sabato 30 agosto 2008

TORNANDO A CASA

Sognatore,torno a casa,
lascio alle spalle miglia
di sofferenze e dolori.
Portami a casa tua
sulla riva del lago
e troverò la gente
che riderà e ballerà.
Sto tornando da lontano
sto tornando a casa.
Tu lo sapevi,
mentre sognavi l’amore
e vagavi in giro per le strade.
Le mie mani aprono un libro
ed i miei occhi scorgono
parole scritte dal cuore,
ma ci sarà qualcuno
che le prenderà e le brucerà,
ma prima vorrei tornare a casa.

mercoledì 27 agosto 2008

SPERO

Spero che il betadine
si sia già asciugato
per non sporcarmi l’intimo.
Spero che la neve sui tetti
e tra le grondaie arrugginite
riesca a sopravvivere fino a luglio.
Spero di non ringhiare
dietro a pensieri distratti
che so mi faranno incazzare.
Spero che questa sera mi accorga
di un non so cosa
che possa lenire le mie disperazioni.
Spero nella vita e nel domani,
che non mi possa arrecare
più distrazioni di una preghiera.
Spero di non aver mai fretta
di scrivere qualcosa
prima che poi io muoia.
Spero in un latente attimo tuo
in una visione che telepaticamente
vorrei farti sognare.
Spero in una notte dove ritornerò,
e lo so,alla casa del padre.
Spero in un futuro semplice,
emancipato dalla sete di potere
che tutti bramiamo.
Spero e non lo dico,non lo scrivo,
non posso nemmeno.
Spero in troppe tante cose,
pur essendo consapevole
che un mondo senza lacrime
non possa esistere.

domenica 24 agosto 2008

CIAK AFRICA...BUONA LA PRIMA

(Resoconto del viaggio in Tanzania del gennaio-febbraio 2005).
La mia prima volta in Africa.
Più trascorre il tempo dal mio ritorno e più mi rendo conto che quello da me vissuto sia stato un magnifico mosaico d’emozioni,esperienze e visioni, uniche per intensità e varietà.
Dagli immensi spazi aperti delle savane alla rigogliosa e umida foresta lungo la salita per il Kilimanjaro,dagli animali visti solo negli zoo o nei documentari al mare vibrante di vita di Nungwi.
Un dedalo di passione,entusiasmo e incanto,persone allegre che sembrano aver capito il senso della vita.
Siamo partiti in tredici pieni di speranze e sogni,promesse e talvolta illusioni,perché l’Africa non è da tutti.
Non è per chi è abituato agli agi propri del nostro modo di vivere,a chi ha fretta di correre per poi arrivare da nessuna parte,per chi pensa di essere superiore agli altri(tanto deve allora imparare dagli africani!).
E’ realmente vero che quando sei nel contesto,sul luogo,quasi non giustifichi il fatto di viverlo in prima persona.
Mi è capitato svariate volte lungo il tragitto d’immaginare d’essere a casa,
chiudere gli occhi e poi riaprirli per venire catapultato in quella che è un’altra dimensione,poiché poco di ciò che c’è qui ricorda la mia terra.
Purtroppo già siamo partiti,chi da Roma e chi come me da Milano,con un giorno di ritardo sulla tabella di marcia(il sabato 29-01-2005)e nella quasi interminabile sosta logistica a Dubai abbiamo dovuto ridimensionare l’itinerario cancellando la visita al lago Natron(che il mio amico Domenico mi aveva caldamente consigliato).
Quando si voleva togliere dal tragitto pure la già breve escursione del Kili per un giorno di mare in più a Zanzibar io e molti altri siamo stati intransigenti.
Al limite poi ad Arusha chi avesse voluto avrebbe avuto la possibilità di partire per proprio conto se davvero avesse desiderato trascorrere un ulteriore giorno in spiaggia.
Arrivati a Nairobi la domenica 30 gennaio subito siamo saliti sul minivan di un contatto di Viaggi diretti ad Arusha,Tanzania.
Devo spendere una parola sui “contatti” locali di Viaggi avventure,nel senso che secondo me,(non avendo mai effettuato questa esperienza di viaggio)abbiamo spesso trovato persone in tutti gli spostamenti che ci “guidavano”ed “indirizzavano”senza farci fare mai troppi “sbattimenti”.
Per carità,abbiamo sempre incontrato uomini competenti,seri e simpatici ma m’è parso come aver la pappa pronta ed ovviamente con un aumento del prezzo da corrispondere per tali agevolazioni.
Chiusa la parentesi,dopo una sosta di un’oretta per espletare le formalità burocratiche al confine Kenya-Tanzania di Namanga che consiste letteralmente di due uffici separati da semplici cancelli,abbiamo tirato dritti fino ad Arusha dove siamo arrivati alle 18.00 alloggiando all’Eliasi hotel.
Durante il tragitto di cinque ore abbiamo notato alcuni incidenti stradali lungo la via,motivo per alcuni di un alquanto giustificata agitazione e perplessità sul modo spericolato di circolare di alcuni autisti(non che in Italia guidare sia poi molto più sicuro).
Il giorno seguente,lunedì 31-01,ci siamo recati al Tarangire National Park per la prima vera avventura africana visto che per la maggioranza di noi si tratta di una première.
Su tre differenti jeep per tutto il periodo del safari,che durerà sette giorni ma anche successivamente,ci siamo sempre trovati nei gruppetti venuti a formarsi sui mezzi di trasporto.
La nostra guida è Godfrey,originario di un paesino appena fuori Arusha sulla strada per Moshi,un signore quarantenne con molta esperienza sul campo:sempre disponibile alle nostre richieste di fermarsi per scattare fotografie,aperto e gentile,pronto e disponibile alla conversazione(anzi era lui che nei primi momenti ci spronava a fare domande e noi subito a formularle a raffica per una settimana di fila).


La nostra jeep(chiamata anche la jeep disobbediente,anarchica o sovversiva)è composta oltre che da Godfrey,da me Camillo di Crema,da Francesca di Roma,Luigi di Benevento(mio compagno di stanza),Sara di Pavarolo(TO) e Irene di Torino.
Appena varcata la soglia d’ingresso del Tarangire N.P.(105 km di distanza da Arusha)ci siamo goduti l’immenso,infinito e sconfinato panorama della savana dove l’occhio umano si smarrisce di fronte alla vastità di questo paesaggio.
Successivamente abbiamo scoperchiato i tetti delle jeep(a fine safari otterremo tempi di realizzo di tale operazione da far invidia ai meccanici
delle formula uno)aguzzando la vista alla ricerca di un minimo movimento tra i cespugli e le alte erbe,i termitai,le acacie e i baobab col fine di scovare un elefante o un leone,una giraffa o una zebra.
Subito mi ha impressionato il fatto di vedere tanto verde dove m’immaginavo erba rinsecchita e gialla,terra secca arsa al cocente sole,paesaggi brulli e semidesertici.
Questi stereotipi sono scomparsi alla realtà di una vegetazione abbastanza rigogliosa,non proprio una collina irlandese color smeraldo,ma che si presenta bene alla vista.
Godfrey spesso ferma la jeep e indica dove guardare e noi a strizzare gli occhi e chiedere :“dove?”.
I primi avvistamenti sono stati così,penso per la nostra scarsa abitudine a cercare animali talvolta mimetizzati o celati dalla flora…ma ecco un facocero,un cobo,un altro ancora…elefanti!
Un piccolo branco alla nostra sinistra e tutti a bocca aperta,(non troppo per la verità causa polvere)scatti delle nostre fotocamere,binocoli in mano,richiami animaleschi e stupore e meraviglia.
La pausa pranzo al sacco l’abbiamo consumata in cima alla Tarangire Hill
posta nei pressi dell’omonimo fiume,ridotto dal periodo di secca ad un rivolo semi asciutto che ci permetterà successivamente di compiere un facile guado.
Sotto l’ombra di acacie spinose veniamo presto circondati dagli storni splendenti dal petto d’oro,magnifici uccelletti dai colori sgargianti col dorso blu lucente,testolina nera ed il ventre arancio dorato:abituati alla presenza dei turisti elemosinano qualche briciola dei nostri panini o delle arachidi e noccioline.
Giusto dopo la collina un bel gruppo di giraffe appare alla nostra sinistra,
(con le relative bufaghe che vivono in simbiosi con loro)intento a ricercare le tenere foglie delle acacie celate da insidiose spine.
Per questi atipici mammiferi però nessun problema,infatti dall’alto dei loro cinque metri di altezza e grazie alla lingua ruvida e coriacea,estremamente mobile e prensile,riescono a raggiungere comodamente anche i rami più alti.
Queste particolari giraffe appartengono alla sottospecie masai(giraffa camaleopardus tippelskirchi)e possiedono macchie sfaccettate e non ben definite come la sottospecie reticolata.
Nonostante il lunghissimo collo essa,come del resto tutti i vertebrati,
possiede sette vertebre cervicali,ovviamente grandi in rapporto alla sua lunghezza.
E’un animale estremamente docile e guardingo,pronto a scappare appena il pericolo si presenta,perché riesce con l’altezza da vedetta a vedere molto lontano(e pure a colori).
L’origine del suo nome risale al periodo della stesura del Corano dove anticamente veniva chiamata “serafe”,l’amabile:comunque guai ad insidiare i suoi cuccioli poiché le sue zampe possono sferrare calci parecchio devastanti.
E’ davvero un animale dal cuore grande,non solo metaforicamente ma anche perché il muscolo cardiaco arriva a pesare 12 chili,così grande per il fatto che deve pompare tantissimo sangue visto le sue dimensioni.
Curiosi alberi ci si parano davanti proseguendo dopo il guado del Tarangire river:con delle zucche allungate cascanti dalle fronde si fa notare l’albero delle salsicce,i cui frutti opportunamente scavati servono da borracce e recipienti alle popolazioni locali.
Degli impala(aepyceros melampus)maschi staccatisi in pattugliamento dal branco ci fissano incuriositi nell’ombra di cespugli,con le loro lunghe corna simili a colonne tortili,col manto rosso-arancio e strisce nere sulle cosce e sul dorso e la coda.
Di primo acchito tutte le specie di antilopi e gazzelle possono sembrare simili ma osservandole attentamente si notano differenze riguardo la taglia,il colore del pelo,la presenza di strisce sul mantello e la forma delle corna.
L’impala si ciba prevalentemente d’erba ma non disdegna le foglie degli arbusti,sta sempre all’erta e se avverte la presenza di predatori fugge veloce saltando e scartando facendo invidia ai più affermati cestisti e goleador.
Non essendo di stazza eccessivamente grande da poter intimidire leoni,
ghepardi e licaoni,i piccoli alla nascita non hanno odore per non venire riconosciuti:nel caso vengano insidiati gli individui si muovono in branco per poter difendersi meglio anche se non sempre riescono a sfuggire ai loro cacciatori.
Il sole e il caldo per i primi giorni vengono mitigati da pioggerelle che sempre,attorno alle tre-quattro del pomeriggio,bagnano la terra e la vegetazione bisognose d’acqua.
La pioggia rende ancor più scuro il terriccio smosso posto a costituire i grandi nidi delle termiti,che a differenza di tutti gli altri insetti sociali come api e formiche è l’unico in cui ci siano anche operai maschi.
Un termitaio può essere alto parecchi metri e inglobare degli arbusti,con milioni di abitanti presenti in una stessa colonia.
In lontananza fanno la loro apparenza una copia di struzzi,e più vicini a noi dei cobo e dei serpentari.
Il cobo(cobus ellipsiprymnus)a differenza delle altre antilopi è visibilmente più imponente e pesante,dal pelo bruno con la gola e la zona attorno agli occhi bianca:le corna sono inanellate e simili a quelle dell’impala anche se meno sinuose.
Il serpentario(sagittarius serpentarius)è un uccello che cammina e soprattutto corre sulle proprie lunghe e robuste zampe dal color grigio:il corpo bianco sporco ha le estremità delle penne più lunghe nere.
La sua dieta varia da piccoli insetti a topi,uccellini e naturalmente serpenti,anche se per l’intero viaggio sono riuscito a vedere solo una biscia d’acqua.
Il pomeriggio s’è inoltrato e sta già incontrando la sera,con degli sparuti e soffici cumuli che proiettano la loro ombra sopra le immense praterie.
E’ l’ora di recarci al campeggio Holiday Fig Resort a Mto Wa Mbu,a pochi chilometri di distanza.
Il tempo è incerto e a malincuore la maggioranza di noi decide di dormire in stanza(purtroppo durante tutto il viaggio si è utilizzata la tenda solo per due notti e mi lamento non tanto per il dormire in stanza ma per l’inutile peso complessivo,fra tende e materassino di una decina di chili, nonché per il volume che occupa la maggior parte dello zaino!).
Mangiamo un ottimo e abbondante spezzatino con riso perché l’appetito è ben stimolato dalle fatiche della giornata.
La tradizione africana in ambito culinario non è molto radicata in Tanzania:infatti esistono solo poche specialità ed il resto è pollo o agnello accompagnati da riso e salsine.
La sera dei ragazzi del luogo suonano e ballano acrobaticamente all’interno del campeggio,con i bacini che sbiellano paurosamente provocando la mia invidia in quanto incapace di muovermi così bene.
La sera andiamo in giro a bere qualcosa in un bar lì vicino,coi giovani locali che guardano alla televisione il calcio inglese.
I programmi televisivi della Tanzania sono marcatamente di stampo britannico,residuo di un colonialismo ancora radicato anche se non ufficialmente(solo Premier League,cricket,notiziari BBC e similari).
Le notti africane regalano stellate magnifiche nei posti non contaminati dall’inquinamento luminoso,con Orione sempre nel centro e le Pleiadi accanto in una cornice di punti fulgidi incastonati nelle misteriose tenebre,con frequenti stelle cadenti:notti di San Lorenzo nel bel mezzo dell’inverno!
E il pensiero a casa è accompagnato da sfottò e ghigni malefici.
La nottata la passo quasi in bianco punto una trentina di volte da fameliche zanzare(la traduzione in italiano dallo swahili di Mto Wa Mbu non significa “fiume delle zanzare”per niente!).
La mattina del primo febbraio è bagnata da un bell’acquazzone che scema in poche ore per cessare del tutto prima dell’ingresso nella Ngorongoro Conservation Area.
Qui all’entrata ci possiamo sgranchire un poco le gambe mentre zampetta sull’asfalto una timida averla maggiore che non sembra crudele e sanguinaria come le sue abitudini possono far credere:è un uccello che ha l’abitudine d’impalare a spine e rametti alcune delle sue prede.
A differenza di tutti i National Park Ngorongoro è una Conservation Area, dove oltre a venire esercitati regimi di protezione floro-faunistica,al proprio interno si trovano insediamenti masai sparsi in qualche villaggio.
Le popolazioni locali sono state letteralmente cacciate dai parchi nazionali in quanto la loro presenza e soprattutto quella del loro bestiame minacciano l’esistenza degli animali selvaggi delle grandi savane.
In parte è vero che gli armenti da loro allevati,col calpestio e la scarsa adattabilità ad un clima che comporta un maggior consumo di vegetazione e acqua rispetto agli animali selvatici,contribuiscono all’impoverimento del suolo.
E’ altrettanto veritiero che si è privilegiato l’animale per il turista piuttosto che la vita della popolazione indigena lì presente da migliaia di anni.
E’ reale e crudo e cinico considerare così scarsamente i bisogni dell’uomo e ci fa capire che anche noi contribuiamo indirettamente a questo,e dobbiamo se non altro comprendere il risentimento che qualche persona possa covare per noi uomini bianchi.
Esistono purtroppo delle regole che sono state imposte e dobbiamo accettarle anche se a malincuore.
Con tutto il nostro impegno e la buona volontà non potremmo mai riuscire a provare ciò che veramente un essere umano in questa posizione possa sentire,siamo tenuti solo a condividerne certi aspetti e un nostro dovere è quello di trattare tutti col massimo rispetto e dignità.
Per il momento la Ngorongoro C.A.è solo di passaggio perché prima dobbiamo visitare il Serengeti N.P.,così come previsto dalla tabella di marcia:comunque sostiamo qualche minuto con le jeep in un tratto dove riusciamo ad ammirare l’unicità del cratere che da il nome all’intera area.
Si resta meravigliati dallo splendido scenario di questo enorme buco del diametro di una ventina di chilometri e dalla superficie di 260 km quadrati con una grande pozza d’acqua al suo interno(che visto da più vicino è il lago Magadi).
Dal miscuglio di diverse tonalità di verde,osservando con l’ausilio del binocolo,si evince un brulicare di vita che ad occhio nudo non si nota:
mandrie di gnu,bufali e zebre che brulicano o sostano,linee sottili che sono le piste e punti bianchi le jeep minuscole,ogni tanto oscurate dalle nuvole che si rincorrono nel cielo azzurro.
Procediamo spediti lungo lo sterrato che è un susseguirsi di buche,salite e discese,per giungere alla piana che ci conduce al Serengeti N.P.
Abbiamo modo di vedere banchettare assieme avvoltoi e marabù che si contendono a grida e beccate una carcassa di uno giovane gnu.
Sembra ed è come vivere in un documentario visto solo grazie al piccolo schermo;emozioni catodiche ora vive e concrete con inerente pelle d’oca.
Gli avvoltoi e i marabù sono,assieme alle iene,gli spazzini della savana.
Questi due uccelli infatti si nutrono prevalentemente di carogne anche se qualche volta sono costretti dalla fame a cacciare prede vive.
Il cielo in certi punti è riempito dalle sagome di avvoltoi in volo planare che sfruttano le correnti termiche calde ascensionali,senza sbattere le ali per parecchi minuti nel tentativo di cercare animali morti e feriti,fiutando la nostra carne che comincia ad abbrustolirsi.
Pur avendo abitudini simili gli avvoltoi e i marabù si differenziano sostanzialmente perché i primi fanno parte dell’ordine dei falconiformi mentre i secondi di quello dei ciconiiformi.
Gli avvoltoi hanno il collo lungo e glabro,con una sciarpetta di piume alla sua base per non far colare il sangue delle vittime sulle penne:il becco adunco serve per sventrare nel miglior modo possibile le loro prede.
Il marabù è una grande cicogna alta fino a 150 centimetri,provvisto di un collo lungo ed un becco imponente e robusto.
In corrispondenza della gola possiede una sacca rossastra che penzola verso il basso,il dorso è coperto da penne nere che lo fanno somigliare ad un becchino mentre sul petto e sotto la coda presenta piume bianche.
Caratteristica comune ai due animali è quella di avere grandi nidi costruiti prevalentemente sopra le piatte chiome delle acacie anche se l’avvoltoio non disdegna nidificare in antri rocciosi.
Dopo avere assistito al pranzo di questi uccelli decidiamo di fermarci anche noi a pranzare sulla sommità di una collinetta nata dal nulla nel mezzo della piana smisurata.
Chi fra scatolette di carne e tonno,banane fritte confezionate in sacchetti come patatine,papaia e mango,banchettiamo e ci godiamo il panorama, nonché alcuni fiori e piante grasse e qualche scarabeo stercorario.
Questi coleotteri,grandi rispetto a quelli cui siamo soliti vedere in Italia, sono coprofagi:formano palle d’escrementi e con le zampette posteriori le fanno rotolare fino ai propri nidi dove le mangiano poco alla volta o sono usate dalle femmine per deporre le uova.
Non ci troviamo troppo distanti dalla Olduvai Gorge,il canyon dei fossili che si ritiene una delle culle della civiltà umana dove sono stati trovati interessanti resti umani,alcuni originari di 3,7 milioni di anni fa,anche se il reperto più famoso è il cranio di un ominide chiamato “l’uomo schiaccianoci”.
Il nome di questo nostro arcaico antenato della specie australopithecus boisei deriva dal fatto che possedesse una dentatura molto sviluppata,
soprattutto i molari,arnesi tritatutto.
Siamo in una zona a cavallo tra la Ngorongoro C.A. e il Serengeti N.P. e proprio presso il confine mandrie di gnu e zebre si mischiano assieme alle antilopi e i bufali in gruppi di qualche centinaia di individui mentre proseguono nella loro migrazione.
Effettuiamo una sosta tecnica nei pressi del Naambi Hill Gate,appena all’interno del Serengeti N.P.
La linea di demarcazione fra questi parchi è solo formale perché il paesaggio si mantiene simile:in cima alla collina che da il nome a questo ingresso lo sguardo si perde all’infinito ovunque tu possa guardare.
Dai massi che si levano sulla sommità dell’altura lucertole che sembrano indossare la maglia blau-grana del Barcellona,l’agamide delle rocce, prendono il sole del pomeriggio avanzato,l’ultimo prima che la luna ritorni a fare la sua comparsa nel firmamento.
Il Serengeti N.P. è situato al centro di una zona protetta che parte dalla Ngorongoro C.A. e prosegue in Kenya fino alla Masai Mara Game Reserve:è il parco più grande della Tanzania coi suoi 14.763 Km quadrati di superficie.
Solo il tempo per una puntata alla hippo pool per ammirare i nostri primi ippopotami(ma li vedremo meglio in seguito,lì stavano sempre sott’acqua) e poi,dopo contrattazioni e chiarimenti con la polizia locale ci viene permesso passare la notte presso l’ostello di Seronera.
Questa costruzione che solitamente ospita solo scolaresche consiste in due grandi edifici,uno adibito a dormitorio e l’altro a cucina,sala mensa e chiesa.
Abbiamo la possibilità di cucinare della pasta e cenare con affettati e grana come antipasto,un lusso qua.
Mentre prepariamo la cena all’aperto attiriamo una famiglia di cercopitechi verdi,scimmie dal pelo grigiastro sul dorso e bianco sul petto e la pancia,dal muso nero.
Dapprima timidi,successivamente ci tendono agguati rubandoci le banane e altre vivande,saltando sui tetti e correndo e arrampicando gli alberi.
Ci sono tre-quattro scimmiette aggrappate al petto delle madri:questi nostri lontani parenti sono giocosi e dispettosi,e lanciano le bucce di banana su chi ritengono antipatico.
All’imbrunirsi del cielo ci godiamo un tramonto irresistibile e mi prodigo in foto col colore netto del nero delle acacie in primo piano che risaltano sullo sfondo sfumato di porpora e arancio.
Sopra gli alberi degli aironi guardabuoi sembrano frutti che crescono sfidando la forza di gravità mentre il blu scuro s’impossessa della volta celeste scacciando l’ultimo filo di luce.
Durante il sonno nello stanzone in comune,coricati sui letti a castello,dei leoni si fanno sentire al di fuori della costruzione quando all’interno altri animali a due zampe russano clamorosamente.
Quella notte solo in pochi hanno osato usare i bagni posti esteriormente al casermone.
Alle sei circa la sveglia e subito fuori per ammirare l’alba mozzafiato che vede il blu trasformarsi in viola carico e celeste,con la rugiada come lacrime che bagnano l’erba appena desta.
Dall’acacia posta vicino ai piccoli bagni pendono come impiccati numerosi nidi di tessitore simili a borracce rovesciate dall’ingresso tubolare.
Costruiti meticolosamente con innumerevoli fili d’erba,rametti e altre fibre vegetali,talvolta presentano anche dei fuscelli spinosi.
Con questo inizio di mattina del 2 febbraio cominciamo ad organizzarci meglio rispetto agli altri giorni non perdendo tempo inutile e già alle 7.30 siamo sulla jeep e facciamo un giro per un circuito attorno alla zona di Seronera,dove sparutamente vediamo bufali,alcefali,giraffe,(due bellissimi esemplari sembrano baciarsi formando un ampio cuore coi loro colli)serpentari,manguste e avvoltoi.
L’alcefalo(alcelaphus buselaphus)è un grosso bovide dal vello color marrone scuro con le corna che ricordano vagamente la forma di un cuore ed ha abitudini e comportamenti affini alla altre antilopi.
Anche il bufalo(syncerus caffer),pur se differente d’aspetto fa parte della famiglia dei bovini e certamente somiglia di più alle nostre mucche.
Possiede poderose corna che ricordano le monteras dei toreri e sono di dimensioni leggermente più grandi delle vacche frisone:mangiano erba e foglie e adorano fare bagni di fango.
Sono attorniati quasi sempre da aironi guardabuoi e bufaghe,che come nel caso delle giraffe e dei rinoceronti vivono in simbiosi con loro posandosi sul loro manto scuro mantenendolo pulito dai parassiti.
Torniamo presso l’ostello per rifornire di benzina i due serbatoi delle jeep e ripartiamo a nord verso Lobo,dove notiamo un gran assembramento di mezzi intenti a riuscire a scorgere una leonessa con i suoi cuccioli nascosti nell’erba alta.
S’è creato troppo rumore e la famigliola giustamente se ne sta accucciata nascondendosi:decidiamo quindi di muoverci autonomamente e veniamo premiati dalla visione di due giovani leoni distesi su un albero biforcuto che pare strisci a terra.
Sembrano quasi in posa uno accanto all’altro e spesso si stiracchiano e sbadigliano fino a quando uno scende nell’erba,giocando a darsi zampate come due gattini.
In una zona semipaludosa giungiamo in prossimità di un fiume con un’ansa imponente che forma quasi un laghetto,dove una dozzina di ippopotami fanno il bagno,giocano e sbadigliano mostrandoci l’enorme bocca.
Godfrey ci raccomanda di non avvicinarsi eccessivamente sia per via di questi maiali d’acqua che per la presenza dei coccodrilli(uno si era mimetizzato talmente bene su una roccia sporgente dall’acqua che la mia vista da falco ha necessitato di un cinque minuti di messa a fuoco per poterne avere visione).
Se non avesse tutte le caratteristiche fisiologiche proprie dei mammiferi l’ippopotamo potrebbe essere considerato un anfibio poiché l’acqua è il suo elemento preferito:nasce,viene allattato e si accoppia dentro stagni e fiumi.
Potremmo usare uno di questi animali come un rabdomante usa la sua verghetta biforcuta:infatti l’ippopotamo(hippopotamus amphibius)riesce a fiutare l’acqua anche a distanze considerevoli.
Può raggiungere pure le quattro tonnellate di peso,non disdegna pesciolini anche se mangia essenzialmente canne,miglio,erbe,alghe e radici che bruca nel territorio delimitato dai propri escrementi “spazzolati”dalla coda come se fosse uno spandiletame.
Di notte si riposa sulla terraferma assieme ai componenti della propria famiglia,che solitamente consta di un maschio ogni due-tre femmine e i piccoli.
Si muove facilmente sott’acqua aiutato dallo spesso strato di grasso sottocutaneo che può raggiungere anche più di dieci centimetri di spessore e grazie alle membrane tra le dita delle zampe,un poco come i palmipedi per intenderci.
Soventemente si vede trasudare dalla sua pelle un liquido rossastro che può sembrare sangue ma è una sorta di crema protettiva contro i raggi solari.
Un ultima caratteristica molto evidente per il terzo mammifero terrestre per dimensione dopo l’elefante e il rinoceronte è il fatto di possedere i due canini inferiori di dimensioni che arrivano facilmente al mezzo metro di lunghezza,usati soprattutto per estirpare radici.
Il coccodrillo posto sul masso di certo non intimorisce gli ippopotami ma a parte loro impensierisce tutti gli altri animali che vivono presso i corsi d’acqua.
Questo spettacolare rettile è temutissimo anche dall’uomo che rimane vittima ,pure se raramente,dei suoi agguati.
In effetti la sua fisionomia gli permette di stare immobile e piatto nell’acqua,con le sole narici e gli occhi che fuoriescono,protetti da membrane mobili.
La capacità di mimetizzarsi,abbinata allo scatto e alla bocca munita di micidiali denti,fanno di questo animale una perfetta macchina di morte:inoltre il coccodrillo,a differenza del suo parente americano l’alligatore,possiede sui lati della mascella inferiore due particolari denti che chiudendo la bocca sbucano fuori sovrapponendosi ai denti dell’arcata superiore.
Quando una vittima è tenuta in quella morsa mortale difficilmente ha scampo:se non viene annegata in acqua è trascinata e finita a riva.
Mangia la preda senza masticarla e come ogni buon animale viziato ha un seguito di uccelletti che fungono da spazzolino da denti togliendo la carne incastrata tra le fauci e che inoltre tengono pulita la loro coriacea pelle da fastidiosi insetti.
La loro lunga coda è usata sia come arma di offesa-difesa che per nuotare.
I piccoli nascono da uova deposte in prossimità della riva e il verso del coccodrillo appena nato è unico.
Secondo me il suono gutturale di questi piccoli è una delle melodie più ancestrali e splendide dell’intera natura.
Si stanno facendo le due del pomeriggio e assieme andiamo su un’altura nei pressi di un campeggio speciale nella zona di Lobo,ad una quarantina di chilometri dal confine col Kenya.
I campeggi speciali sono strutture sprovviste di tutti i servizi,con solo una profonda latrina costituita da una buca scavata attorno due lastre parallele e delle zone con costruzioni come capanne col tetto in paglia tutte protette da reti metalliche(delle gabbie per gli uomini nel regno degli animali).
E’ una stupenda zona cinta da rocce enormi che si ergono ritte dalla vegetazione ricca di arbusti e fiori.
Anche da qui si gode di uno splendido panorama:a differenza di altre aree si notano lontane alte colline che accompagnano la savana coperta per la maggior parte non da erba ma cespugli.
E’ la zona denominata nyika,che è coperta di vegetazione tra i periodi della piccola e grande stagione delle piogge.
Dopo la sosta vediamo una leonessa sulle orme di un facocero ma non riusciamo ad assistere alla fine della caccia:nel frattempo ci avviciniamo al confine orientale del Serengeti N.P. per recarci a Loliondo per pernottare.
Ancora verso le quattro del pomeriggio ci sorprende un violento acquazzone che presto forma piccoli torrenti di acqua rossastra ai lati della strada sterrata.
Rischiamo di vedere le altre jeep impantanarsi mentre la nostra con Godfrey,più saggio di tutti,aspetta e sceglie le traiettorie migliori.
Giunti a Loliondo,un modesto villaggio ai piedi di alcuni rilievi coperti da una rigogliosa vegetazione,ci accomodiamo in un campeggio di proprietà del rappresentante al parlamento tanzaniano dell’area di Ngorongoro.
Giusto il tempo di montare le tende e con Luigi e Francesco ci apprestiamo a fare una camminata nel paese dove facciamo la conoscenza di molta gente,fra cui un maestro della scuola locale,Mr.Johannes(nome fittizio per essere a noi facile da comprendere e pronunciare)che ci invita presso l’istituto dove insegna e noi prontamente ci andiamo,assieme ad altri due giovani maestri e qualche ragazzino.
Ci fanno imparare un modo di salutare coi pugni,che è tipico dello slang giovanile:quando ti dicono “mambo”rispondi “puah!”.
Il maestro puntualizza che,sempre col sorriso sulle labbra,così può salutare solo noi mentre con lui sono soliti fare saluti più “rispettosi”.
La Loliondo School consiste di molte classi riunite in casermoni e tiene aperta dalle 8.10 del mattino fino alle 22.00 la sera:vi sono alunni che frequentano corsi dalle elementari sino alle scuole secondarie,con la possibilità di lezioni serali per gli studenti che lavorano.
Vi è pure un locale adibito a mensa e un grande dormitorio per i ragazzi che abitano distanti dal villaggio e che tornano a casa nei weekend.
Abbiamo visitato l’abitazione di Mr.Johannes dove si è continuato a discutere del nostro viaggio guardando un video che sponsorizza la sua scuola.
Parliamo delle località visitate e ancora da esplorare,e raccontando della nostra “uscita obbligata”da Nairobi verso il confine con la Tanzania ci ha spiegato il motivo di tale “espulsione”.
Con tutti i trambusti internazionali della nostra epoca chi si trova in Kenya solo di passaggio,temendo possa avere collusioni con la banda di Osama,viene allontanato al più presto:afferma che Bin Laden è pazzo e io rispondo che Bush Jr.(e suo padre)lo è come minimo in ugual modo,suscitando le sue risate.
Successivamente siamo entrati in un aula dove,deducendo dalle frasi scritte sulla lavagna,stavano discutendo sulla globalizzazione.
Siamo stati accolti da un’ovazione e Luigi ha avuto l’onore di presentarci e dire da dove proveniamo.
Fuori s’è fatto già scuro ma Mr.Johannes ci ha assicurato d’accompagnarci al campeggio facendo una strada alternativa tagliando la collina.
Così è stato,col maestro e un suo aiutante con la torcia in mano e un machete sotto braccio:ciò ci ha fatto chiedere se potessero esserci dei pericoli nella zona,qualche leone o giù di lì ma ci risponde con sorrisi dicendoci che è solo una precauzione.Ci siamo fidati!
Al nostro ritorno il resto del gruppo,consigliato dal personale del campeggio,stava già per denunciare la nostra scomparsa alla polizia!
Abbiamo salutato i due nostri accompagnatori con la promessa di poterli aiutare spedendo materiale scolastico(un poco l’abbiamo donato al momento alla loro “London School”come la chiamano scherzosamente).
Per chi volesse contribuire l’indirizzo completo è:Mr.Ochieng’.B.Oyolla,
Loliondo S’School box 61 Loliondo – Tanzania.
Dopo la cena abbiamo fatto la conoscenza del konyagi,un superalcolico tanzaniano,grazie ad una coppia africana di una certa età,con la signora che beve dallo stesso bicchiere con tutti tranne da quello di suo marito.
Ci hanno insegnato diverse strette di mano e il loro significato,poiché in quelle zone i saluti sono molto lunghi,complessi e significativi.
La rugiada ha ampiamente bagnato le tende al nostro risveglio del mattino di giovedì 3 febbraio,e dopo una veloce colazione tutti in jeep e alle 9.30 siamo già rientrati nella Ngorongoro C.A. dove vediamo il pot-pourri di gnu,zebre e antilopi con la presenza di numerosi struzzi(struthio camelus).
Questi caratteristici e rapidi uccelli sono i più grossi della propria classe:
dal collo lungo e glabro sono alti fino a 2,5 metri e pesano anche più di un quintale.
Le lunghe zampe sono muscolose e coperte da piastre cornee,dotate di due sole dita che poggiano su cuscinetti plantari,con unghie taglienti che usa come arma di difesa.
Il maschio ha un piumaggio nero con estremità bianche sulla punta delle ali e sotto la coda,mentre la femmina ha penne brune più adatte a mimetizzarsi quando covano le enormi uova che possono arrivare ai due chili di peso.
Il corteggiamento dello struzzo consiste in danze acrobatiche durante le quali sfoggia a ruota le lunghe penne nere rifinite di bianco e dopo l’accoppiamento sia il padre che la madre provvedono alla cova delle uova.
Lo struzzo ha la particolarità di ingerire oltre ad erbe,frutta,semi e piccoli animali,anche alcuni oggetti “non commestibili” che nello stomaco aiutano a tritare e digerire ciò che mangia.
Proseguendo su terreni fra i più aridi che abbiamo avuto la possibilità di incontrare,cosparsi di ciottoli che si alternano a una carente erba,assistiamo ad un altro banchetto necrofago.
Stavolta oltre a marabù e avvoltoi fanno la loro comparsa le iene che riescono a prevalere sui due uccelli la contesa della carcassa.
La iena macchiata,(crocuta crocuta)al pari degli altri becchini della savana, si nutre principalmente di prede malate o morte o dei residui dei pasti degli altri carnivori.
Se riunita in branchi riesce anche a cacciare animali più grandi soprattutto di notte,a differenza del suo parente prossimo il licaone,che cerca le prede solo di giorno:talvolta comincia a mangiare le vittime anche se ancora vive.
Il manto di queste iene varia dal grigio al rosso e al marrone,con macchie scure e orecchie morbide e grandi da peluche.
Il loro verso è simile a delle risate e c’è chi lo ritiene agghiacciante quando io lo ritengo un richiamo quasi giocoso.
Abbandonando gli animali che stavano infierendo su una piccola gazzella sostiamo in una piana che ho battezzato “degli alberi”poiché dopo parecchi minuti di viaggio completamente privo di vegetazione attorno,ci sono una decina di grandi piante nello spazio di un paio di chilometri quadrati.
I nostri autisti-guida ci accompagnano in un villaggio masai situato in una zona arida,con accanto una pozza d’acqua dove degli asini si stanno abbeverando.
Gli abitanti di questo agglomerato di capanne cinto da rami di rovi accatastati hanno voluto esser pagati per poter consentire il nostro accesso.
Godfrey ci ha detto che dappertutto è solito compensare col denaro l’ingresso ad un villaggio e sono sorte discussioni sull’effettuare o meno questo tipo d’esperienza,per il fatto che inquiniamo il loro modo di vivere e pensare,sul fatto che quei pochi soldi per noi sono cifre enormi per loro e
che finiscono solo nelle mani degli uomini e non delle donne.
Facendo così non sono più invogliati a lavorare e mantenere una dignità e le loro tradizioni rimaste inalterate nel corso dei secoli:gli facciamo adorare il nostro idolo,il Dio denaro.
A malincuore(di qualcuno)s’è deciso di compiere questa visita,sperando utopicamente che la nostra pecunia possa servire per il bene della loro comunità.
I masai in passato erano dediti soprattutto alla guerra e alla pastorizia,abituati a razziare le altre tribù ed in particolar modo i sonjo,con cui condividevano un territorio comprendente la grande zona dei laghi,il Kenya e il nord della Tanzania(anche se si pensa siano originari di regioni poste molto più a nord).
Ora i morani,i guerrieri masai,sono consacrati alla sola pastorizia:il loro popolo,cacciato dai grandi parchi nazionali,è concentrato particolarmente nella Ngorongoro C.A. e a ridosso del confine col Kenya.
Il villaggio da noi visitato è piccolo,con una decina di capanne costruite d’argilla e sterco secco,con un buon numero di capre che scorazzano dentro e fuori esse.
Sopra i tetti ci sono pelli di animale,carne macellata e interiora in balia delle mosche e del sole.
C’è odore di selvatico e di escrementi,con parecchi scarabei stercorari che fungono da netturbini tra le abitazioni.
Sono presenti dei vecchi assieme a donne e bambini,e dicono che gli uomini sono a far pascolare il bestiame da cui traggono la maggior parte del loro sostentamento:latte,carne,sangue,pelli e cuoio,costituendo pure merce di scambio e dote per i matrimoni.
La vita di un masai passa attraverso vari stadi come se fosse una larva.
Ai bambini,subito abituati a lavorare,vengono tolti i denti inferiori centrali appena presentano una dentatura sviluppata:sono vestiti di nero e talvolta hanno la fronte dipinta con strisce bianche fino a quando non avranno l’età per essere circoncisi.
Quando ciò succede(anche quando un piccolo masai nasce)nei villaggi si ammazza una bestia e si festeggia.
Successivamente gli adolescenti vengono allontanati dalle loro capanne per un periodo che ora è di tre anni,una sorta di servizio di leva chiamato manyatta,dopodiché diventa giovane guerriero.
Se sopravvive alla dura vita della savana diventerà guerriero adulto (morano)e infine anziano,con tutti i privilegi che tale condizione offre.
Essi decidono quale donna un giovane debba prendere come sposa,hanno funzioni di giudici di pace e svolgono attività diplomatiche con le tribù vicine.
Le donne masai si vestono con stoffe azzurre o viola mentre i maschi indossano quasi esclusivamente tessuti modello plaid rossastri:entrambi si coprono pure con pelli animali e fanno molta attenzione agli accessori come orecchini e braccialetti che sfoggiano in gran quantità.
Sono poligami e le donne non contano molto in una società patriarcale come la loro.
I bambini piccoli,curiosissimi,fanno la lotta per i pennarelli,biro e matite distribuite in abbondanza,oltre a macchinine e un pallone che ha rischiato subito di venir bucato contro le recinzioni spinose.
Poco oltre il suolo è disseminato di ossa,in maggior parte teschi di gnu, mentre quelli in carne ed ossa cercano a fatica un filo d’erba da brucare.
Lo gnu striato(connochaetes taurinus)è il mammifero più presente numericamente nella savana,in perenne migrazione per trovare nuove zone di pascolo.
In questo periodo,che è quello delle nascite,proveniente dal Masai Mara sta ridiscendendo verso sud diretto nella parte meridionale del Serengeti dove fra qualche mese la stagione delle piogge favorirà la crescita dell’erba.
Sembra una mucca scarna con due corna curve verso l’alto,una barba pronunciata,un mantello grigio-bruno striato e una lunga coda.
Vive in branchi di numerosi esemplari,talvolta migliaia,e proprio in questa aggregazione sta la sua forza e unica possibilità di difesa nei confronti dei grandi predatori.
Se minacciati corrono assieme sollevando numerosa polvere scalciando e incornando se necessario:comunque ha ben poco da lottare se un leone o un ghepardo ha nel mirino un singolo individuo specialmente se malato o giovane.
I piccoli appena nati riescono già ad alzarsi in piedi e correre dopo poche ore:malgrado per loro i predatori e in questo caso particolare le iene,
aspettano il parto per poi potersi avventare su di un facile e tenero boccone.
Dopo aver pranzato velocemente presso il greto di un fiume secco all’ombra di poche e spoglie piante spinose,ci siamo diretti verso l’unica meta di “lusso”che ci siamo potuti permettere,il Ngorongoro Wildlife Lodge,posto sul bordo meridionale del cratere.
Giusto il tempo di sistemarci nelle camere e guardare il magnifico panorama che ci si para davanti che veniamo contattati e interrogati circa la nostra disponibilità per partecipare a delle riprese sopra al ciglio del cratere.
Quando ci è stato offerto in cambio da bere,subito io e Luigi abbiamo informato le ragazze della jeep disobbediente,e visto che Irene è già caduta in uno stato di sonno profondo e servono soltanto quattro “attori”Francesca e Sara hanno accettato l’invito.
Con un pulmino siamo saliti ancor più su dei 2200 metri del bordo principale del cratere fino a 2700 metri,accompagnati da una troupe indo-keniota e una regista inglese.
Su un declivio della montagna abbiamo partecipato alla realizzazione di un piccolo spot per pubblicizzare la zona di Ngorongoro alle agenzie di viaggio.
Prima Luigi e Francesca ripresi romanticamente sopra un plaid con una bottiglia di champagne e due bicchieri in mano come due sposini,dopo tutti e quattro seduti a mangiare(e bere)a dei tavoli in equilibrio precarissimo.
Brindisi su brindisi cercando di non ridere,col sottoscritto che nel maldestro tentativo di sollevare un pezzetto di formaggio infilzato da uno stuzzicadenti,alzo l’intera calotta di melanzana sulla quale il tutto era stato appuntato.
Personalmente penso d’essermi “venduto”per un poco d’alcol ma il fascino dell’occasione e dell’avventura fuori dal comune mi ha vinto.
Al ritorno siamo mezzi ubriachi e la sera mangiamo un po’ di tutto quello che si ha la capacità d’ingerire al buffet.
Il lodge è pieno di neocolonialisti inglesi,olandesi,tedeschi e sudafricani e la mia coscienza mi dice “anche tu sei in mezzo a loro”ma credo con lo spirito d’essere davvero altrove.
Dopo un sonno piatto in un letto confortevole la sveglia alle 5.30 del 4 febbraio è una piccola morte,con l’ultimo impegno della breve parentesi dello show business:la colazione(ancora con lo champagne)col sole che sorge celato dalle estremità ondulate delle montagne.
Il tutto sempre sotto lo sguardo della cinepresa.
Giunta la fine della colazione arriva il momento della partenza verso il “buco”tramite la Seneto Descent Road:dalla crapula al cratere.
Qui è assolutamente fantastico,dentro la caldera di questo antico vulcano sembra di stare in un paradiso terrestre con quasi tutte le specie della savana della Tanzania rappresentate al proprio interno.
Notiamo grandi pozze d’acqua dove diversi animali si abbeverano e stormi di bianche garzette e aironi guardabuoi si levano in volo al minimo rumore.
Le nuvole frastagliate si riflettono in questi specchi d’acqua creando un doppio molto suggestivo.
Un bellissimo esemplare di gru coronata banchetta presso la palude dove fanno la loro apparizione delle cicogne bianche che sono in ferie,e che assieme alle rondini ed altri uccelli migratori fra un mese torneranno dalle nostre parti.
Penso che in questa zona gli animali siano molto abituati alla presenza delle jeep,perché i nostri mezzi sembrano navi rompighiaccio in un mare di zampe,corna e corpi che non si spaventano della nostra esistenza come in altri parchi:è come stare in un immenso zoo a cielo aperto.
Le zebre,alcune coi piccoli di poche settimane,quasi le possiamo toccare da quanto restano indifferenti e vicine.
Ci sono alcune specie di zebre e la sottospecie di Grant(equus quagga granti)è la più rappresentativa delle praterie tanzaniane.
Sara,essendo di fede juventina,è in fibrillazione per le sue compagne e continua a rimproverarmi il fatto che non esistano zebre nerazzurre(sponda atalantina).
Questi cavallini hanno strisce bianche sul mantello nero per poter confondere la vista ai predatori:con l’effetto miraggio tipico delle zone molto calde le striature “sballano” la percezione visiva a leoni ed affini,e se ciò non basta sferrano poderosi calci se minacciati.
Si muovono in gruppi guidati da un maschio dominante,spesso assieme a gnu e gazzelle,cercando in continuazione pascoli adatti al proprio sostentamento.
Tra le varie specie di gazzelle più comuni nell’area vi sono quella di Grant(gazella granti)e quella di Thomson(gazella thomsoni):quest’ultima,di taglia media,possiede una banda nera presente sui fianchi e preferisce la vasta savana e la sua erba rispetto alle zone boschive con piante erbacee.
Più tardi finalmente riusciamo a scorgere una bella comunità di leoni con un maschio dalla folta criniera scura e quattro femmine,tutti sdraiati ad oziare e dormire.
Durante l’oretta in cui siamo stati ad osservarli il leone a turno ha montato tutte le femmine,con rapporti di circa dieci secondi,suscitando il disappunto delle donne presenti sulla jeep.
Che bella la vita del leone,(panthera leo)con le leonesse che cacciano per lui mentre se ne sta a pancia all’aria,dovendo solo pensare al proseguo della specie e alla difesa del territorio.
Nella caldera del Ngorongoro vivono un centinaio di leoni,residuo di una ben più vasta popolazione decimata da una malattia del sangue circa mezzo secolo fa.
Questo felino ha il manto marrone chiaro e il ventre biancastro,con una lunga coda fornita all’estremità di un ciuffo di lunghi peli neri.
Le zampe sono possenti poiché allenate agli scatti e alla corsa,e sono una micidiale arma quando artigliano la pelle delle loro malcapitate prede.
Quando i piccoli nascono(tutti nello stesso periodo)vengono a crearsi vere e proprie nursery dove a turno le leonesse accudiscono i piccoli.
Ogniqualvolta le femmine cacciano,talvolta coadiuvate dai maschi,
serpeggia il terrore tra le vittime potenziali che sfuggono all’impazzata:se hanno scelto un bersaglio difficilmente lasciano scampo alla preda che viene atterrata dalla poderosa zampata che spezza le vertebre, dopodiché viene azzannata subito alla gola.
Ogni volta che mangiano viene rispettata una gerarchia:prima i maschi,poi le leonesse e quindi i leoncini cui spettano gli scarti(e successivamente gli animali spazzini che usufruiscono degli avanzi).
Neanche il tempo di percorrere cento metri e Godfrey indica nuovamente la zona alla nostra sinistra:all’ombra di uno spazio cespuglioso un gruppetto di ghepardi,alcuni seduti ed altri sdraiati,che osservano e annusano l’aria attorno.
Questo magnifico carnivoro dallo splendido mantello maculato di nero su sfondo giallo-rossastro è l’animale più veloce della terra riuscendo a superare i 110 chilometri orari.
Il ghepardo(acinonyx jubatus)ha il corpo slanciato atto per le veloci corse,
provvisto di una testa piccola con una striscia nera che cinge gli occhi ed il muso,mentre gola e ventre sono di colore bianco:le zampe sono snelle e agili,munite di unghie semiretrattili e la coda lunga ha la funzione di stabilizzatore durante le svelte sgroppate.
Sembra sia stato concepito in una galleria del vento.
Questo felino atterra le prede con le zampe e le soffoca prendendo in bocca il loro muso o azzannandone il collo.
Tuttavia il ghepardo fa enorme fatica a sopravvivere dal momento che ultimamente si sono riscontrate difficoltà riproduttive in quanto soffrono di problemi di sterilità:continuando ad accoppiarsi con elementi delle stesse famiglie hanno perso la varietà genetica che permette di formare individui più forti.
Nascono sempre più cuccioli esposti ad epidemie e malattie:non bastasse questo i ghepardi soffrono molto la concorrenza degli altri predatori ed i piccoli sono molto vulnerabili e preda loro volta di iene e licaoni.
Per far fronte a questa minaccia le madri spostano spesso i loro asili nido verso luoghi diversi dove marcano il territorio con feci ed urina.
Tutt’intorno alla superficie coperta dai cespugli numerosi uccelli svolazzano e banchettano per terra in zone paludose:oltre a quelli già accennati in precedenza ci sono le faraone vulturine,passeri repubblicani e gli spettacolari fenicotteri rosa(phoenicopterus ruber roseus).
Questi uccelli si sono adattati benissimo in aree dove la vita è possibile solo per pochi esseri viventi:infatti qua li vediamo numerosissimi sulle sponde del lago Magadi,dall’acqua caustica.
Grazie al loro becco fornito di lamelle con maglie fittissime riescono a filtrare l’acqua satura di soda e nutrirsi di piccoli crostacei e minuscole alghe.
Essi nidificano nei pressi del lago Natron,(quello che non riusciremo a visitare per motivi di tempo)posto molti chilometri a nord vicino al confine col Kenya,dove costruiscono nidi di fango a forma conica che emergono dall’acqua invivìbile:comportandosi così nessun predatore può creare fastidi.
Oltre al particolare becco ricurvo il fenicottero possiede un collo e zampe lunghe,da trampoliere,e può restare fermo facendo l’equilibrista stando in piedi su un arto solo.
Il colore rosa è dato da una sostanza che ingerisce assieme al suo cibo,la cantaxantina:senza questa essenza ritorna bianco,che è il suo colore originario.
Il lago Magadi è soggetto ad evaporazione e il suo livello cambia rispetto la stagione:i suoi bordi sono paludosi e vicino ad essi ci sono sorgive di acqua pura dove i fenicotteri e altri animali possono abbeverarsi.
Nelle vicinanze c’è una piccola area dove è possibile scendere dalle jeep e fare due passi in prossimità di un maestoso albero dalle imponenti radici.
Posate sui rami numerose aquile osservano il laghetto e ciò che di buono esso possa offrire loro:la maggior parte di questo bacino è contornato da canneti dove ogni tanto si odono richiami misteriosi.
Sotto le fronde del grande albero e nelle limacciose vicinanze svolazzano tantissime variopinte farfalle,libellule e rigogoli,uccelletti gialli con la zona attorno all’occhio nera ed ali giallo-nere.
Attorno delle curiose zebre si avvicinano e si rotolano a terra per togliersi dei parassiti:evidentemente non hanno trovato delle bufaghe nei paraggi.
E’ giunto il tempo di ripartire,non senza la foto ufficiale del gruppo fatta dal nostro fotografo-autista-guida Godfrey.
Prima di lasciare il cratere di Ngorongoro riusciamo a vedere una coppia di rinoceronti che brucano l’erba in apparente tranquillità.
Siccome è in gravissimo pericolo d’estinzione e la presenza all’interno della caldera è limitata ad una decina d’esemplari ci riteniamo fortunati di poterli scorgere anche se purtroppo credo che nel giro di qualche decina d’anni la scomparsa completa sia inevitabile.
Per via delle sue imponenti corna,ritenute aventi poteri afrodisiaci e curativi se triturate e ingerite,questi enormi ungulati sono stati oggetto di una caccia indiscriminata.
Prediligono queste aree ampie e folte d’erbe e non disdegnano bagni di fango che permette loro di proteggersi dal calore del sole e dalla fastidiosa presenza di insetti e parassiti.
Imbocchiamo la Lerai Ascent Road e lasciamo la Ngorongoro C.A. diretti a Karatu,e le sospensioni della jeep e i nostri ammortizzatori naturali tirano un sospiro di sollievo viaggiando sul liscio asfalto dopo tre giorni di solo sterrato,buche e dossi.
Nei pressi di questa piccola città satellite adatta per chi vuole visitare la zona dei crateri dall’ingresso di Lodoare,alloggiamo in un campeggio dove per la seconda e ultima volta possiamo dormire in tenda.
Poco prima la nostra sola jeep era andata in avanscoperta in un villaggio vicino perché Godfrey aveva intrallazzi con qualcuno(forse l’amante),mentre noi al bar abbiamo bevuto bibite ai frutti della passione e al lime,da noi inesistenti.
Da qui al campeggio solo dieci minuti e durante il tragitto,voltandomi indietro,noto un ragazzo aggrappato al retro della jeep.
Dapprima i miei compagni non ci credono ma poi si sbalordiscono nel vedere questo giovane(che si rivelerà la nostra guida per la giornata di domani)con una mano attaccata al portellone posteriore e con l’altra mentre regge una sigaretta in equilibrio precario lungo la tortuosa strada.
All’ombra di alcune palme da dattero ci accampiamo e ci prepariamo la cena sotto una tettoia dove c’è pure una fontanella.
Mangiamo assieme ai ragazzi del campeggio e ai nostri autisti,e dopo aver fatto arrabbiare gli unici turisti tedeschi presenti oltre a noi perché volevano dormire(alle 21.30),decidiamo di spostarci e stenderci ad ammirare una spettacolare stellata.
Qui senza luci ammiriamo una parata di capocchie d’aghi luminosi trafiggere un sontuoso puntaspilli blu notte.
Tra l’erba che punge,chili di creme e spray antizanzare,lucciole,grilli e insetti volanti non identificati,tiriamo la mezzanotte e con essa l’ora adeguata per il sonno ristoratore,disturbato da un vento fortissimo che vuole svellere le nostre tende.
La sveglia del 5 febbraio è ancora talmente mattiniera da permetterci una bella visione della mezza luna e poco più tardi le sfumature arancio-rosate di una nuova aurora,sempre uguale e sempre diversa.
In un orario abbastanza decente abbandoniamo il sentiero principale e ci addentriamo nella savana per raggiungere il villaggio dei discendenti dei boscimani(gli hadzasi o tindiga),un popolo che ora stanzia molto più a sud,tra il Botswana e la Namibia,e presso il deserto del Kalahari.
Vediamo tre uomini e un ragazzo accucciati attorno ad un fuoco mentre fumano un cilum,una pipetta di legno od osso come in questo caso,caricato con della canapa e che viene fatto passare a tutti.
A dir la verità un tiro l’avrei fatto anch’io ma per alcuni motivi non dipendenti da me non potevo fumare.Peccato!
Dopo ogni pipata una tosse che viene dal loro profondo fragorosamente s’espande per l’intero villaggio:più a lato rispetto agli uomini ci sono le donne con i bambini e quelli più piccoli sono avvolti nei vestiti delle loro madri a modo di culla-marsupio.
Gli uomini,oltre fumare,costruiscono frecce e le masticano per darle una forma dritta mentre le punte di metallo vengono affilate contro dei sassi piatti.
A differenza dei gruppi che vivono più a meridione la loro pelle non è giallastra ma le altre caratteristiche fisiche sono simili,come la statura bassa,le labbra grandi ed il piccolo naso marcatamente schiacciato con i capelli cortissimi e riccioluti.
Il loro linguaggio consta di suoni gutturali e sembrano più che parole veri e propri schiocchi della lingua.
I tindiga sono un popolo di cacciatori e due ragazzi ci accompagnano assieme alla nostra giovane guida Asan in una battuta di caccia.
Armati di arco e frecce e di legnetti per accendere il fuoco(oltre all’immancabile sacchettino con l’erba magica)costeggiamo un fiume in mezzo ad una fitta vegetazione di cespugli di rovi e zone con arbusti più grandi,fra cui degli splendidi baobab(adansonia digitata).
Questi immensi e vecchissimi alberi sono enormi per le dimensioni del tronco,che può raggiungere quaranta metri di circonferenza:i rami si espandono più orizzontalmente che in altezza e l’intera pianta può raggiungere i venti metri.
Le sue fronde possono ospitare nidi di diversi uccelli,soprattutto tessitori,e dai suoi rami pendono i frutti che somigliano ad enormi zucche come quelle degli alberi delle salsicce ma più tozzi,pieni di polpa acidula utilizzata per ricavarne bevande.
Il legno è sorprendentemente morbido e pieno di protuberanze: arrampicarsi su di un baobab non è un’esperienza impossibile.
Il sentiero è disseminato di fiori splendidi e cespugli dalle infiorescenze particolari simili a batuffoli di cotone.
Come previsto questa è solo una “caccia dimostrativa”,infatti nessun animale si avvicinerebbe ad un gruppo così numeroso e rumoroso,al contrario dei giovani cacciatori che riescono a strisciare rasenti a terra e a tendere agguati senza essere sentiti.
Torniamo al piccolo villaggio,che in realtà è l’insieme di quattro anguste capanne costruite di pelli,frasche,sacchi di iuta e teli di plastica usurata,sorretti da rami sghembi.
Alla prima perturbazione,che in queste zone sono rare e ne sono testimonianza le fenditure che si aprono nel terreno secco,questi rifugi possono venire spazzati via.
Alla domanda sul come non edificassero case di mattoni o argilla ci rispondono sorridendo che innanzitutto sono nomadi,e poi che se ti crolla addosso una casa di mattoni muori,se ti rovina sopra una di queste capanne non succede nulla ed in un’ora hai la possibilità di ricostruirle.
Essendo dediti solamente all’attività venatoria essi non coltivano e non sono votati alla pastorizia:raccolgono solo frutta e bacche e possiedono solo dei cani come animali domestici.
La loro principale forma di sostentamento deriva dalla carne cacciata ma in pratica mangiano anche radici,lucertole,bruchi e topi,perché non sempre arco e frecce danno i loro frutti.
Questo è comprensibile visto la loro magrezza ed il fatto di fermarsi a fumare ogni dieci minuti per avere delle visioni degli animali che dovrebbero catturare.
Prima di lasciare i tindiga barattiamo occhiali e magliette per archi e frecce:qualcuno offre loro sigarette per intossicarli ancor più e io offro loro una caramella al miele al capotribù che poi la fa passare agli altri componenti della famiglia(e la loro tosse per un poco si placa).
Gli ho donato anche un pallone da calcetto ma non l’hanno gradito poiché non si può mangiare:sono ancora poco propensi ad accettare denaro liquido preferendo lo scambio.
A metà mattinata Asan ci porta dalla sua famiglia:lui appartiene alla tribù dei tatoga,un popolo dedito all’agricoltura,alla pastorizia e alla lavorazione dei metalli.
Asan ha deciso di andare a vivere in città ma non per questo i suoi familiari gli serbano rancore,anche se parzialmente ha rifiutato le proprie origini.
Questo villaggio,organizzato strutturalmente come quello dei masai con una palizzata come recinto di difesa e qualche capanna all’interno d’esso,è molto più lindo e ordinato.
Notiamo che le persone sono vestite più decorosamente e sono più pulite e ornate da monili di qualità.
Le abitazioni sono d’argilla e rami,sembrano stabili e al loro interno sono spaziose,anche se in certi punti faccio fatica a stare in piedi:i tetti sono piani e realizzati in paglia.
Al loro ingresso c’è l’angolo col focolare,più a destra una parete piena di zucche usate come recipienti e una zona con panche di legno e piccoli sgabelli con a lato una grossa pietra dove le donne macinano frumento e semi.
Nella stanza attigua c’è la zona notte con stuoie e pelli per coprirsi,tutto molto in ordine e netto.
Le ragazze sono molto carine e tengono la testa rasata,indossano pelli e ornamenti di lunghe perline colorate:queste ultime formano cerchi di colore accompagnati da effetti sonori quando le giovani le agitano ballando.
Esse sono adornate di parecchie collane,braccialetti ed orecchini che sembrano piercings:le guance sono tatuate con dei simboli.
Questi tatuaggi vengono eseguiti in tenera età mediante sterco poggiato sulle ferite aperte.
I ragazzi ed i vecchi sono vestiti da tessuti a trame quadrate simili a quelli indossati dai masai,anche loro come le donne sono ornati da “gingilli di vanità”.
Portano ai piedi sandali di cuoio e fibra vegetale ed i vecchi sono aiutati a mantenersi in posizione eretta mediante dei lunghi bastoni.
Le ragazze giovani mi spronano a scattare foto con la macchina digitale per potersi vedere:e allora foto da ogni angolazione,soprattutto da dietro per controllare come gli stanno indosso i loro indumenti.
Ho donato dei quaderni con dei pennarelli,biro e matite,con le solite macchinine e un pallone,abbozzando qualche palleggio e alcuni dribbling.
Per scatto e velocità vincono loro ma per tecnica modestamente me la cavo meglio io!
Prima della partenza ci siamo recati appena fuori dal recinto delle capanne per visitare la fucina del villaggio dove attorno al fuoco dei fabbri,con l’aiuto di un mantice,colano il ferro fuso in stampi per fabbricare lame,punte di zappette ed utensili vari.
Lasciando il paese natale di Asan andiamo al mercato di Karatu dove si può mangiare qualcosa e vedere quanta gente si ritrova saltuariamente qui,proveniente da tutti i villaggi della zona.
E’ un miscuglio di colori e voci con le persone che non fanno troppo caso a noi,impegnate a vendere e comprare mango,canna da zucchero,tessuti,scarpe con la suola fatta di pneumatici usati e utensili per cucinare.
Numerose bancarelle di macellai espongono carne macellata di agnello con le teste sanguinanti gettate a terra,il tutto ghermito da mosche insistenti:presso questi piccoli negozi all’aperto è possibile gustare la carne cotta sopra improvvisati barbecue ricavati da bidoni di latta.
Accanto al mercato ortofrutticolo,con tutti i vegetali immaginabili posti in cumuli traballanti,c’è il mercato del bestiame,sia bovino che ovino,caratterizzato da contrattazioni animatissime fra acquirenti e commercianti.
Imboccando una strada laterale a quella che da Karatu torna alla Ngorongoro C.A.,giungiamo al lago Eyasi,un bacino d’acqua salata la cui estensione varia in misura del grado d’evaporazione che si può registrare durante l’anno.
Le jeep sono costrette a fermarsi qualche centinaio di metri prima della riva e il motivo lo scopriamo presto sulla nostra pelle,anzi sotto ai nostri piedi.
Difatti il suolo sabbioso e poroso è una salina,con i cristalli di carbonato di sodio che luccicano,e col riverbero creato dai raggi del sole con l’acqua,la vista sul paesaggio attorno è quasi accecante.
I nostri passi sprofondano sempre più man mano ci avviciniamo alla riva,tanto che un po’ tutti decidono di tornare indietro.
Solo con Francesco mi avvio fino a lambire l’acqua con la mano e rientriamo subito dove ci aspettano gli altri,con le scarpe completamente infangate in questa piccola prova pratica di sprofondamento:non deve essere molto simpatico trovarsi in vere e proprie sabbie mobili.
Attorno ci sono solamente alberi rinsecchiti che sembrano legni per impalare la gente,in uno sfondo che si perde fino a montagne distanti chilometri.
Dopo questa breve visita risaliamo(non senza esserci tolti almeno un poco di fango dalle scarpe,sennò Godfrey poteva impalarci agli alberi suddetti) sulle jeep e ritorniamo a Mto Wa Mbu allo stesso campeggio dove abbiamo alloggiato(in camere)finita l’escursione al Tarangire N.P.
Occorrono un paio d’ore in un tratto dove il sentiero è costeggiato saltuariamente da piantagioni di caffè prima di passare sulla strada maestra che da Karatu porta a Mto Wa Mbu.
Arriviamo che ci sono ancora qualche ora di sole e ne approfittiamo per visitare il pittoresco mercatino artigianale.
In principio ci sono botteghe dove tutti i venditori propongono oggetti in ebano(pochi)e legni meno pregiati:tra maschere,animali di ogni specie e foggia e strumenti musicali è tutto un vociare per attirarci(e quasi tutti spiaccicano due parole di italiano).
Il mercato alimentare è zeppo di bancarelle ricche di colori e odori:tra i banchi frutta,verdura semi,granaglie e pesci sotto sale;recipienti,cordame e bacinelle;indumenti e arnesi da falegname dove i negozianti cercano di concludere le transizioni migliori.
Squisiti i mango ed i frutti della passione,enormi banane rosse che paiono armi,riso e minuscole aringhe che un bambino trasporta in secchi pesanti quanto lui.
Qui ho effettuato quasi tutti i miei acquisti,fra cui una marimba(uno strumento musicale con corde metalliche che si pizzicano),alcune maschere(tra cui una che mi ricorda “Il grido”di Munch)e un dipinto tingatinga rappresentante dei suonatori di congas e dei danzatori,pitturato con smalti, molto lucido alla vista:quest’ultima spesa avvenuta dopo estenuanti contrattazioni svolte con Sara.
Pago delle traumatiche esperienze della settimana precedente stavolta dopo la cena m’infilo nel letto avvolto dalla zanzariera.
E’ la domenica mattina del 6 febbraio e dopo una colazione farcita da marmellate di colori fluorescenti,tè,banane,angurie e meloni ci rechiamo al vicinissimo Lake Manyara N.P.,incastonato tra il Tarangire N.P. e la Ngorongoro C.A.,con la Great Rift Valley che l’accarezza ad ovest.
Questa catena montuosa che parte dal Libano e termina nel Mozambico si biforca nell’area della Tanzania.
Tale ramificazione è dovuta ai movimenti tettonici della terra:è come se ci fosse un immenso bacino ai cui lati alti bordi si ergono a racchiudere una zona dove si sono formati laghi e sono stati generati vulcani.
In un lontanissimo futuro una buona parte dell’Africa orientale sarà separata dal resto del continente,un po’ com’è avvenuto milioni d’anni fa con il distaccamento della penisola arabica che ha originato il Mar Rosso.
In queste regioni della Tanzania nel corso di varie ere geologiche il magma presente nelle profondità del pianeta ha fatto a pugni con la crosta terrestre favorendo la salita a galla di fluido incandescente che strato su strato,millennio dopo millennio,ha sconvolto tale tratto di terra africana oggi chiamata “la zona dei laghi”.
Nel frattempo a oriente ed occidente le catene montuose rimanevano pressoché inalterate mentre il continuo accumularsi di lava,acqua e ghiaccio all’interno di questo “confine” ha facilitato la creazione di un substrato sufficientemente fertile per favorire la nascita della savana.
Già lungo il ciglio della strada per arrivare all’ingresso del Lake Manyara N.P. dei babbuini(papio cynocephalus)fanno la loro presenza.
Questa scimmia vive in branchi e lungo il primo tratto del parco razzia le piante di mango ramo dopo ramo,alla ricerca di frutti e germogli.
I maschi sono molto grandi rispetto alle femmine ed hanno una folta pelliccia attorno al collo e la bocca fornita di lunghe zanne che mostrano spesso e volentieri.
Il sedere dei babbuini è glabro e rosso,la coda lunga e soventemente i piccoli ci giocano come fanno i leoncini.
Ci sono anche delle blue monkey che nostro malgrado si rendono meno visibili:con l’ausilio delle braccia e della coda lunghissima passano da un albero all’altro provocando solo un leggero fruscio al nostro orecchio.
Anche dei piccoli gruppi di facoceri(phacochoerus aethiopicus) passeggiano vicino al sentiero dal suolo umido e scuro.
Essi fanno parte della famiglia dei suini e somigliano a dei piccoli cinghialetti coi maschi forniti di due coppie di zanne,con una criniera castana che sembra dei capelli:le femmine sono leggermente minori come dimensioni e si vedono spesso portare a spasso i cuccioli.
La vegetazione attorno è più attinente alla foresta pluviale che alla savana,
pure l’umidità è elevata e si sta bene con una felpa indosso quando sostiamo in zone ombrose.
Notiamo degli impala e alcuni alcefali che si dividono il pascolo in un’area pianeggiante priva di arbusti,con solo delle palme che s’innalzano dal tappeto d’erba corta.
C’è Godfrey che continua a dirmi,chiamandomi Kamilli,che dobbiamo arrostire e mangiarci un dik-dik o un topi,altri due tipi di gazzelle e antilopi.
Effettuiamo una piccola sosta lungo la riva del lago che da il nome al parco nazionale,coi primi tratti delimitati a guisa di risaia come tanti piccoli appezzamenti.
Ci sono moltissimi uccelli che cercano il loro pasto lungo la sponda e le pozze d’acqua adiacenti ad essa,come l’ibis sacro(threskiornis aethiopica) dal lungo collo ed il becco ricurvo di colore nero.
Il resto della livrea è bianco,eccezion fatta per la punta delle ali,la coda e gli arti anch’essi neri.
Zampetta qua e là anche la garzetta(egretta garzetta),dotata di un elegante piumaggio completamente candido con lunghi ciuffi che partono dal capo,dal petto e dalle ali.
Sono presenti,visibili meglio col binocolo,dei tuffetti(che sembrano piccole anatre)ed altre specie d’uccelli che non sono riuscito a riconoscere.
Ma quando si alza in volo l’aquila tutti i volatili sono in preda al panico anche se non sono loro le sue vittime preferite.
Il suo portamento è reale e quando è in volo è un temibile cacciatore con le zampe ed il becco usate come armi micidiali:gli artigli taglienti ed il rostro uncinato afferrano,strappano e lacerano le carni delle prede.
Anche la sua acuta vista con un campo visivo di 300° è un accessorio importante per la caccia:riesce a vedere la vittima prescelta e dall’alto del cielo plana in picchiata a colpo quasi sicuro.
Possiede lunghe penne resistenti che l’aiutano durante il volo,di colore bruno scuro;l’apertura alare in certi esemplari arriva a due metri e mezzo.
Formano coppie permanenti e quando costruiscono l’ampio nido contribuiscono entrambe all’allevamento della prole.
Nel prosieguo dell’escursione un lucertolone ci si para davanti mentre guadiamo uno stretto rivolo d’acqua:lungo più di un metro,con la pelle verde scura maculata di giallo e con la lingua di colore blu sembra un piccolo varano.
A breve distanza la foresta si dirada e gli spazi si allargano:in una grande pozza alla nostra destra assistiamo ad una delle esperienze più belle dell’intero viaggio,il bagno degli elefanti.
Sono visibili una dozzina di esemplari adulti con tre “cuccioli” che si rinfrescano giocando nell’acqua sporca di terra:sembra d’essere davvero in un documentario.
L’elefante africano(loxodonta africana)è un animale mistico,difficile da analizzare e facile da amare perché di lui sappiamo molto ma in pratica i suoi comportamenti sono ancora enigmatici per certi aspetti.
Questo pachiderma cacciato indiscriminatamente dall’uomo per via dell’avorio delle sue zanne è l’animale terrestre più grande con il peso che può arrivare 7-8 tonnellate,un’altezza al garrese fino a 4 metri con una lunghezza di più di quattro metri e mezzo:la femmina è leggermente più piccola come stazza.
Gli incisivi superiori formano le zanne che sono molto lunghe(fino a due metri)e pesanti fino ad arrivare al quintale;riescono a raggiungere un’età di 70 anni.
La proboscide,che racchiude in sé naso e labbro superiore,è sia pompa che “mano”,e termina con due appendici simili a dita.
L’elefante africano possiede quattro unghie al termine delle enormi zampe anteriori e tre su quelle posteriori:queste estremità lasciano impronte nel terreno di mezzo metro e sono costituite pure da materiali molli che fungono da ammortizzatori.
Le grandi orecchie servono per scacciare insetti fastidiosi ma svolgono il principale ruolo di termoregolazione della temperatura corporea:è una sorta di condizionatore naturale quando le sventola.
Sempre col loro naso tuttofare strappano le foglie dei rami e talvolta sradicano alberelli interi per potersi cibare:dove passano loro l’ambiente circostante cambia aspetto.
E’ un’esperienza unica avere la possibilità di ammirare gli elefanti scivolare nella pozza e farsi la doccia con la loro proboscide,coi piccoli che vengono aiutati col muso degli adulti a salire sul bordo di questi striminziti stagni.
Lasciando questo gruppo di elefanti(anche perché se ne vanno prima loro)avvistiamo ancora qualche giraffa masai a distanza ravvicinata e ci avviamo verso l’uscita del Lake Manyara N.P.
Nel pomeriggio ci aspetta un lungo spostamento che ci permetterà di arrivare a Marangu prima della sera.
Sostiamo ad Arusha presso l’albergo dove abbiamo passato la prima notte per poter pranzare velocemente,dopodiché ci muoviamo per raggiungere la nostra prossima tappa,il Kilimanjaro.
Il safari è ormai terminato e contrattando un poco,Godfrey e gli altri autisti sono disponibili per accompagnarci fino a Marangu,un grosso paese che solitamente viene usato come base di partenza per le escursioni alla cima più elevata del continente africano(5896 metri).
Da Arusha passiamo per Moshi,una città ai piedi del Kilimanjaro che è un centro molto importante per il commercio dal caffè.
Inoltre in questa città vi trovano sede molti istituti scolastici e a testimonianza di ciò lunghe code di scolaresche contornano le strade dall’immediata periferia fino al centro urbano.
Quaranta chilometri più avanti raggiungiamo finalmente la nostra meta,Marangu,che sembra diversa dai villaggi e dalle città finora attraversate.
Lungo la via per giungere a questa cittadina quasi la totalità delle abitazioni poste ai lati della strada sono contrassegnate da un grande “X” rossa.
Godfrey ci spiega che tali edifici sono destinati ad essere demoliti causa l’ampliamento della sede stradale dovuto all’aumento del flusso turistico verso il Kili.
L’inadeguatezza di tale via ha fatto sì che i politicanti abbiano imposto tale disposizione:tutta questa gente deve “ringraziare” noi turisti.
I futuri sfollati non riceveranno alcun risarcimento:un giorno la tua famiglia che abita lì da decenni è costretta a lasciare tutto in modo coatto e costruire(se ne hai la possibilità)più distante. Quest’anno in Tanzania ci saranno le elezioni e si teme possano verificarsi scontri come durante l’ultima tornata elettorale,soprattutto a Pemba dove vi furono decine di vittime.
Da quando la Tanzania è diventata indipendente nel 1961 il potere è conteso tra due fazioni,il CCM(Partito della Rivoluzione,attualmente al comando)e il CVF(Fronte Civico Unito).
Il padre della Repubblica Unita di Tanzania è considerato Julius Nyerere,che con la sua politica di stampo socialista ha modernizzato il mondo agricolo e creato una buona struttura scolastica ma dopo poco tutti gli investimenti elargiti per il lavoro e l’istruzione si sono rivelati insufficienti facendo sorgere un malcontento generale.
Ciò nonostante a questo statista va il merito di aver creato uno stato unito amalgamando svariate etnie e credenze religiose in un clima di tolleranza e rispetto,anche se episodi isolati di contrasti non possono venire evitati.
Vedremo cosa succederà quest’anno,sperando naturalmente che tutto fili liscio,e credo che come in qualsiasi altro paese al mondo chi ci rimetterà qualcosa siano le persone già povere,chiunque salga al governo.
A Marangu alloggiamo al Babylon Lodge,formato da camere disposte attorno a terrazzini ubicati a diverse altezze con piccoli giardini con fiori esotici,colorati e con forme insolite.
Qualche pianta ha infiorescenze a grappolo color porpora,una siepe ha code viola pelose,un altro fiore somiglia ad una faccina con due occhi bianchi,il naso arancio e il volto violetto.
Alcuni fiori sembrano lanterne cinesi bianche e prugna;un altro è una corona di pistilli color del sole che nascono da candidi petali;molti hanno l’aspetto di cartapesta arricciata arancio come una tunica monacale;piccole infiorescenze sono rosse carminio e certe paiono minuscole stelle rosate e color del narciso.
Dobbiamo congedarci da Godrfrey e dagli altri autisti ,saluti con foto ricordo ed un addio e un augurio di una buona vita.
Posate sulla superficie della parete esterna della camera che condivido con Luigi,due farfalle unite che sembrano foglie gialle e verdi(ma ce ne siamo accorti solo la mattina seguente perché da come erano poste parevano proprio un unico insetto!)contrastano vividamente col bianco squillante.
Facciamo un giro in paese e in un negozietto compiamo altri acquisti,da campanellini a tessuti locali,da collane a uno strumento simile ad un tamburello,e ci accorgiamo che qui i prezzi sono di molto inferiori al resto della Tanzania:anche per le bottigliette di bibite o di konyagi il costo è ridotto in certi casi alla metà.
In certe zone mi è capitato di pagare una bottiglietta 500 scellini tanzaniani
(Tsh),che equivalgono più o meno a 0,50 Euro,mentre a Marangu ne spendo 100,così anche per il tè e le sigarette.
Un piccolo negozio può vendere di tutto:dai sandali ai superalcolici,dal sapone per il bucato venduto al metro a zucchero,farina e riso.
Torniamo lungo la salita per il nostro alloggio con gli ultimi acquisti e mangiamo in loco:successivamente mi ritrovo con pochi intimi sul terrazzo ad ammirare il cielo col konyagi in mano mentre già si prospettano alcune defezioni per la giornata di domani,lunedì 7 febbraio.
Infatti al momento della partenza per realizzare il piccolo assaggio di salita al Kili ci troviamo solo in sette quando i rimanenti sei decidono per motivi diversi tra loro di rimanere al paese.
Siamo,oltre me Camillo da Crema e Luigi da Benevento,Sara e Irene le torinesi,Francesco da Brescia,Francesca la romana e Maria della Garfagnana.
Colazione fatta abbiamo preso un pulmino e lungo la via per l’ingresso al Kilimanjaro N.P. sosta presso una curva da dove possiamo ammirare il monte(per me sacro).
La cima del cratere sbavato di neve leggermente inclinato verso destra,di un grigio colore pelle d’elefante,si erge magnifica e solitaria,e tutto attorno è piccolo e insignificante.
Basse nuvole fanno solletico alla base della vetta ma durante la giornata si eleveranno a celare la bellezza di questo splendido vulcano.
Solo raramente la sommità è visibile dopo metà mattinata poiché la foschia creata dalle nubi rende impossibile la vista completa dell’apice del cratere.
All’ingresso di Marangu,che è posto a 1980 metri,discutiamo un po’ col personale del parco perché ci vogliono affibbiare due guide quando,essendo in sette,ne è sufficiente una e pure perché noi andiamo solo fino al rifugio Mandara e non oltre.
Dopo averci fatto firmare una notifica in cui tutti ci impegniamo a scendere nel caso una persona s’infortunasse o si sentisse male,ci avviamo per i 7 chilometri da compiere per un totale intorno ai 700 metri di dislivello.
Il sentiero è ampio ed agevole,sgombro d’intralci e s’inoltra in una foresta ricca ed umida:tutto il tragitto è all’ombra e si avverte una bella sensazione di fresco.
Il verde è il colore predominante e la nostra guida Morgan è un arzillo sessantenne che sembra un capriolo,o meglio una gazzella visto che siamo in Africa,e non si ricorda più nemmeno quante volte ha percorso queste vie.
Ogni tanto qualche raggio di sole filtra dalle fronde degli alberi che si innalzano a gara fra di loro per assicurarsi più luce possibile mentre le liane al contrario sembrano trattenerle al suolo.
Un fiumiciattolo scorre a fianco della pista ed in alcune parti costeggia il sentiero ed il fragore di piccole cascate si fonde ai misteriosi richiami di scimmie e uccelli che si nascondono nel folto dei rami.
Fiori della grandezza di una mano spuntano rossastri come ciuffi,e fiorellini scarlatti che terminano con un ricciolo giallo e delle foglie lucide contrastano con lo sfondo di licheni e funghi minuscoli che paiono ombrellini.
Il passo è sostenuto e non effettuiamo soste se non per fotografare:il fiato comincia a farsi corto per chi non è allenato.
L’ultimo tratto di salita è tosto e la vegetazione cambia d’aspetto,le piante sono più basse e rade e lasciano il posto ai canneti di bambù di montagna;il vento che sibila tra i loro fusti ha un non so che di agghiacciante e deve essere abbastanza terrificante compiere questo passaggio di notte.
Ci sono dei cardi spinosi a bordo del percorso ed il violetto etereo dei loro fiori ben si abbinano al giallo dell’infiorescenza del senecio che ospita dei soffioni in qualche talamo.
Dopo due ore e quaranta minuti di cammino giungiamo al rifugio Mandara posto a 2720 metri,occupiamo un tavolo e mangiamo avidamente perché la passeggiato ha messo appetito.
Decidiamo di proseguire verso il cratere di Maundi dopo altri 15 minuti di cammino:erbe cespugliose zampillano come capelli phonati,macchiati di bianco e di giallo del semprevivo,con l’erba stella che forma un tappeto di foglioline in prossimità delle rocce.
Il cielo è nuvoloso e la vetta dell’Uhuru Peak(la cima principale del Kilimanjaro)non si scorge minimamente ma riusciamo a vedere la vetta del Mawenzi(5149 metri),una montagna dal contorno frastagliato con un punto luminoso che riflette la luce del sole che a sprazzi riesce ad inoltrarsi vincendo la resistenza delle grigie nubi.
Questo scintillio,ci spiega Morgan,è un rottame d’aereo schiantatosi parecchi anni prima.
L’ormai ex cratere di Maundi è una catino pieno d’erbe con alcuni alberi barbuti coperti di muschi e licheni,che sembrano lanugine sulla corteccia.
Ci troviamo a quasi 3000 metri e Morgan ci mette fretta anche perché le nuvole sono sempre più foriere d’acquazzoni,e ridiscendiamo ripassando per il rifugio Mandara:qui ci sono alcune costruzioni per i turisti mentre le guide ed i portatori si devono accontentare di casette più grezze.
Lungo il tragitto sia di salita che di discesa abbiamo incrociato parecchi uomini bianchi con uno stuolo di portatori carichi,sudati e stanchi ma che salutano sempre col sorriso sulle labbra.
Appena cominciato il percorso discendente per il ritorno riesco a fotografare un grosso cercopiteco dalla gola bianca che tenta di sfuggire al mio obiettivo occultandosi nel fitto della boscaglia.
Fanno la ricomparsa strada facendo i grandi arbusti tatuati di muschio,dalla scorza scura ed umida,le conifere e le felci ed i cedri,l’erica arborea coi suoi rami sinuosi e tronchi bianchi di piante altissime su cui s’attorcigliano liane come trecce.
A terra spesso attraversano il cammino dei variopinti bruchi,tra cui uno bellissimo con la testa arancio-marrone,tutto nero con croci turchesi per l’intera lunghezza del corpo.
Il ritorno,sempre senza soste,lo completiamo in due ore accusando al termine un poco di dolore alle ginocchia.
Breve shopping al negozietto del parco dove acquisto praticamente tutti i foglietti postali di francobolli in vendita nella Tanzania(per una bella somma).
Alle 17.15 siamo già tornati al Babylon Lodge e dopo una tanto sospirata doccia e un po’ di Kilimanjaro(la birra)come aperitivo,cena nuovamente al ristorante dell’albergo e a letto presto.
La sveglia è alle 6.00 perché dobbiamo essere puntuali per il pullman che deve portarci fino a Dar Es Salaam dove dovremo imbarcarci per Zanzibar.
E’ un lungo tragitto di sette ore e mezza che ci porta dai monti al mare attraverso la savana costeggiando le Usambara Mountains.
Il bus ha la capienza di un centinaio di persone e siamo gli unici turisti europei presenti,allietati da musica ecclesiastica stile missionario alternata da reggae con Bob Marley che la fa da padrone. Il parabrezza è rotto,con una rigatura che attraversa il vetro da parte a parte, ed è puntellato da un’asse di legno:i sedili sono ancora immacolati essendo avvolti nella plastica protettiva originale. Il percorso è più confortevole di quello che m’aspettassi ed il tempo scorre relativamente veloce tra una lettura e una mezza dormita:prima delle 15.00 siamo a Dar Es Salaam alla stazione bus di Ubungo e dopo pochi minuti giungiamo al porto dove c’imbarchiamo alle 16.30 tramite la compagnia Seabus Ferries.
Dopo un inizio singhiozzante,col traghetto che procedendo a balzi induce qualcuno a star male,la traversata scorre tranquilla e dopo un’ora e quaranta minuti arriviamo al porto di Zanzibar città(nella lingua swahili l’intera isola viene chiamata Unguja per poter distinguere tutto l’arcipelago Zanzibar comprensivo di Pemba e le isole minori,da Zanzibar centro urbano).
Qui sbuca fuori dal cilindro magico un altro “contatto”di viaggi avventure che dispone di un paio di pulmini per poter andare a scegliere l’albergo.
Decidiamo per l’Hotel International posto vicino a Kiponda Street,sita all’interno di Stone Town,che è la parte più vecchia della città e quella che la caratterizza maggiormente.
Le stanze di questo hotel sono alte con dei bei letti a baldacchino forniti di zanzariera,ci sono l’aria condizionata,la televisione,un salottino ed un balcone con vista panoramica,tutto al prezzo di una notte in campeggio senza alcun servizio!
Ci diamo appuntamento presso l’atrio dove notiamo il portone con delle protuberanze di ottone,reminescenza dello stile indiano dove queste sporgenze vengono poste agli ingressi delle case per difendersi dalle intrusioni degli elefanti curiosi.
Zanzibar da centinaia d’anni è crocevia e punto d’arrivo per i commerci che interessano l’intera Africa orientale e le terre bagnate dall’oceano indiano.
Abitata in origine da popolazioni africane fu il capolinea degli scambi mercantili delle genti arabe che portarono la loro religione e le loro conoscenze architettoniche e culturali.
Dopo un periodo d’occupazione portoghese l’isola passò nuovamente sotto il dominio arabo divenendo sultanato dell’Oman e solo alla fine dell’ottocento divenne colonia inglese:nel 1964 è stata annessa alla Tanzania.
Zanzibar in passato fu un porto di molto peso soprattutto per la tratta e la vendita degli schiavi ,per il commercio dell’avorio e per quello delle spezie:fortunatamente oggi si commerciano solamente queste ultime.
Siamo pronti per cenare e a tale scopo le piccole vedette Camillo e Luigi guidano il gruppo,(un poco timoroso poiché le viuzze sono strette e buie)non conoscendo assolutamente la strada e comunque traghettando sane e salve ed in poco tempo le anime affamate presso le bancarelle di pesce ai Forodhani Gardens.
Sono presenti parecchi turisti che cenano appresso questo piccolo lungomare illuminato da improbabili impianti elettrici “a norma”che nascono dal retro dei banchi.
Su questi tavoli vi è ogni ben di dio marino,da piovrette a calamari,gamberetti,tonni ed altri pesci sconosciuti:siccome Crema è situata proprio al centro della pianura padana non sono avvezzo a tali visioni e faccio riempire il piatto di cartone con un misto di tutto quello che le reti dei pescatori locali possano offrire.
La mia porzione è calda e pesante e mi si piega in mano,il tutto ad un prezzo irrisorio.
Ci sediamo in una zona retrostante i banchetti e soddisfiamo i nostri languori:i gatti sono in agguato ad ogni angolo ma preferisco,a differenza di alcuni membri del gruppo,dividere la porzione con dei bambini affamati.
Pressoché unite all’area viveri le bancarelle di prodotti artigianali propongono ogni sorta di collane,sculture,maschere,modellini di bus ed auto in latta e quadretti dipinti su foglie di banano.
I prezzi sono alti rispetto a quelli contrattati nelle zone continentali e nella maggioranza dei casi sono oggetti molto turistici e non originali.
L’ora s’è fatta tarda e torniamo verso l’hotel per dormire confortati dall’ausilio dei condizionatori d’aria perché fa molto caldo e c’è parecchia umidità.
Mentre attendiamo la colazione seduti ai tavoli dell’albergo(è il 9 febbraio)ci rendiamo conto che il caldo di oggi sarà micidiale.
Sono solo le 8.00 del mattino e la sensazione di avere la pelle appiccicata propria del clima afoso si fa reale e difficile da sopportare.
Abbiamo la mattinata a disposizione per poter visitare Stone Town liberamente:fino al vecchio forte(un fortino di difesa eretto nel 1700 circa) siamo rimasti tutti uniti,poi diaspora ognuno dove crede di andare.
I monumenti più importanti della città sono il Palazzo delle Meraviglie, (Beit El-Ajaib)edificio destinato alle cerimonie ora museo,ed il Museo del Palazzo,(Beit Al-Sahel)residenza del sultano fino all’indipendenza della Tanzania,anch’esso ora adibito solamente a museo.
Sinceramente non li ho trovati un granché,forse perché abituato a tanti giorni dove ho ammirato ed apprezzato le costruzioni della natura piuttosto che quelle dell’uomo,ma evidentemente non sono fonte attendibile in quanto ignorante in materia stilistica.
Mi è piaciuto moltissimo il complesso degli edifici,un amalgama di vari incontri di architetture diverse:dalle abitazioni col tetto piatto tipiche dell’India a palazzi dai richiami europei,dagli archi a ferro di cavallo e moreschi propri delle costruzioni arabe ad elementi decorativi caratteristici dell’Africa continentale.
Qua e la le impalcature sono testimonianza delle ristrutturazioni che sono in atto su alcuni degli edifici più malandati di questa area patrimonio dell’umanità.
Le vie s’intrecciano una con l’altra passando da una piazza ad uno slargo e portano sempre da qualche parte che merita d’essere visitata,che sia un cortile o una moschea oppure un negozio d’antiquariato o di frutta.
E’ piacevole poter scegliere all’ultimo istante se svoltare a destra piuttosto che proseguire dritti,fermarsi un attimo e girare a sinistra:la gente locale nel frattempo è seduta nei pressi degli ingressi delle case,intenta a chiacchierare o solo guardare chi fa la “vasca”(come è solito dire a Crema chi passeggia senza meta nel centro città).
Davvero risulta evidente qui,dove la stragrande maggioranza della popolazione è musulmana,il fatto che certi programmi e telegiornali nostrani o comunque occidentali dipingano l’islam e la sua gente come persone meschine,cattive,da temere e tenere a debita distanza.
E’ una mera manipolazione che altera e cerca di attuare un lavaggio del cervello di massa,che vuole deliberatamente inculcare paure che non hanno ragion d’essere.
Qui le persone ti sorridono senza sapere chi sei,le ragazze dai balconi ti chiamano e ti salutano,i bambini ti ricevono come se fossi un buon re,il rispetto è incondizionato e deve essere corrisposto.
Fino a quando non si è a contatto con le realtà di un luogo è inutile fidarsi di quello che ti vogliono far credere(e voi siete spronati a fare indagini sul campo se non vi fidate di me!),a maggior ragione se le notizie propinate sono strumentalizzate per fini socio-politici.
La discriminazione e l’ignoranza sono due mali di fondo della nostra società perché coltivano e accrescono l’odio nelle menti e nelle azioni di chi alla fine prova solo timore per ciò che non conosce e quindi non comprende.
Io e Luigi ci stacchiamo dal gruppo per il motivo che accomuna tutti gli uomini quando girano a far shopping con le donne:la poca pazienza che si prova di fronte al fatto che le ragazze per compiere lo spazio di venti metri di negozi impieghino mezz’ora di tempo.
Riusciamo a costeggiare il mare dalla State House fino al Big Tree a nord-est;questo enorme albero è costituito,oltre che da un’immensa chioma,pure da rami avventizi che si dipartono dalle grandi fronde inferiori e scendono a terra come fossero radici supplementari..
Tracciando due linee immaginarie verso il centro da questi due punti si ottiene il perimetro di tutta la città vecchia,che poi non è tanto estesa più di quanto si possa pensare.
Alcune case bianche hanno tracce nerastre di macchie d’umidità in corrispondenza delle finestre che paiono fuliggine d’incendi senza fiamma:altre abitazioni sono blu scuro o grigie,le imposte di vari colori dal verde al turchese ed i portoni recano simboli e scritte .
Queste rappresentazioni possono indicare sia lo status che possiede la famiglia abitante piuttosto che il mestiere che da generazioni distingue gli inquilini degli edifici su cui sono poste:certe iscrizioni rappresentano dei passi del Corano.
Ovunque si dipartono fili elettrici e del telefono che intrecciandosi creano figure geometriche trapezoidali e rettangolari:ogni cavo è poggiato sull’altro come se ci fossero migliaia di rotaie di tram site al suolo.
Incontriamo Sara e Francesca e decidiamo di visitare con loro il mercato Darajani posto verso il confine orientale di Stone Town.
Come tutti gli altri mercati del mondo esso è diviso in settori a seconda dei prodotti venduti:c’è la zona delle pescherie,le macellerie,i fruttivendoli ed i commercianti di spezie.
I banchi sono costantemente riempiti di nuova merce ed i sapori,gli odori ed i colori delle mercanzie si mischiano creando un effetto visivo e olfattivo di grande impatto.
Il vociare quasi incomprensibile ci fa ricordare che siamo in Africa ma comunque c’è la concitazione e un flusso di profumi e tinte che può essere sia messicano piuttosto che indiano o italiano.
Ci mangiamo al volo dei licci e dei mango mentre c’è chi cerca lo zafferano anziché i chiodi di garofano in mezzo a frutta mai vista in una stupenda mescolanza umana.
Donne che indossano kanga policromi o lunghe vesti e veli neri che fanno intravedere solo gli occhi,mani tatuate di henné,uomini dalle tuniche bianche immacolate col copricapo ricamato si mischiano a giovani in jeans e camicia o maglietta in una combinazione di modi di vestirsi secondo la propria tradizione o comodità.
Camminando e vivendo appieno lo spirito di Stone Town giunge l’ora del raduno davanti all’International Hotel per salire sui due minivan che ci porteranno a nord dell’isola Unguya,a Nungwi:un’ora e mezza ci separano da Zanzibar città a questo villaggio posto all’estrema punta settentrionale.
Durante questo piccolo viaggio abbiamo “subito”ben otto posti di blocco da parte della polizia locale ed alla prima sosta si è notato come il nostro autista abbia elargito una mazzetta al primo funzionario incontrato.
L’ultimo tratto di strada non è asfaltato e veniamo shakerati per bene all’interno dell’abitacolo contro i nostri zaini e gli acquisti effettuati durante l’intero tragitto.
Già anticipatamente durante il percorso conclusivo abbiamo notato i mutevoli colori dell’acqua tra la costa e la piccola isola di Tumbatu:le attese di un mare splendido non vengono smentite nemmeno al nostro arrivo.
Ci sistemiamo presso il Nungwi Inn dove vi sono casette indipendenti da due stanze ciascuna,con annesso un ristorantino e la spiaggia a pochi passi.
Alcuni di noi preferiscono tuffarsi subito per un bagno mentre io ed altri andiamo a mangiare qualcosa perché dalla colazione non s’è ancora pranzato,evento che avverrà intorno alle quattro del pomeriggio.
La piovra in salsa di cocco è eccellente,accompagnata da qualche birra e molte chiacchiere su come faccia freddo in Italia.
Il caldo qui è nettamente sopportabile,da non paragonarsi all’afa di Zanzibar:una piacevole e lieve brezza attenua il calore dei raggi solari.
Ora è tempo di fare una nuotata,con il livello di profondità dell’acqua che accresce rapidamente anche per via dell’alta marea che fa lambire le dita delle onde quasi contro i primi tavoli dei chioschi.
La differenza tra alta e bassa marea è notevole,e con l’ultima l’oceano indiano come una tigre ritrae i suoi artigli per 100-150 metri lasciando in secca i dhow ,facendo emergere piccole rocce e lasciando all’asciutto numerose conchiglie.
I semplici dhow sono tipiche imbarcazioni africane costruite in legno con una vela triangolare:Nungwi è un importante centro per la produzione di queste caratteristiche barche.
Di sera cena ovviamente a base di pesce con prezzi elevati,ma la scelta dei ristoranti è pressoché obbligata per il fatto che sono pochi in questo angolo di mondo appena sfiorato dal turismo di massa.
Finalmente dopo tanti giorni “tirati”dal punto di vista organizzativo ci attende una giornata di puro relax,quella del 10 febbraio.
A dir la verità i cosiddetti “sbattimenti”sono sempre stati sopportati di buon grado poiché ci hanno permesso la possibilità di vivere posti magnifici:comunque un bel giovedì di riposo totale serve.
Al mattino lunga passeggiata fino a Kendwa,un villaggio che dista circa 3 chilometri da Nungwi,col sole che fa sentire il suo bollore sulla pelle.
E tutti a riprometterci di stare attenti alle scottature ed esporci al sole solo a pomeriggio inoltrato:infatti dalle 11.30 alle 13.30 siamo sul bagnasciuga ad arroventarci,ma è troppo bella la sensazione del velo d’acqua fresca e bassa tra la pelle del corpo e la sabbia umida.
Il tratto renoso pone i suoi limiti verso la terra a ridosso di zone fitte d’erba alta o contro scogliere con antri tipo caverne,modellate dalle maree secolo dopo secolo,rifugio di granchi che si mimetizzano perfettamente contro le pietre porose.
Grazie alla bassa marea appaiono delle coloratissime stelle marine che sembrano quelle del simbolo delle Brigate Neroazzurre dell’Atalanta.
Sono di un rosso carico con sfumature grigiastre,dotate di pedicelli bianchi che servono per spostarsi e catturare le loro prede:quelle rimaste proprio all’asciutto le portiamo in qualche pozza d’acqua per darle un poco di ristoro(non essendo sicuri che senza,anche per poche ore,possano sopravvivere).
Sempre appartenenti al gruppo degli echinodermi ci sono tanti ricci di mare,le cui spine sono insidiose per i nostri piedi,riparati nelle parti ombrose delle rocce tappezzate d’alghe.
Dopo pranzo il pomeriggio passa tra l’ombra delle poche palme e bagni rinfrescanti:qualche ora d’ozio prima della partenza che purtroppo giungerà domani.
Ceniamo al ristorante del nostro “centro residenziale”in una splendida cornice,davvero una bella atmosfera:i tavoli sono posti sulla spiaggia illuminati da fioche candele con piccoli fuochi i cui tenui bagliori s’inerpicano da buche scavate lì attorno.
Si tratta di una cena a buffet ed il cuoco,Mr. Barbecue,ci delizia con vari tipi di pesce,molluschi e crostacei col riso come contorno:è una cucina più simile all’arte culinaria indiana che africana,con un forte uso di spezie.
C’è il tempo per un cocktail nell’unico locale aperto fino a mezzanotte,arredato con divani,amache e gigantesche lanterne rosse,poiché dopo quell’orario ma anche molto prima non c’è in giro un’anima.
E’ l’ultima notte africana che passiamo dormendo un po’ scomodi visto che le bruciature cominciano a farsi sentire:un benevolo venticello passa direttamente dalle finestre sprovviste totalmente di vetri ed imposte,con una sola protezione di rete metallica.
La sveglia arriva presto così come l’appetito e la conseguente colazione:è il tempo per l’ultima camminata.
Mi torna in mente il titolo di una magnifica poesia di Robert Lowell, “Last Walk?”,il cui contenuto mi riempie già di nostalgia del paesaggio africano che non vuole lasciare la mia memoria prima ancora della mia vista.
Questa frase mi balena in testa quando cammino solo a fianco del mare: “l’ingannevole promessa di durare con gioia quanto i nostri corpi”,che mi esorta ad apprezzare fino in fondo ogni istante vissuto,soprattutto qui dove magari non tornerò mai più nel resto della mia vita.
Una velatura di tristezza aleggia nei miei pensieri ma sorrido pensando ai posti che dovrò ancora visitare:e poi ci sono ancora delle ore da passare nel migliore dei modi passeggiando a piedi nudi tra stupende conchiglie che la marea notturna per incanto ha depositato sulla nivea sabbia.
Tanti cardii,orecchie di mare,fusinidi e turbi,i piedi di pellicano,le olive e i ragni di mare ed i coni sono piccole perle abbandonate dai propri inquilini:pezzetti di grandi strombi sembrano cocci d’avorio.
Alcune “case”sono ancora occupate dai legittimi proprietari,un paguro ed alcuni crostacei e molluschi,e granchi arancione e bianchi,o verdi maculati con gli occhietti rossi che s’infilano tra formazioni di madreperla che sembrano nascere dagli scogli.
Lo sguardo si perde nell’infinito delle tonalità di blu da fare invidia ad una tavolozza di colori di un grande pittore:celeste,turchese,azzurro fino a blu cobalto,con gli spruzzi biancastri delle onde che di sbieco s’infrangono in un continuo strizzar d’occhio del mare,ciglia spumose d’esotici incanti.
Alle 16.30 siamo già al porto di Zanzibar per il traghetto con meta Dar Es Salaam dove l’aereo per il ritorno(tratta Dar-Narobi-Dubai-Roma-Milano) è in partenza alle 22.10.
E’ giunto il momento di trarre le conclusioni su questa esperienza fantastica che mi ha fatto conoscere ed apprezzare questa mia prima(e credo proprio non ultima)africana.
Un continente a cui dobbiamo molto,che abbiamo prosciugato ed offeso nel corso degli ultimi secoli,sfruttando le risorse umane e naturali a nostro piacimento.
In Africa tutti gli stati hanno ottenuto un’indipendenza dalle potenze coloniali solo sulla carta:infatti sono ancora tali nazioni che controllano con le loro attività commerciali questi neostati traendone i maggiori profitti.
I paesi africani per contro investono soldi che non hanno(debiti esteri)per cercare di costruire le opere indispensabili per portare un poco di benessere alle proprie popolazioni.
C’è da dire che esistono ancora troppe lotte intestine fra tribù locali che dopo le divisioni dei confini si sono trovate gomito a gomito in una difficile se non impossibile convivenza.
La maggior parte degli investimenti di cui ho parlato prima vengono elargiti per potenziare il proprio arsenale bellico e non viene impiegato per l’istruzione piuttosto che per la sanità o per il mondo del lavoro.
La Tanzania fortunatamente sta superando questi asti interni ma è solo una eccezione che conferma la regola che vuole quasi ogni stato africano con una personale guerra civile.
Comunque la Tanzania non è esclusiva per quanto riguarda la presenza del neocolonialismo:quasi l’intero circuito turistico è in mani straniere.
Il nostro guru Godfrey dice che tutte le catene alberghiere dei lodge siti nei parchi nazionali sono di proprietà dei sudafricani(bianchi),le bibite e la preziosa acqua fanno parte della maggior compagnia mondiale in questo campo,così come i gestori delle linee telefoniche fanno riferimento ai gruppi dei soliti noti.
L’uomo bianco deve essere presente solo per aiutare e non per comandare, l’Africa è dei neri!
Dobbiamo comprendere e rispettare la cultura africana anche se differente dalla nostra e abbiamo l'obbligo di recitare il mea culpa anche noi turisti se talvolta ci siamo arrabbiati durante il nostro viaggio,ma del resto siamo uomini ed è caratteristica della nostra specie sbagliare(e rimediare agli errori).
Questa esperienza mi ha arricchito in una maniera tale che me ne renderò conto solo col prosieguo della mia vita.Pongo termine con un consiglio per tutti citando una frase imparata durante un viaggio,non africano ma messicano:prima percorrerai tutte le strade di tutti i popoli della terra,prima di trovare te stesso.