giovedì 31 agosto 2017

IL FRANCO CFA EMBLEMA DI UN COLONIALISMO MAI TERMINATO


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Non avendo mai viaggiato in Africa centro occidentale non sapevo nemmeno dell'esistenza di una moneta comune,il Franco Cfa,e della sua nascita come valuta capestro per centinaia di milioni di africani che hanno subito il colonialismo francese e che con questa moneta lo stanno subendo ancora.
L'articolo di Contropiano(due-cose-sul-franco-cfa-sulleuro-lafrica )prende spunto dall'arresto del militante francese Kemi Seba avvenuto in Senegal per aver bruciato delle banconote di franchi Cfa durante una manifestazione e parla di questa moneta nata nel 1945 e di tutti i tranelli e gli obblighi che quattordici paesi africani devono sottostare e dipendere direttamente dalla Francia e dal suo ministero del tesoro(vedi anche:https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_CFA ).
Il franco Cfa ha un cambio fisso con l'Euro,la sua convertibilità è garantita dal suddetto ministero previo deposito del 65% delle riserve di ogni singolo Stato africano(palese segno di dominio coloniale)che comportano vantaggi solamente alla Francia e ai paesi che razziano il territorio e le sue risorse oltre che rendere per sempre schiavi gli abitanti di quelle nazioni.

Due cose sul Franco CFA (e sull’euro e l’Africa).

di  Giuseppe Masala  
L'arresto in Senegal del militante panafricano Kemi Seba (nella foto), di nazionalità francese, reo di aver bruciato, durante una manifestazione, alcune banconote di franchi CFA, ha riaperto il dibattito su questa moneta considerata da molti lo strumento principale con il quale la Francia (ma ora tutti i paesi della zona euro) esercitano il neo colonialismo nell’Africa francofona.

Il Franco CFA nasce nel 1945 con gli accordi di Bretton Wood; infatti all’epoca si chiamava Franco delle Colonie Francesi Africane. Successivamente nel 1958 cambia nome e diventa Franco della Comunità Francese dell’Africa.

Fino a qui tutto normale se non per due piccoli particolari. 1) il Franco CFA è una moneta ancorata ad un cambio fisso, prima con il Franco Francese e ora con l’Euro. 2) La piena convertibilità del Franco CFA è garantita dal Ministero del Tesoro francese, che però chiede il deposito, preso un conto del ministero, del 65% delle riserve estere dei paesi aderenti all’unione monetaria.

Dietro queste due tecnicità si nasconde il diavolo del colonialismo. Infatti il cambio fisso azzera il rischio di cambio per gli investimenti delle multinazionali occidentali nel paesi dell’Unione monetaria. Non basta, il cambio fisso (per giunta garantito dal Ministero del Tesoro francese) favorisce l’accumulo nei forzieri delle banche occidentali di immensi tesori frutto della corruzione dei governanti locali (spesso dittatorelli amici dei nostri governi).

Come se non bastasse, tutto questo avviene a scapito dell’economia reale locale, soffocata dalla rigidità del cambio con una moneta fortissima come l’Euro.

Il secondo punto probabilmente è anche peggio del primo. Quale nazione sovrana depositerebbe, a garanzia della convertibilità della propria moneta, ben il 65% delle proprie riserve estere presso il ministero del Tesoro di uno stato estero per giunta quello del paese ex coloniale? Nessun paese sovrano farebbe mai una cosa del genere, che consegna le chiavi dello sviluppo (o del sottosviluppo) ad una nazione straniera.

Pensiamo basti questo per chiarire come il colonialismo sia ancora un fenomeno reale e pervasivo che tarpa le ali di una qualsiasi opportunità di sviluppo dei paesi africani. Con buona pace di tanti soloni che parlano senza sapere di cambi e monete, e che credono che agli africani sia data una grande opportunità nel venire in Europa (spesso a vendere asciugamani e accendini nelle nostre piazze) grazie alla possibilità di inviare nei loro paesi, a tasso di cambio fisso, rimesse che consentono alle loro famiglie in Africa di campare con pochi euro.

Grazie a questo sistema le nostre multinazionali hanno invece l’opportunità, a rischio di cambio pari a zero, di depredare le immense riserve di materie prime dell’Africa Occidentale: uranio, metalli rari, oro, petrolio, gas ma anche legname pregiato e derrate alimentari.

Bell’affare per noi, non certamente per gli africani che ci vendono il “coccobello” sulle nostre spiagge.

Non basta di certo la carità di alcune ONG per sanare questa forma di neocolonialismo monetario, che azzera le possibilità di sviluppo dei paesi dell’Africa francofona.

SUICIDIO PER LEGITTIMA DIFESA


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In questi ultimi giorni le morti nelle carceri italiane stanno diventando appuntamenti di cronaca quasi quotidiana,ed almeno una di esse è sospetta mentre le altre sono suicidi provocati dalle condizioni disumane nelle quali i detenuti sono costretti a vivere in molti penitenziari italiani.
Nell'articolo di Infoaut(metropoli )gli ultimi casi da Saluzzo a Pisa passando da Monza a Torino tra impiccagioni ed avvelenamenti da gas i casi si sono moltiplicati così come le denunce delle associazioni per la tutela dei diritti dei carcerati.
C'è pure quella del sindacato di polizia penitenziaria Osapp che richiama l'attenzione sulla scarsità di personale nonostante alcuni suoi appartenenti siano stati implicati in episodi di violenza e di tortura contro i carcerati stessi:come al solito vale però la regola che non tutti gli agenti svolgano il loro mestiere in maniera sporca(madn la-prassi-del-pestaggio-poliziesco ).

La strage estiva nelle carceri italiane

Da maggio ad agosto il numero dei detenuti che morti suicidi in carcere è aumentato passando da da 32 a 37.... le istituzioni si ostinano a dichiarare la propria "preoccupazione" chiedendo una "soluzione repentina a tale situazione emergenziale". Come risulta drammaticamente evidente, non c'è alcuna "emergenza" da affrontare: sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie precarie ed inumane, violazione dei diritti, utilizzo massiccio di psicofarmaci unicamente con funzione di controllo e repressione, sfruttamento delle condizioni lavorative sono tratti permanenti del sistema carcerario italiano.

Il Morandi di Saluzzo dove già a maggio un ragazzo di 33 anni si era tolto la vita mentre era costretto all'isolamento torna "stranamente" ancora una volta a veder morire un uomo di 46 anni. Fabio, che doveva ancora scontare sei anni di pena, negli ultimi due mesi si era visto negare dal magistrato il permesso di recarsi al funerale del padre e le istanze da lui presentate per accedere a percorsi lavorativi esterni. I familiari hanno appreso solo al momento del riconoscimento che Fabio era sottoposto ad Alta sorveglianza per il tentativo di atti anticonservativi (di cui lui stesso non aveva fatto alcun accenno nemmeno durante i recenti colloqui familiari). Secondo la versione ufficiale che fa acqua fin da subito, giovedì pomeriggio l'agente penitenziario destinato a piantonare in modo continuativo la cella di Fabio per evitare il ripetersi di atti autolesionistici si sarebbe accorto troppo tardi che Fabio aveva avuto il tempo di legare con un nodo stretto il laccio di un accappatoio (improvvisamente materializzatosi dentro la cella) con cui si è impiccato. Nonostante l’evidente ritardo che ha avuto l'agente nell'accorgersi che Fabio si stava impiccando, la versione ufficiale sostiene che repentinamente sia stato trasportato all'ospedale di Cuneo dove, dopo qualche giorno, è morto. I dieci minuti concessi ai familiari per salutare Fabio sono bastati per notare che attorno al collo non c'era alcuna tumefazione: alcune gravi lesioni interne riscontrate dai medici hanno invece fatto sì che il magistrato predisponesse il sequestro del corpo per procedere con l'autopsia.

Qualche giorno dopo la morte di Fabio, nel carcere di Monza un ragazzo di 29 anni si è tolto la vita inalando il gas della bombola da cucina. Dopo Saluzzo e Monza mercoledì è il turno del Don Bosco di Pisa. Anche qui un ragazzo di soli vent'anni è stato trovato impiccato nella sua cella...le dinamiche del suicidio non devono essere sembrate molto chiare nemmeno agli altri detenuti che hanno dato inizio ad una rivolta che è stata repressa dopo circa tre ore. La rabbia che ha fatto esplodere la protesta trova un'ulteriore motivazione nel fatto che da tempo i detenuti del Don Bosco avevano denunciato le vergognose condizioni igienico sanitarie in cui sono costretti a vivere cosi come l'esasperante sovraffollamento.

Sempre mercoledì a Lorusso-Cutugno di Torino un ragazzo di trentasette anni viene trovato impiccato nel bagno della sua cella all'interno del blocco C.

Non soddisfatto della strage che sta avvenendo nelle carceri italiane, l'Osapp [il sindacato di polizia penitenziaria] non si è lasciato sfuggire l'occasione per ricollegare tali morti alla carenza di organico dei sorveglianti e per recriminare sulle condizioni di lavoro degli agenti. I garanti dei diritti dei detenuti delle regioni interessate si sono detti tutti "preoccupati" e anche Orlando ha dichiarato che si sta "occupando dell'emergenza": peccato non ci sia alcuna "emergenza da risolvere" ma da destrutturare un sistema che si fonda e si alimenta proprio su quelle inumane condizioni di vita. Le stesse che portano chi è costretto in carcere a lottare contro il tentativo continuo di oppressione e annientamento.

mercoledì 30 agosto 2017

L'ASSEDIO DI LENINGRADO


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Uno degli obiettivi principali già dal 1941 individuati dalla Germania nazista e dai suoi alleati fu la città di Leningrado,cruciale sia dal punto di vista strategico che commerciale,e durante l'operazione Barbarossa furono investite ingenti somme di denaro,di uomini e di armamenti.
Nonostante la città sovietica non fu mai attaccata fino a quell'ora,migliaia di suoi abitanti si arruolarono nell'esercito imbracciando le armi per cacciare i nazisti,con sacrifici enormi in vite umane in un assedio di circa novecento giorni simile per eroismo a quello di Stalingrado.
Nell'articolo di Infoaut un breve riassunto di un punto cardine del secondo conflitto mondiale(storia di classe ).

30 agosto 1941: inizia la resistenza di Leningrado

Ancora prima dell’invasione della Russia da parte delle forze naziste, il 22 giugno del 1941, furono messi a punto con l'Operazione Barbarossa i piani che portarono verso Leningrado forze consistenti in più di un milione di uomini, 600 carri armati e 1000 aerei. L’armata nazista prese il controllo di Leningrado nell’arco di quattro settimane, già dal 21 luglio del 1941: Hitler sembrava infatti ben deciso ad una rapida presa della città per utilizzare le stesse forze militari in vista di un attacco a Mosca. All’inizio dell’azione tutte le previsioni e le tappe vennero rispettate e mano a mano che i nazisti conquistavano territori, le truppe russe venivano messe in fuga.

Al comando dell’operazione c’era il feldmaresciallo Von Leeb al quale Hitler aveva ordinato di provocare all’esercito russo perdite assai più devastanti di quelle causate all’esercito francese;  Leningrado era infatti destinata a diventare la prima grande città russa conquistata dai tedeschi.

In tutta la sua lunga storia Leningrado non era mai stata attaccata e ora i suoi abitanti si preparavano a difenderla. Sin dai primi giorni della guerra centinaia di migliaia di leningradesi si arruolarono nell’esercito formando intere divisioni militari.

La prima linea di difesa passava sulla Lugà, a un centinaio di miglia a ovest della città: questa linea fermò i tedeschi per qualche settimana. La seconda linea di difesa era collocata presso l’istmo di Karelia a circa 25 miglia da Leningrado, mentre il sistema di difesa estremo era collocato a circa 22 miglia dalla città per tutto il suo circondario.

I primi attacchi aerei sulla città cominciarono nella giornata del 6 di settembre e proseguirono per tutto il giorno. I russi attaccavano decisamente sulla linea della Lugà e i tedeschi ripiegavano verso nord, dove il cerchio si stringeva sempre di più attorno alla città. Nei primi di settembre i fascisti penetrarono nelle linee di difesa e, nonostante la resistenza, riuscirono comunque a giungere fino al lago Ladoga. Leningrado fu accerchiata.

Von Leeb cominciò l’attacco a Leningrado in condizioni di netta superiorità numerica di carri armati e aerei senza però riuscire a conquistarla per 900 giorni. Il maresciallo russo  Žukov chiese l’invio di nuove riserve e riuscì a mettere insieme una notevole forza di 50.000 uomini cominciando il contrattacco. Egli ordinò: “Resistere o morire”.

L’inverno del 1941 arrivò presto e fu particolarmente rigido. Tutto ciò peggiorò in maniera significativa le condizioni degli abitanti di Leningrado, già svantaggiati dai blocchi delle vie di  rifornimento.  A novembre, la gente cominciò a morire di fame. Ma l’inverno, inaspettatamente, aprì la via della salvezza: il lago Ladoga a nord di Leningrado aveva una parte completamente congelata e da quel corridoio, denominato ''la strada della vita'' i convogli facevano arrivare prodotti e portavano via persone.

La primavera del 1942 portò nuova speranza, ma non cancellò il ricordo: la città si ravvivò, benché non fosse una resurrezione quanto piuttosto una nuova fiducia nella vita. Molti cattivi profeti già prevedevano una repentina caduta dell'impero sovietico, invece i semplici cittadini, anche solo continuando le loro solite occupazioni diedero un grande impulso morale alla resistenza.

Era passato quasi un anno e Leningrado, nonostante tutto, viveva. L’armata tedesca si preparava ad affrontare il suo secondo inverno nei boschi intorno alla città e non sarebbe stato neanche l’ultimo.

Il primo grande attacco dell’esercito sovietico fu posto in essere da circa 200.000 soldati da nord su due fronti nel gennaio del 1944. La linea difensiva tedesca fu distrutta e furono portati attacchi da tre direzioni. Quando le truppe russe si ricongiunsero, fu ricostituito un golfo e Leningrado terminò di essere un’isola. L'assedio era finalmente terminato.


Dalla nera polvere, dal posto

 Della morte e delle ceneri, risorgerà il giardino come prima.

 Così sarà. Credo fermamente nei miracoli.

 Sei tu che mi hai dato questa fede, mia Leningrado.

Olga Bergol'c

martedì 29 agosto 2017

QUELLI DELL'IMPERO


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Lo spunto per un interessante articolo sulla questione e di tutte le implicazioni che tutt'ora comportano del colonialismo italiano in Africa viene dalla pubblicazione di un libro e dal relativo contributo di Contropiano(africa-italiana-non-li-aiutavamo-casa ).
Si parla dell'invasione italiana e della creazione dell'impero sul ricordo di quello romano,scopiazzando male un progetto che diventerà anacronistico nel giro di pochi anni sia per la presa di coscienza di molti occidentali che per le insurrezioni degli indigeni.
Non si parla delle efferatezze compiute dai militari italiani(madn speriamo-ancora-molti-altri e madn le-sanzioni-allitalia-nel-1935-per-la.guerra in etiopia )ma si cerca di porre domande a questioni politiche e sociali,a partire dall'idea supremazia della razza bianca fino alle leggi razziali(madn ottantanni-e-non-dimostrarlinessun-uomo è illegale ).
Di come questo neoimperialismo abbia avuto un'impronta classista e sessista,di una netta divisione dei compiti e dei diritti e dei doveri propri dello schiavismo e di come l'emigrazione italiana di natura prettamente urbana abbia caratterizzato un esodo di massa obbligatorio per le popolazioni africane nelle poverissime zone rurali,mai risanate nonostante le riforme agrarie promesse e mai mantenute.
Senza parlare del processo di selezione di chi andava in Africa per costruire una nuova Italia che doveva essere il fiore all'occhiello del regime al di fuori dei confini nazionali e che si è rivelata un disastroso insuccesso con perdite economiche imponenti per i tempi che furono,così come dell'altro esodo forzato di centinaia di donne italiane in modo che non si corresse il pericolo di un mescolamento di etnie differenti.
Una tragica scommessa che come in Italia ha portato il paese nel baratro del fascismo.

Africa italiana, quando non li aiutavamo a casa loro.

di  Carlo Scognamiglio *
Lo storico Emanuele Ertola si è cimentato in un compito difficile e delicato. Ha studiato la chiaroscurale realtà della dimensione coloniale italiana in Africa orientale. Nel suo bel libro, intitolato In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero (Laterza, 2017), si è costretti a seguire un percorso sinuoso, poiché estraneo alla pista già battuta dei crimini di guerra e delle vicende militari. Ertola prova a indagare su un piano socio-culturale il rapporto tra Italiani e popolazioni locali, correndo su due binari intersecantisi: la vita quotidiana dei coloni, nella loro multiforme composizione, e le aspettative del regime fascista.

Il principale ostacolo, in una ricerca storica di questo tipo, risiede naturalmente sulla questione delle fonti: poche, eterogenee e spesso parziali. Al di là della stampa nazionale e coloniale, che restituisce solo in modo obliquo alcune informazioni utili, l’autore è costretto a intercettare lettere sequestrate dalle autorità, pagine di diario o comunicazioni diplomatiche. Un libro quindi doppiamente interessante: per i contenuti e per metodi d’indagine storiografica

Il primo elemento da provare a mettere a fuoco consiste nella finalità politica dell’intrapresa coloniale. Il regime fascista intendeva assegnare alla conquista dei nuovi territori un carattere peculiare, che la distinguesse dalle precedenti azioni espansionistiche promosse dall’Italia liberale. Ne derivò l’insistenza sulla definizione di Impero per l’occupazione dell’Africa orientale. Questo tratto lessicale avrebbe immediatamente prodotto una connessione con una congiunzione tra la grandezza d’epoca romana e la nuova Italia fascista. Tuttavia, essendo il sistema politico guidato da Mussolini una dittatura aspirante al totalitarismo, volle anche segnare una propria differenza dal colonialismo delle grandi potenze liberali, come Francia e Gran Bretagna. Pertanto, per l’Impero nostrano si mise mano a un progetto più politico che economico (i vantaggi, infatti, per l’Italia e per il capitalismo italiano, furono poco consistenti). L’idea era quella di trasformare il territorio etiopico in una traduzione perfetta del progetto di ingegneria sociale che faticosamente si andava elaborando in Italia. In terra d’Africa si ebbe la sensazione di poter cominciare da zero, come se quei luoghi fossero disabitati, o popolati da docili marionette da trasformare in Italiani di serie B. Le diplomazie delle altre potenze imperialiste infatti rimasero sorprese dall’ingente quantità di investimenti italiani per la costruzione di infrastrutture, strade, abitazioni e soprattutto la mastodontica macchina amministrativa insediata dal nostro Paese in quell’area.

Si trattò di investimenti all’italiana, in realtà. Molto denaro speso, pochi i vantaggi reali. Era lo stesso Farinacci ad ammetterlo, scrivendo a Mussolini nel 1938, cioè soltanto dopo due anni la grande conquista: “le migliaia e migliaia di chilometri di strade asfaltate rappresentano una tremenda fregatura per l’erario […] Le strade permanenti fatte unicamente perché potessero presentarsi al Duce e far dire all’autore: ho fatto questo, ho fatto quest’altro, oggi, dopo due anni appena, sono in gran parte in pessime condizioni […] troppa gente, troppe ditte succhiano criminalmente alle mammelle della madre patria” (p. 36).

In effetti in tal senso l’idea di ricostruire l’Italia in Africa riuscì abbastanza bene. Non a caso si produsse un grave indebitamento. Ma quale, dunque, la logica delle insistenti opere di “riqualificazione”? Il fatto è che il regime volle non solo dare un’impronta progettuale nel disegno di quel luogo del totalitarismo compiuto, ma per meglio compiere la missione, valutò di poter selezionare accuratamente i “tipi” sociali da trasferire in Africa, e quelli da rimpatriare in Italia. Lo spiega bene Ertola:

“la nuova impostazione teorica faceva dell’impero la massima espressione del regime, in cui replicare il meglio della civiltà della madrepatria portando a compimento, su questo terreno di sperimentazione privo di condizionamenti, i progetti totalitari fascisti. In questo grande laboratorio biopolitico, l’ “uomo nuovo” avrebbe dovuto trasferirsi in via definitiva per costruire una società nata dall’emigrazione di massa, ma allo stesso tempo selezionata, priva di tutti gli elementi giudicati inadatti per motivi fisici, politici e morali” (pp. 22-23).

Lunghi e complessi i processi di selezione. Non tutti potevano accedere all’avventura coloniale, in molti furono respinti, per difetti fisici che ne inibissero le capacità lavorative, oppure per indigenza, o precedenti penali.

La situazione presenta elementi grotteschi, perché lo scarto tra le aspettative e la realtà mostra qui tutta la sua ampiezza. Infatti, spiega l’autore, “i coloni nell’impero volevano libero accesso alle risorse, libera iniziativa, poco o nessun controllo da parte dell’autorità” (p. 48). Gli Italiani erano andati in Africa per fare i padroni, essendosi nutriti per anni del mito della superiorità razziale dei bianchi sui neri.

Altro scopo del regime fascista fu quello di risolvere almeno parzialmente i fenomeni della disoccupazione e dell’emigrazione attraverso l’espansione coloniale. Tuttavia, nonostante l’elevato numero di coloni, essi rappresentarono solo una piccola parte degli emigranti italiani, che continuarono a preferire altre destinazioni (dalle Americhe al Nord-Europa).

Il tipo di stanziamento fu prevalentemente urbano, anche perché nelle zone periferiche e la resistenza dei locali appariva tutt’altro che sedata. Inoltre, i piani urbanistici realizzati dai tecnici del fascismo, prevedevano un processo di espulsione della popolazione indigena dai centri urbani, creando una drastica separazione tra coloni e colonizzati. Era infatti una preoccupazione, quasi un’ossessione, delle autorità italiane, che non si producesse una mescolanza tra le due differenti antropologie. Oltre alla fobia del meticciato, però, c’era l’idea della possibilità, da parte degli indigeni, di considerarsi alla stregua dei coloni, e pretendere prima o poi di assumere lo stesso stile di vita. Nei comportamenti e negli spazi, la differenza doveva essere invece segnata, e le differenze sempre evidenziate. Essendo tuttavia gli emigranti – specie all’inizio – di sesso maschile, poco ci volle che quel senso di superiorità razziale si trasformasse in attitudine all’abuso, allo sfruttamento della prostituzione o al concubinato, cui le donne colonizzate furono costrette a sottostare.

Il regime cercò di limitare questo fenomeno incentivando la partenza di impiegate donne e ragazze da marito in Africa, dimostrando un grado di sensibilità nei confronti della dignità femminile assolutamente inafferrabile. Così Mussolini telegrafava a Badoglio e Graziani: “per parare sin dall’inizio i terribili et non lontani effetti del meticcismo disponga che nessun italiano – militare aut civile – può restare più di sei mesi nel vice-reame senza moglie” (p. 102)

Il punto importante da capire è che la bianchezza non era una questione razziale, ma era subito diventata una questione di classe. I bianchi erano i padroni, i neri gli schiavi. Infatti, erano considerati “estranei” alla bianchezza, anche quegli operai e contadini italiani, che in Africa avevano trovato solo miseria e povertà, e si erano adattati a vivere nei tucul insieme agli etiopici, adottandone stile di vita e convivendo con essi.

Diffidenza e odio non esprimevano, in Africa, una repulsione per il colore della pelle, ma prevalentemente una discriminazione classista. Ertola ci riporta le cronache che descrivevano rappresaglie e pogrom contro la gente di colore, secondo i racconti di osservatori stranieri: “per due giorni e mezzo gli etiopici, ovunque fossero e qualunque cosa facessero, sono stati cacciati, picchiati, presi a colpi di arma da fuoco o di baionetta, o manganellati a morte. Le loro case sono state incendiate ed in alcuni casi essi stessi sono stati spinti tra le fiamme a morire bruciati. A questa carneficina sono stati combinati razzia e saccheggio. Addis Abeba è stata la scena di un orrore tale, come raramente – se non mai – è stato commesso da rappresentanti di qualunque moderna nazione civilizzata” (p. 138).

Le autorità italiane tentarono di limitare gli abusi, e di punire anche severamente le prepotenze. Ma non si trattava di rispetto delle usanze, dei costumi e della dignità dei sudditi, voleva dire invece assumere rigorosamente il contegno dei padroni, che non si mescolano ai sottoposti, neanche nella rissa, altrimenti elevano questi ultimi al proprio stesso rango sociale. Infatti, con la stessa durezza, erano sanzionati coloro i quali dimostravano eccessiva dimestichezza con gli etiopici.

Questo articolo è stato pubblicato su Popoffquotidiano

lunedì 28 agosto 2017

GUERRA TRA I POVERI SUL LAVORO FESTIVO


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Ogni tanto sui social,per strada e al lavoro si parla anche a sproposito del lavoro domenicale e dei vari tipi di lavoratori che esercitano la loro professione anche durante i giorni festivi.
Nei due articoli presi da Contropiano(le-domeniche-dei-commessi )e da Senza Soste(festa-selvaggia )due esempi di come sia stata creata ad arte questa guerra tra poveri e le differenti categorie lavorative con stipendi e reperibilità,con differenze geografiche e con le richieste che tutti hanno il diritto di poter fare ed avere.
Del dire che al giorno d'oggi è già tanto avere un lavoro e che lavorare la domenica è un privilegio visto che c'è chi un'occupazione non l'ha(una delle più grandi cagate che si possano sentire)a sentirsi dire che infermieri,divise varie e altri lo fanno sempre(con adeguate retribuzioni),è ovvio che ci siano dei casi nei quali la turnazione dev'essere 24 ore al giorno e per tutto l'anno.
Ma andare al centro commerciale sempre è comunque è un vizio che gli italiani hanno preso e che non vogliono smettere di abusarne.

Le domeniche dei commessi: altro che medici, infermieri, poliziotti…

di  Francesco Iacovone
Mentre i commessi dei centri commerciali, dei supermercati di prossimità e dei negozi del centro delle nostre città si ribellano al lavoro domenicale e festivo, i benpensanti rispondono in coro: “E i medici? Gli infermieri? I poliziotti? I vigili del fuoco? I ristoratori?

Beh, questo piccolo ma significativo episodio accadutomi in vacanza mi ha fatto riflettere, a lungo. E mi ha convinto a rispondere a Lorsignori:


Il supermercato è bello, di quelli un po’ chic. I commessi hanno divise eleganti e l’architettura è avveniristica. Fuori fa caldo, entro e prendo una bibita fresca. Alla cassa non c’è nessuno. Qualche secondo e una giovane ragazza corre verso di me, sorridente e con uno straccio in mano: “Mi scusi tanto, facevo le pulizie. Se non approfitto ora poi la gente sale dal mare ed è l’inferno”. Io di rimando sorrido, le chiedo qual è il suo turno mentre mi batte la spesa e lei, sempre con quel bel sorriso campano al centro di un viso paffuto e solare: “Ho appena attaccato e stacco a mezzanotte”. A mezzanotte? Dalle 14.00 a mezzanotte? Con quel sorriso di ordinanza dovrai resistere fino a mezzanotte? E domani? Domani si ricomincia, senza regole né pietà. Senza domeniche né festivi. Insomma, vite appese a contratti stagionali e precari. Vita senza orari ma guai a fare tardi. Ogni giorno, ogni turno, ogni pausa (quando c’è)…

Eccole le condizioni di chi si guadagna da vivere come addetto del commercio. Condizioni che non sono affatto paragonabili a chi svolge le professioni ripetute come un mantra da chi vorrebbe rendere normale ciò che normale non è. Da chi vorrebbe porre sullo stesso piano mestieri tanto diversi.

Il tentativo è quello di equiparare un servizio pubblico essenziale con la vendita di beni e servizi spesso superflui. Appare abbastanza scontato che un medico ed un infermiere salvano vite e lo debbono fare tutti i giorni della settimana. Anche le forze di polizia devono garantire la nostra sicurezza tutti i giorni della settimana e gli incendi di certo non vanno in vacanza.

Ma vediamo quali sono le differenze sostanziali che ci rendono chiaro il perché di un paragone che non regge, affatto. Intanto le retribuzioni: il medico ospedaliero, una volta che è stata conseguita la specializzazione, riceve un salario variabile tra i 1900 e i 2900 euro su base mensile. A fare la differenza all’interno di questa ampia forbice contribuiscono l’anzianità, gli straordinari, la reperibilità e i turni festivi. Il primario, che è il grado più alto che si può raggiungere all’interno di un reparto, può arrivare a guadagnare anche 4.500 euro netti al mese. Ma il medico di base (quello che riposa domeniche e festivi) è quello che guadagna di più: anche 5.000 euro al mese. Non parliamo poi degli specialisti privati e dei chirurghi, che guadagnano cifre da capogiro.

Un infermiere, invece, con turni e straordinari, che molto spesso sono obbligatori, guadagna intorno ai 1.600 euro mensili. E un poliziotto, aggiungendo straordinari, turni di notte o indennità per i servizi di ordine pubblico svolti fuori sede, raggiunge i 1600 euro circa. In ultimo, i vigili del fuoco sono quelli che guadagnano meno, intorno ai 1.300 euro mensili. Sia ben chiaro, a mio avviso gli stipendi di questi dipendenti pubblici sono bassi, soprattutto in relazione a quello che fanno e ai rischi che corrono, ma non sono paragonabili a quello della cassiera che ho menzionato prima.

Per non parlare degli orari: mentre per i commessi regna il far west e le pressioni e le illegalità sono all’ordine del giorno, le altre categorie hanno delle garanzie che consentono la pianificazione della vita sociale e familiare. Inoltre, troppo spesso, un lavoratore del commercio percepisce uno stipendio part time per un lavoro full time o addirittura lavora in nero.

E veniamo alla ristorazione, che incentra i propri guadagni proprio sulle domeniche e sui festivi. Appare evidente che chi approccia a quel mestiere ne è consapevole e compie una scelta chiara. I lavoratori del commercio no! Si sono ritrovati tra capo e collo il Decreto del Governo Monti che, dall’oggi al domani, ha violato il contratto stipulato in partenza, imponendo in corsa l’obbligo al lavoro domenicale, con buona pace finanche dei sindacati firmatari di quel contratto.

Insomma, la guerra tra poveri non serve a nessuno. Se un esercito di commessi protesta ha le sue buone ragioni, che non sono da contrapporre alle giuste ragioni di altre categorie di lavoratori. La realtà, quella vera, è che ci stanno impoverendo tutti. E per darci l’illusione del consumo, vorrebbero rinchiuderci tutti all’interno di un centro commerciale.

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Festa selvaggia: le aperture nei festivi e i 24h in Italia ed in Europa

Le consuete polemiche sulle aperture festive di centri commerciali ed ipermercati portano con sé la fotografia di un settore dove impera la competizione selvaggia dal 2012 (decreti Monti) ma dove gli effetti su ricavi, lavoro e fornitori delle aperture 24h e 7/7 non sono affatto positivi. Dagli altri paesi europei fino alla nostra città il quadro appare chiaro e necessita di un cambiamento

Con l’arrivo della primavera e delle festività di Pasqua, Pasquetta, 25 aprile e 1 maggio si riapre ogni anno il dibattito sulle aperture festive di supermercati e ipermercati. Ma col passare degli anni, al di là di polemiche ed interessi divergenti fra quei soggetti chiamati imprese, lavoratori e consumatori, esistono dati e analisi che mettono dei paletti fissi su cui costruire un ragionamento? Sì. C’è un primo dato oggettivo: la grande distribuzione organizzata (Gdo), da quando il settore è stato liberalizzato, non sta aumentando la produttività tanto che il 2016 si è chiuso con un calo dello 0,6% in termini di consumi. Lo ha detto Marco Moretti, presidente del Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, sul Sole24Ore dello scorso 13 aprile dove ha fatto anche un quadro quantitativo del settore Centri Commerciali: 360mila dipendenti diretti, 35mila negozi, 51 miliardi di fatturato e 1,8 miliardi di visitatori ogni anno.

La liberalizzazione del 2012 e l’Europa. Oggi in Italia un negozio può restare aperto quanto e quando vuole, senza limiti legati ai prodotti venduti come avviene invece in altri paesi europei. Questa possibilità è stata introdotta dal decreto “Salva Italia” promosso dal governo di Mario Monti alla fine del 2011 ed entrato in vigore nel 2012, permettendo a negozi e supermercati di restare aperti 24 ore al giorno e tutti i giorni della settimana, domenica compresa, pagando i lavoratori quanto previsto dalla legge per il lavoro notturno e festivo (di solito il 30% in più della paga ordinaria). E nel resto d’Europa? A differenza di ciò che dicono i sostenitori del consumo h24, negli altri paesi europei, seppur la tendenza sia quella a limitare il meno possibile le aperture nei festivi (come da Raccomandazione del giugno 2014 del Consiglio dell’Unione Europea che chiede l’apertura del mercato e la rimozione dei vincoli), ci sono norme più stringenti. Intanto vediamo la normativa Ue: l’unico vincolo, contenuto nella direttiva europea sull’orario di lavoro (2003/88/EC), è quello di concedere al dipendente un giorno di riposo dopo sei di impiego, che però non necessariamente deve cadere in un festivo. In Germania sono i Land che decidono il numero di giorni di apertura nei festivi. Ci sono però deroghe in cui è possibile l’apertura illimitata specialmente in zone turistiche e nella zona di Berlino vicino a stazioni e centri. In Francia non è permessa l’apertura nei festivi ma ci sono molte deroghe per aree metropolitane e posti turistici. Sicuramente però l’apertura nei festivi non può essere sistematica ed automatica, infatti Ikea nel 2008 ha preso quasi mezzo milione di euro di multa dal governo. In Gran Bretagna dal 1994 è consentita l’apertura domenicale ai negozi di più di 280 metri quadrati mentre per i festivi come Pasqua e Natale i vincoli sono più serrati anche se sottoposti a possibili deroghe. In Spagna invece vige il limite di una domenica al mese, eccetto a dicembre, ma come negli altri paesi ci sono molte deroghe a seconda delle località. Insomma in Europa la tendenza è simile alla nostra ma la normativa più stringente e lascia in mano all’autorità pubblica il potere regolatorio. Intanto giace da 3 anni in Parlamento una legge promossa dai 5 Stelle che propone la limitazione all’apertura di 6 festivi su 12 ogni anno.

Il dibattito politico. Fatto questo quadro normativo possiamo passare al dibattito più propriamente politico ed economico. Dai dati che emergono una cosa è certa: l’apertura indiscriminata non aiuta né i consumi né il lavoro. Fino ad oggi ha promosso una competizione selvaggia mirata soprattutto all’eliminazione dell’avversario che però non ha aumentato i fatturati ma sottoposto a ulteriore pressione sia il management che i lavoratori, scontentando tutti. Senza considerare che la competizione sfrenata sta avendo effetti ancora più devastanti sui fornitori, a partire dai produttori agricoli ma allargandosi anche all’industria alimentare ormai in balìa delle strategie commerciali della grande distribuzione. Visto che i consumi interni non crescono per la crisi economica e per le  politiche di austerità, non rimane che grattare il fondo del barile del proprio competitore per sopravvivere rimanendo aperto più a lungo. Ma si tratta di una visione disperata che nella liberalizzazione selvaggia lascia feriti sul campo. Basterebbe mettere regole uguali per tutti in modo tale da razionalizzare la competizione evitando comportamenti irrazionali. L’ultimo esempio è stato Carrefour che  ha provato con le aperture notturne a frenare l’emorragia delle perdite ma alla fine ha dichiarato 500 esuberi pochi mesi fa. Prova del fatto che non sono le ore di apertura a fare la differenza nella competizione. Esiste poi una questione politica e culturale. Nonostante la loro vocazione dogmatica verso il liberismo, i partiti cattolici e la Chiesa chiedono per le domeniche e le festività, specialmente quelle religiose, limitazioni per poter santificare le feste e dedicarsi alla famiglia. A livello sindacale ed a sinistra invece si punta il dito sul diritto di avere giorni festivi liberi fissi per poter organizzare la propria esistenza e non renderla totalmente dipendente dal lavoro. Poi c’è un problema culturale, vale a dire il fatto che per molte organizzazioni politiche e imprenditoriali il fenomeno del consumo h24 è inarrestabile e va assecondato a tutti i costi. C’è chi addirittura come Scalfarotto, ex partecipante alle primarie del Pd, che chiama in causa il fatto che la famiglia “non tradizionale” abbia bisogno di fare acquisti nei festivi. Tuttavia il consumo h24, utile o compulsivo che sia, è stato indotto e sostenuto dal modello culturale dominante ma anche dall’abitudine a trovare aperto tutto a qualunque ora. Una tendenza che il decreto Monti ha sostenuto ed alimentato. Ma il dibattito si dovrebbe spostare su un altro tipo di analisi da supportare con numeri. Se è ormai appurato che sul piano dei consumi/ricavi la liberalizzazione selvaggia non ha dato nessun beneficio al settore della Grande Distribuzione, come si pone il futuro del settore nei confronti della vendita online? Quali strumenti di regolazione possono garantire entrambi i settori senza lasciare tutto alla guerra, alla competizione sfrenata e ai conseguenti morti (dal punto di vista lavorativo) da lasciare sul campo? Questo sarebbe già un argomento più interessante da supportare con dati e analisi di prospettiva. Intanto non sarebbe male rivedere a livello europeo tutta la normativa fiscale per far pagare le tasse ai giganti della vendita online e farla finita con paesi come l’Irlanda che fanno politiche fiscali aggressive verso gli altri paesi UE.

L’impatto sui territori. A Livorno in materia di grande distribuzione stiamo vivendo tutte le contraddizioni di questa fase del settore, accentuati anche dagli errori fatti dalle Amministrazioni comunali in termini urbanistici e strategici. Stiamo vivendo infatti la crisi di Unicoop Tirreno dovuta a fattori di scarsa competitività strutturale ed errori strategici con la fallita espansione verso il sud. Ma a Livorno Unicoop mostra anche le problematiche della grande distribuzione in termini di ricavi e consumi. Nonostante il quasi monopolio a Livorno, Unicoop negli ultimi anni ha aperto altri due supermercati, Levante e Porta a Mare, dove però ha ricollocato gli esuberi degli altri negozi. Sintomo che anche al crescere del numero di negozi i consumi rimangono i soliti. Aumenta solo la competizione e la corsa ai prezzi che spreme ancora di più lavoratori e produttori ma non crea ricchezza e nemmeno risolve i problemi occupazionali. A intasare ulteriormente il settore l’anno prossimo arriverà Esselunga, il grande marchio che in questi anni ha gli indici migliori di efficienza e aumento dei fatturati in Italia. Usiamo il verbo “intasare” perché Esselunga non porterà nessuna nuova ricchezza in città ma andrà a prendersi la propria fetta a scapito di altri. Tutto legittimo, ci mancherebbe, così come le operazioni di marketing rispetto alle sponsorizzazioni che hanno già annunciato. Purtroppo però Esselunga, come detto, andrà a saturare un mercato già saturo anche per colpa di un’operazione, come quella Fremura-Nuovo Centro-Coop, voluta dalla vecchia amministrazione Pd e che “costrinse” gli attori in gioco a scegliere ancora Coop per coprire forse l’ultima fetta di mercato di distribuzione alimentare in città. In questo modo, in un regime di semimonopolio, Esselunga (che aveva anche offerto di più per approdare a Nuovo Centro) è partita all’attacco per poter aprire il proprio punto vendita in un’altra zona trovando terreno fertile con la nuova amministrazione 5 Stelle. Morale della favola: a causa di scelte passate forzate e sbagliate, Livorno si ritroverà con un ennesimo superstore, addirittura dentro la città, che causerà un effetto domino. Anche con tutte le migliori intenzioni del mondo, che non stiamo qui né ad analizzare né a legittimare o delegittimare, l’impatto sul territorio sarà negativo anche se qualcuno pensa che sia inevitabile per la situazione che si era venuta a creare con Coop. Rimane il fatto che forse solo i prezzi e quindi i clienti dei vari supermercati cittadini ne potranno beneficiare, ma la città in termini di ricchezza e lavoro scoprirà ben presto che tutti i segni più si compenseranno con i segni meno. Non abbiamo mai letto da nessuna parte o visto territori rilanciarsi con i supermercati, soprattutto perché fanno parte di un sistema chiuso di circolazione di ricchezza. Saremmo felici di essere smentiti.

tratto dal cartaceo di Senza Soste n.126 (maggio 2017)

sabato 26 agosto 2017

ANCORA POLEMICHE PER LO SGOMBERO DI ROMA


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In una città allo sbando da parecchi mesi,se non anni includendo pure le precedenti amministrazioni,le scene passate in rassegna negli scorsi giorni sulla violenta repressione contro dei profughi in piazza Indipendenza(madn accoglienza-dei-rifugiati-roma )fanno ancora discutere.
Se da un lato l'informazione di regime manda le immagini spacciate ad arte dalla stessa polizia dove si notano lanci di oggetti da parte dei profughi e si parla di alcuni agenti contusi,dall'altra c'è anche chi fortunatamente da la voce agli ultimi ed oppressi ed alla loro situazione tragica.
L'articolo di Contropiano(spaccabraccia-imparziale-migranti-operai-basta-menarli )parla dei provvedimenti di Minniti e di nuove direttive per i prossimi sgomberi(quindi ce ne saranno di nuovi)oltre che del depistaggio mediatico su problemi a corollario della situazione delle occupazioni di stabili inutilizzati.
Si da anche risalto alla figura(di classico uomo di merda)del funzionario della polizia che incitava i suoi a spaccare braccia,e si evidenzia il fatto che questo personaggio(il nome?)aveva già fatto danno a Livorno(madn il-weekend-di-livorno )e sempre a Roma manganellando gli operai della Thyssen in protesta(senzasoste ),insomma uno che fa carriera.

“Spaccabraccia” è imparziale: migranti o operai, basta menarli.

di  Alessandro Avvisato
Ora è il momento in cui il governo, il ministro dell’interno, la Regione Lazio, la giunta romana, devono correre ai ripari e mettere una toppa alla figuraccia da neonazisti di Charlottesville fatta con i rifugiati richiedenti asilo di Piazza Indipendenza.

Pare – la fonte è Repubblica, dunque è bene diffidare – che Miniti in persona stia facendo stilare le “nuove linee-guida che le questure dovranno seguire per effettuare gli sgomberi. “La prossima settimana – dice una fonte qualificata del ministero dell’Interno a Repubblica – scriveremo nuove linee guida per effettuare gli sgomberi ordinati dai giudici, e le invieremo a tutti i prefetti d’Italia. Tra le disposizioni ci sarà sicuramente quella di non autorizzarli se prima non è stata concordata una sistemazione dove alloggiare chi ne ha diritto”.

Sembra una buona notizia, ma non lo è. Intanto, sembra davvero sorprendente – per usare un eufemismo – che finora il ministero (dunque il governo e giù per li rami, fino all’ultima amministrazione comunale) abbia proceduto a buttare gente in strada in assenza di alternative abitative. Sappiamo benissimo che hanno sempre fatto così, ma scriverci una circolare apposita è una confessione che va registrata come tale e ricordata ogni volta che vi dicono “siamo dalla parte dei cittadini” o “noi combattiamo il razzismo”.

In secondo luogo appare altrettanto certo che le nuove direttive saranno concepite in modo da “sorprendere” gli sgomberandi e gli organi di informazione, in modo da far circolare meno immagini possibile delle violenze poliziesche.

Dai media mainstream, oltre a immagini e video mandati da cittadini, non arrivano segnali di resipiscenza. Stamattina – probabilmente riprendendo “veline” della questura – è tutto un fiorire di sketch scandalizzati sul “palazzo occupato”, in cui sarebbero stati accolti anche “irregolari” non meglio specificati, in cambio di un “affitto” (ben 10 euro…) raccolto da qualche capo-comunità.

Un classico copione in cui si rovescia la catena delle resonsabilità per criminalizzare chi è già stato sgomberato, pestato, deportato o costretto alla fuga. La sequenza giusta è questa: lo Stato ha disatteso il suo obbligo a rispettare le norme internazionali sui rifugiati e richiedenti asilo, perché dopo aver giustamente accolto chi era in fuga dalla guerra, si è completamente disinteressato del passo successivo: facilitare l’integrazione. Insomma, la lasciato per strada gente che andava viceversa aiutata (non “assistita”) a trovare una sistemazione esistenziale. Costrette ad “arrangiarsi” – pari pari a gran parte della popolazione indigena, ossia gli italiani – queste persone hanno trovato soluzioni di fortuna, che in alcuni casi sono rappresentate dalle occupazioni di stabili vuoti e inutilizzati. Di cui in genere i proprietari si ricordano solo quando hanno trovato una combinazione speculativa favorevole. Tra le soluzioni di fortuna, come noi italiani abbiamo insegnato al mondo da emigranti, c’è a volte anche l’aiuto reciproco interno alle varie comunità etniche; un aiuto non sempre amichevole, perché le soluzioni di fortuna sono costitutivamente patogene per chi è costretto a farvi ricorso.

Mostrarsi scandalizzati perché questo accade, dopo aver disatteso ogni impegno concreto perché non potesse avvenire, è la riprova della sozzura intellettuale che appesta tutto il circuito della “classe dirigente”, dai cosiddetti “politici” agli opinionisti iperpagati, fino all’ultimo dei cronisti precari che sperano in un’assunzione mostrandosi servili (a proposito di “soluzioni di fortuna” che generano patologie…).

Chi invece non ha alcuna scusante patologico-ambientale è l’anonimo funzionario “spaccabraccia”, quello che ordinava agli agenti di “far sparire” quell’insieme umano per lui tanto odioso.

Una comparazione tra i video girati in piazza dopo lo sgombero dei rifugiati e quello della trasmissione di RaiTre Gazebo di tre anni fa ha dimostrato che si tratta proprio dello stesso funzionario che aveva ordinato le cariche contro gli operai della ThyssenKrupp di Terni, guidati dall’allora segretario generale della Fiom Maurizio Landini.

Il 29 ottobre 2014, sempre a Piazza Indipendenza (evidentemente la location gli appare per qualche ragione “perfetta”, o semplicemente il suo ufficio è ubicato nei pressi…), di fronte ai lavoratori della fabbrica di Terni che intendevano raggiungere la zona dei ministeri imboccando via Solferino, presidiata dalla polizia, ordinò “caricate! Caricate!“. Senza altre frasi rivelatrici.

Anche allora la questura non mancò l’occasione per coprirsi di vergogna e ridicolo. Giustificò infatti la carica asserendo che “i manifestanti intendevano occupare la stazione Termini”.Altro che “processo alle intenzioni”, in quel caso c’era anche una sentenza preventiva…

Stavolta le parole del funzionario – registrate da tanti microfoni – non potevano essere coperte con giustificazioni di alcun genere. Un po’ troppo esplicite, diciamo…

Dal nostro punto di vista, però, l’anonimo “Spaccabraccia” andrebbe in qualche modo addirittura ringraziato: la sua indifferenza al tipo di manifestante che si trova davanti – metalmeccanico, migrante, oppositore politico, sindacalista neanche troppo estremo, ecc – dimostra un’imparzialità di pestaggio che liquida come una vera idiozia tutto l’armamentario della “guerra tra poveri”. La lunga lista di “capri espiatori” con cui si cerca di scaricare la rabbia sociale su gruppi ancora più deboli (“i negri” sono ovviamente all’ultimo gradino della scala) viene infatti stracciata dal manganello “Spacca braccia”.

Per questo potere siamo tutti uguali. Tutti da “far sparire”, da mandare all’ospedale o in galera se appena appena alziamo la testa. Che si sia nati a “Torbella”, a “Torpigna” o ad Addis Abeba… Sarebbe il caso di rendersene conto.

venerdì 25 agosto 2017

NESSUNA NOTIZIA DALLO YEMEN


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Tra tutti i conflitti mondiali ed attuali quello che si sta verificando nello Yemen nell'omertà più assoluta è uno tra i più insabbiati sia politicamente che dal punto di vista dell'informazione che tace l'attacco unilaterale dell'Arabia Saudita e di tutte le coalizioni sunnite contro gli sciiti yemeniti,accusati a torto de essere tra i fomentatori del terrorismo globale(madn nello-yemen-e-guerra ).
Nell'articolo di Left(yemen-nella-guerra-dimenticata )spunti per riflessioni sui bombardamenti(anche mediante contributo italiano)sui civili e sugli ospedali nel silenzio più assoluto in una terra per l'appunto dimenticata o ignorata dir si voglia.

Yemen, nella guerra dimenticata da tutti l’Arabia saudita fa strage di civili.

LEFT REDAZIONE
Nello Yemen, un Paese di venti milioni di abitanti, dove ogni giorno si registrano 5mila nuovi casi di colera, sono appena morte 35 persone. Qualcuno dice 40. La conta funesta è ancora in atto e per alcune fonti, le persone che hanno perso la vita sotto le bombe cadute a nord di Sana’a, capitale dello Stato arabo più povero del mondo, sono quasi 70. Settanta: ed erano tutti civili. L’obiettivo del raid aereo di ieri dell’Arabia Saudita, testa d’ariete della coalizione sunnita, era una base militare degli Houthi sciiti, i ribelli del nord che combattono per il riconoscimento del governo in esilio. Ma le bombe hanno colpito case, scuole, ospedali, alberghi. I bombardamenti di questi mesi hanno distrutto ponti, ospedali, fabbriche.

Due anni e mezzo, quasi tre, ma si continua a morire in Yemen. Si muore di bombe, di fame e soprattutto di silenzio. Di malattie che pensavamo confinate nelle pagine dei libri di storia. In tre mesi il colera ha ucciso 2mila persone e mezzo milione sono state contagiate: è la più grande epidemia della storia degli ultimi cinquant’anni. I dottori, il resto del personale medico e i soldati, non vengono pagati da tanti mesi che tra poco si potrà scrivere che per un anno avranno vissuto senza ricevere salario.

Due anni e mezzo, quasi tre. Quella in Yemen non è proprio come la chiamano – la “guerra dimenticata” -, ma piuttosto è la guerra ignorata, sempre e da sempre, da tutti i giocatori della comunità mondiale.

Le esplosioni uccidono in un istante e la malattia in poche ore. L’Arabia Saudita blocca i rifornimenti di benzina, gli aiuti medici non riescono ad arrivare ed è per questo che le organizzazioni non governative cominciano a parlare di un’epidemia man made, una catastrofe voluta ed organizzata dai sauditi, contro i sette milioni di abitanti che vivono in povertà, muoiono di fame e prima delle cure mediche, non riescono nemmeno a procurarsi cibo. Due terzi della popolazione hanno bisogno di quell’aiuto umanitario ora bloccato, per sopravvivere giorno dopo giorno, ancora un giorno, almeno fino a domani.

giovedì 24 agosto 2017

"ACCOGLIENZA" DEI RIFUGIATI A ROMA


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A Roma stamattina la gestione dell'accoglienza dei rifugiati politici si è risolta con la violenza e con lo sgombero di Piazza Indipendenza dove centinaia di persone sono state sfollata con la forza ed il pugno duro eredità fresca del decreto Minniti sul"decoro urbano"(madn minnitiluomo-del-manganello-e-delloliodi ricino ).
Le scene di guerriglia,compiuta solamente dalle forze del disordine dopo un blitz recente fallito per l'opposizione dei rifugiati prevalentemente somali ed eritrei in strada dopo lo sgombero di un palazzo in via Curtatone,sono andate in scena stamani con grande dispiego di agenti dei reparti speciali.
Nell'articolo di Contropiano(roma-idranti-manganellate )la cronaca della mattinata violenta romana contro numerose donne e bambini mentre i feriti sono stati soccorsi solamente da Medici senza frontiere.

Roma. Idranti e manganellate all’alba. Sgomberata la tendopoli in Piazza Indipendenza.

di redazione Roma  
Ore 11. Prosegue la feroce operazione di polizia contro le famiglie che avevano occupato lo stabile in Piazza Indipendenza. La polizia, schierata in tenuta anti sommossa, ha azionato nuovamente l’idrante per “liberare” la piazza dove si trovano ancora un gruppo di migranti, soprattutto donne sgomberate sabato dal palazzo di via Curtatone. Per evitare lo sgombero le donne si sono inginocchiate per terra con le braccia alzate. La polizia ha azionato lo stesso gli idranti.
Sono arrivate anche due ambulanze, che hanno portato via due persone. Una di loro non riusciva più a respirare dopo essere stata investita a lungo col potente getto d’acqua dell’ideante blindato.
All’alba di questa mattina, dopo il fallito blitz di ieri che aveva incontrato la resistenza delle famiglie di rifugiati sgomberate e sistematesi nei giardini di piazza Indipendenza, la polizia ha eseguito lo sgombero della tendopoli. Sono stati usati gli idranti. Per sistemare le persone sgomberate il Comune propone temporaneamente 80 posti in una struttura a Torre Maura e 60 fuori Roma, ma le persone rimaste senza un tetto sono centinaia.

L’articolo e le foto che seguono sono di Patrizia Cortellessa. L’articolo è tratto da Il Salto.

Sgomberati e caricati, per i rifugiati di piazza Indipendenza la soluzione è la forza

Sono arrivati con gli idranti e hanno caricato e disperso i rifugiati sgomberati una settimana fa in piazza indipendenza, a Roma. Si è conclusa così, questa mattina all’alba, la vicenda degli occupanti dell’ex sede Ispra. Molti di loro ancora dormivano, in strada, quando è arrivata la polizia. Ieri il tentativo di sgombero non era andato a buon fine, ma questa mattina non ci sono stati tentativi di mediazione. Le persone accampate in strada sono state cacciate con la forza. E quando hanno provato a unirsi per manifestare, in piazza dei Cinquecento, sono stati nuovamente dispersi.

È finita tra le lacrime e la disperazione dei rifugiati, l’operazione di sgombero iniziata il 19 agosto scorso, per “liberare la piazza” nella quale dormivano nelle aiuole dopo essere stati cacciati via da un alloggio occupato senza che si provvedesse a individuare soluzioni alternative. Così, anche in questo caso la politica della non-accoglienza a Roma ha fatto il giro del mondo e sollevato critiche e preoccupazioni da parte di organismi internazionali, dall’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) ad Amnesty International.

Facciamo un passo indietro per ricostrurire l’accaduto. Il 19 agosto un numero spropositato di uomini e mezzi delle forze dell’ordine sgomberava il palazzo ex Ispra, tra via Curtatone e Piazza Indipendenza, vicino la stazione Termini, occupato nell’ottobre del 2013 da circa mille rifugiati, soprattutto eritrei e somali. Pullman della polizia e anche due bus dell’Atac venivano impiegati per trasportare i migranti all’ufficio immigrazione della questura per l’identificazione. La maggior parte di loro era poi tornata lì, in piazza Indipendenza. “Non sappiamo dove andare”, avevano detto. “Dormiremo qui, in strada”. Così è stato. Da allora circa 200 persone, uomini e donne anche anziane, hano dormito, fino a questa notte, nelle aiuole di fronte al palazzo sgomberato. Accanto a loro borsoni e trolley, tra quadri raffiguranti la Madonna e Gesù Cristo e le speranze spezzettate e accatastate una sopra l’altra.

Solo alle famiglie con bambini e anziani o malati era stato concesso di rientrare al primo piano dello stabile. 107 persone, dice ora il comune di Roma, che soltanto dopo due giorni lo sgombero e con la gente in strada aveva annunciato un tavolo di lavoro permanente e di un censimento degli occupanti per verificare ogni singola situazione. Ieri, quando la polizia è tornata per sgomberare, ci si sono stati momenti di forte tensione. Le donne hanno lanciato oggetti e spazzatura dalle finestre dello stabile e si sono affacciate mostrando le bombole del gas. Poi la situazione si calmava e le bombole venivano ritirate.

“Siamo rifugiati, non terroristi” continuavano a ripetere. “Vogliamo giocare fuori” “vogliamo una casa” ritmavano invece i bambini. Dalle finestre, perché da 5 giorni non possono uscire dal palazzo. Dalla riunione del Comitato per l’ordine e sicurezza svoltosi in Prefettura – presenti i vertici delle forze di polizia, la Regione Lazio, Roma Capitale e i rappresentanti della proprietà dell’immobile sgomberato – veniva fuori una proposta, da parte del fondo Idea Fimit Sgr che gestisce lo stabile sgomberato e che interessava le persone “con fragilità” censite dal Comune: 8 villette in provincia di Rieti. Soluzione temporanea – sei mesi – e per pochi.

Anche il Comune metteva sul piatto la sua proposta: ottanta posti nelle strutture in centri di prima accoglienza. Per tornare dove si è iniziato. Centri, fra l’altro, “del tutto inadeguati” e con un numero inferiore di posti rispetto a quanto annunciato, riportava la delegazione di rifugiati che era andata a verificare. Parliamo di persone che fuggono da guerre e persecuzioni e alle quali è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico, che hanno diritto a protezione internazionale e che non dovrebbero tornarci nei centri di prima accoglienza. Parliamo di famiglie che verrebbero smembrate e di persone che, nel caso delle villette a 60 e più km da Roma, verrebbero anche allontanate dai loro lavori; e di bambini che magari sono nati in quel palazzo e che vanno a scuola lì vicino.

Ma, soprattutto, si trattava di soluzioni tampone, con scadenza. Che rimandano di qualche mese il problema, senza risolverlo. Proposte irricevibili, hanno risposto i rifugiati. Che ieri, dopo lo sgombero per ora scongiurato, si apprestavano a passare la quinta notte nelle aiuole di piazza Indipendenza e al primo piano dello stabile di via Curtatone. Stamattina all’alba, con cariche e idranti, agenti in tenuta antisommossa hanno messo la parola fine alla vicenda. “Non è giusto” gridano in mattinata le donne ancora in piazza Indipendenza. Ma la risposta ancora una volta, sono gli idranti e le sirene spiegate.

mercoledì 23 agosto 2017

C-STAR E DEFEND EUROPE:CORNUTI E MAZZIATI


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Ora che l'avventura triste della nave C-Star foraggiata dai fascisti di Defend Europe ha finito miseramente la propria missione,un successo secondo loro,una serie ravvicinata di minchiate e di grosse risate se il tema non fosse così serio per i più,spero se ne parli per l'ultima volta(madn la-hate-boat-ferma-ma-i-governi-si.muovono ).
Perché in una manciata di settimane si sono resi protagonisti in ridicolo di aver ospitato migranti paganti per essere portati in Italia,l'equipaggio cingalese ha chiesto rifugio politico a Cipro,dove il capitano e l'armatore sono stati arrestati e infine dopo un tentativo di attracco in Tunisia si sono ritrovati in avaria nel Mediterraneo come le barche di migranti che volevano affondare.
Articolo di Contropiano(fascio-mercenari )e fine del lor schifoso progetto:cornuti e mazziati.

I fascio-mercenari di Defend Europe ridotti a barcone di naufraghi.

di  Redazione Contropiano  
Se uno fosse minimamente tentato dal credere nell’esistenza di un dio, questa storia sembra fatta apposta per convincerlo. A noi atei impenitenti, invece, basta sapere che sulla testa dei fascisti-mercenari-poliziotti di Defend Europe aleggia la nuvola di Fantozzi, oltre al consueto tanfo di fogna.

La nave C-Star era stata lanciata come inizitiva per disturbare fisicamente l’operato delle navi delle Ong impegnate nei salvataggi in mare dei migranti provenienti dalla Libia, ma si era già coperta di vergogna in almeno due occasioni: fermata lungo il Canale di Suez per documentazione irregolare e nel porto di Cipro per aver ospitato a bordo una ventina di migranti che avevano pagato 10.000 euro a testa per essere portati in Italia, ma registrati sommariamente come “membri dell’equipaggio”. Si erano visti rifiutare l’approdo nei porti tunisini, sull’onda di una mobilitazione dei pescatori, fino al punto di dover essere rifoniti in mare – come gli appestati – al largo di Sfax.  Il tutto condito da una lunga serie di rivelazioni sul loro essere in realtà il braccio propagandistico di una società che recluta mercenari, alcuni di quali attivi come “agenti sotto copertura” (quindi agli ordini dei servizi segreti italiani) su una nave di “Save the children” impegnata a pedinare i volontari tedeschi di Jugend Rettet, a bordo della nave Juventa.

Non contenti di aver già lasciato questa scia nauseabonda nel martoriato Mediterraneo, oggi ne hanno inanellato un’altra: sono andati in avaria mentre “pattugliavano” al largo delle coste libiche e hanno lanciato una sorta di Sos. In pratica, pari pari quel che accade a qualunque barcone carico di migranti. La marina militare ha giustamente avvertito la “nave più vicina” di portare loro soccorso. Il destino cinico e baro ha voluto che i più vicini fossero gli attivisti di un’altra associazione tedesca, la Sea Eye. I quali hanno ovviamente provveduto a contattare i “terrori dei sette mari”, ricevendo – con loro utentico sollievo – un semi-indignato diniego; forse temevano di essere contagiati e di perdere dunque “l’identità”.

Ironizzare su questa gente sarebbe il minimo, ma lo schifo supera di gran lunga ogni tentazione di ghignare divertiti. Vorremmo essere almeno un poco religiosi e poter invocare Nettuno perché metta fine a questo avvilente spettacolo…

martedì 22 agosto 2017

ABUSIVISMO?SI,GRAZIE


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L'ennesima pessima figura della politica italiana la si è avuta nei giorni scorsi a Licata(Ag)dove il sindaco Cambiano è stato sfiduciato anche da parte della sua stessa maggioranza col risultato di un comune con un commissario straordinario dopo che se ne sono avuti ben sei negli ultimi venticinque anni,segno che denota una certa familiarità delle istituzioni con la criminalità.
Ma non apparentemente in questo caso dove il motivo della sfiducia è stata l'opposizione netta al volere del sindaco di abbattere le abitazioni abusive della città:dapprima incentivato a farlo e a proseguire da Alfano,sono stati proprio i consiglieri i Alternativa Popolare ad affossare il loro sindaco con il loro voto.
Pure altri movimenti politici(i grillini)paladini della lotta all'abusivismo abitativo si sono rimangiati tutto dicendo che gli abusivi per necessità(o tutti o nessuno?)abbiano il diritto a rimanere nelle loro case alimentando ulteriormente il far west mafioso dove tutti fanno quello che hanno voglia naturalmente col permesso(pagato)al boss di turno.
Un tema delicato soprattutto al sud Italia dove le regole normative sulla costruzione di case diciamo che vengono bypassate con allegria nonostante la legge parli chiaro:se da un lato le famiglie non devono essere lasciate per strada dall'altro bisogna evitare che nascano case sparse qua e la come funghi soprattutto in zone non si può costruire e senza la minima disposizione antisismica(vedi il terremoto di Ischia di ieri e anche quelli precedenti).
Articolo di Left(il-sindaco-anti-illegalità sfiduciato )cui aggiungo questo(palermo.repubblica.it ).

Il sindaco anti illegalità: «Sfiduciato da mestieranti della politica». E chiama in causa Alfano.

ELENA BASSO
Il sindaco di Licata (Ag) Angelo Cambiano è stato sfiduciato con 21 voti favorevoli e 8 contrari. La sua colpa? Aver fatto rispettare le sentenze del tribunale di Agrigento per demolire le numerosissime case abusive presenti sulle coste di Licata. Angelo Cambiano, 36 anni, sindaco da meno di due anni, a causa della sua fermezza nel far abbattere le orribili palazzine costruite a ridosso del mare vive sotto scorta, ha subito minacce di morte e varie intimidazioni, fra cui l’incendio doloso di due case di famiglia. La mozione di sfiducia è stata presentata da 16 consiglieri comunali che lo accusano di aver fatto diminuire le risorse nelle casse comunali a causa delle sue scelte politiche. «Ha vinto la classe politica che ha preso in giro i cittadini per 30 anni – ha dichiarato Cambiano ai microfoni di Radio3 -. Di sicuro non ha vinto la buona politica. Sono amareggiato. Ho pagato un prezzo altissimo per essere sindaco di questa città: vivo sotto scorta, sono stato minacciato di morte e ho due immobili incendiati».

Cambiano, che in questi due anni è diventato un simbolo della lotta contro l’abusivismo, ha annunciato che impugnerà l’atto di sfiducia nei suoi confronti perché «le motivazioni che sono state riportate sono solo bugie. Questo atto, votato il 9 agosto, affossa la città di Licata».
Numerosissime ed immediate le reazioni di incredulità e le manifestazioni di solidarietà al sindaco, fra cui spicca quella del presidente di Legambiente Sicilia Gianfranco Zanna: «La mozione di sfiducia al sindaco di Licata è una delle pagine più tristi e brutte della democrazie italiana. La politica siciliana ha scritto un’altra pagina di vergogna, perché non ha saputo difendere un uomo delle istituzioni che ha fatto solo il suo dovere».

Cambiano si è detto amareggiato di fronte ad una politica che l’ha abbandonato: «Credo che la politica debba veramente mettersi una mano sulla coscienza per l’isolamento che ha generato intorno a me – ha dichiarato a Radio3 – il ministro Alfano in primis. È venuto a Licata, ci ha messo la faccia dicendo che il momento della politica che coccola gli abusivi è finito e invece poi i suoi consiglieri comunali di Alternativa popolare hanno votato per sfiduciarmi».
«Sono certo che dietro a questa falsa mozione di sfiducia ci siano ben altre motivazioni, legate all’abusivismo edilizio. Ho interpretato questo mio ruolo di sindaco come un ruolo di servizio per la comunità. Faccio l’insegnante di matematica e tornerò a fare quello, alla mia vita normale. Rimarranno a fare politica i mestieranti della politica, quelli che per 30 anni hanno devastato il territorio di questa città».

lunedì 21 agosto 2017

RAUTI VA VIA


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Che l'antifascismo starnazzato e anche male a troppi politicanti del Pd sia usato solamente quando fa a loro comodo e che invece tengano intrallazzi con Cagapovndini è un fatto risaputo,ed il caso del paese natale del fascistissimo Rauti e dell'intitolazione di una via a suo nome in quel di Cardinale(Catanzaro)ha destato malcontenti e denuncia da parte dell'Anpi.
Come scritto nell'articolo preso da Contropiano(pd-celebra-fascista-pino-rauti )invece di proporre iniziative antifasciste per riscattare il nome del paese calabrese il sindaco Pd Marra,eletto con una lista civica dopo un commissariamento,ha deciso di dedicare a questa merda una strada.
Un predicatore di violenza e di morte,di estremismo,di pestaggi in branco e di attentati,incarcerato per due attentati a treni compiuti nel 1969 ed indagato per le stragi di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia,insomma un criminale che non merita nemmeno la tomba dentro la quale sta marcendo.
Vedi anche:madn i-funerali-di-rauti e madn sgomberi-firenze-e-caa-povnd solidarizza col pd per citare un caso di legami tra fascisti e Pd.

Il Pd celebra il fascista Pino Rauti intitolandogli una via.

di  Redazione Contropiano
L’assessore del Comune di Cardinale, Umberto Marra, del Partito democratico, ha deciso di intitolare una via del paese a Pino Rauti. Chi è?, si chiederanno i più giovani… Niente di che, appena il fondatore del Centro studi Ordine Nuovo (da cui originò il gruppo neonazista italiano autore di numerosi attentati, in proprio o in collaborazione con i servizi segreti), rimasto sempre nel Movimento Sociale Italiano, diventandone per un breve periodo anche il segretario generale prima dell’avvento di Gianfranco Fini e della “svolta di Fiuggi”.

Ma come… un assessore del Pd, partito che finge di fare dell’antifascismo da operetta rimproverando Tizio, Caio e Sempronio, tranne trattenere rapporti intensi con CasaPound quando torna utile (vedi qui, qui e qui)…

Va bene che a Cardinale, quel Pino Rauti lì, ci era nato; ma non sarebbe stato il caso di vergognarsene un po’ e dunque continuare a far finta di nulla (se non addirittura promuovere iniziative antifasciste per ripulire l’immagine del paese)?

A quanto pare, no. Questo paese ha dato i natali a un “puzzone”? Evviva il “puzzone”…

Qui di seguito la breve biografia politica di Rauti nella ricostruzione di Giulio Salierno, pubblicata da Mininum Fax e poi da Carmilla. Può essere utile per fronteggiare, in modo argomentato, qualche imbecille del Pd che recita la parte dell’antifascista a giorni alterni.

*****

«Attentati a uffici, magazzini, cinema, linee ferroviarie»: chi era davvero Pino Rauti.

di Giulio Salierno*
Pubblichiamo, ringraziando l’editore Minimum Fax per l’autorizzazione, alcune pagine del fondamentale testo di Giulio Salierno Autobiografia di un picchiatore fascista [Minimum Fax, Roma 2008 (I ed. Einaudi, 1976), cap. 4, pp. 133-37 e 142-45: qui la scheda del libro], nelle quali l’autore, all’epoca dirigente giovanile della sezione Colle Oppio del MSI, racconta quali erano le tesi di Rauti sin dagli anni ’50.

Era ancora il turno delle sparate retoriche e fideistiche. Stavo per tornare di nuovo nel salone degli uffici quando vidi entrare in sezione Pino Rauti, il giovane leader della corrente spiritualista. Rimasi sorpreso. Non speravo che al dibattito potesse prender parte un uomo del suo calibro. Mi misi seduto in prima fila. Non volevo perdere neppure una parola del suo intervento.
 Alto, magro, ascetico, Pino Rauti si muoveva con passi lenti, misurati. Sembrava indifferente alla curiosità che destava. Mi ricordava un gesuita.

Si accostò al tavolo della presidenza, chiese la parola e si sedette in attesa che gliela dessero. La sala si riempì di gente. La sua presenza aveva richiamato tutti quelli che prima, per sfuggire alla noia, si erano cacciati negli uffici. L’oratore di turno abbreviò il suo intervento per cedere subito il microfono a Rauti.
 Il capo degli evoliani inforcò gli occhiali e cominciò a parlare a voce secca, distinta, e dopo un breve cappello d’obbligo entrò immediatamente nel merito della discussione:

«Presentarci come pecore all’opinione pubblica è un nonsenso. Significa raccogliere gli applausi di una massa di gente che, alle prossime elezioni politiche, preferirà la DC a noi proprio perché ci considererà deboli, inadatti a fronteggiare i comunisti e per di più sospetti per il nostro passato. Io non credo alle elezioni, non credo ai partiti, e non credo che il Parlamento rappresenti la nazione. Sono, quindi, convinto che dobbiamo mutare tattica e strategia se vogliamo contare qualcosa nel nostro paese. Dobbiamo essere lupi e farci conoscere come tali. Fingerci pecore equivale non solo a esserlo, ma — e lo dico per gli ammalati di parlamentarismo — significa anche impossibilità di raggiungere rilevanti risultati elettorali. Crede la direzione, piegando il ginocchio, di trasformare il MSI, agli occhi degli altri partiti, nel figliol prodigo a cui si spalancano le braccia per accoglierlo? Illusione, follia o forse… tradimento».

italicus.jpg L’assemblea ascoltava con attenzione. Le tesi di Rauti non erano condivise dalla maggioranza dei presenti. Erano però apprezzate per le critiche radicali che esprimevano nei confronti della direzione e per i suggerimenti tattici e strategici che contenevano.

«Non possiamo sperare», continuava Rauti, «di poter ripetere ciò che Mussolini fece nel 1922. Malgrado i legami esistenti e quelli che si potrebbero incrementare con l’apparato statale, la polizia e l’esercito, non è ugualmente possibile effettuare un colpo di stato o un’insurrezione di destra tout court. Nel paese è in atto una guerra civile scatenata dalla sinistra, una guerra civile che i comunisti conducono in modo nuovo: con la forza della parola, della propaganda, dell’infiltrazione negli organismi dirigenti dello stato. Noi non possiamo e non dobbiamo batterci sul terreno di lotta scelto dall’avversario. Possiamo e dobbiamo, invece, smascherarne il gioco, costringerlo a uscire allo scoperto. Obbligare la sinistra, e in particolare i comunisti, a scegliere tra insurrezione o resa è il nodo di fondo della politica italiana. I comunisti sanno che la via diretta, quella del fucile per intenderci, sarebbe la loro rovina; dobbiamo obbligarli a percorrerla o a emarginarsi nel ghetto politico dell’isolamento e della debolezza. Solo così noi possiamo diventare l’arco di volta della lotta contro il comunismo e, per batterlo, ottenere gli appoggi internazionali necessari per conquistare il potere. Il punto è come arrivarci».

Parlò a lungo della strategia da seguire. Esponeva i concetti in modo suasivo, eppure sfumato, indiretto, mediato. Voleva essere certo che l’assemblea lo capisse, ma temeva anche di prestare il fianco ad accuse precise: una cautela dettata dalla necessità. In parole povere, la strategia da lui sostenuta avrebbe dovuto cominciare ad articolarsi nei seguenti capisaldi fondamentali:

a) Tattica diretta. Dall’aggressione fisica ai militanti della sinistra a uno stillicidio di provocazioni: una bottiglia di benzina qui, un manifesto strappato là, una bomba qui, una scazzottata là. E ciò allo scopo di far saltare i nervi all’avversario, trascinandolo alla rissa. A forza di ricevere provocazioni, in un crescendo sempre più galoppante, i comunisti avrebbero ceduto. Non avrebbero sopportato il disagio: si sarebbero esasperati e avrebbero reagito, o sarebbero riusciti a stare calmi e buoni, perdendo credito di fronte alla classe operaia.
 b) Tattica indiretta. Attentati a uffici, magazzini, cinema, linee ferroviarie. L’opinione pubblica, sempre scontenta e avida di tranquillità, si sarebbe indignata e avrebbe invocato l’ordine senza curarsi da quale parte sarebbe venuto.
 c) Esercito. Dimostrargli la necessità-indispensabilità di assolvere al proprio ruolo storico di difensore e custode dei destini e dell’avvenire della patria, inducendolo a gettare il peso determinante della propria forza e organizzazione nella lotta politica.
 d) Legami internazionali. Creare una rete europea e mondiale di organismi, giornali, gruppi di pressione della destra estrema; entrare in contatto con i governi e i servizi statali stranieri interessati a impedire l’ascesa dei comunisti al potere nel nostro paese.
 e) Indirizzo economico. Non suggerire ai potentati capitalistici mirabolanti soluzioni economiche, ma convincerli ad appoggiare un governo di estrema destra come unica e reale, anche se forse poco gradita, soluzione in difesa dei propri interessi.
 f) Istituzioni. Stabilire solidi rapporti di amicizia e se possibile di affari con gli uomini chiave di tutte le istituzioni in cui fosse stato possibile infiltrarsi.
 g) Chiesa. Farle capire in modo discreto che il suo futuro era legato al consolidamento di un vero regime di destra in Italia, mentre la DC poteva garantirgli solo il presente.

Questi erano i punti che si coglievano, dietro la maschera delle parole, nel discorso di Rauti, e sui quali, si capiva, dovevamo far leva per cementare intorno alla destra le istituzioni e la maggioranza della popolazione e costringere la sinistra a perdere senza battersi o uscire allo scoperto per essere vinta dall’esercito.

«Dobbiamo avere il coraggio di affermare», proseguì poi Rauti, passando dalle proposte politiche alle critiche di principio, «che noi consideriamo l’economia e tutto ciò che a essa è inerente — salari, stipendi, bisogni materiali — come un’appendice priva di valore dell’umanità. Noi dobbiamo porre sullo stesso piano sia la struttura capitalistica che quella socialistica. Al di là e al disopra dell’economia deve porsi un ordine di valori superiori, politici, spirituali, eroici; un ordine che non conosce e non concepisce classi economiche, e solo in funzione dello stesso possono definirsi le cose per le quali vale davvero vivere e morire».

[…]

Qualcuno tirò fuori dalla tasca un gesso e tracciò sull’asfalto un gigantesco fascio littorio. Rauti intervenne invitandolo a disegnare sì un fascio, ma quello della rsi. La differenza formale tra i due fasci è minima. Il littorio ha la scure sporgente a metà delle verghe annodate; in quello della Repubblica di Salò, invece, la scure è sulla cima, sopra alle verghe. A livello politico, però, la diversità è notevole. Per gli evoliani e i «socializzatori» il fascio littorio era, tutto sommato, il simbolo di un regime borghese e buffonesco, giustamente finito nella farsa del 25 luglio 1943. Con il suo richiamo, Rauti intendeva invitare il disegnatore al rispetto della correttezza ideologica.
«Voi “puri” siete peggio dei preti!», replicò l’improvvisato pittore, cui non andava giù di essere colto in fallo.
«Per noi», rispose Rauti, «il nazismo è una religione e la rivoluzione nazionalsocialista l’unico scopo della vita».
Intervennero tutti. Parlarono Aldo, Enzo, Mario e la discussione si fece aspra e accesa. Il dibattito di poco prima in sezione ci servì da stimolo. Fu uno scontro verbale tra attivisti. Niente pistolotti oratori. Il «leader» degli spiritualisti era abilissimo e politicamente lucido. Le sue tesi chiare e affascinanti.
«Dobbiamo metterci in testa», disse a un certo punto, «che siamo in guerra contro questo sistema. E come in guerra, il piano generale delle operazioni deve essere stabilito studiando, conducendo e coordinando le differenti azioni sui singoli fronti, adeguandole e dosandole per le diverse situazioni, alternando le une alle altre nei periodi “caldi” o “freddi”, a seconda della situazione strategica generale».

piazza_della_loggia.jpg «Delineata la struttura d’attacco», proseguì Rauti, «occorre preparare gli uomini, gli organismi, i mezzi. Ci sono due settori a cui bisogna porre una cura particolare: quello relativo alla fase di propaganda e infiltrazione, e quello, invece, relativo all’ultima fase, quella dell’azione. Quest’ultima, però, interviene in un tempo successivo e difficile da stabilirsi in anticipo».
L’analisi di Rauti fu minuziosissima: passò dalla validità dei riflessi condizionati come forma di propaganda all’eventuale utilizzo di elementi fuoriusciti opportunamente indottrinati. Costoro possono rientrare in Italia per svolgere i compiti loro affidati, può trattarsi al limite di costituire un partito o di trasformarne uno esistente; oppure di creare organismi camuffati di fiancheggiamento o infiltrazione diretta negli organi dello stato.
 Il capo degli «evoliani» parlò ancora dei mezzi di propaganda, sviscerando il concetto di irrazionalità e sostenendo la necessità di azioni che facessero leva su elementi irrazionali e inconsci. Spiegò la necessità di servirsi di slogan, simboli e miti e soprattutto di evocare come mito un’idea-forza. «Non è necessario», affermò, «che il mito sia giusto, bello, morale o vero: basta che colpisca, sia convincente e verosimile. Convincente non sul piano razionale, ma su quello emotivo e inconscio. Deve colpire, e colpire forte: magari allo stomaco. Colpire per la sua incisività, e quando questa venga a mancare, colpire per qualche particolare trovata a effetto».
Non avevo obiezioni da formulare dal punto di vista tecnico. Avevo avuto modo di constatare nella prassi la giustezza delle sue osservazioni. Anche in questioni futili o banali.

«La guerra rivoluzionaria», continuava a spiegare Rauti, «deve estendersi a macchia d’olio, penetrare negli ambienti più consistenti e influenti della vita del paese. Allargandosi, l’infiltrazione s’impadronisce di organi a carattere nazionale. Di solito si inizia con la stampa. Dobbiamo sfruttare l’aiuto diretto o indiretto di certe istituzioni chiave dell’apparato statale e quello di alcuni servizi stranieri per arrecare, col concorso di plurime e diverse attività clandestine e pubbliche, il maggior danno possibile ai nostri avversari, intaccandoli nell’apparato organizzativo, nella capacità di risposta a un’offesa esterna, nel morale e soprattutto nelle alleanze che hanno con gli altri settori della popolazione. Solo così gli attentati, le bombe, acquistano peso politico. La dinamite e la rivoltella devono diventare immagini, pubblicità subliminale. Il loro ruolo effettivo deve essere quello di agire a livello dell’emotività individuale e collettiva. Opporre alla ragione le istanze del profondo della psiche umana».

Aldo e Mario erano quelli che sollevavano le maggiori obiezioni. Aldo soprattutto insisteva sul perché dell’azione. «Sono d’accordo», gli disse, «che il colpo di stato è un piatto che va servito caldo, e io stesso odio l’abito borghese e amo e credo solo nella tuta mimetica, ma voglio sapere a vantaggio di chi e per conto di chi debbo uccidere o farmi uccidere».
La discussione proseguì per molto tempo e la chiuse Rauti, nel momento in cui ci separammo per andarcene a letto, dicendoci: «L’Europa deve riprendere la vocazione di sempre, la vocazione che ispira le grandi idee. Gli europei considerano oggi i loro problemi non in rapporto alle questioni politiche sul tavolo, ma secondo i riflessi del Patto Atlantico e del Patto di Varsavia. Così noi europei stiamo alla finestra di fronte a tutti i grandi problemi, tra cui in Italia, e non solo in Italia, c’è in prima fila quello del comunismo. E dal modo con cui noi lotteremo contro il comunismo si deciderà la sorte non solo del nostro paese, ma del continente. Il marxismo attualmente è in espansione. Ma se noi sapremo finalmente aprire gli occhi sulla guerra rivoluzionaria, se sapremo reagire in misura adeguata, allora e soltanto allora potremo riprenderci e vincere».

 * (c) minimum fax 2008, tutti i diritti riservati

sabato 19 agosto 2017

RAFA DIEZ ASKATU!


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La notizia della scarcerazione di Rafael Diez Usabiaga,il leader sindacalista basco del Lab in carcere da sei anni e mezzo per aver tentato tramite Beteragune di ricostituire il partito ormai illegalizzato di Batasuna,ha fatto gioire il popolo di Euskal Herria ma allo stesso tempo fa riflettere per i troppi compagni ancora imprigionati in Spagna e Francia a centinaia di chilometri dalle loro case.
Uno dei primi a complimentarsi è stato l'attuale coordinatore di Eh Bildu Arnaldo Otegi(madn sei-anni-e-quattro-mesi )e dopo la liberazione sinceramente non so se c'è stato l'ongi etorri,l'omaggio nel suo paese natale in Lasarte-Oria(Guipúzcoa)dopo gli anni passati in Cantabia a El Dueso.
Perché a parte il breve articolo apparso su Contropiano(lavoro-conflitto-news )l'altro contributo è in euskera(www.berria.eus )e quindi non so se è stato dato l'ok nonostante le diffide dell'associazione nazionale dei parenti delle vittime del terrorismo dell'Eta oppure no.
Può essere d'aiuto anche questo sito in castigliano(www.elperiodico.com )ma l'importante è che un personaggio del calibro di Rafa Diez possa tornare a lottare per tutto il popolo basco nell'attesa che tutti i prigionieri politici possano uscire dalle carceri in cui sono rinchiusi anche da più di vent'anni.

Rafa Diez, segretario del sindacato basco Lab, sarà libero a giorni.

di  Redazione Contropiano  
Il compagno Rafa Diez sarà liberato dalle carceri dello stato Spagnolo fra pochi giorni. Rafa Diez è stato incarcerato nel 2009. mentre era Segretario Generale del Sindacato Basco LAB, con l’accusa di essere uno degli artefici della ricostruzione di Batasuna.

Rafa è stato detenuto lontano dai Paesi Baschi come avviene per la maggioranza dei compagni arrestati dallo stato spagnolo per allontanarli dai propri cari e dalla solidarietà militante.

Negli anni scorsi, i dirigenti della Federazione Sindacale Mondiale avevano più volte richiesto il permesso di visitarlo in carcere, ma ogni volta la richiesta era stata respinta.Ora verrà scarcerato perché è stata interamente scontata la pena.

La Fsm, nel dare a notizia, esprime tutta la sua per la notizia della sua liberazione. “Un rivoluzionario torna alla militanza attiva tra la sua gente e i suoi compagni di lotta politica e sindacale!”

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'BATERAGUNE AUZIA'

Zigorra osorik beteta, bihar irtengo da espetxetik Rafa Diez

Auzitegi Nazionalak baimendu egin ditu Rafa Diez omentzeko ekitaldiak, Espainiako Gobernuko Kantabriako ordezkaritzak debeku administratiboa ezarri ondoren El Dueson (Kantabria, Espainia) egitekoak ziren ekitaldiari. Sei urte eta erdi eman ditu espetxean. Zuzeneko kontakizuna egingo du bihar BERRIAk.

Espainiako Auzitegi Nazionaleko Fernando Andreu epaileak baimena eman du Rafa Diezen omenez biharko antolatutako ekitaldiak aurrera eramateko, Santoñako El Duesoko espetxetik (Kantabria, Espainia) irteten denean. Adierazi du ez dela "inon ageri" deitutako ekitaldietan deliturik gertatuko denik, eta Eusko Jaurlaritzako Segurtasun Sailaren ardura dela aztertzea ea ekitaldiek legea betetzen duten.

Iskanbila sortu da gaur goizean, LAB sindikatuak jakinarazi baitu Espainiako Gobernuak Kantabrian duen ordezkaritzak debekatu egin duela Rafa Diezi espetxe irteeran egitekoak ziren ekitaldia. Gobernu ordezkaritzaren arabera, hamar eta 30 egun bitarteko epea dago ekitaldiak antolatzeko asmoen berri emateko, baina El Duesokoa sei egun lehenago jakinarazi zuten. Hala ere, ordezkaritzako iturriek erantsi dute Guardia Zibilak, txosten batean, ekitaldia egitea ezetsi duela, "segurtasun arrazoiengatik".

LABek salatu duenez, "Espainako Erreinuak beste behin duen izaera antidemokratikoa besterik ez du erakusten". "Ezinbestean", bertan behera utzi dute El Duesoko ekitaldia, baina Diezi harrera egiteko egitaraua moldatu dute. Lehenik, "familia, lagun, kide eta harekin egon nahi duen oro El Duesoko espetxearen atarian izango gara Rafa askatu zain". Ondoren, Euskal Herrirantz abiatuko dira, eta bertako lehen herrian geratuko dira, Muskizko (Bizkaia) Pobeña auzoan: "Han, LABek elkarretaratze ekitaldia antolatu du 11:45etik aurrera, adierazpen askatasunaren alde eta euskal preso guztiak etxera ekar ditzatzen aldarrikatuz". Gainera, Lasarte-Orian (Gipuzkoa) 19:30ean egitekoak diren ekitaldiari eutsi diote.

Egitarauaren berri eman aurretik, Sortuk ziurtzat jo du Diezek "merezitako harrera" izango duela, eta debekua "adierazpen askatasunaren aurkako erasotzat" jo du Arnaldo Otegi EH Bilduko koordinatzaileak.

Bestela mintzatu da, ordea, Pablo Casado PPko komunikazio idazkaria. Esan du "onartezina" dela Diez Usabiaga omentzea, eta "adi" egoteko eskatu dio botere judizialari, haren aldeko ekitaldirik egin ez dadin.

Espainiako Justiziak ezarritako espetxe zigorra osorik bete ostean, bihar geratuko da aske Rafa Diez LABeko idazkari nagusi ohia eta Bateragune auzian zigortutakoa. Dignidad y Justicia elkarteak Espainiako Auzitegi Nazionalean eskatu zuen debekatzeko Diezi harrera egiteko biharko antolatu diren ekitaldiak. Elkarte horrek auzi askotan parte hartu du, eta, azkenaldian, haren xede nagusia da preso ohiei eginiko harrerak salatzea, argudiatuta ekitaldi horietan parte parte hartzen dutenek "terrorismoa goratu" eta "delitu terroristak justifika" ditzaketela. Elkarteak dio Diez "ETAko kide" dela, eta hori "publikoa eta agerikoa" dela.

Espetxe zigorra osorik beteta, libre

Politikan eta sindikalismoan ibilbide luzea eginikoa da Diez. Hogei urte zituela izen eman zuen LAB sindikatuan, eta 1996tik 2008ra arte idazkari nagusia izan zen. Eusko Legebiltzarrean eta Espainiako Kongresuan parlamentari izana da ezker abertzaleko ordezkari gisa.

Bateragune auziko azken presoa da Diez. 2009ko urrian atxilotu zuten, Arnaldo Otegi, Sonia Jacinto, Arkaitz Rodriguez, Miren Zabaleta, Rufi Etxeberria, Mañel Serra, Amaia Esnal eta Txelui Morenorekin batera. Batasunaren Mahai Nazional berria osatzea egotzi zien orduan Baltasar Garzon epaileak. Auzitegi Gorenak sei urte eta sei hilabeteko zigorra ezarri zion, Auzitegi Nazionalak 2011n ezarritakoa murriztuta. 10 urteko inhabilitazio zigorra du, 2021 artekoa.

17 hilabetean baldintzapean aske egon zen, baina, berriro espetxeratuta, hura da auzian preso jarraitzen duen bakarra. Zigorra osorik beteta irtengo da espetxetik, hura aske uzteko eskariak baztertu baitzituzten Auzitegi Nazionalak aurrena eta Auzitegi Gorenak ondoren. Zigor Kodearen erreformaren ondorioz, 579 bis artikulua ezartzea eta zigorra gutxitzeko galdegin zuen Diezek, baina ezezkoa erantzun zioten bi auzitegiek aurten; lehenak, urtarrilean, eta bigarrenak, uztailean.

Diezen askatasunaren alde izan da mobilizaziorik; besteak beste, Rafa gure artera manifestua izenpetu eta plazaratu zuten iazko urrian, eta sinatzaileen artean zeuden Carlos Garaikoetxea eta Juan Jose Ibarretxe Eusko Jaurlaritzako lehendakariak.

2015eko apirilean, preso zegoela, hari eginiko elkarrizketa argitaratu zuen BERRIAk. Bertan, burujabetza prozesua "herri boterearen berreskuratze prozesu" gisa definitu zuen, eta sindikalgintzaren egitekoaz ere gogoeta egin zuen: "Boterearen kontrako sindikalismoa baino gehiago, boterea berreskuratzeko sindikalismoa behar dugu".