venerdì 31 marzo 2017

I GIORNALISTI IN MALAFEDE QUANDO PAGHERANNO?

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Certamente una parte,piccola o grande non interessa nemmeno molto,di chi come professione ha scelto la carriera giornalistica l'ha fatto per passione e non sicuramente per avere un buon stipendio garantito come ad esempio uno che ha scelto la divisa,ma alcuni di loro piuttosto di raccontare i fatti che avvengono così come sono e scegliendo le fonti attendibili e sicure,commettono errori grossolani e per questo devono essere in qualche modo puniti.
Discorso già fatto in altri tempi ed in altre situazioni(ad esempio vedi:madn sono-sempre-loroci-attaccanofeltri-co )cui scivolano nel paradossale e nello sbaglio voluto i soliti noti appartenenti a testate editoriali i radiotelevisive che spaziano da Il giornale a Libero passando per Rete 4 o qualche emittente regionale lombarda senza citarne una in particolare.
Qui di cronaca nera se ne parla poco e solo in occasione di tentativi di sviare sia le indagini che l'opinione pubblica e nel caso del ragazzo massacrato a botte ad Alatri si è gridato subito al lupo(albanese)quando i protagonisti di questo vile attacco di branco sono italiani e pure coperti dalle loro famiglie.
Ed anche si fosse trattato di stranieri oppure di alieni la gravità e l'orrore dell'atto compiuto sarebbe lo stesso degno d'infamia.
Con tanto di mazza usata con riferimenti fascisti,guarda caso,come solo loro sanno agire,in gruppo e solitamente spalleggiati da polizia o da altri ratti di fogna in un cameratismo di non invidiabile appartenenza.
L'articolo preso da Infoaut(antifascismoanuove-destre )parla poco del fatto di cronaca ma abbastanza del lavoro alla cazzo di professionisti che devono raccontare i fatti accaduti senza cadere nel razzismo,nella superficialità e nella scorrettezza.

Alatri. Banda di albanesi? C'era boia chi molla sul manganello degli assassini.

La nuda cronaca è nota a tutti: un giovane di appena 20 anni di Alatri, pestato a sangue e ucciso. Dal “branco” ci dicono i giornali.
Fin dal principio della cronaca il giornalismo nostrano si è contraddistinto per malafede e pressapochismo, descrivendo il gruppo di assassini come  stranieri, spalleggiando o comunque servendo una palla clamorosa a chi sul razzismo ci campa.  Salvo poi arrivare alla smentita ammettendo la presenza di un solo albanese in un gruppo di 8 presunti aggressori, tutti di nazionalità italiana.
Ora però si legge tra le righe un nuovo particolare: ecco spuntare tra una delle spranghe con cui è stato ucciso Emanuele, una mazza da baseball con la scritta “boia chi molla”, di chiara matrice fascista. Non vogliamo raccontare della solita litania, su quanto siano pericolosi i fascisti e di quello che fanno, nemmeno di quali verosimili appartenenze potrebbero nascondere gli autori dell’omicidio rispetto gruppi politici dell’estrema destra.

C'è solo da sottolineare, come al solito, che quando si parla di "razza" il giornalismo italiano si affanna e si affolla per segnalare la nazionalità degli aggressori, come se questa potesse spiegare l'aggressione (ma non chiamateli razzisti!). Quando invece si tratta di notare che la sopraffazione e la violenza contro i più deboli si sviluppano e maturano in un preciso brodo ideologico, si riduce questo elemento a una curiosità aneddotica.

giovedì 30 marzo 2017

30 MARZO 1976 IL GIORNO DELLA TERRA


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Lo Yom al-Ard è giorno di commemorazione in Palestina ed in tutti i luoghi del mondo dove i palestinesi e chi è solidale e amico con loro si trovino,è il giorno in cui quarantun'anni fa ci fu un eccidio dovuto alla ritorsione dell'esercito palestinese che ha soffocato nel sangue una rivolta popolare cominciata per un'espropriazione di terreni agricoli palestinesi per farne zone militari.
Una sommossa che si estese fino ai campi profughi libanesi e che fece sei vittime:l'articolo preso da Contropiano(30-marzo )allarga il fatto fino ai giorni nostri mettendo cifre ancora esorbitanti rispetto agli ultimi anni per vittime,arresti,prigionieri politici e confische di terra che fanno dell'apartheid israeliano un male per tutta la civiltà.

30 Marzo Giornata della terra Palestinese.


L’USB, insieme alle altre organizzazioni sindacali di classe della FSM- WFTU (Federazione Sindacale Mondiale), ha aderito alla giornata della terra Palestinese, in continuità con la solidarietà internazionalista verso il popolo palestinese le sue associazioni sindacali e l’Organizzazione per liberazione della Palestina.
Il 30 marzo del 76 ricorre il 41° anniversario dell’eccidio perpetrato dall’esercito israeliano. Quel giorno le organizzazioni palestinesi e le istituzioni locali avevano chiamato una grande mobilitazione  per protestare contro la decisione israeliana di espropriare 20 dunum (20 ettari) di terra dei villaggi palestinesi di  Sakhnin, Arraba, Deir Hanna, Tur'an, Tamra, e Kabul  per  destinarla ad uso pubblico. Successivamente quella terra rubata fu utilizzata per costruire delle colonie sioniste e dei presidi militari. Il 30 marzo di quarantuno anni fa, migliaia di palestinesi sfidarono il coprifuoco dell’esercito occupante con uno sciopero generale, numerosi  cortei e una mobilitazione che superò la Palestina storica e arrivò fino ai campi palestinesi in Libano. La risposta che ebbe quella straordinaria protesta popolare è la stessa che continuano a ricevere i palestinesi  da parte dello stato israeliano: pallottole, arresti e furto di terra. Quel giorno morirono sei civili palestinesi tra queste tre donne.
Il 2016, per i palestinesi si è confermato un anno di occupazione durissima, le cifre parlano di 111 palestinesi uccisi, di questi trentuno sono minorenni di cui dieci ragazze, a questo si aggiunge il numero considerevole di  7000 prigionieri politici (450 sono minori e 150 minori di sedici anni). Figli di una resistenza popolare che si oppone, alla confisca delle terre,  ben 6700 ettari nel solo 2015 con  oltre 15000 ulivi e alberi sradicati.
Mentre al 61% delle famiglie palestinesi viene negato il diritto a una casa,  il governo Israeliano solo nel 2015 ha demolito 700 case palestinesi e  consentito la costruzione di 1.600 moduli abitativi nelle colonie e ne ha annunciati altri 4500 per i prossimi anni.
La società palestinese continua a essere strangolata dall’apartheid israeliano, che colpisce l’indipendenza economica, commerciale, idrica, energetica palestinese. Le scelte di Tel Aviv rendono complessa e difficoltosa la costruzione e la gestione delle infrastrutture quelle comprese sanitarie. Un vero e proprio strangolamento, che in ambito economico produce un altissimo tasso di disoccupazione, tanto che i lavoratori palestinesi sono costretti a tragitti estenuanti tra divieti di transito e posti di blocco, per arrivare in Israele e lì vendere le proprie braccia per salari da fame .
L’USB  parteciperà  alle iniziative promosse in occasione della giornata della terra palestinese, in  tutta Italia dal variegato movimento di solidarietà con il popolo Palestinese e in quest’occasione, invita e sollecita i propri iscritti a rafforzare la solidarietà e il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni come strumento di pressione internazionale nei confronti dello stato Israeliano.
La campagna internazionale BDS (Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni) viene sottoposta a un’indegna campagna di diffamazione, che respingiamo con forza.
Al contrario accusiamo la classe dirigente italiana e l’UE di sostenere con accordi commerciali, politici e militari Israele,  che anche per il diritto internazionale continua a essere una forza occupante.
Vita terra e libertà per il popolo palestinese

 
Roma 29 Marzo 

mercoledì 29 marzo 2017

GRILLO E LA CANDIDATA GENOVESE(E MILANESE)


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Mentre tenevo in caldo un articolo riguardante la polemica sulla candidata sindaco genovese Marika Cassimatis cui è stato revocato l'utilizzo del simbolo dei pentastellati(marchio di Grillo & Casalleggio e associati),ecco spuntarne uno dove la stessa ha fatto ricorso in tribunale portandoci il guru della setta e querelando pure Di Battista.
Ripercorriamo la storia recente con questo articolo preso da Left(a-genova-il-blog-di-grillo-revoca-il-simbolo )dove durante le primarie è uscita vincitrice la Cassimatis cui è stata sconfessata subito la lista(ancora segreta)da Grillo in quanto secondo lui presentava infiltrati e persone che avrebbero fatto del male al movimento.
Così come accadde a Milano(madn il-mistero-buffo-delle-candidate-sindaco )a Patrizia Bedori,uscita anche lei vincente dalle primarie on line e costretta alle dimissioni subito ufficialmente per la troppa pressione mediatica ma tutti sanno che Grillo,Casaleggio figlio e Dario Fo la incalzarono per abbandonare in quanto"di aspetto non gradevole"e non preparata per la campagna elettorale.
Alla faccia della trasparenza e dell'onestà di questo manipolo di padri padroni fascisti che ribaltano il volere della base del loro elettorato che ancora in troppi non si sono accorti della trappola 5 stelle e nel caso se ne siano accorti allora che sguazzino a piacimento in questo calderone fatto ancora di raccomandati,squali e reazionari di destra,populisti,razzisti e falsi.
L'altro articolo come detto(left il-guru-viene-scavalcato )c'è il"riscatto"della Cassimatis che bastona verbalmente il vertice del movimento e li porta in tribunale per non mettere in discussione le votazioni via web che tanto sono vanto ed orgoglio del popolo grillino.
Che il boss(madn non-avrai-altro-dio-allinfuori-di-me )famoso più per i sui diktat e le purghe di candidati o politicanti non conformi al suo ego abbia dei problemi non ci piove,che abbia problemi con almeno alcune donne non c'è dubbio e spero vivamente che prosegua nella sua carriera di comico che intanto a me non faceva ridere nemmeno prima

A Genova il blog di Grillo revoca il simbolo alla sua candidata.


di Ilaria Giupponi.
Ed ecco un altro colpo di mano del blog di Grillo che non è di Grillo ma è di Grillo. Il leader dei pentastellati ha arbitrariamente deciso di revocare l’utilizzo del simbolo alla lista M5s di Genova, perché la candidata sindaco Marika Cassimatis, nonostante avesse battuto il suo avversario Luca Pirondini, non è gradita.
La Cassimatis infatti, è una grillina ortodossa, di quelle legate al territorio e soprattutto a molti dei compagni di percorso che però oggi sono quasi tutti fuoriusciti: 4 consiglieri comunali su 5, tra cui il capogruppo Paolo Putti, un consigliere regionale, Francesco Battistini, e consiglieri di altri comuni, che contestano la svolta verticistica del Movimento. Ad accuse e fuoriuscite, sebbene provenienti da persone con ampio seguito sul territorio, nemmeno stavolta è seguita una riflessione dei vertici del Movimento.

Eppure Marika Cassimatis era stata votata proprio seguendo il “metodo Genova”, appositamente elaborato dallo staff assieme alla referente regionale e fedelissima di Grillo, Alice Salvatore, che blindava e secretava le liste dei candidati consiglieri.
Secondo il nuovo elaborato elettorale, infatti, il candidato sindaco può essere votato solo dai candidati consiglieri. In caso di vittoria del loro eletto, questi ne vanno a costituire automaticamente la lista. Peccato che nessuno, tranne lo staff, al solito, conosca i nomi dei candidati consiglieri. Eccetto, a quanto pare, lo sfidante Pirondini, che a votazioni aperte aveva poco sportivamente accusato la contendente alal candidatura di essere “amica dei voltagabbana”. Post che poi Pirondini ha cancellato, per sostituirlo con un caloroso in bocca al lupo, che alla luce dell’epilogo suona un po’ come la pugnalata di Bruto.
Il metodo, fortemente contestato da gran parte della base, e apertamente denunciato da tutti gli eletti usciti dal Movimento ligure, oltre a non essere trasparente e a proporre delle vere e proprie liste bloccate, sarebbe stato elaborato appositamente per costituire una lista di cui potersi fidare – come hanno dichiarato Alice Salvatore e Grillo, nelle motivazioni della revoca: «Non possiamo permetterci di candidare persone su cui non siamo sicuri al 100%». A conferma di questo, il “metodo Genova” conteneva una clausola: «Il Garante del MoVimento 5 Stelle si riserva il diritto di escludere dalla candidatura, in ogni momento e fino alla presentazione della lista presso gli uffici del Comune di Genova, soggetti che non siano ritenuti in grado di rappresentare i valori del MoVimento 5 Stelle».
Ma perché solo ora, dopo che ad aver perso è l’uomo della consigliera regionale? Perché «dopo l’esito delle votazioni di martedì – spiega l’ignoto ghost writer per conto del garante – mi è stato segnalato, con tanto di documentazione, che molti, non tutti, dei 28 componenti di questa lista, incluso la candidata sindaco, hanno tenuto comportamenti contrari ai principi del MoVimento 5 Stelle prima, durante e dopo le selezioni online del 14 marzo 2017». 

Come sempre, non è dato sapere chi sia questo qualcuno, né portare contro-deduzioni, essendo la decisione “irrevocabile”. Nè tantomeno è stata contattata la candidata sindaco per chiederle la sua versione dei fatti.
Però un indizio lo dà lo stesso post di scomunica: «Rimetto a tutti gli iscritti certificati del MoVimento 5 Stelle la decisione se non presentare nessuna lista per le elezioni comunali di Genova o se presentare la lista, arrivata seconda per un distacco di pochi voti, con Luca Pirondini candidato sindaco». Una parvenza di democrazia che svanisce appena si legge che il tempo per la votazione – e dunque per trovare e votare un altro sindaco – sarà aperta oggi 17 marzo dalle 10:00 alle 19:00.
«Le avvisaglie del fatto che si stesse andando verso un movimento autoritario e non più democratico, con decisioni calate dall’alto sulla base, c’erano tutte», dice a Left Francesco Battistini, consigliere regionale Cinquestelle attualmente autosospeso. «Con oggi, questa realtà diventa palese. Purtroppo anche una votazione on-line con un metodo – anche questo – imposto dai vertici, che non ha dato immediatamente i frutti sperati, visto che tutto era pilotato per far vincere il delfino della Salvatore, Pirondini, è stata completamente sconfessata sempre su decisione del capo politico. Per la serie, se non vinco la partita mi porto via il pallone».
Battistini, attualmente nel Gruppo misto regionale, ci dice: «Non siamo li a lavorare per un logo o per un partito, ma per dei principi. Che oggi quel simbolo non porta più con sé. E a giornata di oggi lo testimonia, perché  nessuna organizzazione democratica si sarebbe comportata così».
Ma a quanto pare, poco importa.
Mentre parliamo, sul telefono di Battistini continuano ad arrivare messaggi di persone che dichiarano che d’ora in poi, non voteranno più Movimento 5 stelle. Beppe, sicuro di averci guadagnato?

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A Genova, Cassimatis disconosce Grillo e lo porta in Tribunale. Così il guru viene scavalcato per la prima volta.

di Ilaria Giupponi.
Non molla, Marika Cassimatis. Ma c’è da chiedersi quanto durerà ancora. La ex candidata sindaco M5s di Genova, votata dagli attivisti ma “squalificata” da Grillo, è misteriosamente ancora interna al Movimento 5 stelle. Nonostante non sia stata ritenuta degna di rappresentare i Cinquestelle alle prossime amministrative e nonostante lei e gli altri 28 consiglieri esclusi abbiano presentato stamattina ricorso in Tribunale«Io e la mia lista, risultata vincitrice alle “primarie” 5s, vogliamo essere reintegrati. E chiediamo la sospensiva del voto nazionale», oltre a pubbliche scuse per tutti. Scavalca Grillo e va dritta al punto, la docente ligure, appellandosi alla legge nazionale che dovrebbe valere per tutti – inclusa l’Associazione M5s, che pure si è dotata di un proprio impianto para-giudiziario, ma che, puntualmente, si scontra con i dettami costituzionali che regolamentano la vita democratica (come abbiamo ricostruito sulle nostre pagine).
E così, ai giudici amministrativi Cassimatis chiederà di correre col simbolo pentastellato, nonostante la proprietà – Grillo e la Casaleggio Associati – abbia espresso pubblico diniego. Denuncia che va ad aggiungersi a quella per diffamazione rivolta proprio al guru dei Cinquestelle Beppe Grillo per l’accusa, non meglio specificata, di aver «ripetutamente e continuativamente danneggiato l’immagine del Movimento 5 stelle». «Molti dei 28 componenti di questa lista, incluso la candidata sindaco», scriveva Grillo il 17 marzo sul blog, «hanno tenuto comportamenti contrari ai principi del MoVimento 5 Stelle». Il post, definito da Cassimatis «estremamente oltraggioso» ha poi comportato la revoca del simbolo. Onta massima, nel Movimento 5 stelle – e che solitamente precede l’espulsione irrevocabile. Invece Cassimatis è ancora in sella e stamattina in conferenza stampa ha rilanciato: per la prima volta, un attivista Cinquestelle anticipa il Garante e lo trascina davanti al giudice. Una querela arriva anche ad Alessandro Di Battista, «per aver rilasciato dichiarazioni ingiuriose» nei confronti di Cassimatis e dei suoi compagni, definendoli “squali”. «A noi, che volevamo offrire il nostro tempo e la nostra passione per un ideale politico, per un’idea di giustizia. Sono insegnati, operai, lavoratori, studenti, tutti impegnati da anni al M5s. Alcuni di loro sono iscritti dal 2009, anno di nascita del Movimento». Gli hanno dato degli “infiltrati”: «Ma di cosa stiamo parlando?», rimanda al mittente una determinatissima Cassimatis.
«I consiglieri (autocandidatisi, che votando il loro candidato sindaco ne vanno eventualmente a comporre la lista, ndr) non erano noti a nessuno, quindi anche ci fosse stato un camorrista tra i miei votanti, la responsabilità sarebbe stata di chi li ha selezionati, ovvero lo staff». Senza contare che stando al Metodo Genova, sviluppato dalla capogruppo regionale appositamente per queste elezioni, «il sindaco avrebbe potuto, una volta giunta a conoscenza dell’identità dei suoi consiglieri, ricusarne uno o più e sostituirli con altri candidati. Senza bisogno dunque di invalidare tutta la lista».
Hanno chiesto ripetutamente – pubblicamente e formalmente – documenti e chiarimenti, gli estromessi, ma dallo staff e da Grillo – che pure abita a due passi da lì – nessuna risposta, mail o telefonata.
L’unica motivazione addotta da Grillo per far mandare giù agli attivisti il suo atto di imperio è stato quel “Fidatevi di me”. Che per Cassimatis «non esiste, come prova, in nessuno Stato di diritto. Ma nemmeno nella Repubblica delle Banane». Dice di più, Cassimatis: «È rischioso, molto rischioso, andare dietro a questo tipo di impostazioni. Perché la democrazia è fatta di trasparenza. E la trasparenza qui non c’è».
Non solo. Come spiega l’avvocato Lorenzo Borrè (il legale che segue tutte le cause degli espulsi M5s e ora anche dei ricorrenti genovesi) sul numero di Left in edicola questa settimana, ogni persona ha diritto, come da articolo 111 della Costituzione, alla propria difesa. «Io devo essere messo in condizioni non solo di difendermi dalle accuse, ma anche di poter esercitare tale diritto in un contraddittorio, e con i documenti della accuse alla mano». E questo, per altro, «prima che avvenga il sanzionamento, non dopo».
E, sempre in base alla Carta, sarebbe tutelato anche il diritto di espressione, ricorda la grillina: «Per intenderci, mettere un like a un post di Pizzarotti, è sintomo di libertà di espressione, e non è un’aggressione al Movimento 5 stelle». Perché questi sono i “crimini” di cui stiamo parlando.
«Che cosa sta accadendo nel Movimenti 5 stelle?», si chiede dunque Cassimatis. «Ce lo stiamo chiedendo, come molti altri attivisti di tutta Italia ormai». Ma chissà che non sia la giustizia a raddrizzare la piega poco democratica del  Movimento 5 stelle.

martedì 28 marzo 2017

TAP-PERUGLI NEL SALENTO


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Sicuramente questa non sarà la prima e nemmeno l'ultima volta che si parlerà di Tap nonostante il progetto del gasdotto transadriatico(in inglese Trans-Adriatic Pipeline)sia iniziato da anni e che il cantiere salentino nel comune di Melendugno sia aperto dallo scorso maggio.
E proprio oggi nel comune leccese ci sono stati scontri con le forze del disordine intervenute a guardia del taglio di centinaia di ulivi per poter permettere questo ennesimo scempio ambientale da parte delle multinazionali energetiche spalleggiate dallo Stato,picchiando senza tregua i manifestanti che però non si sono fatti intimidire dalla loro violenza.
E non ho sentito la Mogherini parlare di libertà di espressione dei manifestanti(vedi:madn le-differenti-liberta-di-espressione ):fatto sta che questo nuovo acronimo preceduto da un"NO"si farà sentire ancora sicuramente e le proteste ed i solidali saranno sempre maggiori.
Articolo preso da Infoaut:blocchi-e-cariche-contro-i-notap .

Blocchi e cariche contro i NoTap.

Da stamattina all’alba circa 300 manifestanti presidiano il cantiere per bloccare l’espianto dei 211 ulivi, cominciato il 17 marzo e interrotto il 21 in attesa di una risposta dal Ministero dell’Ambiente, interpellato dalla Prefettura di Lecce dopo le pressioni raggiunte con le proteste.
La risposta è arrivata ed è conforme a quella del Consiglio di Stato: via libera all’iter per la realizzazione del Gasdotto.
Nel frattempo continua ad andare avanti la protesta passando per momenti di alta tensione con le forze dell’ordine che hanno preso di peso i manifestanti per permettere l’accesso ai lavoratori del cantiere.
Raggiunto l’apice verso le 13 con due violente cariche ai danni dei manifestanti che stavano bloccando pacificamente i cancelli per impedire l’uscita dei mezzi con a bordo i primi ulivi secolari eradicati. Sgomberata parte del blocco popolare all’ingresso del cantiere per consentire l’allontanamento delle autovetture scortate dalle forze di polizia con caschi, scudi e manganelli alla mano. Dopo le due cariche un manifestante, Ippazio Luceri di anni 65, è stato soccorso da un’ambulanza in seguito a un malore dovuto alle manganellate.
Il Consiglio di Stato ha respinto ieri il ricorso della regione Puglia e del comune di Melendugno giudicando legittima la costruzione del gasdotto che porterà in Italia il gas dall’Azerbaijan.
Sulla questione si è espressa anche la viceministra allo Sviluppo Teresa Bellanova con queste parole: “La Regione ha avuto tutte le possibilità di partecipare e di esprimere le proprie opinioni, se nella conferenza di servizi decisoria non si è espressa un'opinione chiara in contrapposizione al sito che era stato individuato, non si può pensare di rimettere in discussione un progetto”. Un modo per dire che gli interessi delle multinazionali non vanno danneggiati e, protetti dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa, non mostrano scrupoli nel cacciare chi il territorio lo vive ogni giorno. Questo progetto non risponde che a logiche di profitto, lontane dagli interessi della popolazione e di chi ha a cuore il proprio territorio e lotta per esso.
Nonostante le risposte ricevute dagli organi “competenti” i manifestanti, inermi, non fanno un solo passo indietro e continuano ad aumentare nel corso della giornata riaffermando la propria presa di posizione contro lo sfruttamento dei territori, di cui il TAP è un chiaro esempio.

DEI GRAN CALCI IN FACCIA


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Ormai è assodato che il ministro al lavoro Poletti oltre che essere incapace nel suo mestiere ,qualunque esso sia,è oltremodo infelice e sfortunato nelle sue uscite che se proprio vuole fare battute o provocazioni lo sa solo lui il significato e la convenienza a rendercene partecipi.
Dopo la sequela di cervelli in fuga,del lavoro gratuito,degli agganci e delle conoscenze che certamente hanno fatto la sua fortuna e la nostra sfiga(madn polettila-storia-di-un-paraculo-e-del suo cervello in fuga )cos'altro c'è da aspettarsi da un paraculato che sì di calcetti in culo li ha presi visto che non ha mai fatto un cazzo in vita sua?
Sono sempre più del parare che Poletti maiale debba diventare prosciutto il prima possibile in quanto una nazione dignitosa che si possa rispettare e che soprattutto si rispetti non ha bisogno di simili latrine ambulanti.
E di tutti quelli che lo supportano che sono il vero cancro di questa nazione fatta di posti di lavoro ottenuti e poi in di venire carriere basate solamente sulle conoscenze e le tessere politiche,prima Dc e ora Pd,non escludendo certamente altri partiti come Pdl e Lega e movimenti come Cielle.
Articolo preso da Contropiano(politica-news )cui suggerisco anche questo(infoaut il-culo-di-poletti )e dulcis in fundo ripropongo per intero il curriculum vitae del porco più in basso tratto dal ministero che presiede(www.lavoro.gov.it Curriculum-Poletti ).

Che ne dite di un calcetto a Poletti?

di Alessandro Avvisato
Ogni volta che sento parlare il ministro Poletti – si occupa del Lavoro, lui che viene dal mondo Coop e sa come sfruttarlo fino all’ultima goccia – mi torna in mente il proverbio in uso tra gli avvocati: “studia, figlio mio, sennò mi diventi giudice”.
Non soddisfatto del “successo” ottenuto con altre esibizioni retoriche in pubblico, ieri ha consegnato agli studenti dell'istituto Manfredi Tanari di Bologna un’altra perla della sua saggezza ruspante: "Il rapporto di lavoro è prima di tutto un rapporto di fiducia. È per questo che lo si trova di più giocando a calcetto che mandando in giro dei curriculum".
Non sarebbe giusto estrapolare questa sola frase per crocifiggere un manager prestato alla governance, che spesso ha dimostrato di non comprendere la differenza tra il dirigere un’azienda o un paese. In fondo, stava illustrando la bontà della famosa “alternanza scuola-lavoro”, ossia quella novità introdotta nella cosiddetta “buona scuola” per cui invece di stare ad imparare qualcosa (a ragionare confrontandoti con quello che l’umanità ha appreso in passato e consegnato ai libri, di qualsiasi genere), uno studente può essere spedito a servire ai tavoli di McDonald’s o all’Autogrill. A lavorare gratis, insomma, senza imparare altro che obbedire a un caporale (ci siamo passati tutti, da ragazzi; ma lo facevamo d’estate e venivamo pagati).
Quindi, prendiamo anche qualche altra sua frase memorabile ripresa dai giornali “amici” del governo, come la risposta data a chi ha già sperimentato gli stage finendo a fare operazioni manuali ripetitive il ministro fa notare che "se vai in un bar ti fanno fare un caffè" (si può vedere la scocciata scrollatina di spalle dalle sole parole scritte…). Oppure quella data a chi più modestamente contestava l’assenza di risultati dopo questi esperimenti: “Intanto vedi un mondo”. Come se lavorare gratis fosse una vacanza in paesi esotici…
Le pernacchie online hanno presto sommerso le parole di Poletti, che ha provato la solita, goffa (non ha studiato!), marcia indietro: "voglio chiarire che non ho mai sminuito il valore del curriculum e della sua utilità. Ho sottolineato l'importanza di un rapporto di fiducia che può nascere e svilupparsi anche al di fuori del contesto scolastico. E quindi dell'utilità delle esperienze che si fanno anche fuori dalla scuola".
Anche noi non crediamo molto ai curriculum e, come tutti, li vediamo finire in un attimo nel cestino della carta straccia. Soprattutto in Italia, però, dove le imprese preferiscono – come Poletti teorizza – avere a che fare con dipendenti pre-selezionati come aspiranti schiavi obbedienti. Quindi in base a raccomandazioni, segnalazioni fiduciarie, ecc. Uno stile che dà la misura dell’arretratezza dell’imprenditoria italiana rispetto agli stessi paesi capitalistici con cui dice di voler “competere”.
A metà strada tra il Berlusconi che beatificava i “lavoretti” e il Caimano laido che invitava le ragazze a sposare un uomo ricco, Poletti in realtà propone un modello di “trovar lavoro” che è l’unico da lui sperimentato. Si entra in un “giro di conoscenze” (ai suoi tempi un partito, ora in una clientela strutturata), ci si fa conoscere come “affidabili” (obbedienti ai capi e capetti di tutta la gerarchia interna), si ottengono man mano delle responsabilità superiori, fino all’”uno su mille ce la fa” che lo ha portato alla guida della Coop e di lì alla poltrona ministeriale.
Un “modello relazionale” che ha senso in un partito, non certo per la ricerca di un lavoro dipendente. A meno di non intendere un posto di lavoro come il “munifico dono” di un signorotto medioevale, cui devi baciar le scarpe prima di essere ammesso nel cortile di proprietà…

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Giuliano Poletti è nato a Imola nel 1951. È Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali da febbraio 2014. Eletto Presidente della Legacoop di Imola nel 1989, ha lasciato l'incarico a settembre del 2000 per assumere quello di Presidente Regionale Legacoop e Vicepresidente Nazionale. Dal 1992 al 2000 è stato, inoltre, Presidente di EFESO, l'Ente di Formazione della Legacoop Emilia Romagna. Nel 1975 viene eletto consigliere comunale a Imola. Successivamente ha ricoperto l'incarico di Assessore alle attività produttive e di Consigliere provinciale a Bologna. All'impegno politico-amministrativo ha affiancato quello professionale, esercitato in qualità di presidente dell'ESAVE (Studi e promozione della viticoltura e dell'enologia per l'Emilia Romagna). Conseguito il diploma di perito agrario, in gioventù ha esercitato l'attività di tecnico agricolo.

lunedì 27 marzo 2017

LE DIFFERENTI LIBERTA' DI ESPRESSIONE

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L'ipocrisia propria di una determinata politica e cultura che fa della sicurezza,del garantismo e della libertà di espressione sia essa sia di stampa,di pensiero,di parola o del diritto di manifestare(quasi sempre il dissenso)è una costante che ci accompagna da tanti decenni,probabilmente da sempre.
L'ambiguità in cui ci si barcamena a seconda di chi si voglia difendere od attaccare è risaltata fuori in questi giorni e l'articolo preso da Infoaut(conflitti-globali )parla di due eventi simili capitati a Roma ed in Russia,il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma e le proteste anti-Putin soprattutto concentrate a Mosca.
Dove in Italia si è fatto di tutto per impedire manifestazioni di contestazione con arresti,fermi,fogli di via col beneplacito di stampa e di istituzioni sovranazionali mentre per gli arresti russi la Mogherini in primis parla di lesa libertà di espressione.
Che poi parlando di Aleksej Navalnyj,l'arrestato più illustre,ci sarebbe da dire molto in quanto come Putin è tutt'altro che immacolato(vedi:contropiano corruzione-russia-martire-navalnyj )e che l'operato della polizia in occidente viene visto assurdo e violento mentre quando capita in Italia giusto e necessario.

L’Europa ipocrita si indigna contro la Russia: “lesa la libertà di espressione”.

Questa domenica 26 Marzo in tutta la Russia si sono tenute manifestazioni a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone. Al centro delle contestazioni le accuse di corruzione a Medvedev e le critiche a Putin. La Russia dal 2011 sta vivendo cicli di lotte e mobilitazioni che vanno, negli ultimi mesi, dalle proteste degli insegnanti agli aumenti delle bollette, appena qualche settimana fa. Inoltre, il governo russo ha inasprito le norme securitarie limitando la libertà di movimento, già particolarmente compromessa nel paese. Per citarne una i limiti di partecipazione ai cortei e alle manifestazioni. Questa domenica sono state fermate oltre 1400 persone tra tutte le città, in particolare a Mosca si parla di circa 900. Le accuse sono di manifestazione non autorizzata. Tra i fermi è presente Navalny, avvocato, imprenditore, blogger russo che da anni è promotore di politiche neoliberiste e di contestazioni anti-Putin.
Di fronte a queste notizie non si sono fatte attendere le critiche della Mogherini a nome dell'UE, richiedendo la libertà di espressione e di dissenso in Russia. Un portavoce dell’Ue, riporta La Repubblica ha dichiarato: “le operazioni di polizia nella Federazione russa hanno impedito di esercitare le loro libertà fondamentali, fra cui la libertà di espressione, associazione e riunione pacifica, che sono iscritte nella costituzione russa”. Il bue che dice cornuto all’asino. Appena un giorno prima il 25 Marzo a Roma, alla presenza dei capi di stato europei questi "diritti democratici" sono stati completamente aboliti. Le contestazioni all’Ue non sono state ammesse mettendo in campo misure preventive, fogli di via, identificazioni arbitrarie durate ore e un corteo spezzato a metà con l’unico intento di provocare i manifestanti. I portavoce dell’Unione Europea non hanno speso le stesse parole nei confronti dell’Italia, un silenzio che di certo non stupisce. A Roma sono state applicate dal Ministro degli interni Minniti quelle misure contro la libertà di dissenso e di espressione che già in altri paesi europei sono stati messi in campo in passato. Quello che abbiamo visto sabato è proprio l’essenza delle politiche securitarie europee che saranno diffuse ovunque con il beneplacito dei capi di stato dei singoli paesi comunitari. Le misure sull’abbattimento del costo del lavoro, sui tagli alla spesa pubblica, sulla devastazione dei territori e le imposizioni sul debito pubblico tanto quanto le politiche securitarie e la militarizzazione dei territori sono direttive ben precise a cui l’Italia si è adeguata e che dovranno essere terreno di scontro la dove verranno applicate.

domenica 26 marzo 2017

MARCELO BIELSA,IL"PERDENTE"DI LUSSO

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La storia di allenatore di Marcelo Bielsa detto "El loco" è fatta di aneddoti,vittorie e sconfitte,di rivoluzioni tattiche fatte d'intelligenza e di studio metodico del gioco più amato del mondo,che in certi ambienti ti fa apparire come una divinità in terra sia che si tratti di allenatore o giocatore.
L'articolo di Senza Soste(speciale-bielsa )rimanda all'edizione cartacea con gli articoli di Tito Sommartino che ha analizzato l'allenatore di Rosario che tanto ha dato e che certamente darà in futuro a questo sport,dai suoi esordi in madrepatria fino alle esperienze nelle nazionali argentina e cilena fino all'approdo in Europa a Bilbao e Marsiglia,due piazze importanti al di là della tradizione calcistica.
Ed il suo rifiuto di passare ad inizio stagione alla Lazio,dettata più per la distanza dai suoi ideali e pensieri ben lontani da quello del popolo biancoazzurro che dalle dichiarazioni di Lotito che non avrebbe comprato giocatori da lui richiesti,è un altro tassello di una carriera che non lo ha visto trionfare come meriterebbe,sfiorando successi proprio alla fine forse per preparazione atletica non adeguata al suo modo di giocare fatto d'attacco e di pressing.
Un modo leggero di ricominciare il blog dopo una settimana di distacco quasi totale della spina e di tutto quello accaduto in Italia e nel mondo,ma questo farà parte di un post futuro.

Speciale Bielsa: “A lo loco se vive mejor”.

PERSONAGGI – (prima parte) Per molti suoi colleghi è il miglior allenatore al mondo contemporaneo malgrado non abbia vinto (quasi) nulla. Perché a renderlo grande e a proiettarlo di diritto nella Hall of Fame del calcio sono le sue idee tattiche, visionarie e rivoluzionarie. Fenomenologia di un futurista prestato al calcio: El Loco Marcelo Bielsa.

Se chiediamo ai migliori allenatori del pianeta chi sia il miglior collega degli ultimi 30 anni, almeno la metà non risponderà Guardiola, Mourinho o Ancelotti ma Marcelo Bielsa, uno che, parafrasando proprio Mourinho, in carriera ha vinto zero tituli o giù di lì. Ma nel calcio, così come nella scienza o nelle arti, i migliori spesso non sono quelli che raccolgono i maggiori successi, ma coloro che aprono una strada, che hanno l’intuizione rivoluzionaria: sono i Vittorio Pozzo col “Metodo”, gli Herbert Chapman col “Sistema” (o WM), i Gusztáv Sebes con l’evoluzione del WM in MM, i Rinus Michels col “Calcio totale”. Sono i visionari, quelli che spesso, illegittimamente, definiamo matti solo perché non allineati al pensiero comune. E non a caso Bielsa è proprio soprannominato El Loco, il matto.
Marcelo Bielsa nasce a Rosario, in Argentina, che non è propriamente un posto qualunque. In eterna contrapposizione a Buenos Aires, sia dal punto vista culturale che artistico e calcistico, è la città dove sono nati il Che, Lucio Fontana, Lionel Messi ma anche Cesar Menotti, El Flaco. Già, Menotti, l’allenatore col mito di Michels che, oltre a vincere il Mondiale del ’78, rivoluzionò il calcio argentino col suo gioco divertente, spettacolare e profondamente offensivo. La perfetta antitesi di Carlos Bilardo, tecnico dell’Argentina ’86 campione del mondo e massimo esponente di quella che può essere definita la scuola argentina vecchio stampo, tutta difesa e grinta, gioco sporco e di rimessa.
Prima di Bielsa, in Argentina, quelli erano i due stili calcistici. O eri menottiano o bilardiano, non ne uscivi. Come quando in Italia correvano Coppi e Bartali. Se non stavi per l’uno stavi per l’altro.
L’osservatore
Dopo una breve e mediocre parentesi da calciatore, Bielsa capisce che la sua missione nel calcio è quella di insegnarlo. E lo fa sin dalle prime battute con maniacale dedizione. Di lui si raccontano miriadi di aneddoti, molti dei quali, se non veri, sicuramente verosimili. Uno dei più particolari riguarda la sua attività di talent-scout, propedeutica a quella di tecnico, per il Newell’s Old Boys, una delle due squadre di Rosario. Bielsa, figlio di giuristi che non vedevano di buon occhio la sua passione per il calcio giudicato un hobby per gente grezza (non gli rivolgeranno la parola per 10 anni), nel 1987 percorre 24mila km in tre mesi con una Fiat 147. Insieme al fido collaboratore Pekerman (anche lui in seguito tecnico della nazionale albiceleste) scova un cicciottello Batistuta, un timido Sensini e una notte, in piena notte, suona il campanello di una casa sperduta in una pampa che dà sul Paranà. Aprono la porta, atterriti e increduli, i genitori di Mauricio Pochettino, giovane di belle speranze che l’anno seguente, a 16 anni, debutterà da titolare in campionato nel Newell’s Old Boys di Bielsa.
La rivoluzione
Bielsa è solito leggere una dozzina di quotidiani al giorno. Qualcuno lo definirà un ergastolano studioso del pallone. Presto impara tutti i segreti tattici di Menotti e Bilardo e la sua intelligenza, unita ad una totale e maniacale dedizione, gli permette di sintetizzare nel proprio credo le principali massime dei due opposti del calcio argentino. Presto, in Argentina, gli stili calcistici diventano tre. Bielsa riesce a tradurre in campo, con risultati sensazionali, uno schema che fino ad allora sembrava inapplicabile, il 3-3-1-3, che permette rapidi contropiede e al tempo stesso una copertura del campo uniforme. Velocità, aggressività e ritmi forsennati sono le tre armi principali del gioco di Bielsa. Una linea difensiva fatta di tre centrali ravvicinati, con due marcatori e un libero vecchio stampo che sappia impostare l’azione da dietro, senza esterni bassi”; un centrocampo a tre impostato su un centrale basso che difenda i centrali e costruisca il gioco, poi due esterni che sfruttano il fraseggio stretto, gli inserimenti verticali negli spazi e ripiegano sulle ripartenze avversarie; l’enganche, cioè il trequartista, l’uomo sul quale ruota tutto, che deve avere cervello, fiato e tecnica, che crea gioco e collega i reparti in fase offensiva muovendosi continuamente tra le linee e dettando i passaggi; un tridente offensivo che deve rispondere ad una mobilità forsennata degli esterni, che devono tagliare attaccando gli spazi, farsi trovare sulle verticalizzazioni, allargare il campo e pressare fin dai primi metri il giro palla avversario, e un centravanti vero, meglio se fisicamente prestante, un finalizzatore dotato fisicamente e atleticamente.
Gli inizi
A Rosario si comincia a parlare di Bielsa per la sua strana consuetudine, ad un certo punto, di abbandonare il campo, arrampicarsi su un albero e guidare gli allenamenti da lì. “Lo faccio per vedere meglio i movimenti dei miei calciatori e poterli correggere in diretta”, spiega. È qui che prende il soprannome di El Loco, che, alla guida delle giovanili del Newell’s vince a mani basse ogni competizione giovanile. Sensini, Pochettino, Batistuta ma anche Heinze e Balbo sono alcuni dei frutti raccolti nei 24.000 km di pellegrinaggio calcistico. Bielsa viene lanciato in prima squadra nel 1990 e lui si porta dietro dieci ragazzi della cantera. Perché El Loco non ha bisogno di campioni ma di buoni giocatori che per lui, anzi, per le sue idee, siano disposti a gettarsi anche nel fuoco. Bielsa vince il campionato al primo tentativo ma la straordinarietà non sta tanto (solo) nella conquista del titolo, bensì nel modo con cui esso arriva. Ciò che è deflagrante è il calcio proposto dal suo Newell’s: in Argentina e nel resto del mondo mai si è giocato in modo così ultra-offensivo, verticale fino all’eccesso, atletico e costantemente in pressing. È questa la vera rivoluzione di Bielsa: preparare la partita senza prepararsi sull’avversario perché il gioco deve sempre essere in mano propria. E poi la continua copertura della metà campo avversaria fatta con i tagli in profondità, l’ossessiva ricerca dello spazio, le giocate massimo a due tocchi, il pressing triplicato in uscita e le ripartenze fulminee in fase di transizione offensiva. Un futurista prestato al calcio, ecco cosa sembra essere Bielsa. È per questo che forse, a proposito di illustri suoi concittadini, più che a Menotti, Bielsa può essere paragonato a Fontana.
Si apre così l’era del Newell’s campione: un tornado che si abbatte sull’Argentina e deflagra Boca, River, Rosario Central e tutte le compagini più quotate. A Rosario è già un guru. Una figura da portare in trionfo, cosa che i suoi giocatori puntualmente fanno al grido di “Newell’s Carajo!”.
Di campionati al Newell’s, El Loco ne vince anche un altro, il Clausura del ’92 e, sempre lo stesso anno, perde in finale ai rigori contro il San Paolo la finale di Copa Libertadores. Una cavalcata incredibile iniziata in modo ancor più incredibile, con una disfatta casalinga per 6-0 contro il San Lorenzo. Proprio questa sconfitta porta con sé uno degli aneddoti più particolari legati a Bielsa: la sera stessa alcuni ultrà dei Leprosos si presentano davanti casa dell’allenatore per chiedere conto della disfatta. Bielsa, anziché accettare il confronto, esce di casa impugnando una bomba a mano.
Oggi, lo stadio in cui gioca il Newell’s Old Boys si chiama (già) “Estadio Marcelo Bielsa”. Questo è sufficientemente indicativo di quale impronta abbia lasciato Bielsa nella metà rossonera di Rosario. (Fine prima parte)
Tito Sommartino
Articolo tratto dal cartaceo di Senza Soste n.120 (novembre 2016)

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Fenomenologia del Loco
PERSONAGGI – (Seconda e ultima parte) La carriera di Bielsa racconta che finora l’uomo di Rosario ha preferito lavorare laddove c’è maggior passione e tradizione oppure dove poteva partire da zero. Ma anche che le sue squadre restano delle eterne incompiute. Eppure, per molti è il migliore in assoluto.
“La disciplina di Bielsa fonde generosità e protagonismo, umiltà e coraggio, riflessione e sforzo, disciplina e ribellione. Forze contrarie che, se si uniscono sinergicamente per raggiungere il risultato, possono produrre cose fantastiche”. Il fratello Rafael, torturato dalla dittatura di Videla negli anni ’70, è stato anche Ministro degli Esteri nel governo Cristina Kirchner
Inutile girarci intorno, Bielsa per molti aspetti ricorda Zdenek Zeman. Sia sul campo che fuori. Li accomuna ad esempio l’essere definiti “perdenti di successo” e l’idiosincrasia per la fase difensiva. Per Bielsa “difendere è un inconveniente, il lavoro scomodo del calcio”. Per entrambi è più importante il gioco del risultato tanto che El Loco si autodefinisce orgogliosamente uno specialista di sconfitte. Perché, è solito ripetere, le vittorie non servono a nulla mentre le sconfitte aiutano a crescere. Un vero e proprio “loco”, soprannome per il quale ha una spiegazione tutta sua: “Mi chiamano così solo perché alcune risposte che ho formulato per risolvere delle situazioni non corrispondono alle abitudini delle persone. L’unica volta in vita mia che sono realmente andato fuori di testa è quando mi sono rinchiuso in un convento senza telefono, niente televisione, solo libri. Sono stato lì tre mesi, poi ho iniziato a rispondermi da solo. Era giunto il momento di uscire”.
Stella polare
Agli schemi di Bielsa si sono ispirati molti grandi allenatori, primo fra tutti Pep Guardiola. Si dice che El Loco abbia convinto Guardiola a fare l’allenatore dopo una chiacchierata di circa 11 ore folgorandolo sul concetto di occupazione degli spazi in campo e dei famosi 5 corridoi verticali. Ogni volta che può, Guardiola ripete che Bielsa è il più bravo di tutti. Ma discepoli del rosarino si autodefiniscono anche Jorge Sampaoli, attualmente al Siviglia e successore proprio di Bielsa alla guida della nazionale cilena, Eduardo Berizzo, attuale allenatore del Celta Vigo, e – udite, udite – pure El Cholo Simeone il cui Atlético è tutto l’opposto della filosofia bielsista..
Nel marzo 2015, invitato dalla Figc e dell’Assoallenatori, tiene una lectio magistralis a Coverciano dopo una preparazione durata 4 mesi. In un’ora e mezza di lezione conquista tutti e viene salutato con una standing ovation di un minuto.
Perdente di lusso?
Eppure come allenatore ha vinto poco, tanto da guadagnarsi anche il soprannome di “perdente di lusso”. Un appellativo che al Loco però non dà fastidio, anzi: “Esiste la sconfitta che serve – è solito ripetere – e la vittoria che non serve a nulla: i cambiamenti in una squadra si attuano quando si vince, non quando si perde. Quando si perde è il momento di osservare e capire”.  Inizia a guadagnarsi questa etichetta al Mondiale del 2002, il cui pass viene conquistato con una fase eliminatoria da rullo compressore. Ma in Corea e Giappone è una catastrofe malgrado la squadra sia infarcita di campionissimi. Si rifà (parzialmente) due anni dopo vincendo l’oro alle Olimpiadi di Atene. L’esperienza alla guida degli Albiceleste segue in ordine cronologico quella trionfale al Newell’s (di cui abbiamo parlato il mese scorso nella prima parte) e quella messicana all’Atlas e all’América (1992-97), che da club di seconda fascia vengono riportati ai vertici del calcio nazionale (Bielsa rifiuterà la guida della nazionale, che pochi anni più tardi sarà composta per oltre la metà da calciatori scoperti e valorizzati da lui). Nel 1997 torna in Argentina ma al Vélez Sársfield e conquista il suo secondo campionato, quindi va in Catalogna all’Espanyol, ma a settembre lascia l’incarico per andare ad allenare l’Argentina. Nel 2007 diventa tecnico della nazionale cilena e all’ombra delle Ande, nel giro di tre anni, diventa un dio terreno. Va al Mondiale  sudafricano con uno storico e spettacolare secondo posto e lì sciorina il miglior calcio della manifestazione. Agli ottavi la Roja cede il passo al Brasile ma a Santiago viene accolta eroicamente: mai il Cile aveva vinto due partite in una fase finale dei mondiali e solo una volta era passato agli ottavi. Ma ancora una volta, appena scritta la storia, Bielsa spiazza tutti e se ne va, lasciando un paese in ginocchio. Convoca una conferenza stampa e annuncia le dimissioni in lacrime. I telegiornali entrano in diretta con edizioni straordinarie. Piange – riferiscono alcuni testimoni – anche la presidentessa Bachelet. Lascia la panchina all’allievo Sampaoli, che lascia quasi immutato il sistema bielsista. Ormai il ciclo è iniziato.
Per molti ma non per tutti
Nel 2011 l’Athletic Bilbao batte la concorrenza di Real Sociedad, Siviglia e soprattutto Inter, che lo voleva per il post Mourinho. Bielsa guarda al progetto e all’ambiente e rinuncia a un milione di euro l’anno. Con Bilbao è da subito amore assoluto e reciproco. Viene rapito dalla filosofia e dalla tradizione di questo club unico al mondo e trasforma una squadra abituata a giocare palla lunga (e possibilmente alta) per Llorente in una squadra sfrontata che plasma subito alla sua maniera. Fa fuori alcuni senatori incompatibili col proprio credo, lancia come sempre una serie di giovani ma soprattutto accantona per la prima volta in carriera il suo 3-3-1-3, virando su un 4-2-3-1 in cui i due terzini (De Marcos e Iraola) sono in realtà due ali. L’Athletic raggiunge due finali, quella di coppa del Re e quella di Europa League, traguardo che mancava da 35 anni. I baschi le perdono entrambe per 3-0 dando la sensazione di essere arrivati spompati nel momento del clou della stagione. Ma negli occhi di tutti restano alcuni capolavori, prima fra tutte la partita di Manchester contro lo United di Sir Alex Ferguson. Davanti a 9.000 tifosi baschi finisce 3-2 per l’Athletic ma il risultato più veritiero sarebbe stato un 1-6 o un 1-7.
Bielsa è talmente radicato nel tessuto sociale bilbaino che nei pochi momenti liberi è solito prendere la metro o l’Eusko Tren e presentarsi in riva al mare ad Algorta per comprare pesce o mangiare tapas di mare, oppure ad Arboleda all’Asador Maite a mangiare i celebri fagioli locali. Il tutto con la tuta del club, rigorosamente comprata. Ma non tutto fila liscio: Bielsa rischia l’esonero quando, infastidito per i ritardi nella ristrutturazione del centro sportivo di Lezama, alza il telefono e inveisce contro il responsabile della ditta incaricata dei lavori. Querelato per le tante offese rifilate, si autodenuncia per dare il buon esempio.
L’anno successivo la squadra appare scarica e la stagione si traduce in un flop ma i tifosi continuano ad amarlo incondizionatamente. Lui però decide che è finita e si trasferisce a Marsiglia, altro luogo dal punto di vista socio-politico complesso e intrigante. Bielsa diventa immediatamente un idolo assoluto e riesce a fare ancora meglio di quanto fatto a Bilbao. Dopo neanche un mese si presenta così in conferenza stampa: “Il presidente ha preso con me degli impegni che sapeva di non poter mantenere. La realtà che mi tocca affrontare, se presentata sinceramente, la accetto. Diversamente, mi ribello. Nessuno dei giocatori arrivati all’OM è stato scelto da me. Dei 12 calciatori da me proposti non è venuto nessuno”. Inoltre non si fida di nessuno, nemmeno del suo traduttore, accusato di sbagliare apposta per metterlo in difficoltà. Lo fa allontanare facendo assumere al suo posto un cileno che aveva conosciuto al supermercato. L’OM lo asseconda anche in quelli che sembrano essere capricci di un fuori di testa. E fa bene perché El Loco infila un filotto di otto vittorie consecutive che proiettano l’OM al primo posto. Il Velodrome diventa una bolgia, la faccia e le frasi più peculiari di Bielsa finiscono sul merchandising ufficiale. Perché una città passionale e popolare come Marsiglia della città non può che amarlo alla follia. L’OM chiude però solo al quarto posto pagando un vistoso calo negli ultimi tre mesi, proprio come già successo a Bilbao. La stagione successiva, dopo un solo turno di campionato, dà le dimissioni in sala stampa nell’immediato post partita.
La scorsa estate El Loco arriva ad un passo da allenare in Italia. In molti, compreso chi scrive, sono stati combattuti tra il desiderio di goderselo da vicino e la speranza che non firmasse con un club che per mille motivi è quanto di più distante dal suo pensiero. La Lazio, con la sua curva fascista e il suo impresentabile presidente, resteranno con un pugno di mosche. Ufficialmente perché Lotito non ha preso nessuno dei giocatori richiesti dal rosarino, in realtà perché capisce che quell’ambiente non fa per lui. Ma, Lazio a parte, viene difficile immaginare Bielsa sulla panchina di un qualsiasi club italiano. Più che altro per un problema di mentalità e cultura calcistica. Qua non si costruisce perché non c’è tempo, perché la costruzione stessa di un modello tecnico, tattico, culturale è vista come una perdita di tempo. Si vuole tutto e subito. Immaginate in conferenza stampa: Bielsa parla di metafisica calcistica e il giornalista della Gazzetta gli chiede se quel calcio di rigore non concesso avrebbe cambiato o meno le sorti della gara. No, l’Italia non fa per lui anche se lui potrebbe far molto per la cultura calcistica (e non solo) del nostro paese.
Tito Sommartino
Articolo tratto dal cartaceo di Senza Soste n.121 (dicembre 2016)

venerdì 17 marzo 2017

UN DECRETO CONTRO IL DISAGIO

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Aumentato a dismisura causa anche il successo nell'ultimo decennio dei social networks dove possono dire la loro tutti,strumento ed opportunità che è sia croce che delizia della sempre più avanzata tecnologia,il populismo penale prima era materia da bar o piazza ed ora è diventato spaventosamente virale e di massa.
Dire impiccalo,crocifiggilo,da prendere a calci in culo,da ammazzare,da buttare via le chiavi solo per dire quello meno censurabile,è diventato alla mercé di tutti e usato ampiamente a dismisura,ed il governo segue la rotta del suo popolo,naturalmente una volta che segue la gente lo fa in un contesto negativo e forcaiolo,rendendo da subito attivo il decreto Minniti(vedi madn i-paladini-della-sicurezza e i-decreti-fascisti-di-minniti )con i suoi daspo di piazza,nuovi Cie,divieto di elemosinare e di essere povero,di avere i salotti buoni delle città puliti da quelli che secondo il governo non sono consoni al decoro.
E lo si fa con multe spiccate a poveracci,a disagiati,a mendicanti e tossicodipendenti che lo Stato in perenne condizione d'emergenza non solo lascia ai margini della società ma che addirittura punisce con sanzioni che non pagheranno,fogli di via dalle città o dalla nazione oppure con la galera,il tutto dietro la grande parola sicurezza che giustifica questo operato di stampo fascista:a presto campi di concentramento non solo per i migranti ma anche per gli italiani più sfortunati o meno agiati.
Articolo preso da Senza Soste(governo-sceglie-la-strada-del-populismo-penale ).

Il governo sceglie la strada del populismo penale

Decreto sicurezza. Dietro il provvedimento, l'idea che la marginalità sociale presente nello spazio pubblico deturpi il «decoro»

introduzione di Redazione Contropiano
Ci sono poche aggiunte da fare a questo commento, e sono tutte relative alla “filosofia” espressa occasionalmente da Minniti, ma egemone nell’establishment straccione che ci ritroviamo.
E’ l’idea che tutto ciò che costituisce un problema – dal barbone al manifestante – va semplicemnte negato e nascosto. Eliminato dai centri storici, per il momento, che vanno “valorizzati” come una Disneyland in proporzioni megalomani.
Ma è trasparente il marchingegno che viene messo in azione a partire da questa indecorosa idea di “decoro”. Una volta rotta la continuità territoriale delle città – tra una “zona vip” da igienizzare e periferie lasciate a se stesse – nulla più impedisce di spostare a piacimento il confine. Niente, insomma, vieta più di estendere le “zone rosse” fino alla porta di casa di ciascuno.
Non c’è veramente nulla di nuovo, sotto questo cielo piddino. Stabilito il “decoro” come metro di misura, qualsiasi funzionario desideroso di mettersi in mostra per salire più velocemente le scale della carriera, sarà autorizzato a individuare nuove figure meritevoli di venir nascoste sotto il tappeto.
E’, al dunque, la “filosofia” che ha portato milioni di esseri umani “poco decorativi” dietro i cancelli con su scritto “Arbeit macht frei”…
*****
Il decreto Minniti, approvato ieri alla Camera e che di qui a breve sarà convertito in legge, propone un’idea di sicurezza secondo cui la marginalità sociale presente nello spazio pubblico deturpa il «decoro», disturba la «quiete pubblica» e attenta alla «moralità».
Di conseguenza, contro elemosinanti, clochard, venditori abusivi e consimili si decide di abbattere una scure di sanzioni molto aspre. Il provvedimento rilancia lo spirito del decreto Maroni del 2008, quando in nome di una guerra senza quartiere ai marginali d’ogni risma si tirarono fuori i sindaci sceriffi. Come già all’epoca, si agisce con decreto, ritenendo che sussistano i requisiti di necessità e urgenza. Al contempo però, con una certa schizofrenia governativa, lo stesso ministro Minniti, rispondendo al question time della Camera, dichiarava ieri un calo del 9,4% dei reati nel corso dell’ultimo anno. Tuttavia, aggiungeva il ministro, la percezione di insicurezza è aumentata. È alla percezione, ovvero alla pancia del paese, che risponde questo decreto. Il governo volta così le spalle al garantismo e prende la strada del populismo penale.
Come già per il decreto Maroni, è verosimile che la Corte Costituzionale dichiari illegittime numerose parti del provvedimento. Alcuni punti sono in effetti particolarmente critici: il potere dei sindaci, benché più contingentato di allora, appare ancora troppo ampio; e il cosiddetto Daspo cittadino prevede disuguaglianze nel trattamento. In sostanza il decreto dice, all’articolo 13, che il questore – il questore, si badi bene, e non il giudice – può vietare l’accesso a una serie di luoghi pubblici a chi negli ultimi tre anni è stato condannato, anche con sentenza non definitiva, per spaccio; e si sa che spaccio è una categoria giuridica che nella realtà comprende molti semplici consumatori.
Qualora questo divieto fosse infranto, si potrebbero comminare multe che vanno dai 10 ai 40mila euro. Poi magari si verrà assolti in terzo grado, ma le sanzioni per essere andati laddove non si poteva e quando non si poteva resteranno sul groppone del malcapitato.
Tutto ciò avviene a pochi giorni di distanza da una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, la sentenza Italia c. De Tommaso, che raccomanda al nostro paese di far uso un cauto delle cosiddette misure di prevenzione, essendo queste degli strumenti che limitano la libertà di movimento in assenza di un controllo giurisdizionale. Il governo invece, ne ha allargato il campo d’applicazione.
Il decreto, fra le tante cose, prevede che vengano multati e allontanati anche coloro che impediscono la libera fruizione delle stazioni, ovvero barboni e senzatetto, che proprio nelle stazioni usano chiedere l’elemosina e ripararsi dalle intemperie, poiché lì circola tanta gente e si può racimolare qualche soldo in più. Per questi si prevedono multe dai 100 ai 300 euro, che com’è noto non verranno mai pagate. Laddove poi queste persone non ottemperino all’ordine dell’autorità, come farebbe un barbone cacciato dalla stazione il giorno prima e tornatoci quello dopo, secondo l’articolo 650 del codice penale potrebbero essere portate in carcere.
Sulla scia di una cultura forcaiola propria della Lega, che infatti in commissione ha applaudito il decreto, il governo sembra mandare un messaggio alle forze dell’ordine, incoraggiandole ad adottare un approccio repressivo nei confronti di categorie già vulnerabili, ora anche indesiderabili. Pochi giorni fa l’associazione Antigone ha incontrato nel carcere di Regina Coeli un detenuto ghanese che prima di finire dietro le sbarre dormiva all’addiaccio, anzi sotto il tetto della stazione. Due agenti delle forze dell’ordine sono andati a dirgli di andar via, e di fronte al suo rifiuto hanno buttato la sua coperta nel cestino; coperta che il ragazzo in questione è andato a prendere, e che gli agenti hanno nuovamente buttato via. Fino a quando, alla quarta volta, il ragazzo è stato portato in carcere per resistenza a pubblico ufficiale. Ora, a nostro avviso, l’azione di chi sta al governo, e a volte si dice pure garantista e nemico dei populismi di ogni sorta, dovrebbe essere portatrice di messaggi d’altro tipo, e dar vita a provvedimenti motivati da ben altre urgenze, come ad esempio l’emergenza integrazione.
* Associazione Antigone

giovedì 16 marzo 2017

ELEZIONI OLANDESI


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I risultati delle elezioni politiche olandesi sono stati visti dai principali capi di governo come una manna piovuta dal cielo in quanto gli euroscettici di Wilders(diciamo pure che i vari Gentiloni,Merkel e Hollande l'abbiano criticato per la sua voglia di uscita dall'Europa e dall'Euro piuttosto delle sue dichiarazioni xenofobe)non hanno sfondato così come gli ennesimi pronostici sbagliati potevano fare intendere.
L'articolo preso da Contropiano(olanda-la-diga-regge )parla comunque di una destra che nonostante la perdita di seggi del partito liberal conservatore dell'attuale leader Rutte ha visto una piccola crescita del partito del già citato Wilders(partito per la libertà) con i cristiano democratici terza forza e sicuri alleati del nuovo governo.
Che come i liberali di sinistra hanno guadagnato parecchi seggi mentre i verdi di sinistra hanno fatto l'exploit con dieci seggi in più:crollo verticale dei socialisti mentre riescono ad entrare in parlamento gli antirazzisti di Denk.

Olanda. La “diga” regge, ma il sistema politico esplode.

di Alessandro Avvisato 
Un Rutte salva l’Olanda e l’Unione Europea? A leggere le cronache, zeppe di dichiarazioni alimentate da un grande sospiro di sollievo, sembrerebbe di sì. A leggere i dati elettorali reali, invece, l’impressione è un po diversa.
Gli xenofobi di Geert Wilders non hanno fatto il temuto pieno, ma hanno guadagnato appena 5 seggi in più (20) rispetto alle precedenti elezioni, passando dal 10,1 al 12,6%. Vene il sospetto che le paure siano state alimentate ad arte, nei mesi precedenti, in modo da poter presentare il risultato attuale come uno stop non tanto al “populismo”, quanto alla serie di risultati shokkanti inanellati dall’establishment occidentale nel 2016 (Brexit, Trump e referendum italiano, senza dimenticare quello greco del luglio 2015, subito tradito da Tsipras).
Stesso discorso per le due elezioni più attese dell’anno – Francia e Germania – dove i mostri da battere (Marine Le Pen e Alternative fur Deutschland) hanno ben poche chance di vincere davvero.
Odiamo i nazisti dell’Illinois e dunque anche quelli di Rotterdam o dintorni. Ma ci sembra che alcuni particolari vadano evidenziati, proprio perché cancellati dai commentatori mainstream.
L’Olanda, proprio come la Francia e la Germania, è uno dei paesi economicamente più forti dell’Unione Europea, uno di quelli che ha più guadagnato dal poter “competere” ad armi impari (sistema industriale più avanzato, filiere integrate con quelle tedesche) con i paesi mediterranei, sfruttando al meglio una moneta unica che non tiene conto di differenze strutturali pesantissime.
La crisi economica globale, giunta ormai al decimo anno, ha colpito anche i Paesi Bassi, naturalmente. Ma la posizione particolare occupata nel dispositivo europeo le ha consentito di limitare i danni. Il partito di Wilders ha raccolto da destra quel tanto di malessere sociale comunque emerso, ma questo non aveva le dimensioni critiche necessarie a creare un vero pericolo, specie in presenza di opzioni politiche che hanno conteso tale egemonia (i Verdi e gli antirazzisti di sinistra). Tanto più in un paese con una legge elettorale proporzionale, che obbliga da sempre a comporre delle coalizioni per garantire un governo. Paradossalmente, Wilders sarebbe stato più favorito da un sistema maggioritario, che consente di polarizzare al massimo le posizioni…
L’afflusso dei votanti, oltretutto, è stato stavolta altissimo, depotenziando al massimo il bacino “militante” raccolto intorno agli zenofobi. Un’altra riprova del fatto che quando la gente va a votare, in misura anomala e inattesa (e sempre più indesiderata), spariglia i giochi disegnati dai sondaggi.
In realtà quel che caratterizza queste elezioni è l’esplosione del sistema politico olandese, che esce frantumato come non mai in precedenza. Il partito conservatore di Rutte (Vvd-Alde) è rimasto, sì, il primo partito, ma ha lasciato per strada 10 seggi e 6 punti percentuali (dal 26,6 al 20,6%). Se questa è una “vittoria”, figuriamoci cosa può essere una sconfitta…
Che è poi quel che ha dovuto sperimentare il Partito socialista, praticamente dissolto, precipitato dal 24,8 al 6% (sei!), con appena 9 parlamentari al posto dei 38 che aveva in precedenza. Il PvdA segue così la sorte di tutti gli altri partiti social-liberisti, che pagano la contraddizione palese tra politiche di austerità e “idealità” sociale sbandierata. In pratica i due partiti che per decenni avevano rappresentato le colonne portanto del sistema – conservatori e socialisti – non raggiungono insieme nemmeno il 30%. Tant spazio per gli outsiders, dunque…
Diciannove deputati, infatti, per i cristian- democratici (Cda, sicuri alleati di Rutte nel governo) e i “liberali di sinistra” del D66, che guadagnano rispettivamente 6 e 7 seggi (parte di quelli persi dai conservatori e dai “socialisti”). Esplode il consenso per i Verdi guidati da Jesse Klaver (che in Olanda sono molto più a sinistra dei colleghi tedeschi), passati da 4 a 14 parlamentari e dal 2,3 al 10,7%. Entrano in parlamento anche gli antirazzisti di Denk, movimento fondato da due deputati turco-olandesi usciti dal partito socialista in polemica con le politiche di “controllo dei movimenti islamisti” sostenute dal vertice; una dimostrazione di come la contrapposizione con Erdogan, voluta da Rutte negli ultimi giorni, abbia rivelato una immigrazione turca niente affatto "di destra" o innamorata del "sultano".
Come si vede, dunque, il piccolo parlamento olandese è composto da sette partiti tutti oscillanti tra il 10 e il 20% dei voti. Per ora, insomma, la “diga” ha tenuto. Ma le crepe si sono moltiplicate. E parecchio…

LA NOTTE NERA DI MILANO

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Arriva metà marzo e i compagni antifascisti di Milano e italiani pensano subito a Dax,un amico,un compagno,un figlio e un padre,assassinato in maniera vile e violenta,premeditata e lucidamente folle:la notte del 16 marzo del 2003 verrà ricordata come la notte nera di Milano.
Dove in una sera si è passati da una serata tranquilla in un pub dei navigli ad un'esecuzione da parte di tre fascisti,due fratelli e loro padre,dai primi soccorsi ritardati dalle forze del disordine alla loro diretta complicità in quello che è poi accaduto all'ospedale San Paolo.
Una notte tremenda dove si è per l'appunto perso in una maniera inimmaginabile una persona cara a molti,lasciando una figlia e una madre inossidabile,amici fraterni e conoscenti che ne hanno sempre apprezzato le qualità.
Nell'articolo sottostante preso da Senza Soste(dax-odia-ancora )si presenta uno scenario completo e chiaro su chi era Davide,su quello accaduto in Via Brioschi e su ciò che successe in quella notte amara che ci ricorda ancora oggi a distanza di quattordici anni che senza memoria non c'è futuro.


Dax odia ancora: 16 marzo 2003, la notte nera di Milano.

Sul camion anche tredici ore al giorno ma – a fine turno – una bellissima bambina oppure, amica da sempre, il posto dove tutto è cominciato: la strada.
Bisogna partire da qui per parlare della vita di Davide Cesare “Dax”: ventiseienne della provincia milanese, autista per conto della Trezzi Tubi di Vimodrone e militante dell’Officina di Resistenza Sociale (Orso) di via Gola, a Milano. Bisogna partire dalle sue spalle larghe, dal suo fisico robusto e da un volto che ispira amicizia e simpatia, lasciando trasparire la sua passione, la sua disponibilità, le sue idee sul mondo e il suo modo di respirare i problemi per impegnarsi a trovare soluzioni concrete e immediate. Perché se la bellezza, come si dice sempre, «è negli occhi di chi guarda», allora gli occhi di Dax sono meravigliosi sul serio. Perché là dove molti altri vedono la diversità e gridano al pericolo, gli occhi di Dax vedono la ricchezza e portano la solidarietà. Dove molti altri vedono il disagio e si girano dall’altra parte, gli occhi di Dax vedono la possibilità di un cambiamento radicale e stringono rapporti di amicizia. Dove molti altri vedono l’esclusione e, spaventati dalla loro stessa cattiva coscienza, auspicano la repressione, gli occhi di Dax vedono la violazione di un diritto e invitano alla lotta.
Ecco, questo è Dax: questo è ciò che comunicano i suoi occhi. Un modo di guardare alle cose e alle persone forse oggi più raro di un tempo ma tutt’altro che estinto. Lo dimostrano le migliaia di scritte che hanno ricoperto Milano con il nome di Dax, gli striscioni pronti a sfidare il vento nei cortei che hanno urlato «Dax è vivo » in tutta Italia, e persino i tanti compagni che, dopo quello che è successo in una notte di marzo in zona Navigli, la parola «Dax» se la sono fatta tatuare sulla braccia, magari insieme all’antico simbolo utilizzato dai lavoratori inglesi e oggi adottato dagli skin anarchici e comunisti: due martelli incrociati; incisi sulla pelle insieme a una data – 16 marzo 2003 – che nessuno ha voglia di dimenticare.

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La sera del 16 marzo del 2003, Dax è a spasso per i Navigli, forse il luogo che esprime le contraddizioni più paradossali di Milano. Nato come insediamento popolare, con le case di ringhiera, le sedi di tutte le organizzazioni di sinistra possibili e immaginabili e i palazzi costruiti dal comune, i Navigli, a partire dagli anni Ottanta, finiscono per attrarre gli interessi di una speculazione immobiliare decisa a sfruttare la centralità della zona per consegnarla, previo lauto guadagno, al finto-rustico delle trattorie dai prezzi proibitivi, al design dei locali fichetti e alla voglia di abitare in una località “pittoresca” che spinge i rampanti yuppies milanesi a sborsare centinaia di milioni per un bilocale.
Malgrado tutto, però, la zona Navigli-Ticinese resiste, tant’è che sono moltissimi, tra via Gola, via Palmieri e via Barrilli, gli appartamenti sfitti occupati da persone – giovani coppie, immigrati, lavoratori precari – altrimenti esclusi da ogni possibilità di abitare Milano.
Dax, insieme ai compagni dell’Orso, al network del sindacato inquilini e alle altre realtà dell’antagonismo milanese, è in prima fila quando si tratta di evitare gli sgombri o di opporsi alla privatizzazioni delle case dell’Aler. Grazie a questo acquista una visibilità che, se per molti si traduce in amore, per qualcun altro diventa una colpa da fargli pagare cara.
L’occasione, la sera del 16 marzo, si presenta poco prima della mezzanotte. Insieme ad alcuni amici, Dax va a prendere una birra al Tipota, il piccolo pub graffitato da Atomo e Schwarz e gestito da Emiliano “il Rosso”: un ritrovo abituale per tutta la sinistra che gravita nella zona Navigli-Ticinese. Fuori dal locale, mentre Dax esce dopo aver consumato, transitano i fratelli bonehead Federico e Mattia Morbi (rispettivamente di 28 e 17 anni) con il loro rottweiler, chiamato “Rommel” in onore dell’omonimo generale nazista.
Ai due ragazzi si aggiunge presto il padre, il signor Giorgio Morbi, in un momento in cui l’incontro non ha lasciato nessuno spazio alle parole. I Morbi, infatti, si sono scagliati contro Dax e i ragazzi che sono con lui con una furia allucinata e omicida.
Chi aggredisce Dax non si limita a usare le mani. Ma colpisce lo skin in tutto il corpo con una decina di coltellate, vibrando il fendente decisivo alla gola.

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Anche Fabietto e Alex, due amici di Dax, vengono feriti in modo serio: Alex, in modo particolare, rischia di morire con un polmone bucato. A salvarlo non è certo la celerità dei soccorsi. Al contrario, con Dax agonizzante sul marciapiede e Alex che dopo un po’ non può più nemmeno parlare, qualcuno riesce a fare un giro di telefonate e a chiamare le ambulanze insieme agli amici dei ragazzi accoltellati. I militanti dell’orso rintracciati in zona arrivano subito, la croce rossa, invece, è preceduta dai carabinieri e dalla polizia:
Sul posto c’è già la polizia: all’incrocio tra via Brioschi e via Zamenhof ci sono almeno tre macchine della polizia in mezzo a due vie. Vedo Alex accovacciato sul gradino del pub “Tipota”, mi chino su di lui e mi dice: «Sto bene, guarda Dax…».
Dax è per terra vicino al marciapiede dell’incrocio, il corpo immobile disteso su un fianco e immerso in una pozza di sangue. Mi avvicino un poco, lo vedo, ma non riesco a guardarlo bene c’è troppo tempo. Cerchiamo di capire cos’ successo.
«Sono stati i fascisti».
«Li hanno aspettati… un agguato».
C’è molta confusione, telefono a più non posso dicendo a tutti di accorrere; i compagni e le compagne arrivano, le ambulanze no.
«Le ambulanze! Le ambulanze!».
Corrono i minuti e la presenza della polizia continua ad aumentare, una macchina dei carabinieri si è fermata ostruendo un altro accesso da via Brioschi.
«Spostate le macchine!»
«Assassini!»
«Dovete far arrivare le ambulanze e togliere quelle cazzo di macchine».
Le forze dell’ordine ci guardano con indifferenza, fanno più o meno finta di non sentire. […] Passa un tempo atroce: il traffico intasato, i compagni increduli, la gente intorno che guarda. Quando arriva la prima ambulanza, gli infermieri vanno subito su Dax; comincio a guardarlo: lo girano ha gli occhi aperti e fermi, ma è tutto troppo insanguinato e non capisco. […] Mentre caricano Dax sull’ambulanza, gli diciamo di portare via anche Alex che sta male e ormai privo di sensi anche lui; lo lasciano lì e devono passare altri dieci atroci minuti prima che arrivi la seconda ambulanza […]. Mentre stiamo cercando di capire a quali ospedali fossero diretti i compagni feriti, una camionetta di celere sopraggiunge da via Zamenhof: scendono i poliziotti, alcuni con casco e manganello in mano, pronti a caricare. Avanzano verso di noi che gli andiamo incontro urlando di andarsene. Il plotone risale sulla camionetta e se ne va: una provocazione… un avvertimento… (questa e le altre testimonianze dei compagni di Dax citate nel testo sono contenute in Resisto, un dossier dedicato ai fatti del 16 marzo 2003 consultabile on-line attraverso il sito http://www.daxresiste.org/archivio/).
L’intervento delle forze dell’ordine, in buona sostanza, ostacola il pronto intervento dei soccorsi. Ma è proprio una volta arrivati all’ospedale San Paolo che la notte si avvia verso un epilogo ancora più tragico di quanto si possa immaginare. È al San Paolo, infatti, che gli amici di Dax, fino a quel momento ancora all’oscuro delle reali condizioni in cui versa il compagno, apprendono una notizia atroce: il militante dell’Orso non è arrivato vivo in ospedale.
Ma morire a ventisei anni in una tranquilla serata di marzo non è una notizia che può essere accettata. Tra la ventina di amici di Dax presenti, l’incredulità si mescola all’indignazione: quello che è successo non può essere vero, tutti vogliono sperare ancora o almeno entrare per capire meglio cosa sta succedendo non solo a Davide Cesare ma anche agli altri ragazzi ricoverati.
Dai Navigli, al seguito del corpo di Dax, anche i carabinieri e la polizia si spostano all’ospedale. Loro, il dolore di quei ragazzi, non sanno neppure cosa significhi: evidentemente scambiano quel piccolo drappello di giovani affranti con un’“adunata sediziosa” e iniziano a caricare. Quelle che seguono sono le stesse scene da macelleria messicana già andate in scena a Genova durante l’irruzione alla scuola Diaz: pestaggi indiscriminati con un lago di sangue che viene versato in un luogo dove la gente si dovrebbe curare e non certo picchiare.
Anche i sanitari del San Paolo, al cospetto di tanta furia, fanno quello che possono e salvano più di qualche ragazzo dalla reazione della polizia che insegue gli amici di Dax anche in corsia, impegnandosi in una caccia all’uomo reparto per reparto. A chi viene preso vengono spezzati i denti, incrinate le costole e spaccata la faccia con i metodi usuali:
Eravamo sconvolti per la morte del nostro amico ed è iniziata una discussione con i poliziotti presenti, che hanno iniziato ad insultarci, provocandoci. È partita una piccola carica… In quel momento sono sopraggiunte altre persone che volevano entrare nell’ospedale ma vedevo che venivano fermate a manganellate. Io ed altri siamo corsi per vedere cosa succedeva e a quel punto ci hanno caricato e rincorso per il vialetto del pronto soccorso, colpendoci alle spalle.
Sono stato colpito violentemente in faccia con una manganellata, che mi ha causato una ferita all’arcata sopracciliare, dalla quale perdevo copiosamente sangue. Mi sono rifugiato nell’atrio pensando che fossero terminate le cariche ed aspettando che mi medicassero la ferita. Dopo poco sono entrati invece dieci/quindici poliziotti che mi hanno preso di peso e buttato letteralmente fuori dal pronto soccorso, gettandomi a terra, iniziando a manganellarmi e a darmi calci in faccia con una violenza spaventosa.
Sono finito a terra, ho sentito arrivarmi un calcio nelle reni, una manganellata sulla testa e diverse altre sulle ginocchia, poi mi hanno ammanettato. Sono stato condotto verso la macchina della polizia e mentre mi facevano salire sono stato colpito con un calcio in faccia da un poliziotto […]. Dall’interno vedevamo alcuni poliziotti che spingevano indietro i carabinieri più invasati, cercando inutilmente di placarli. Uno di questi carabinieri urlava: «Andiamo ad ammazzarli tutti questi bastardi comunisti!».
Fra gli uomini in divisa ricordo che ce n’era uno in borghese, giovane, con un maglione blu che saprei riconoscere, che mi ha colpito sul collo con un tubo.
Mi sono trovato con la pancia a terra, si sono messi intorno, erano cinque o sei persone, credo fossero della Celere, mi hanno dato una violentissima manganellata sulla testa (per tale colpo di hanno dato sei punti), altri mi davano ripetuti calci in bocca. A causa di questi colpi ho avuto la rottura di quattro denti, altri sei o sette si sono piegati all’indietro, mi hanno anche applicato sei punti all’interno della bocca e due sulle labbra. Non contenti qualcuno mi colpiva ripetutamente con calci sullo sterno (ho tre costole incrinate), urlavano: «Ti spacchiamo la faccia, zecca» (Estratti dalle querele presentate dai compagni di Davide Cesare contro le forze dell’ordine).

***

All’indomani dei brutali e immotivati pestaggi avvenuti dentro e fuori il San Paolo, di fronte alle denunce non solo dei ragazzi sfigurati, ma anche degli stessi medici e infermieri del pronto soccorso, il comportamento della Questura è a dir poco surreale. Secondo una fonte ufficiale, infatti, l’intervento violento delle forze di polizia si è reso necessario per scongiurare le “vera” volontà degli amici di Dax: trafugare il cadavere dell’amico assassinato!
«I nostri uomini hanno dovuto contenere una massa di giovani esagitati» e «abbiamo agito per tutelare l’ordine pubblico» diventano le algide spiegazioni che i diretti interessanti forniscono alla stampa che, per lo più, si appiattisce su questa spiegazione senza mettere in discussione la parola di chi porta la divisa. Qualcuno, ancora più subdolamente, si spinge a dire: «Se quelli del centro sociale hanno le prove le tirino fuori».
Per una curiosa “fatalità” le telecamere che dovrebbero riprendere ventiquattro ore su ventiquattro quello che succede nell’ospedale, la notte del 16 avevano subito un “guasto” improvviso… le paventate prove, però, saltano fuori lo stesso: a sorpresa un cineamatore, posizionato su una terrazza con vista sul giardino del San Paolo, riprende ogni minuto di quello che succede, evidenziando il furioso linciaggio a cui è sottoposto uno dei ragazzi presenti all’ospedale.
Le riprese dovrebbero provocare indignazione e imbarazzo quando, grazie al filmato e all’iniziativa di due esponenti di Rifondazione comunista, il pestaggio del San Paolo arriva in Parlamento… il ministro Carlo Giovanardi, invece, fa finta di niente e, in tutta tranquillità, dichiara: «Non emergono comportamenti censurabili del personale delle forze dell’ordine».
Le dichiarazione del ministro fanno venire i brividi: negano l’evidenza, ma di sicuro non giungono inaspettate. Al contrario, l’opinione di Giovanardi è in linea al modo in cui i giornali, nella grande maggioranza dei casi, si sforzano di far passare l’omicidio di Dax come diretta conseguenza di «una rissa tra punk»: una modo di negare la matrice politica del delitto che, tre anni dopo, darà il meglio di sé quando si tratterà di affrontare la morte di Renato Biagetti, un altro ragazzo dei centri sociali assassinato dai fascisti a coltellate.
Anche i responsabili della morte di Dax, probabilmente, ascoltano le parole di Carlo Giovanardi. Condotti in tribunale, i Morbi fanno proprie le posizioni del ministro e della stampa, prima cercando di utilizzare gli ininfluenti precedenti penali delle vittime (reati di resistenza a pubblico ufficiale commessi durante le occupazioni delle case o a fronte della propria militanza politica), poi appellandosi alla legittima difesa e attribuendo ai ragazzi dell’Orso il possesso di pericolosi tirapugni (fatto smentito in maniera categorica da numerosi testimoni: Dax e i suoi amici non avevano nessun tipo di oggetto atto a offendere), e alla fine tentando di far passare la loro aggressione per una rissa giustificata da un presunto alterco avuto con Dax una settimana prima (come se fosse normale o giusto far seguire a un’eventuale discussione, per quanto accesa, un attacco squadrista condotto a colpi di coltello).
Il risultato è una condanna a 16 anni e otto mesi di reclusione pronunciata contro Federico Morbi mentre suo padre e suo fratello Mattia, che in virtù della minore età se la cava con l’affidamento in prova ai servizi sociali, subiscono pene di gran lunga minori.
Si tratta di un provvedimento quantomeno discutibile visto che, come ha dichiarato Rosa Piro, la madre di Dax:
Io ho assistito a tutto il processo; innanzitutto non è vero che Mattia non è implicato; del resto non ha mai negato di esserlo. Tra l’altro i due fratelli sostengono ognuno che tutto è avvenuto per difendere l’altro; tanto è vero che il pm gli ha risposto che sembra si siano «difesi un po’ troppo», visto che loro due non sono stati neppure sfiorati da un colpo, mentre dall’altra parte c’è scappato un morto e un ragazzo s’è salvato per miracolo. […] Mattia non ha mostrato il minimo cenno di pentimento, come pure gli altri due Morbi. […] Ricordo che quando il giudice gli ha chiesto come mai avesse optato per l’affido ai servizi sociali, ha risposto solo che «è sempre meglio del carcere» (intervista di Francesco “Baro” Barilli, www.ecomancina.com/dax.htm).
Fuori dal Tribunale, in ogni caso, la musica cambia completamente. C’è una bambina in una casa lontana dai luoghi in cui si muovono gli assassini di Dax che non fa altro che scarabbocchiare ritratti del papà su fogli da appendere alle pareti. Si chiama Jessica e, tutte le volte che sente una canzone di quelle che amava Dax, alza gli occhi verso il cielo e strilla: «Papà, te la dedico!».
Ci sono proprio quelle canzoni, il 22 marzo del 2003, a Rozzano. Per un’importante coincidenza del destino i funerali di Dax si svolgono lo stesso giorno in cui, un quarto di secolo prima, il Casoretto aveva pianto Fausto e Iaio, anche loro assassinati ai fascisti, anche loro “colpevoli” di militare in un centro sociale.
Ad accompagnare il ragazzo dell’Orso al cimitero, insieme a quattromila compagni, un camion dotato di amplificazione su cui, al gran completo, suona il gruppo preferito di Davide: la Banda Bassotti; salita apposta da Roma per salutare in Dax uno di quei Figli della stessa rabbia di cui parla un loro pezzo famoso. Una canzone contro «chi cammina sopra ai corpi violenta le culture cancella i ricordi» come recitano le parole scritte da Angelo “Sigaro” Conti per attaccare la trasformazione del razzismo e dell’esclusione sociale in valori dominanti. Per questo, dopo il 16 marzo del 2003, lo slogan «Dax odia ancora» è diventato il motto di chi, in memoria del giovane operaio assassinato, ha deciso di dedicare agli occhi di Davide la volontà di impegnarsi per cambiare al più presto questo modo stupido e violento di vivere e di pensare.