizio scolastico è vetusto e in situazione di pessima manutenzione, ma vive anche le conseguenze dell’accorpamento degli istituti avvenuto alla fine degli anni novanta. 

Tale accorpamento, anche se in parte giustificato da necessità organizzative che potevano migliorare la didattica, risparmiando risorse e permettendo acquisti più oculati, ha dimenticato questa originaria motivazione producendo in seguito la creazione di istituti sovradimensionati e l’utilizzo di ogni ripostiglio come aula. 

Molte scuole, tra l’altro, per ricavare spazi che forse non si potranno nemmeno utilizzare perché non ci saranno i docenti per gestirli, hanno sacrificato quest’anno i laboratori disciplinari (arte, musica, teatro, fisica, chimica, informatica…) con il rischio concreto di riportare la scuola indietro agli anni cinquanta. 

I continui richiami della ministra alla famigerata autonomia scolastica coprono una realtà preoccupante: le scuole riaprono in totale ordine sparso, adottando soluzioni pedagogiche e sanitarie difformi tra loro, inventate in ciascuna di esse dal dirigente, da qualche collaboratore o dal referente Covid, un malcapitato docente o ATA senza specifiche competenze sanitarie. 

In queste condizioni appaiono ben poco credibili le parole del Presidente del Consiglio che nel suo messaggio al mondo della scuola ha parlato di “carenze strutturali che si trascinano da anni”. 

Questa sarebbe stata un’occasione per cominciare a rimontare la china, invece che giocare allo sport a cui ci hanno abituati i premier degli ultimi decenni, sempre pronti a denunciare le malefatte dei “precedenti governi” ma a non fare nulla per porvi rimedio. 

In realtà, nulla è cambiato nella composizione delle classi che restano le stesse, troppo numerose, dello scorso anno e per le quali gli spazi non sono adeguati. In tale situazione circa il 50% degli istituti secondari si sta orientando a iniziare con la didattica “mista” vale a dire metà classe a scuola e metà a casa dietro lo schermo, alternando il gruppo in presenza ogni settimana. 

Una situazione didatticamente ingestibile che pone anche problemi sindacali, visto che la telecamera in classe non è mai stata accettata dal corpo docente. Altre scuole invece hanno optato per iniziare con poche classi in presenza, in genere le prime e quelle terminali, mentre per le altre si ricorrerà alla didattica a distanza. 

Quest’ultima, peraltro, è stata resa non più emergenziale, ma istituzionale con il decreto e nota ministeriale del 7 agosto, che ha imposto agli istituti di inserire, nel piano dell’offerta formativa, la DDI (Didattica Digitale Integrata), nuova denominazione della Didattica a distanza, che diventa quindi abituale e istituzionalizzata. 

L’istituzionalizzazione della DDI deriva dalla non volontà del Ministero di risolvere i problemi di organico e di spazi della scuola ed è particolarmente grave perché negli ultimi mesi dello scorso anno scolastico si è verificato come la didattica distanza abbia provocato abbandoni, aumento delle disuguaglianze educative e comunque una perdita di qualità per tutti gli studenti. 

Ma tutto ciò al Ministero non sembra interessare, anzi, l’emergenza appare una buona occasione per imporre forme d’insegnamento digitale molto gradite in Viale Trastevere, ma che possono solo portare alla totale disgregazione della scuola pubblica. 

Non è un caso che già qualche istituto stia allineandosi all’”innovazione ministeriale”: un liceo della provincia di Milano, con il pretesto dell’emergenza sanitaria, ha vietato ai suoi studenti di portare a scuola libri, quaderni e penne. 

Ne consegue che non ci sarà nemmeno una biblioteca d’istituto, né libri, dizionari ecc, disponibili nelle aule. 

Gli studenti potranno avere solo un tablet (adattissimo ai banchi-trespolo) con cui fare tutto. Lo sfascio preordinato della scuola pubblica, il passaggio massiccio alla sostituzione della scuola come spazio di educazione critica e relazionale a vantaggio di forme privatizzate, trasmissive e domestiche sembra peraltro in linea con il vecchio progetto del Movimento 5 Stelle, di cui la ministra fa parte, di abolire il valore legale dei titoli di studio. 

Gli insegnanti subiranno conseguenze molto gravi da questa situazione. Non dimentichiamo che gli alunni tornano a scuola dopo mesi di traumi subiti, nel migliore dei casi, dall’interruzione dell’anno scolastico e della loro vita sociale e dalla segregazione e angoscia che la pandemia ha provocato. 

Nel peggiore dei casi porteranno invece con sé il ricordo di sofferenze, invalidità e morte. Anche dover tornare a scuola seguendo misure di sicurezza quali il distanziamento e le mascherine è difficile e traumatico per dei bambini e degli adolescenti. 

Gli insegnanti sono oggi in prima linea come lo è stato il personale sanitario in primavera e dovranno avere sensibilità e capacità pedagogiche e umane che vanno molto oltre il rispetto, già non semplice da attuarsi in condizioni così poco adeguate, delle norme di sicurezza. 

Ma al Ministero sembra che tutto questo non interessi, non abbiamo ascoltato nessuna dichiarazione della ministra su questi problemi, né sono state predisposte iniziative di formazione psicopedagogica, che sono invece incentrate esclusivamente sulla DDI. 

Inoltre, il Ministero si dimostra sordo alle voci degli insegnanti che denunciano l’inadeguatezza delle soluzioni adottate, con un comportamento sprezzante, anche nel momento in cui si mettono in discussione punti importanti del contratto di lavoro e della funzione docente. 

Tra l’altro, a causa della mancata risoluzione del problema del precariato, decine di migliaia d’insegnanti (tra cui molti nel delicato compito del sostegno) saranno, come ogni anno, chiamati a lezioni avviate e mandati in classe nel giro di un’ora, senza avere partecipato alla programmazione d’istituto, fatto abituale, purtroppo, per i supplenti, ma quest’anno decisamente ancor più grave fino all’irresponsabilità 

In questa situazione, i sindacati di base della scuola USB, Unicobas, CUB e Cobas Sardegna hanno indetto due giorni di sciopero per il 24 e 25 settembre. Riportiamo qui sotto una nostra intervista a Lucia Donat Cattin, dirigente dell’USB scuola. 

venerdì 11 settembre 2020

TORRE DEL GRECO SCACCIA SALVINI

Torre del Greco aveva sentenziato già da giorni sulla visita di Salvini nella città campana,tappa di un tour che lo vede girare in una terra dove non più tardi di qualche anno fa sia lui in prima persona che i suoi adepti pregavano affinché il Vesuvio eruttasse spazzando via tutto e tutti.

Ma si sa che la brama di potere ed una faccia di culo come pochi alterino sia la persona che un intero movimento di razzisti fascisti,quindi Roma ed il sud Italia(una volta la linea di demarcazione della "Padania"era il sacro fiume Po)tornano comodissime al progetto politico della Lega che da partito secessionista è diventato nazionalista e sovranista.

Il redazionale di Contropiano(torre-del-greco-costringe-salvini-alla-fuga )parla della contestazione popolare di Torre del Greco che ha costretto Salvini a lasciare il gazebo dove aveva cominciato a farneticare e a disertare la passeggiata elettorale presso il mercato,gente del posto non solo dei centri sociali ma di tutti i tipi e le età.

Successivamente il capitone è scappato con la coda tra le gambe protetto dalla polizia e non sapendo che dire ha tacciato tutti i presenti di essere dei camorristi,fine di questa altra giornata elettorale di un politico in chiaro sconvolgimento esistenziale.

Torre del Greco costringe Salvini alla fuga.

di  Redazione Contropiano  

È durato meno di 5 minuti l’intervento di Matteo Salvini a Torre del Greco nell’ambito del suo tour elettorale in vista delle Regionali del 20 e 21 settembre. 

Fischi, slogan, contestazioni e perfino lancio di pomodori hanno accolto le sue parole sul palco allestito nella zona tra via Roma e corso Vittorio Emanuele chiusa al traffico.

Del resto il leader della Lega, dopo essere stato a Pompei, doveva anche visitare le aree mercatali di largo Santissimo e passeggiare in via Salvatore Noto, ma le condizioni ambientali – è stato organizzato anche un corteo composto da almeno un migliaio di manifestanti partito da piazza Santa Croce – hanno consigliato ai responsabili del servizio d’ordine di puntare direttamente al gazebo dove erano presenti già gli attivisti locali. 

Troppo pochi, comunque, per compensare “il volume” di voci della fiumana di contestatori. Neanche con gli altoparlanti installati sul palco si riusciva a sentire una sola parola del “Truce”. 

C’erano certo anche alcuni ragazzi dei detestati “centri sociali,” ma come si nota dai video per la gran parte si trattava persone comuni, anche anziani. Popolo, insomma. 

E l’inchiesta ancora in corso, che ha portato all’arresto di tre commercialisti del Carroccio per una squallida vicenda di compravendite e mazzette ai danni della regione Lombardia, non aiuta certo a trovare “simpatie” in una regione che non dimentica i coretti “lavali col fuoco” e “senti che puzza, scappano anche i cani”, ecc.

mercoledì 9 settembre 2020

L'INIZIO DI UN'ALTRA GUERRA CIVILE NEGLI USA?

Il livello di violenza che negli Stati Uniti sta facendo crescere ancora di più la richiesta di armi e che non passa giorno che la polizia sia implicata in prima persona,vedi il ragazzino autistico colpito nello Utah ed in serie condizioni(contropiano la-polizia-dello-utah-spara-a-un-ragazzo-autistico-di-13-anni ),è un susseguirsi di ipotesi sul come potere fermare questi scontri provocati nella gran maggioranza dei casi proprio da chi dovrebbe proteggere le persone.
E'dalla sinistra americana più antagonista che giungono segnali di un ricorso alle armi sempre più elevato per difendersi da una destra impazzita come ai livelli del dopoguerra quando il Ku Klux Klan terrorizzava gli afroamericano con spedizioni punitivi ed orribili esecuzioni protetti dalla polizia(che spesso forniva elementi a questa setta sanguinaria)e che ancora oggi esiste e ha dato da stimolo ed esempio alla creazione di altre farneticanti sigle neonaziste e razziste.
Nell'articolo proposto(contropiano come-matura-guerra-civile-negli-usa )tutti gli effetti del suprematismo bianco amplificati da Trump che consente alla polizia ed ai nazisti di continuare i soprusi con minacce che ben presto si trasformano in atti di violenza,proponendo all'interno un altro contributo scritto ancor prima dell'assassinio di Micheal Reinoehl(madn michael-forest-reinoehl )ma già con la memoria degli ultimi omicidi di Kenosha e le proteste black lives matter in varie zone statunitensi.
Una corsa agli armamenti all'interno degli Usa dove i dati parlano di più di un arma ad uso"civile"in media in mano agli americani dove la percentuale dei possessori di tali strumenti vanno dal 39% negli Stati repubblicani contro il 25% di quelli democratici alle ultime elezioni di quattro anni fa,con l'attenzione verso gruppi socialisti che da qualche tempo si stanno organizzando e allenando per sparare per potersi difendere.

Come matura la guerra civile negli Usa.

di  Redazione contropiano - Thomas Seymat  & Antonio Storto *   

Gli Usa stanno diventando un laboratorio sociale di grande interesse. La crisi di egemonia politico-economica, gli effetti sociali devastanti delle delocalizzazioni produttive in atto dagli anni ‘80 e ‘90 (con la conseguente desertificazione produttiva e la disoccupazione di massa che supera abbondantemente i 100 milioni di persone), il razzismo di fondo innestato sulle contrapposizioni di classe e di origine etnica, sono state esaltate dalla presidenza Trump.

Il quale era arrivato alla Casa Bianca cavalcando la delusione dell’America profonda, anche non bianca, e soprattutto delle aree più colpite dalla de-industriazzazione (le molte rust belt che stanno diventando “territori fantasma”).

La crisi occupazionale e di reddito non era stata certo risolta dalla moltiplicazione di “lavoretti” promossa dalle politiche economiche di destra, ma l’indifferenza stragista davanti all’avanzare della pandemia ha distrutto alla radice anche questa forma di “flessibilità” reddituale. Il dichiarato razzismo ha fatto il resto, favorendo l’azione criminale della polizia e la libertà d’azione di milizie suprematiste bianche di chiara ascendenza Ku Klux Klan.

Tutte cose note. Quello che però continua a sfuggire agli osservatori italiani ed europei, tutti presi a sacralizzare un vecchio trombone dell’establishment come Joe Biden, è la radicalizzazione dei movimenti nati sull’onda dei tanti omicidi razzisti della polizia (e non solo). Poi esplosi in modo duraturo con la morte in diretta di George Floyd.

“Radicalizzazione” che non significa solo spostamento dell’opinione politica “a sinistra”, verso il socialista anziano Bernie Sanders o la new wave rappresentata da Alexandra Ocasio Cortez. Anche perché questo classico sbocco politico previsto dal sistema politico Usa è stato blindato e chiuso dall’establishment “democratico”, che ha messo in scena l’ancor più classica “corsa al centro” proponendo come vice Kamala Harris, una campionessa “nera” del destrissimo law and order.

Nessuna rappresentanza politica, insomma, per dei movimenti con grandi dimensioni di massa, quotidianamente in piazza e nella tagliola tra bestialità poliziesca e mano libera alle milizie wasp.

Abituati alle dinamiche della “sinistra” del Vecchio Continente, ci si doveva attendere un’evoluzione nello “sconfittismo” più becero. Rinuncia al conflitto politico, retorica della “legalità” e invocazione della Costituzione quotidianamente stracciata dalla controparte. Che laggiù non solo “mena”, ma soprattutto spara.

Sarà che nel “senso comune” statunitense la filosofia di fondo è “pragmatica”, persino in chiave molto terra-terra (“se ci sparano, che facciamo?“), ma la reazione è stata opposta. Il tradizionale sistema di pensiero della “sinistra liberal”, incentrato sulla triade pacifismo-legalitarismo-diritti civili, è stato messo in archivio molto rapidamente. 

Non è scomparso del tutto, ovviamente, e grande è la pressione “democrats” per imporlo come obbligatorio a tutto il movimento (uno dei più attivi in questa direzione è non a caso Barack Obama). Ma grazie anche al recupero intelligente della memoria storica dell’antagonismo Usa, la presa d’atto della situazione, dei rapporti di forza, delle “forme pratiche” del conflitto politico in questi tempi bui, ha fatto affermare una sorprendente ma non incomprensibile “volontà di resistere”.

Senza lanciarci in teorizzazioni fuori luogo, vi proponiamo qui un articolo da Euronews che dà conto di una realtà poco nota e con ogni probabilità tenuta intenzionalmente lontano dai riflettori.

C’è un famoso fotografo pacifista che decide di girare armato (anche nelle manifestazioni), la resistenza nera (che ha una lunga tradizione), i gruppi di autodifesa multietnici, e persino “club” lgbt che si esercitano all’uso delle armi. 

Davvero un altro mondo… 

Sono proprio sicuri, i rappresentanti nostrani delle “due destre” (fascioleghisti e piddini) di voler inseguire ancora il “modello amerikano”?

Stati Uniti, ora anche l’estrema sinistra si arma: l’ombra della guerra civile? 

* Euronews – 28 agosto 2020

La recente sparatoria di Kenosha, Wisconsin, dove due persone sono morte, non ha fatto che confermarlo: gli Stati Uniti si stanno riempiendo di milizie ed individui armati. Un fenomeno che – con le manifestazioni, le contro-manifestazioni e i disordini cresciuti attorno al movimento Black Lives Matter – ha iniziato a estendersi a macchia d’olio.

Secondo i media locali, il principale sospettato per le sparatorie mortali, un ragazzo di appena 17 anni, è stato visto in presenza di uomini armati, circostanza che è stata in seguito confermata dalle forze dell’ordine. “Si tratta di una milizia“, ha detto lo sceriffo della contea di Kenosha, “come un gruppo di vigilanti“.

Questi gruppi – politicamente schierati a destra e i cui raduni sono in molti casi caratterizzati dal risuonare di slogan razzisti e dallo sventolio di bandiere confederate – fanno dell’ostentazione delle armi (che in molti stati degli Usa possono essere legalmente portate in pubblico) un punto fermo nella propria linea di condotta. Una tattica che la sinistra statunitense, in massima parte favorevole al controllo e alle restrizioni sulle armi da fuoco, si era finora astenuta dall’adottare.

Ma nel tumulto del 2020, anche le mentalità sembrano cambiare rapidamente. “Negli ultimi 3 o 4 mesi, il dibattito sulle armi da fuoco in questo Paese, soprattutto a sinistra, è cambiato enormemente”,ha dichiarato Robert Evans a Euronews. 

Giornalista di guerra, con trascorsi in Iraq e in Ucraina, Evans è attualmente tornato nella sua Portland, in Oregon, dove si sta occupando delle quotidiane manifestazioni contro la violenza poliziesca a danno degli afroamericani. Solo pochi giorni fa, durante un reportage, un contro-manifestante di estrema destra gli ha rotto un dito con un manganello.

Il giornalista, che non fa segreto delle sue simpatie libertarie, è anche un esperto di armi da fuoco: ne possiede diverse e – dopo aver ricevuto minacce di morte – ammette di uscire regolarmente armato da casa, anche durante i suoi reportage. Nei suoi podcast, inoltre, ha apertamente incoraggiato i manifestanti di sinistra ad armarsi.

“Non credo sia un bene per una democrazia – continua Evans – vivere in un Paese con 400 milioni di armi da fuoco registrate per uso civile, quasi tutte nelle mani di una singola parte dello spettro politico. È la premessa per un disastro”.

Il timore di Evans è che gli Stati Uniti siano sull’orlo di una nuova guerra civile: un tema che, già l’anno scorso, aveva sviscerato in uno dei suoi podcast.

Dall’inizio del 2020 e della pandemia, secondo il giornalista, un gran numero di persone, “soprattutto persone di sinistra”, lo avrebbero contattato “per chiedermi consigli su quali armi comprare, come allenarsi, e via dicendo”.

Le divisioni ideologiche riguardo alle armi da fuoco negli Stati Uniti sono state finora molto nette e profonde. Uno studio del 2017 pubblicato dal Pew Research Center mostra che i repubblicani e gli indipendenti con simpatie repubblicana hanno il doppio delle probabilità, rispetto ai democratici e agli indipendenti con simpatie democratiche, di possedere almeno una pistola (44 per cento contro il 20 per cento). 

Altri studi mostrano con chiarezza la stessa tendenza: secondo il Brookings Institute, un think tank con sede a Washington DC, negli stati che hanno votato per i repubblicani alle elezioni presidenziali del 2016 il 39 per cento dei residenti possiede armi da fuoco, contro il 25 per cento degli stati che hanno votato democratico.

La maggior parte delle centinaia di milioni di armi da fuoco in circolazione negli Stati Uniti sono concentrate nelle mani di pochi americani. Stando a un’indagine condotta nel 2015 da Harvard e dalla Northeastern University, il 50% di queste armi apparterrebbe al 3% appena degli adulti americani: un gruppo di “super proprietari”, che hanno accumulato una media di 17 armi ciascuno.

“La possibilità di usare un’arma per autodifesa – continua Evans – a sinistra è più accettata oggi che in qualsiasi altro momento che io possa ricordare“. Un cambiamento storico, che secondo il giornalista è legato a condizioni eccezionali: crisi sanitarie ed economiche, manifestazioni e repressione poliziesca, la rinascita dell’estrema destra militante e armata.

“Non è un bene che la popolazione abbia tanta paura – continua Evans – ma credo ci sia stato un cambiamento radicale nell’atteggiamento della sinistra verso il possesso d’armi da fuoco, proprio a causa dell’insicurezza che tutti in questo momento percepiscono“. 

Simbolo di questa paura, l’acquisto di munizioni che tra febbraio e aprile è cresciuto del 600% negli Stati Uniti.

Il 2016 e l’elezione di Trump.

Questa tendenza della sinistra a voler esercitare un diritto “costituzionalmente garantito dal Primo Emendamento”, sebbene accelerata dalle turbolenze del 2020, sembra trovare origine nell’inizio del primo mandato di Donald Trump. Un reportage fotografico dell’Associated Press, pubblicato nell’ottobre 2017, mostra una sessione di tiro al bersaglio per il Trigger Warning Queer & Trans Gun Club di Victor, New York.

Il club di tiro al bersaglio è composto da gay, lesbiche e trans, i quali “preoccupati che gli estremisti di destra diventino più audaci e pericolosi – ha spiegato il fotografo Adrian Kraus – hanno deciso di impugnare le armi“.

Secondo Kraus, il club si riunisce una volta al mese in un campo a nord di New York.

Nella foto qui di seguito, Jake Allen (a sinistra) osserva Lore McSpadden sparare su un bersaglio in terra battuta durante una sessione di allenamento. 

McSpadden non aveva mai toccato un’arma da fuoco prima che il club fosse fondato l’anno precedente, nel 2016.

“In generale, dal 2016, gruppi schierati a sinistra come il John Brown Gun Club, lo Huey P. Newton Gun Club e la Socialist Rifle Association sono andati via via moltiplicandosi“, ha detto Evans a Euronews.

Dopo la morte di George Floyd, avvenuta il 25 maggio del 2020, questi gruppi di estrema sinistra – che oltre ad armarsi incoraggiano altri a fare altrettanto – si sono trovati sempre più al centro della scena.

“Le azioni della polizia e dello Stato contro la comunità nera forniscono una giustificazione più che sufficiente perché questa comunità si faccia carico della propria difesa“, ha detto il comitato centrale della Socialist Rifle Association (SRA) in una dichiarazione dopo la morte di Floyd.

“Armatevi!”

Membri del John Brown Gun Club e del Redneck Revolt durante una protesta anti-Trump a Phoenix, Arizona

Tra le iniziative adottate da questa organizzazione di ispirazione marxista ci sono “le marce pacifiche, il mutuo aiuto e il possesso di armi da fuoco“.

“Queste pratiche – afferma il gruppo – se usate con saggezza, sono strumenti per difendere una comunità dall’oppressione“.

Ma, dice l’SRA, “dobbiamo fare attenzione a distinguere tra l’uso delle armi da fuoco in difesa di una comunità e l’uso indisciplinato o reazionario per altri motivi“.

Lanciata tra il 2017 e il 2018, la SRA ha, secondo il suo sito web, “quasi seimila membri e più di sessanta sezioni ratificate” in tutti gli Stati Uniti. Inoltre, se una delle attività del gruppo consiste nell’educazione alle armi da fuoco, “le manifestazioni armate sotto lo stendardo dell’SRA sono comunque vietate, perché non è questo il nostro scopo“.

Ma anche altri gruppuscoli della sinistra radicale americana iniziano a mostrarsi armati alle manifestazioni. Anarchici e antifascisti del John Brown Gun Club – gruppo che prende il nome da un abolizionista bianco dai metodi violenti, presente soprattutto nell’area di Seattle – chiedono “una resistenza attiva contro gli effetti sociali corrosivi e distruttivi del suprematismo bianco, del sessismo, dell’intolleranza e dello sfruttamento economico“.

Nel luglio 2019, Willem van Spronsen, un ex membro di questo gruppo, è stato ucciso dalla polizia nella città di Tacoma, Washington, mentre lanciava ordigni incendiari contro i veicoli nel parcheggio di un centro privato di detenzione per immigrati.

Secondo una lettera di rivendicazione trovata postuma, van Spronsen aveva intenzione di protestare contro la politica di arresto e di deportazione dell’Immigration Customs and Enforcement (ICE), l’agenzia governativa che negli Usa si occupa di immigrazione. 

“Incoraggio vivamente i compagni e i nuovi compagni ad armarsi” si legge nella dichiarazione. “Ora siamo responsabili della difesa degli individui contro uno stato predatorio“.

martedì 8 settembre 2020

IL FUNERALE DI ZINGARETTI

Solamente qualcuno alieno alla politica italiana non aveva previsto il sì al referendum di settembre sul taglio dei parlamentari da parte del Partito Democratico,uscito dalla direzione dopo l'approvazione della proposta del segretario Nicola Zingaretti.
Una scelta che era nell'aria e che segnerà la sconfitta politica di un segretario che da quando si è insediato non ha portato modifiche propositive ad un partito già con l'acqua alla gola che non è stato capace di levarsi di dosso l'ombra di Renzi,che ha fatto virare a destra questo che nell'albero genealogico delle successioni che ha avuto doveva essere l'erede del Pci,cosa già allontanata dalla memoria storica del comunismo fin dalla creazione del Pds e dalla venuta di Occhetto.
C'è un ma,in quanto numerosi simpatizzanti e iscritti al Pd,la famosa e tanto evocata base del partito,quella che a detta dei pezzi grossi che senza di essa il Pd non è nulla,ha già scaricato anticipando in molti casi l'attesa per la scelta del partito dicendo no al quesito referendario per le giuste motivazioni che questa gravosa quanto importante scelta implica.
Essere al guinzaglio dei cinque stelle che probabilmente già a queste regionali subiranno una mazzata letale che replicheranno alle prossime amministrative non è una bella visione da parte dei sostenitori piddini,ed in più casi anche amministratori locali nonché alcuni deputati e senatori,hanno ribadito il loro diniego alla vicina consultazione referendaria.
Perché fortunatamente il libero arbitrio della propria testa a volte non segue l'indicazione di un partito,perché se da un lato i grillini sono da sempre per una democrazia sempre più oligarchica e quindi non rappresentativa del popolo italiano,quindi contro quello che vorrebbero ottenere col taglio delle poltrone,il Pd ha molte anime che ragionano in termini di difesa della Costituzione nonostante talvolta siano guidati da segretari che calpestano tale Carta.
L'articolo(ansa referendum-zingaretti )la decisione del sì che ovviamente implica una serie di reazioni politiche,più che altro suggerimenti mascherati da ricatti,che i dem vorrebbero a loro volta come scambio per le riforme,sempre che come penso questo governo dopo il referendum e le regionali non sia un lontano ricordo.

Pd dice sì a referendum. Zingaretti: 'Avanti con le riforme'.

Sì della direzione Dem al segretario.Prima prova sulla legge elettorale.

La Direzione del Pd approva la proposta del segretario Nicola Zingaretti di votare sì al referendum del 20 settembre, passaggio tutt'altro che indolore in casa Dem dove, pur con toni pacati, le posizioni pro e contro il taglio dei parlamentari sono rimaste immutate. Un sì, in ogni caso, che rafforza i vincoli dell'alleanza con M5s, nella speranza che ora siano i pentastellati a compiere passi verso le direzioni auspicate dagli alleati Dem, a partire dalle modifiche ai decreti Salvini, l'utilizzo delle risorse del Mes e il cammino delle riforme. Queste battono il passo con il centrodestra pronto alle barricate, come dimostrano gli 800 emendamenti presentati al ddl Fornaro, una delle riforme costituzionali volute dalla maggioranza per correggere il taglio dei parlamentari. "Mentre propongo il SI - ha detto Zingaretti nella sua relazione - dico che dobbiamo respingere le motivazioni banali che il taglio del numero dei parlamentari farebbe risparmiare soldi allo Stato. I risparmi sarebbero minimi e non costituiscono il motivo principale del nostro si'. Il motivo principale sta nel fatto che a questo atto possono seguire altre riforme". Insomma la vittoria del No suonerebbe come il "de profundis" a ogni futuro tentativo di modificare la Costituzione, come l'adozione del bicameralismo differenziato che anzi il Pd deve rilanciare con una raccolta di firme, ha detto Zingaretti accogliendo una proposta di Luciano Violante.

"La decisione di votare Sì è stata presa dai parlamentari in grandissimo numero. E' chiaro che all'interno delle forze politiche ci possono essere distinguo e discussione ma la decisione" presa dalla Direzione Pd "era una decisione anche modo attesa" rispetto al voto parlamentare. Lo dice il premier Giuseppe Conte parlando con i cronisti a Beirut. "Non credo che la maggioranza fosse così agitata sul referendum", aggiunge il premier a chi gli chiede se il Si del Pd al referendum "tranquillizzi" la maggioranza.

lunedì 7 settembre 2020

MICHAEL FOREST REINOEHL

Gli agenti della US Marshall sono praticamente andati a colpo sicuro quando sono andati a braccare Michael Reinoehl,che uccise a Portland un manifestante dei razzisti Patriot Prayer,molto vicini al presidente Trump ed al mondo degli integralisti cattolici che poi sono quelli dell'estrema destra sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo"cristiano".
Reinoehl aveva il bersaglio addosso da quando per legittima difesa aveva sparato a Aaron Danielson quella sera dove gli occupanti di circa seicento veicoli della setta estremista bianca stavano per colpire i manifestanti antifascisti e del black lives matter pronti a farne fuori una certa quantità,ed il prode ex snowboarder professionista era stato richiamato in quanto membro del servizio di sicurezza dei cortei e convinto antifascista e antirazzista da anni.
Negli articoli proposti(infoaut.org/conflitti-globali e contropiano portland-intervista-michael-reinoehl-antifa-ucciso-polizia )sono proposte le parole dello stesso Reinoehl che si era reso irreperibile in quanto minacciato dai razzisti del Patriot Prayer e dalla polizia che lo voleva morto,e cosa di meglio da parte di questi ultimi con un settore speciale che lo hanno individuato e che hanno detto di averlo visto armato e quindi ammazzato senza pietà?
Tutto questo fomentare di episodi di violenza ed esecuzioni sommarie partono da lontano e come detto nell'ultimo post(madn sempre-piu-morti-nelle-strade-usa )che parla dell'argomento dell'accanimento poliziesco nei confronti degli afroamericani e di chi è loro simpatizzante e difensore ormai è legittima anche l'autodifesa verso la polizia e i razzisti neonazisti,proseguendo di fatto il cammino verso una guerra civile.

Usa: attivista sospettato di aver sparato al Patriot Prayer è stato ucciso dalla polizia.

Michael Reinoehl è stato ucciso ieri dagli agenti federali. L'uomo era sospettato di aver sparato all'estremista di destra Aaron J. Danielson dei Patriot Prayer sabato notte. I Patriot Prayer sono un gruppo di estrema destra di base a Portland la cui principale attività è stata quella di provocare e attaccare le manifestazioni antifasciste e contro il razzismo strutturale.

La sparatoria è avvenuta dopo un crescendo di tensioni che si sono gradualmente intensificate per tutta la notte di sabato mentre una carovana di auto pro-Trump si spostava lentamente attraverso la città.

I video pubblicati online mostrano persone su auto e suv adornati di bandiere che attraversano gruppi di manifestanti antifascisti e BLM cercando di investirli, aggredivano il corteo con utilizzo di pistole paintball verso la folla e usano spray al pepe. Molti di loro invece brandivano armi da fuoco.

Reinoehl, 48 anni, con due figli ed ex snowboarder professionista, aveva aderito da tempo alle proteste contro gli abusi di polizia e il razzismo strutturale negli Stati Uniti, partecipando alla sicurezza nelle manifestazioni. Aveva denunciato in passato la violenza della polizia nei confronti dei manifestanti e le provocazioni dei suprematisti bianchi che più volte hanno attaccato le proteste.

L'uomo si trovava a Lacey, nello Stato di Washington, dove è stato ucciso dai federali, per partecipare ad un'intervista con Vice News su quanto accaduto quella notte a Portland. Durante l'intervista Reinoehl ha implicitamente ammesso di aver sparato, ma ha sottolineato che si è trattato di un atto di autodifesa: "Sai, molti avvocati suggeriscono che non dovrei nemmeno dire nulla, ma sento che è importante che il mondo sappia almeno un po' di ciò che sta realmente accadendo, perché è stata fatta un sacco di propaganda". "Non avevo scelta. Voglio dire, io, avevo una scelta. Avrei potuto sedermi lì e guardarli uccidere un mio amico di colore. Ma non l'avrei permesso".

"Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso." continua Reinoehl nell'intervista. "Non ero nemmeno a conoscenza di cosa stesse succedendo. Ero fuori con mio figlio, stavamo guidando attraverso la città e ci è capitato di vedere centinaia di furgoni con delle bandiere e così ho informato i miei amici di quello che avevo visto e una volta finito quello che stavo facendo con mio figlio sono tornato a casa. Poi ha ricevuto una telefonata che diceva che avrebbe potuto essere una buona idea andare lì e che la sicurezza poteva essere necessaria.

Non sapendo cosa ciò avrebbe comportato.

Non avevo idea di quale fosse la situazione in cui stavo andando. Un tempo amavo davvero questo paese e rispettavo la bandiera e tutto ciò che rappresentava, ma a causa di tutto questo ogni volta che vedo un grosso camion specialmente con la bandiera, penso immediatamente che sono fuori a prendermi. C'erano 600 veicoli. Chissà che molti stessero solo passando per il centro ma come ho detto quando mi sono presentato ho visto un numero maggiore dei loro veicoli rispetto a quelli dei veri cittadini. Sembrava l'inizio di una guerra. Era un libera tutti e la polizia lo stava permettendo.

"Ho capito cosa era successo, ero sicuro di non aver colpito nessuno innocente. […] Stanno cercando di farci sembrare tutti terroristi e stanno cercando di farmi sembrare un assassino. Ho notato che continuano a dire che non è chiaro che ciò se è successo sia collegato alle proteste. È una bugia, loro sanno che lo è.

 Per non parlare del fatto che dicono di non sapere chi fosse. È una bugia. In un'ora su facebook e twitter, tutti che hanno la mia faccia e il mio nome etichettati come il tiratore. Vogliono dipingere un quadro in cui antifa ha un grande coinvolgimento. Molte persone non capiscono cosa rappresenti l'antifa e se guardi alla sua definizione di base è solo antifascista e io sono antifascista al 100%. Non sono un membro dell'antifa, non sono un membro di niente. Onestamente, odio dirlo, ma vedo una guerra civile dietro l'angolo."

Gli US Marshal hanno giustificato l’omicidio di Reinoehl dichiarando che una task force stava tentando di arrestarlo nello stato di Washington, ricercato con l'accusa di omicidio dal tribunale della contea di Multnomah, dichiarando poi: "I rapporti iniziali indicano che il sospetto ha estratto un'arma da fuoco, minacciando la vita degli agenti delle forze dell'ordine. I membri della task force hanno risposto alla minaccia e hanno colpito il sospetto che è stato dichiarato morto sulla scena", mentre nessuno dei membri della task force è rimasto ferito. La dinamica dell'omicidio di Reinoehl però per il momento non è confermata da altre fonti, e appare piuttosto particolare, visto anche quanto l'attivista ha dichiarato nell'intervista. Che si sia trattato di una trappola o di una esecuzione in piena regola? Per il momento è difficile fare ipotesi.

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Portland. L’intervista a Michael Forest Reinoehl, antifa ucciso dalla polizia.

di  Redazione Contropiano  

“Avrei potuto rimanere lì a vederli uccidere un mio amico di colore. Ma non l’ho fatto.”

Da quando un membro del gruppo di estrema destra Patriot Prayer è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco durante una manifestazione a Portland, lo scorso 29 agosto, le indagini della polizia si sono focalizzate su Michael Forest Reinoehl, 48enne veterano dell’esercito e padre di due figli che ha agito per quella che egli stesso definisce “sicurezza” durante la protesta di Black Lives Matter.

Il Wall Street Journal riporta che Reinoehl era nel mirino di Aaron “Jay” Danielson, che faceva parte di una grossa carovana pro-Trump (600 macchine) partita da Clackamas quello stesso giorno. In una conversazione rilasciata a VICE News con il giornalista freelance Donovan Farley, Reinoehl dichiara che aveva intuito che lui ed un suo amico nero stavano per essere pugnalati, e che aveva agito per legittima difesa.

Poco dopo che VICE News ha riportato questa conversazione, Reinoehl è stato ucciso in una colluttazione con degli agenti, quando una task force federale che ricerca fuggitivi aveva tentato di arrestarlo, secondo quanto riporta il New York Times.

“Sai, un sacco di avvocati dicono che non dovrei proprio dire nulla di nulla, ma io penso che sia importante far sapere al mondo cosa sta succedendo”, dice Reinoehl a VICE news. “Non avevo altra scelta, cioè, sì, ce l’avevo: avrei potuto rimanere lì a vederli uccidere un mio amico di colore. Ma non l’ho fatto.”

Portland è stato un punto focale per le proteste dalle elezioni del 2016, ma dall’uccisione di George Floyd a maggio, le manifestazioni sono diventate più caotiche ed estremamente più violente, Ad agosto, un simpatizzante dell’estrema destra è stato arrestato per aver sparato su una folla di manifestanti di Black Lives Matter. Alan Swinney, membro del gruppo filo-Trump Proud Boys, ha tirato fuori una pistola e l’ha mostrata ad alcuni manifestanti; un gruppo di militanti della sinistra radicale è stato ripreso in un video mentre tiravano fuori un uomo dal proprio SUV e l’hanno picchiato.

L’uccisione di Danielson è il primo “omicidio” attribuito a proteste antifasciste da anni. Accade una settimana dopo che Kyle Rittenhouse, 17enne simpatizzante di Trump, ha sparato a tre manifestanti a Kenosha, nel Wisconsin, uccidendone 2. L’avvocato di Rittenhouse dice che il suo assistito ha agito per legittima difesa.

Reinoehl è stata una presenza notturna costante ai presidi di Black Lives Matter di Portland. Ad inizio luglio, è stato arrestato per aver portato una pistola ad una protesta. Il WSJ riporta che il caso rimane aperto. Sempre a luglio, rimane ferito al braccio dopo aver cercato di sequestrare una pistola a un manifestante di estrema destra durante una colluttazione.

Reinoehl dice di essersi accorto della parata pro-Trump dopo aver visto “numerosi Suv con delle bandiere” mentre girava a Portland in macchina assieme al figlio adolescente. “Ho aggiornato i miei amici su quel che avevo visto, ho finito di fare quel che dovevo fare con mio figlio, sono tornato a casa e ho ricevuto una telefonata che mi diceva di passare da quelle parti” dice. “Era necessario prendere delle misure di sicurezza, anche se non sapevo bene cosa volesse dire. Non avevo idea in cosa mi stessi andando a ficcare.”

“Vedo tutti questi veicoli, gente dietro i SUV che urlava mentre fa svolazzare mazze e bastoni in direzione dei manifestanti che a loro volta urlavano contro di loro”, dice Reinoehl.

Alle 20:45 Reinoehl racconta di essere andato in soccorso di un suo amico circondato da SUV carichi di militanti pro-Trump armati. “Ho visto una persona che è un mio caro amico del movimento che si confrontava praticamente da solo con questi veicoli” dice Reinoehl a Farley “e quindi gli ho fatto sapere che ero a sua disposizione, ho parcheggiato la mia auto e l’ho raggiunto, e mi sono ritrovato all’intersezione davanti al food truck, dove c’erano alcune macchine e furgoncini con persone armate.”

Reinoehl sottolinea che le persone che partecipavano alla carovanata pro-Trump erano armate pesantemente e non avevano “pistole da paintball” (quelle che sparano palline di gelatina colorata ndT), come sottolinea la stampa.

Si è ritrovato in un confronto dove un uomo lo minacciava ed un altro aveva un coltello in mano “Avrebbe potuto colpirmi o pugnalarmi”.

I video dei passanti mostrano poi un uomo che assomiglia a Reinoehl, con lo stesso tatuaggio sul collo, sparare due colpi contro Danielson e poi andarsene. “Mi volevo assicurare di non ferire nessuna persona innocente e poi andarmene.” dice.

Dopo la sparatoria, Reinoehl si è dato alla macchia, trasferendosi con i figli in un posto sicuro, dopo che colpi d’arma da fuoco sono stati sparati alla sua casa, a qualche ora di distanza dall’incidente. “Mi stanno dando la caccia” Dice Reinoehl. “C’è un post in cui si dice che i cervi quest’anno dovranno sentirsi fortunati, perché ora la stagione è aperta per Michael Reinoehl”.

Non si è autodenunciato, sapendo che i militanti dell’estrema destra avrebbero collaborato apertamente con la polizia, la quale non avrebbe protetto lui e i suoi familiari.

Dice che al momento dello scontro e della sparatoria, non c’era polizia ad aiutare. “Non c’era sicuramente nessuno in vista, nessun agente, nessuno che potesse intervenire. Era un tutti contro tutti. E la polizia lasciava che accadesse”, dice.

Due settimane dopo, conferma di non avere ripensamenti su quel che ha fatto: “Se c’è la vita di qualcuno che mi è caro in pericolo ed ho i mezzi per intervenire…penso che qualunque altro essere umano farebbe lo stesso,” ammette.

Reinoehl dice di aver parlato con degli avvocati i quali sostengono che “ci sono delle prove per confermare il fatto che abbia agito per legittima difesa perché c’è un’ovvia minaccia alla mia vita”.

Giovedì, il sindaco di Portland Ted Wheeler ha dichiarato che gli accertamenti sull’incidente sono ancora in alto mare: “Non abbiamo ancora tutti i fatti. Non siamo ancora riusciti a parlare con tutti i testimoni. Non siamo ancora riusciti a elaborare tutti i video provenienti dai negozi in loco”, dice a KOIN 6 News.

“Penso che stiano provando a darmi altre incriminazioni. Troveranno altri modi per tenermi dentro”, ci risponde Reinoehl quando gli viene chiesto perché non ha raccontato questa storia alla polizia. “Onestamente, mi dispiace, ma mi pare ci sia una guerra civile dietro all’angolo”, sostiene “Quello sparo sembrava l’inizio di una guerra.”

Da Vice News

Traduzione a cura di Tiziano di Giuseppe

domenica 6 settembre 2020

L'ENNESIMA MORTE IN CARCERE PER UN PRIGIONIERO POLITICO BASCO

In queste tappe del Tour de France che si sono svolte nei Pirenei si sono potute notare numerose bandiere nazionali basche,le ikurrine,e numerose altre che ricordano i prigionieri politici baschi e che spronano il governo spagnolo ma anche quello francese a liberarli e farli tornare a casa,oppure a fare finire la pena detentiva in carceri non lontane centinaia di chilometri dai loro paesi e città
Negli scorsi giorni uno di questi presos è morto nonostante sarebbe dovuto essere liberato avendo scontato già i tre quarti della pena come da legislazione iberica,e quindi il bilbaino Igor González Sola è deceduto prigioniero nonostante fosse malato.
Ci sono state e ci saranno mobilitazioni sia a Bilbao che in altre località di Euskal Herria,nei modi e nel rispetto delle regole che impongono l'obbligo della mascherina anche all'aperto,un modo per esternare la rabbia e la protesta che da anni va avanti nei paesi baschi:come spiegato dall'articolo di Contropiano(in-euskadi-muore-un-altro-prigioniero-politico-eta )questa è la quinta morte da quando l'Eta si è sciolta e che si aggiunge ad un lungo elenco di prigionieri politici baschi condannati per capi d'imputazione fantasiosi e con pene a dir poco esagerate quando sono stati commessi dei reati.
Vedi anche:madn eushal-preso-eta-iheslariak-etxera .

Rabbia in Euskadi. Muore un altro prigioniero politico Eta.

di  Redazione Contropiano   

Una notizia dalle carceri ha scosso di nuovo Euskadi durante la notte appena trascorsa. La morte di un prigioniero basco ha alterato ancora una volta una normalità che non è tale, né nuova né vecchia, né con una pandemia né senza di essa, e che non sarà finché non lo sarà. Risolvere la situazione delle persone che rimangono imprigionate a causa di un conflitto che queste vogliono superare ma che altre insistono a perpetuare.

Il defunto è Igor González Sola, un bilbaino di 47 anni, in galera da più di quindici anni e che aveva scontato i tre quarti della pena lo scorso marzo. Dovrebbe essere libero, quindi, per tutto ciò che le autorità carcerarie hanno ignorato nelle loro stesse leggi. A maggior ragione quando era malato e anche undici anni fa, dopo due tentativi di suicidio che trascesero da parte sua nelle carceri di Granada e Badajoz.

Ma non era libero, era a Martutene, dove era stato trasferito appena due mesi fa, all’inizio di luglio. È arrivato da Soria, dopo essere passato per Valdemoro, in un viaggio dantesco che è la norma per i prigionieri baschi.

Cinque morti in sette anni.

Questa morte segue quella dell’iruindarra Xabier Rey, ritrovata nella sua cella di Puerto III nel marzo 2018, e quella del galdakoztarra (l’area municipile di Bilbao) Kepa del Hoyo, deceduto a Badajoz il 31 luglio 2017 a causa di un infarto che le autorità spagnole hanno liquidato come “morte naturale”. 

Elorrio Arkaitz Bellón è morto nel febbraio 2014, appena tre mesi prima della data in cui avrebbe dovuto lasciare la prigione. E solo undici mesi prima, nel marzo 2013, Xabier López Peña, anche lui un galdakoztarra, era morto quando era stato ricoverato a Parigi per tre settimane dopo aver subito un infarto e poi un ictus.

E se ogni morte è una bevanda molto dura per la famiglia e gli amici, lo è soprattutto in queste circostanze. La cadenza con la quale la morte sta invadendo i prigionieri baschi è insopportabile anche per una società come quella di Euskal Herria, abituata a stringere labbra e pugni.

Ci sono stati cinque morti nelle carceri da quando l’ETA ha abbandonato le sue armi nell’autunno 2011. Da allora, l’unica violenza perpetrata in questo paese è quella perpetrata dagli stati spagnolo e francese, e i prigionieri e solo subito rappresaglie e continue umiliazioni.

Sare convoca una mobilitazione a Bilbo.

La notizia della morte di González Sola, già nota nella notte, ha avuto un’eco immediata sulle reti, e non ci è voluto molto per le valutazioni dell’accaduto.

Sare ha denunciato la morte tramite Twitter, dove ha indicato che “con tre quarti della pena scontata, Igor dovrebbe essere per strada, vivo”.

“È ora di porre fine alla legislazione speciale”, ha aggiunto la rete dei cittadini, che ha indetto una mobilitazione di protesta oggi a mezzogiorno in Plaza Elíptica, con lo slogan “Salbuespen Legediak hiltzen du!”  (La legislazione speciale uccide!)

Allo stesso tempo, gli Artigiani della Pace hanno convocato per domenica una manifestazione davanti al consolato spagnolo a Baiona con lo slogan “Condannato a morire in prigione?”

Etxerat, che ha denunciato “le sofferenze cui governi spagnolo e francese non vogliono porre fine” e che ha trasmesso la sua “solidarietà e un caldo e affettuoso abbraccio alla famiglia e agli amici” del prigioniero defunto, ha chiesto che la mobilitazione sia sostenuta in massa.

EH Bildu ha considerato la morte del prigioniero di Bilbao “inammissibile” e ha sottolineato che “quando sono trascorsi 9 anni da quando ETA ha annunciato la cessazione definitiva delle violenze e sono passati più di due anni dalla scomparsa dell’organizzazione, è ancora incomprensibile che I prigionieri baschi rimangono in prigione”.

“La morte di González Sola – ha valutato la formazione politica di Arnaldo Otegi – ha confermato ancora una volta che è fondamentale che i prigionieri tornino immediatamente alle loro case”. Secondo EH Bildu, “la costruzione della convivenza democratica che la maggioranza della società basca ha più volte rivendicato richiede l’adozione di misure, e su questa strada è essenziale il rapido rilascio dei prigionieri baschi”.

“In questo senso”, ha aggiunto in una nota, “è essenziale che lo Stato spagnolo cambi il prima possibile la sua politica carceraria”.

A parità di condizioni, Arnaldo Otegi ha denunciato che Igor González “è l’ultima vittima di una politica carceraria crudele e vendicativa”.

“Costruire la convivenza richiede anche la sua disattivazione (della legge speciale) e il rilascio di tutti i prigionieri politici baschi. Un abbraccio alla sua famiglia e ai suoi amici“, ha aggiunto il leader di EH Bildu su Twitter.

I navarri di Sortu hanno valutato che “questa morte avrebbe potuto essere evitata, perché Igor doveva essere libero” e hanno sottolineato, a questo proposito, che il prigioniero di Bilbo “era malato e aveva già scontato i tre quarti della pena inflitta dai giudici spagnoli“, a cui si chiedeva “perché fosse ancora in carcere”.

“Questa morte è una conseguenza della politica penitenziaria penale applicata ai prigionieri politici baschi ed è responsabilità diretta del governo spagnolo”, ha detto la formazione Abertzale, e ha concluso “è ora di prendere decisioni politiche, di smettere di considerare i prigionieri baschi come ostaggi politici e rimandarli a casa”. 

Per questo hanno chiesto la partecipazione alle mobilitazioni, “affinché tutti possiamo arrivare alla soluzione”, e hanno ritenuto che “questo fatto doloroso richiede una riflessione collettiva”, invitando a farlo tutti tra le componenti politiche e sociali basche. 

“Per quanto tempo dovremmo continuare in questa situazione? Che futuro si può costruire in questo modo?”, Si è chiesta la formazione in una nota in cui inviava le sue condoglianze a chi era vicino a Igor González.

Venti prigionieri politici uccisi dietro le sbarre, quinto dal 2013.

L’eccezionale politica carceraria applicata ai prigionieri baschi ha numerose conseguenze, ma la più crudele è senza dubbio quella di coloro che muoiono dietro le sbarre. Negli ultimi decenni sono stati 20.

Il terremoto politico che ha determinato al cambio di strategia della sinistra nazionalista ha portato all’annuncio della definitiva cessazione dell’attività armata dell’ETA nel 2011 e, successivamente, nel maggio 2018, con la dichiarazione della definitiva uscita dalla scena. La replica sociale, anch’essa notevole, si è cristallizzata in una maggioranza trasversale per esigere una nuova politica carceraria, adeguata al contesto e questo nuovo tempo.

Queste richieste, però, sono sempre finite per incontrarsi nello stesso luogo: le mura della prigione, i cui movimenti si sono limitati a gesti timidi, come approssimazioni o libertà condizionali, spesso tese all’estremo. Negli ultimi anni, da quando è stato intrapreso il suddetto profondo cambiamento, ci sono stati cinque prigionieri baschi che hanno lasciato la loro vita dietro le sbarre.

Il primo di loro è stato il 54enne  Xabier López Peña, morto nel marzo 2013 in un ospedale di Parigi, dove era rimasto dopo aver subito un infarto e un ictus a Fleury.

Il 5 febbraio 2014, il prigioniero 36enne di Elorrio, Arkaitz Bellon è morto a Puerto de Santamaría (Cadice) a causa di un edema polmonare, tre mesi prima della data fissata per il suo rilascio.

Il 31 luglio 2017, Kepa del Hoyo, anche lui vicino di Galdakao, ha lasciato la sua vita nella prigione di Badajoz a causa di un infarto.

Xabier Rey Urmeneta, residente nel quartiere Iruindarra di Donibane, si è tolto la vita il 6 marzo 2018 nella sua cella nella prigione di Puerto III a Cadice, a più di 1.000 chilometri da casa.

E per ultimo, solo ore fa, Igor González Sola è stato trovato morto nella sua cella di Martutene.