venerdì 28 agosto 2020

LA NBA FERMA PER LA VIOLENZA POLIZIESCA CONTRO GLI AFROAMERICANI

Per fermare l'NBA in Usa anche se per solo una giornata per protestare contro la violenza poliziesca contro gli afroamericani vuol dire che la misura è pienamente colma e che quello accaduto nella bolla di Disney World a Orlando per i playoff,cioè meglio dire non accaduto perché non si è scesi in campo,è un evento storico e difficilmente quantificabile e paragonabile con altri sport e nazioni.
Perché il basket negli Usa è come il calcio nei paesi latinoamericani,una religione,alla stregua del baseball e del football americano,ma l'NBA è diffusa a differenza delle altre due competizioni a livello planetario con tifosi e un giro di miliardi pari a ben pochi altri eventi sportivi.
Nei due articoli proposti(infoaut di-nba-guerra-civile-e-cose-per-niente-scontate e contropiano stati-uniti-si-ferma-anche-lo-sport-contro-le-brutalita-della-polizia )le proteste partire col match non disputato l'altre sera tra i Milwaukee Bucks e gli Orlando Magic,subito seguiti dagli altri incontri in programma per quella giornata,una decisione ferma di tutti i giocatori che fanno del black lives matter ormai un mantra per richiamare attenzione,rispetto e giustizia dopo quello avvenuto a George Floyd a maggio(vedi:madn lorrore )e negli scorsi giorni a Kenosha nello Wisconsin ai danni di Jacob Black che è stato gravemente ferito con sette colpi alle spalle da un poliziotto con tanto di video a testimonianza(vedi:infoaut kenosha-la-rabbia-esplode-dopo-la-violenza-della-polizia )con due manifestanti ammazzati da un minorenne negli scontri successivi,ma questa è una storia da approfondire in seguito.

Di NBA, guerra civile e cose per niente scontate.

Probabilmente ci vorrà ancora un po' di tempo per comprendere pienamente la portata storica degli eventi che, partendo dalla “bolla” di Disney World in cui si stanno disputando i play-off di NBA, hanno avuta una ricaduta a cascata su tutto lo sport statunitense, ma è indubbio che quanto sta accadendo sia destinato a segnare uno spartiacque non solo nel mondo agonistico, ma anche all’interno della società statunitense e di tutti i suoi molteplici osservatori sparsi in ogni angolo del globo, con buona pace dei nostri quotidiani sportivi nazionali che ormai sembrano propendere per una linea editoriale a metà strada tra il gossip e il fantamercato.

Infatti, dopo il “forfait” improvviso dei Milwaukee Bucks della scorsa notte, a cui si sono immediatamente associati i loro avversari, gli Orlando Magic, ci sono state importanti prese di posizione: Houston, OKC, Portland e le squadre di Los Angeles hanno deciso di non scendere in campo, anche nella lega femminile di basket, la WNBA, dove c’è stata una significativa protesta partita dalle Washington Mystic che poco prima del loro match hanno deciso di disertare il parquet, così come nel tennis, che dopo le dichiarazioni della giocatrice Naomi Osaka che aveva manifestato la volontà di non scendere in campo ha optato per la sospensione della giornata al Western and Southern Open, e anche le massime leghe di calcio e baseball che hanno deciso di rinviare i loro incontri previsti in queste giornate.

La dimostrazione del fatto che non si tratta di un fuoco di paglia, o “dell’ennesimo capriccio di atleti viziati e strapagati distanti dal popolo”, come pure hanno sostenuto a ogni latitudine tutti quelli affetti da una grave forma di miopia sociopolitica, che devono aver preso troppo alla lettera il concetto di “minoranza” e appiattito le proprie posizioni su quelle prettamente WASP, più attente al dito delle proteste che non alla luna da esso indicato, ovvero i motivi che le hanno scatenate – perché a voler mischiare e confondere un sempre meno latente razzismo con l’insensibilità o comunque con la famosa pretesa che lo sport e i suoi interpreti restino fuori dalle contese sociali, è un attimo – è quanto avvenuto, sempre nella bolla, dopo la protesta di Bucks e Magic.

Infatti, c’è stata una riunione di oltre tre ore tra tutti i giocatori presenti nella “bolla” per capire e decidere collettivamente se e come proseguire questa protesta: i Lakers e i Clippers, le due squadre di Los Angeles, tra le principali pretendenti all’anello, su iniziativa di LeBron James, avrebbero proposto di chiudere la stagione senza proseguire i play-off, proposta che al momento non è stata accolta positivamente dalle altre franchigie a dimostrazione di quanto tutto sia in divenire e senza finali scontati. Quello che è sicuro è che la giornata di ieri è destinata a entrare nella storia, per la dimostrazione che nonostante si tratti di uno dei business più grandi del mondo, com’è per l’appunto l’indotto economico che ruota intorno all’NBA, la volontà e la coscienza sociale degli atleti, a maggior ragione in un contesto non molto distante da quello di una guerra civile a bassa intensità com’è quello che si respira quotidianamente negli States, può superare ogni ragione economica e ogni rassicurante comfort-zone mentale.

Certo, qualora la protesta dovesse rientrare senza colpo ferire, questa rappresenterebbe una nuova freccia nell’arco dei propugnatori dello status quo e dell’ordine pubblico che avrebbero gioco facile nel gridare “alla farsa!”, a partire dal presidente Trump, che nonostante i suoi goffi tentativi di restare in sella è stato ormai scavalcato dalla portata dello scontro che pure ha contribuito a esacerbare. Allo stesso tempo, nessuno ha l’ingenuità di affermare che dopo questa protesta le violenze nelle strade statunitensi si fermeranno e la polizia finirà di sparare e uccidere cittadini disarmati, ma d’altro canto non è né il ruolo, né il mestiere degli atleti che avrebbero dovuto limitarsi a scendere in campo, ma che per un sussulto di dignità non l’hanno fatto mettendo seriamente in discussione le regole dello show business dimostrando che non tutto può piegarsi alle esigenze dell’audience e che anche in un’epoca di piena e servile adorazione del Dio denaro, in certi casi si possono offrire degli esempi di dignità e coerenza al pubblico e alle giovani generazioni.

Giuseppe Ranieri

Da Sport PopolareSport Popolare

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Stati Uniti. Si ferma anche lo sport contro le brutalità della polizia.

di  Rino Condemi  

Anche lo sport professionistico negli USA è entrato in campo, ma questa volta contro le uccisioni degli afroamericani da parte della polizia. Dopo l’ennesimo episodio di brutalità in divisa contro Jacob Blake (rimasto paralizzato dopo che gli agenti gli hanno sparato diversi colpi alle spalle), i giocatori del Milwaukee Bucks hanno boicottato la loro partita della Nba, seguiti a ruota da altre squadre di baseball, football e tennis. Un fatto accaduto molto raramente prima. 

In poche ore la protesta lanciata dai giocatori del Milwaukee, ha costretto l’NBA a rinviare altri due incontri in programma sempre ieri.

“Chiediamo giustizia per Jacob Blake e chiediamo che i poliziotti siano ritenuti responsabili”, ha detto George Hill dei Milwaukee Bucks, che ha letto da una dichiarazione preparata a nome dei suoi compagni di squadra. Quando poliziotto bianco di Minneapolis si è inginocchiato sul collo di George Floyd, asfissiandolo di fronte a testimoni in pieno giorno, Hill si è lamentato del fatto che il suo talento per il basket possa essere stato l’unica cosa a salvarlo da un destino simile. “Perché ciò avvenga”, ha continuato Hill con la dichiarazione del team, “è imperativo che la legislatura dello stato del Wisconsin si riunisca di nuovo dopo mesi di inattività e adotti misure significative per affrontare la responsabilità della polizia, la brutalità e la riforma della giustizia penale”

Accanto a Hill c’era Sterling Brown, anche lui vittima della stessa brutalità poliziesca. Nel 2018, un gruppo di agenti di polizia di Milwaukee lo aggredì con il taser perché aveva parcheggiato in doppia in un parcheggio e un poliziotto lo immobilizzò mettendogli un ginocchio sul collo. L’incidente divenne una fonte di imbarazzo pubblico per i funzionari della città, ma solo perché Brown, lui stesso figlio di un agente di polizia, era una stella nascente del basket. Un contratto con i Bucks era l’unica cosa che separava Brown da qualsiasi altro uomo di colore con una felpa con cappuccio. L’ufficio del procuratore della città aveva offerto a Brown 400.000 dollari nel tentativo di chiudere la causa civile intentata. Brown ha rifiutato e qui soldi si sono aggiunti ai circa 40 milioni di fondi pubblici che gli atti di brutalità della polizia sono costati all’amministrazione di Milwaukee dal 1958.

Dal basket la protesta si è estesa ad altre discipline, a partire dal baseball con i Brewers – di Milwaukee – che si sono rifiutati di scendere in campo contro il Cincinnati. Altre due partite di baseball (Mlb) sono state quindi rinviate. Lo stesso nel campionato di football nordamericano (Mls), dove cinque delle sei partite in programma sono state boicottate dai giocatori.

Infine dopo che la tennista giapponese Naomi Osaka ha deciso di non disputare la sua semifinale del torneo di Cincinnati, spostato però a New York, gli organizzatori dell’evento hanno deciso a loro volta di posticipare le partite in programma oggi a domani. “Il tennis prende posizione collettivamente contro la disuguaglianza razziale e l’ingiustizia sociale che è stata nuovamente portata alla ribalta negli Stati Uniti. La Federazione americana di tennis (Usta), i circuiti Atp e il Wta hanno deciso di riconoscere questo momento interrompendo il gioco”.

giovedì 27 agosto 2020

ABBIAMO TOCCATO I FONDI

A breve oltre il quesito referendario ci saranno anche elezioni amministrative che riguarderanno delle regioni e alcuni comuni italiani,tra i quali Fondi in provincia di Latina dove tal Cristian D'Adamo sarà presente nelle liste a supporto del candidato primo cittadino dei Bros of Italy Giulio Mastrobattista.
In questi giorni sono girati alcuni dei motti e alcuni pareri che fanno capire che questo giovanotto evidentemente con problemi che si porta dietro fin dall'infanzia,legati soprattutto alla sua indole parassitaria e subumana definendosi"naziskin,negazionista,omofobo,xenofobo,antidemocratico, anticostituzionale,anticomunista e antisemita",insomma tutte"virtù e qualità"che è bene metterci la faccia e farci pubblicità per venire riconosciuto in giro.
L'articolo di Left(alle-solite-il-fascista-che-scappa )racconta di questa vicenda tutta italiana,con l'evidente incandidabilità di questo bamboccio pronto per un tso viste le facoltà mentali che possono ledere a se stesso e al prossimo,un'idiota che assieme al candidato sindaco(che dice di non avere alcuna responsabilità su quello che fa o dice uno che lo sostiene)offrono una triste e vergognosa visione di quello che la politica italiana soprattutto a destra(estrema)è capace di offrire.
Va sottolineato che dopo essere stato pizzicato con foto esplicite sul suo stato di salute cerebrale e quello che ha saputo scrivere il prode D'Adamo abbia reso privato il suo profilo Facebook,e come ben evidenziato la frase"non tutti i vigliacchi sono fascisti ma tutti i fascisti sono vigliacchi"qui casca proprio a pennello.

Alle solite: il fascista che scappa.

di Giulio Cavalli

Un candidato al consiglio comunale di Fondi in una lista a supporto del candidato sindaco di Fratelli d’Italia sui social ha inneggiato al fascismo. Una volta scoperto, ha reso privati i suoi profili social

Sui suoi profili social si definisce “naziskin, negazionista, omofobo, xenofobo, antidemocratico, anticostituzionale, anticomunista e antisemita”. Proprio così, letterale. Anzi, si definiva, perché Christian D’Adamo, candidato al consiglio comunale di Fondi, in provincia di Latina, come fanno poi tutti i fascisti appena è stato beccato da alcuni giornalisti si è preso subito la briga di scappare e nascondersi rendendo privati i suoi profili social. È la solita legge non scritta: non tutti i vigliacchi sono fascisti ma tutti i fascisti sono vigliacchi.

Il 32enne è in lizza per le prossime amministrative nella lista civica “Giulio Mastrobattista sindaco” che è una delle tre liste in supporto al candidato sindaco Mastrobattista, uomo di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni che si indigna se si parla di fascismo di ritorno e che accusa noi di vedere fascisti dappertutto mentre lei semplicemente si occupa di detergerli per renderli un po’ più presentabili. Con D’Adamo la missione non è riuscita perché il candidato ha infarcito il suo diario Facebook con foto di magliette raffiguranti Benito Mussolini, con citazioni come “AvantiLazio, Dvce Dvce Dvce”e perfino il suo account su Twitch riporta una svastica come sfondo. Tutto alla luce del sole.

Geniale il candidato sindaco che a Repubblica risponde così: «Non conoscevo questa persona e abbiamo già lanciato l’hashtag #nessunovotid’adamo. Per quanto riguarda la candidatura dovrebbe rinunciare lui, ma stiamo verificando se lo stesso responsabile della lista sia legittimato ad estrometterlo. Intanto io e tutti i candidati stiamo appunto lanciando l’hashtag». La sua azione politica è stata quella di creare un hashtag, nessuna responsabilità ovviamente sull’avere candidato un personaggio del genere. Attenzione perché quelli che riescono a candidare gli impresentabili poi sono gli stessi che si augurano un taglio dei parlamentari: sono quelli che giudicano le lunghezze perché non hanno i parametri per giudicare la qualità.

Continuiamo così, impuniti alla luce del sole. Che poi, ovviamente, se la danno a gambe.

Buon giovedì.

mercoledì 26 agosto 2020

LE RAGIONI DEL NO

Da qualche giorno sono cominciate le tribune elettorali che spiegano le ragioni del no e del si al prossimo quesito referendario del 20 e del 21 settembre prossimi,quindi manca meno di un mese ad una data importante per mantenere alto il concetto di democrazia nel paese.

Dopo un lungo silenzio dovuto all'overdose di notizie legate al coronavirus ma anche per un calcolato oscuramento da parte dei mass media ecco che questo referendum che non ha quorum,quindi se vota solo una persona conta il suo voto,propongo un primo intervento sull'importanza del no a questa domanda che implica il taglio dei parlamentari.

Un'aggressione alla rappresentanza ed al funzionamento parlamentare che a fronte del tanto evocato risparmio di denaro pubblico,insignificante rispetto al taglio che avrebbe la democrazia,che non vale la pena di attuare e che aumenterebbe il potere in mano a pochi partiti,alcuni dei quali ancora incerti sul farsi e che probabilmente daranno o meno il consenso come risposta per evitare scontri interni alle alleanze createsi in questi periodi.

L'articolo è preso da Contropiano:2020/08/26 .

Referendum sul taglio lineare dei parlamentari, vademecum per gli indecisi.

di Carlo Corsetti

Dieci motivi per dire NO e continuare a vivere in un Paese democratico. A cura di Carlo Corsetti, per il Comitato per il NO dei Castelli romani

Lo Statuto del Regno

Il 4 marzo 1848, Carlo Alberto, re di Sardegna, duca di Savoia, principe di Piemonte etc., rinunciando al proprio potere assoluto, “con lealtà di Re e con affetto di Padre” concede ai propri sudditi uno Statuto fondamentale, cioè una costituzione, che istituisce un Parlamento bicamerale, formato da due Camere, il Senato del regno e la Camera dei deputati, che condividano con lui il potere legislativo, così che, per diventare legge, una proposta dovrà prima essere approvata dalle due Camere e poi avere la sanzione finale del re.

Il 17 marzo 1861, quando Vittorio Emanuele II, figlio e successore di Carlo Alberto, assume il titolo di Re d’Italia, lo Statuto albertino fu esteso a tutto il nuovo regno, che perciò ebbe anch’esso un Parlamento bicamerale, con un Senato e una Camera, che avevano le stesse funzioni e gli stessi poteri del Parlamento subalpino istituito da Carlo Alberto, con i senatori nominati a vita dal re in numero non limitato e i deputati eletti invece per cinque anni dai cittadini in numero proporzionato al numero degli abitanti del regno. Così, nel 1861, quando questi erano 22 milioni, furono eletti 443 deputati, mentre nel 1921, quando erano diventati 39 milioni, ne furono eletti 535.

Ma nel gennaio del 1929, per aumentare ancor più il potere del proprio Governo, diminuendo ulteriormente quello del Parlamento, Mussolini ridusse il numero dei deputati a soli 400 – il numero cui si vuole ridurli oggi! Dieci anni dopo, nel 1939, egli stabilizzò il regime fascista, abolendo la Camera dei deputati e sostituendola con una Camera dei fasci e delle corporazioni, di cui facevano parte di diritto e in numero non limitato soltanto i membri dei principali organi del regime fascista. A ragion veduta, dunque, Umberto Terracini, che aveva passato undici anni nelle carceri fasciste, il 18 settembre 1946 diceva alla Costituente: “Quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni.”

La Costituzione della Repubblica

Finita la seconda guerra mondiale, in cui Mussolini aveva precipitato l’Italia, domenica e lunedì 2 e 3 giugno 1946, tutti i cittadini maggiorenni, comprese per la prima volta le donne, furono chiamati a votare sia per scegliere tra monarchia e repubblica sia per eleggere i 556 deputati dell’Assemblea Costituente, che ne avrebbero scritta la Costituzione.

Per evitare di “mettersi sul piano inclinato del governo d’assemblea” monocamerale – il pensiero andava alla Convenzione e al Terrore della Rivoluzione Francese – la Costituente decise di ricostituire un Parlamento bicamerale perfetto, come quello del Regno d’Italia, sostituendo però il Senato del Regno nominato dal re con un Senato della Repubblica eletto dai cittadini e perciò dotato degli stessi poteri della Camera dei deputati. Poi, per valorizzarli e distinguerli senza farne dei doppioni, fu deciso che la Camera fosse eletta per cinque anni su base nazionale e il Senato per sei anni su base regionale, e che l’età necessaria per eleggere ed essere eletti alla Camera fosse inferiore a quella necessaria per eleggere ed essere eletti al Senato. Inoltre, fu deciso che il numero dei deputati e dei senatori fosse proporzionato al numero degli abitanti, eleggendo però un deputato ogni 80.000 abitanti (o frazione superiore ai 40.000) e un senatore ogni 200.000 abitanti (o frazione superiore ai 100.000). Così, nel 1948, quando gli italiani erano circa 45 milioni, per il primo Parlamento della Repubblica Italiana furono eletti 574 deputati e 237 senatori; nel 1953, furono eletti 590 deputati e 237 senatori; e nel 1958, furono eletti 596 deputati e 246 senatori.

Ma il 9 febbraio 1963, cioè tre mesi prima delle nuove elezioni politiche, considerato da un lato che gli italiani erano già diventati 50 milioni e che la popolazione da oltre un secolo continuava a crescere, e dall’altro lato che i senatori erano troppo pochi per assolvere agli stessi compiti, cui i deputati assolvevano essendo in numero quasi triplo, il Parlamento, revisionando gli articoli 56, 57 e 60 della Costituzione, uniformò a 5 anni la durata massima delle due Camere; fissò il numero futuro dei deputati a 630, numero risultante dal censimento del 1961; infine, aggiungendo 68 unità ai 247 senatori, risultanti da quello stesso, ne aumentò e fissò il numero a 315, cioè alla metà dei deputati, migliorando così l’efficienza e la rappresentatività del Senato.

La deforma del M5S

Dopo la vittoria elettorale del 4 marzo 2018, il M5S si accordava con la Lega, formando un governo presieduto da Giuseppe Conte e basato su un Contratto, che al punto 20 prevedeva la rapida attribuzione dell’autonomia differenziata alle Regioni richiesta dalla Lega e la “drastica riduzione del numero dei parlamentari: 400 deputati e 200 senatori” richiesta dal M5S. Grazie a questa riduzione, si legge nel Contratto, “diverrà più efficiente l’iter di approvazione delle leggi, senza intaccare in alcun modo il principio supremo della rappresentanza, poiché resterebbe ferma l’elezione diretta a suffragio universale da parte del popolo per entrambi i rami del Parlamento”, rendendo “in tal modo possibile conseguire anche ingenti riduzioni di spesa, poiché il numero complessivo dei senatori e dei deputati risulterà quasi dimezzato”: da 945 a 600.

L’8 agosto 2019, quando la legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari sta per essere approvata per la quarta e ultima volta, come richiesto dall’art. 138 della Costituzione, la Lega, forte del grande consenso ottenuto alle elezioni europee, esce dalla maggioranza e chiede nuove elezioni politiche. Per evitarle, il M5S, che invece era in forte caduta di consensi, propone al PD, anch’esso in difficoltà elettorali, di formare un nuovo governo presieduto da Conte. Per evitare le elezioni e tornare al governo, pago della promessa fattagli dal M5S di approvare una legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5% e alcune altre modifiche alla Costituzione – abbassare l’età necessaria per eleggere ed essere eletti al Senato, portandola a 18 e 25 anni, come per la Camera; eliminare la base regionale per l’elezione del Senato, eleggendolo su base nazionale, come la Camera; ridurre da 3 a 2 i delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica – che avrebbero limitato i danni prodotti dalla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, contro cui aveva votato per ben tre volte, il PD accetta la proposta e l’8 ottobre 2019, rovesciando la propria posizione politica, vota a favore della “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, che il M5S gli ha posto come conditio sine qua non per tornare al governo.

Alcuni senatori, contrari alla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, raccolgono allora le firme necessarie per chiedere che il testo approvato dal Parlamento sia sottoposto al referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione. Convocato per il 29 marzo 2020 e poi rinviato a causa della pandemia da Covid 19, il referendum è stato ora fissato per il 20 e 21 settembre 2020, insieme alle elezioni amministrative di alcuni Comuni e alcune Regioni. Sì che, in quei giorni, mentre sarà ancora in corso l’emergenza sanitaria da Covid 19, che il Governo ha ritenuto inevitabile prolungare fino al 15 ottobre 2020, tutti i cittadini maggiorenni saranno chiamati a dire SÌ o NO al testo della legge costituzionale, che, modificando gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, riduce da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 il numero dei senatori elettivi, stabilendo inoltre che il numero dei senatori a vita di nomina presidenziale in carica non dovrà mai essere superiore a 5.

Risparmio

Secondo i capi del M5S, questa “drastica riduzione del numero dei parlamentari” produrrà un risparmio per le casse dello Stato di circa 100 milioni di euro l’anno, pari a circa 1,60 euro per ogni abitante – cifra che molti ritengono largamente arrotondata per eccesso e comunque ben lontana dalle “ingenti riduzioni di spesa”, di cui parla il Contratto M5S-Lega. Confrontati con i quasi 900 miliardi, cui ormai ammonta il bilancio annuo dello Stato italiano, questi pochi milioni, 100, 70 o 50 che siano, tanto vantati dalla propaganda cinquestelle, ricordano piuttosto la metafora della montagna, che tra grandi dolori e lamenti finisce per partorire un topo ridicolo. Un risparmio reale e prezioso in tempi di vacche tanto magre per le casse dello Stato e ancor più per milioni di cittadini, ma che certo non meritava che si cambiasse addirittura la Costituzione per realizzarlo, tanto più che esso inizierebbe tra alcuni anni, poiché il numero dei parlamentari sarebbe ridotto soltanto con le prossime elezioni, previste per il 2023. In verità, se quel modesto risparmio fosse stato il vero scopo della “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, si sarebbe potuto ottenerlo già due anni fa, riducendo dello stesso 36,5 % non il numero dei parlamentari, bensì i loro compensi, portandoli dagli attuali 14.000 euro mensili a 10.000, cifra che sarebbe stata ancora superiore al compenso medio dei parlamentari degli altri Paesi dell’UE e addirittura il doppio dei 5.000 euro, cui il M5S prometteva di ridurre il compenso massimo di ogni pubblico dipendente.

Se poi, per qualche arcano risvolto della ideologia cinquestelle, il Parlamento dimezzato fosse stato ritenuto indispensabile, si sarebbe potuto dimezzare il numero dei deputati, da 630 a 315, senza toccare il Senato, che, se ridotto a 200 membri, perderà sicuramente efficienza, visto che nel 1963 fu necessario aumentare i senatori da 247 a 315 proprio per ragioni di efficienza.

Efficienza

Dai resoconti del Comitato per la legislazione di Camera e Senato risulta che negli ultimi 12 anni il Parlamento ha approvato 818 leggi: oltre 68 leggi l’anno. Ora, se efficienza è fare presto e bene il proprio dovere, e il primo dovere del Parlamento è fare le leggi, il Parlamento, almeno per farle presto, è certamente efficiente, perché fa più di una legge a settimana; cosa che gli è resa possibile dal suo bicameralismo perfetto, che, contrariamente a quanto in genere si dice e si scrive, non raddoppia, ma quasi dimezza i tempi di approvazione delle leggi, perché permette alle due Camere di lavorare non in successione, ma in parallelo, cioè in contemporanea, su disegni di legge diversi, scambiandosene poi i testi, per fare un controllo incrociato sul lavoro che esse hanno fatto, sì che il testo finale risulterà, se non altro, più ponderato.

Il Parlamento, dunque, di leggi ne fa tante. Le fa anche bene? Non potendo né dovendo qui addentrarci in un’analisi qualitativa delle diverse leggi approvate dal Parlamento italiano, diciamo soltanto che, secondo noi, potrebbe farle anche meglio, se per circa l’80 % esse non fossero proposte e spesso imposte dal governo di turno, che sempre più spesso prima le emana come decreti legge, contenenti anche centinaia di articoli di argomento molto diverso tra loro, validi per 60 giorni, durante i quali poi riesce a farle trasformare in leggi, ricattando i parlamentari, con il porre su di esse la questione di fiducia: se non l’approvate, il governo si dimette, si torna alle urne e chi ha votato contro la fiducia sarà espulso dal partito o comunque non sarà ricandidato.

Con questi ricatti nei confronti del Parlamento – ricatti incostituzionali, perché l’art. 94 della Costituzione dice che il Governo è fiduciario, non proprietario, delle due Camere – i governi sono riusciti a far credere a molti cittadini, soprattutto a quelli che conoscono meno la Costituzione e le diverse funzioni dei poteri dello Stato, che l’inefficienza, con cui ci scontriamo in tutti gli uffici pubblici, dove non funziona mai niente come dovrebbe, sia colpa del Parlamento, che non farebbe le leggi. Mentre, in verità, la colpa è semmai del Governo, che da un lato lascia gli uffici pubblici – su cui il Parlamento non ha alcun potere, perché essi fanno parte della Pubblica Amministrazione, che, secondo il Titolo III della Parte II della Costituzione, fa parte del Governo – senza il personale e i mezzi necessari, e dall’altro lato spesso non emana neppure i decreti attuativi, senza i quali gli uffici o non possono o non sanno come devono applicare le leggi approvate dal Parlamento, che pertanto vengono applicate solo in parte o in ritardo o rimangono addirittura lettera morta, mentre i governi, anziché governare, passano il tempo a fare nuove leggi e a cambiare la Costituzione.

Chi, dunque, volesse risolvere il problema dell’inefficienza dei pubblici uffici, che tanta fatica e rabbia procurano a chiunque abbia a che fare con essi, non dovrebbe preoccuparsi dell’efficienza del Parlamento, che di leggi ne approva anche troppe, ma dell’inefficienza del Governo e della Pubblica Amministrazione, cioè degli uffici pubblici, che non applicano le leggi approvate dal Parlamento. Ridurre, poi, il numero dei parlamentari per aumentare l’efficienza del Parlamento, dando, così, altro potere al Governo, è come dare più potere a un amministratore, che, invece di attuare le delibere dell’assemblea dei condomini, ne attua soltanto le parti che gli sono gradite.

Rappresentanza

Secondo il Contratto firmato dal M5S e dalla Lega, “la drastica riduzione del numero dei parlamentari” produrrebbe risparmio ed efficienza “senza intaccare in alcun modo il principio supremo della rappresentanza, poiché resterebbe ferma l’elezione diretta a suffragio universale da parte del popolo per entrambi i rami del Parlamento”. 

Ora, se è vero che l’elezione è necessaria per garantire la legittimità dei rappresentanti, è anche vero che da sola essa non basta per garantirne la rappresentatività, perché questa non dipende dalla legittimità, ma dalla qualità e dalla quantità degli eletti. Per questo e per favorire il più possibile la partecipazione dei cittadini alla gestione della Repubblica (res publica), la Costituente volle che i membri del Parlamento fossero il più numerosi possibile – il detto “pochi, ma buoni” va bene per le oligarchie, non per le democrazie – e in numero proporzionato al numero degli abitanti, sì che, crescendo il numero dei rappresentati, crescesse anche quello dei loro rappresentanti. Anche perché, disse, il 27 gennaio 1947, il presidente Terracini: “In fondo le elezioni rappresentano soltanto un primo momento, quello della scelta dei responsabili della vita politica del Paese; ma è noto che nell’interno delle Assemblee elette avviene una seconda scelta, naturalmente causata dalle particolari attitudini dei componenti, via via che essi hanno occasione di mettersi in rilievo.” Così, ridurre il numero dei parlamentari significa escludere a priori eventuali nuovi talenti, cosa che nessun allenatore sportivo farebbe, convocando il minor numero di atleti possibile.

Nessun dubbio, perciò, che “la drastica riduzione del numero dei parlamentari” produrrebbe una grave riduzione della rappresentatività del Parlamento, che ridotto a 400 deputati, meno dei 443 che aveva nel 1861, quando gli abitanti erano 22 milioni, rappresenterebbe assai male – come una foto a bassa risoluzione – i 60 milioni di abitanti attuali, che pertanto avrebbero sempre più difficoltà ad accettare e rispettare le leggi di un Parlamento, in cui si riconoscono poco o non si riconoscono affatto. Una riduzione di numero e di rappresentatività che colpirebbe in particolar modo il Senato, che, ridotto a 200 senatori, cioè a meno dei 247 che nel 1963 fu necessario aumentare a 315, non potrebbe più adempiere in maniera efficiente agli impegni, cui la Camera adempirebbe invece con 400 deputati. Una riduzione numerica, poi, gravemente ingiusta per Regioni come la Calabria, che con 2 milioni di abitanti, eleggerebbe 6 senatori come farebbe il Trentino – Alto Adige, che ha 1 milione di abitanti, sì che, violando l’art. 48 della Costituzione, secondo cui tutti i voti sono uguali, cioè hanno valore uguale, il voto dei trentini e degli altoatesini varrebbe il doppio del voto dei calabresi. Così dalla “legge truffa” del 1953 si giunge alla deforma truffa del 2019.

Elezione

L’art. 48 della Costituzione, parlando degli elettori, dice che “il voto è personale ed eguale, libero e segreto”. Gli articoli 56, 57 e 58, invece, parlando di Camera e Senato, dicono che i deputati sono 630 e i senatori 315, che 12 deputati e 6 senatori sono eletti nella circoscrizione Estero e che la Camera dei deputati e i senatori sono eletti “a suffragio universale e diretto”. Quanto alla legge elettorale, con cui essi avrebbero dovuto essere eletti, avendo scelto il bicameralismo perfetto, la Costituente, per differenziare ulteriormente le due Camere e rispettare meglio la diversità di opinioni, che sui sistemi elettorali esisteva anche allora tra i costituenti e tra i cittadini, decise che le due Camere fossero elette con due sistemi elettorali diversi.

Il 23 settembre 1947, infatti, su proposta di Antonio Giolitti, comunista, essa approvò il seguente ordine del giorno: «L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale.» Poi, il 7 ottobre, su proposta di Francesco Saverio Nitti, liberale, e di altri 18 deputati, tra cui Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista, essa approvò il seguente ordine del giorno: «L’Assemblea Costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto col sistema del collegio uninominale.» Ma il 20 gennaio 1948, quando, a Costituzione ormai promulgata, si trattò di stabilire la legge con cui sarebbe stato eletto il Senato – la Camera sarebbe stata eletta con il sistema proporzionale, con cui era stata eletta l’Assemblea Costituente – nel fissare il quorum maggioritario, la Costituente approvò l’emendamento di Giuseppe Dossetti, democristiano, che propose di sostituire le parole «metà più uno» della proposta governativa con «settantacinque per cento», quorum altissimo, che la successiva legge elettorale 6 febbraio 1948, n. 29, sostituì con «un numero di voti validi non inferiore al 65 per cento dei votanti», stabilendo, inoltre, che gli altri seggi spettanti alla Regione rimasti vacanti sarebbero stati assegnati alle liste e ai candidati in proporzione ai voti ottenuti.

Con questo sistema elettorale, proporzionale non soltanto per la Camera, ma, di fatto, anche per il Senato, gli italiani hanno votato dal 1948 al 1992, quando, in seguito agli scandali partitocratici di tangentopoli e ai referendum elettorali di Mario Segni, nel 1993 esso fu sostituito dal mattarellum, che assegnava il 75 % dei seggi con il sistema uninominale e il 25 % con il proporzionale. Nel 2005, il mattarellum fu sostituito dal porcellum, con cui fu rinnovato per tre volte il Parlamento, ma che, avendo liste bloccate e premio di maggioranza senza soglia, fu dichiarato incostituzionale nel 2014 e sostituito nel 2015 dall’italicum, dichiarato incostituzionale nel 2017, prima ancora di essere applicato, e perciò subito sostituito dal rosatellum, un sistema elettorale misto, che assegna il 37 % dei seggi con il sistema uninominale, il 61 % con il sistema proporzionale e ne riserva il 2 % agli italiani residenti all’estero, senza comunque permettere ai cittadini di eleggere con voto “personale e diretto”, come volle la Costituente e vuole la Costituzione, la persona in cui essi meglio si riconoscano. Sì che gli eletti, anziché preoccuparsi dei propri elettori, che neppure conoscono, si preoccupano dei capipartito, che li hanno messi in lista, in posizione utile per essere eletti.

Così, mentre il Governo resta in mano ai partiti, che in 72 anni non hanno ancora attuato l’art. 49 della Costituzione, che pretende da essi il rispetto del metodo democratico, da cui essi rifuggono, il Parlamento, stretto tra le pretese dei partiti e i ricatti del Governo, perde rappresentatività, prestigio e autostima, fino a essere considerato pletorico e nullafacente da molti cittadini, e ad autoinfliggersi la “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, che costituisce la prima ganascia del progetto eversivo della Repubblica, progettato dal M5S e dalla Lega; la seconda è l’autonomia differenziata.

Autonomia

Come abbiamo accennato al punto 3. di questo Vienimecum, oltre alla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, il punto 20. del Contratto, firmato dal M5S e dalla Lega nel maggio 2018 davanti a un notaio, prevedeva anche, sotto il profilo del regionalismo, l’impegno “di porre come questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte. Il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle competenze necessarie per un autonomo esercizio delle stesse”.

Il 6 febbraio 1947, nella Relazione al Progetto di Costituzione, Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75, che l’aveva elaborato, scriveva: “L’innovazione più profonda introdotta dalla costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese.” In effetti, nel rifiutare la repubblica federale proposta da Emilio Lussu e Piero Calamandrei, azionisti, l’Assemblea Costituente non intendeva ribadire il centralismo prefettizio dello Statuto albertino, aggravato dalla dittatura fascista, ma intendeva valorizzare al massimo le autonomie locali, secondo i principi del regionalismo autonomista. In questo senso, autonomia regionale nell’unità statale, l’art. 5 della Costituzione proclama che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”. Se il compromesso costituzionale, che aveva prodotto questo Stato regionale, fosse stato subito attuato e lealmente applicato, l’autonomia, come scriveva Ruini, avrebbe potuto avere davvero una “portata decisiva per la storia del Paese”; in senso migliorativo s’intende. Ma la Costituzione rimase per decenni inattuata e dimenticata; e quando, negli anni Ottanta, cominciò a tornare al centro del dibattito politico, vi tornò perché chi l’aveva per decenni tradita cominciò a denigrarla come vecchia e bisognosa di aggiornamenti, che furono tentati più volte negli anni Novanta e che nel 2001 portarono alla deforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, voluta soprattutto dai partiti che sostenevano il governo dell’Ulivo.

A seguito di questa sciagurata deforma voluta dai partiti dell’Ulivo, per sottrarre consensi alla Lega Nord, che poneva con forza e successo l’aut-aut federalismo o secessione, il terzo comma del nuovo art. 116, richiamato dal Contratto M5S-Lega, prevede che alle Regioni, che le richiedano, lo Stato può attribuire “forme e condizioni particolari di autonomia” in ben 23 materie, articolate in circa 130 funzioni, che toccano tutti gli aspetti della vita sociale ed economica dei cittadini: dal lavoro, alla sanità, alla scuola, all’ambiente, ai trasporti, alle infrastrutture (strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti), alla giustizia di pace. Ora, poiché le maggioranze politiche di destra e di sinistra, susseguitesi dopo il 2001, anziché curare l’attuazione del Titolo V deformato, si sono dedicate a deformare altre decine e decine di articoli della Costituzione, finendo però sconfitti nei referendum oppositivi del 2006 e del 2016, oggi, a 72 anni dall’approvazione della Costituzione e a quasi 20 dalla deforma del Titolo V, ci troviamo ancora a dovere difendere l’unità e indivisibilità della Repubblica dalla secessione regionalista promossa dalla Lega, ma anche dal PD, a favore di Regioni, che peraltro hanno dato pessima prova di sé nella pandemia da Covid 19.

Altri.

Un argomento del tutto assente nel Contratto M5S-Lega, ma molto presente, invece, nella propaganda politica dei sostenitori del SÌ alla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, è il confronto tra il numero dei parlamentari italiani e il numero dei parlamentari di altri Paesi, vicini e lontani, federali e unitari, dalla Francia, all’India, agli Stati Uniti d’America.

Questo modo di argomentare per una riduzione del numero dei parlamentari non è né nuovo né profondo. Convinto che il numero dei parlamentari previsti dalla Commissione dei 75 fossero troppi, il 16 settembre 1947, parlando alla Costituente, Francesco Saverio Nitti disse: “Accadrà dei legislatori come della nostra moneta, che più ne emettiamo e più diminuisce di valore; più aumenta il numero dei nostri legislatori e più essi diminuiranno di serietà e di prestigio! Sapete l’America quanti senatori ha per ogni Stato? Due. E quanti sono i Senatori? Sono 96. I Deputati invece sono 435, cioè assai meno di noi, della nostra Costituente. Dunque noi abbiamo meno di un terzo degli abitanti degli Stati Uniti e siamo qui dentro molto più numerosi dei rappresentanti degli Stati Uniti che sono soltanto 435.” Ma tre giorni dopo, il 19 settembre, Meuccio Ruini, presidente e portavoce della Commissione dei 75, che aveva preparato il Progetto, su cui allora l’Assemblea Costituente discuteva, disse: “L’onorevole Nitti ha sollevata una questione sul numero dei membri del Parlamento, secondo il progetto. Troppi, ha detto; in nessun altro paese sono tanti quanti voi proponete! Non è così; ho a disposizione dell’onorevole Nitti un quadro, dal quale risulta che se i parlamentari, i politicians, sono in minor numero negli Stati Uniti (e qualcuno se ne lagna, per il carattere «professionale ed oligarchico» che ne deriva), sono di più in Francia, in Inghilterra ed altrove. L’onorevole Nitti troverà resistenza nei piccoli partiti, come il suo, se vorrà ridurre il numero. Siamo ad ogni modo d’accordo: non troppi”.

Conosciamo la decisione presa in merito dalla Costituente, sappiamo come essa fu modificata nel 1963, aumentando il numero dei senatori, e come è stata cambiata nel 2019, riducendo i deputati a 400, lo stesso numero cui li aveva ridotti nel 1929 Mussolini, che dieci anni dopo, nel 1939, abolì le elezioni e la Camera dei deputati, dichiarando un anno dopo, il 10 giugno 1940, guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, precipitando così l’Italia nella seconda guerra mondiale, senza che nessuna autorità costituita avesse o trovasse la forza di opporsi a tale follia. In ogni caso, quando oggi si fanno questi confronti, bisogna distinguere almeno tra Stati federali, come USA e Germania, che oltre a un Parlamento federale hanno anche un Parlamento per ognuno degli Stati federati, e Stati unitari, come Francia e Italia, che hanno soltanto il Parlamento nazionale, costituito da un numero di membri necessariamente superiore a quello di un Parlamento federale. Così, per esempio, il Parlamento dell’Unione Europea è costituito da 705 deputati, benché i suoi abitanti siano quasi 450 milioni e gli Stati membri 27, ciascuno dei quali, però, ha almeno un Parlamento nazionale, oltre agli eventuali parlamenti degli Stati federati. Senza tenere conto se non altro di queste grandi differenze istituzionali, che sono il risultato delle storie diverse dei vari Paesi, ridurre il numero dei nostri parlamentari, perché quelli di qualche altro Paese sono di meno, sarebbe come accorciare i pantaloni dei watussi, perché i pigmei li hanno più corti.

Del resto: quanti e quali sono gli altri Paesi che, con tutti i problemi che abbiamo e che hanno, stanno spaccandosi per ridurre il numero dei loro parlamentari?

NO e poi NO La lettura attenta del punto 20 del loro Contratto dimostra che M5S e Lega mirano a cambiare, con “alcuni interventi limitati, puntuali, omogenei” sulla nostra Costituzione, sia la forma di governo, rovesciando il rapporto di priorità tra Governo e Parlamento, sia la forma di Stato, spostando potere dallo Stato alle Regioni, mutando così radicalmente i delicati equilibri di potere stabiliti dall’Assemblea Costituente, unica ad averne storicamente e giuridicamente il potere e il diritto, poiché il popolo italiano l’aveva eletta con questo specifico scopo.

Con la “drastica riduzione del numero dei parlamentari” il Parlamento perderebbe efficienza e rappresentatività, e i parlamentari sarebbero ancora più esposti ai ricatti del Governo, che si serve della questione di fiducia per ottenere l’approvazione delle leggi che pretende, e alle pressioni dei capipartito, che li espellono o li mettono in lista secondo l’obbedienza dimostrata alle loro direttive. Con l’autonomia regionale, invece, differenziata in base ai desiderata delle Regioni, recuperando tacitamente l’emendamento Caronia, che voleva esentarle dall’obbligo di rispettare le leggi dello Stato, ma che la Costituente bocciò seccamente il 3 luglio 1947, la Repubblica “una e indivisibile”, proclamata dall’art. 5 della Costituzione, finirebbe frantumata staterelli regionali, così che l’Italia prederebbe anche l’unità politica conquistata prima con il Risorgimento e le guerre d’indipendenza, e difesa poi con la Resistenza e la guerra di liberazione dal fascismo e dall’occupatore nazista

Per questi motivi, chi ama la Costituzione – “Quanto sangue, quanto dolore, per arrivare a questa Costituzione!” diceva, il 26 gennaio 1955, Piero Calamandrei agli studenti milanesi – dovrebbe respingere il progetto eversivo del Contratto M5S-Lega, prima votando NO alla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, pretesa dal M5S, e poi dicendo NO all’autonomia differenziata, pretesa dalla Lega, ma anche dal PD, che porterebbe a un’ulteriore e forse definitiva spaccatura tra il Nord più ricco del Paese e il Sud più povero, con una vera e propria “secessione dei ricchi”.

NO e poi NO a codesta deforma.

martedì 25 agosto 2020

LA SARDEGNA PAGA IL CONTO DEL TURISMO

 

Alla fine anche la Sardegna,nonostante mesi passati praticamente con pochissimi contagi anche grazie alla lontananza fisica col resto d'Italia e d'Europa,ha segnato il passo ed ora c'è un serio rischio pandemico visti i numeri lievitati da quando è stata oggetto di vacanze.

Era in preventivo tutto ciò visto che la regione non poteva chiudere i battenti vista l'importanza primaria del settore turistico che trascina l'economia isolana,ma è vero pure che una bella fetta percentuale stia uscendo fuori da una movida sfrenata e di lusso,quella delle località più esclusive e a detta degli addetti ai lavori immune da qualsiasi contagio(sono già più di sessanta i contagianti della discoteca del cinghiale Briatore,solo che lui è scappato per farsi curare,vedi anche il secondo contributo:left essere-flavio-briatore ).

L'articolo di Contropiano proposto in principio(covid-in-sardegna-e-arrivato-il-conto )parla di questo che è davvero un conto da pagare per troppe leggerezze di un presidente dapprima preoccupato(in primavera)e poi entusiasta a giugno con la partenza dell'alta stagione pronto ad accogliere frotte di turisti senza nessun controllo sanitario ed il risultato si è visto,anche con i contagi di ritorno che i vacanzieri hanno riportato indietro soprattutto nel Lazio.

Non voglio stigmatizzare chi ha potuto fare un viaggio in quest'isola splendida ma certi comportamenti adottati non sono stati di certo in linea con le normative preposte a limitare il diffondersi del contagio e chissà che in autunno la stessa gente non piangerà miseria e darà la colpa di un eventuale futuro aumento del cononavirus ai migranti.

Covid in Sardegna: è arrivato il conto.

di  Liberu - Lìberos Rispetados Uguales   

Non era difficile immaginare, da tempo c’erano le avvisaglie e con un po’ di buonsenso si sarebbe potuto prevedere tutto ciò. I nostri documenti che già ad aprile prevedevano il disastro e proponevano risposte, sono stati costantemente ignorati dalla politica regionale e censurati dai principali mezzi di informazione.

Ora da più parti si tenta la santificazione di Solinas che, secondo la vulgata, non sarebbe stato ascoltato quando chiedeva controlli sanitari per venire in Sardegna. Il che è sicuramente vero e gli fa onore.

Ma è anche vero, ridimensionando un po’ le cose, che Solinas ha tenuto duro fino a maggio, con la bassa stagione, chiedendo controlli sanitari severi ma senza proporre niente di concreto. 

Il primo giugno poi, con una clamorosa retromarcia, dichiarava: “Per venire in Sardegna dal 3 giugno è sufficiente fare una prenotazione, e noi invitiamo tutti i turisti a prenotare perché l’Isola intende accoglierli a braccia aperte“, piegandosi a decisioni romane che riducevano i controlli a una sostanziale buona volontà.

Dopodiché la situazione è andata progressivamente degenerando, con una miriade di arrivi senza alcun controllo sanitario, né alla partenza né all’arrivo.

Nel mese di luglio, assieme all’assessore al turismo, lo stesso Solinas che prima era paladino dei controlli sanitari rigidi, arrivò ad indignarsi per l’applicazione della legge che vietava l’arrivo di turisti dagli USA, lamentando che si trattava di un “viaggio di lavoro”. Il classico viaggio di lavoro estivo con appresso due bambini piccoli. 

Parlò di grave danno d’immagine per la Sardegna: non si riferiva al fatto che dal posto più contagioso del mondo fossero arrivati turisti, ma che non si volesse infrangere la legge in loro favore.

Nel corso della stagione, a tutti i livelli, è diminuito anche il numero di tamponi giornalieri, forse per evitare di spaventare i vacanzieri si è voluta cinicamente seguire la dottrina di Donald Trump: “Se non facessimo test avremmo pochissimi casi”.

In questo quadro, mentre migliaia di turisti vanno e vengono dai luoghi più contagiosi del mondo, nei giorni scorsi Solinas non ha trovato di meglio che segnalare il pericolo contagio… da parte dei migranti!

A questa vergognosa condotta da scaricabarile incallito, fa eco l’atteggiamento – a dir poco ignobile – dei media italiani che in questi giorni presentano la Sardegna come focolaio del virus. Giusto per ricordare che quando si inizia la caccia al nero, prima o poi anche tu sarai il nero per qualcuno.

A questo sarebbe giusto chiedersi se la proposta di Liberu, fatta già ad aprile, non fosse la migliore risposta. Una misura che puntava alla massima apertura delle attività, delle sagre, dei concerti e delle feste che tanto benessere portano alla Sardegna, da ottenere con una chiusura regolata e razionata all’entrata esterna. 

Proponevamo che si evitassero arrivi di massa disordinati, permettendo alcune migliaia di rientri quotidiani di Sardi e di turisti in maniera controllata, anche considerando che già in piena quarantena entravano in Sardegna oltre un migliaio di persone ogni giorno. Sarebbe stato un ingresso non massivo e sicuro, che avrebbe salvaguardato tutti. 

Il presidente Federalberghi Sardegna nei giorni scorsi ha dichiarato che il suo settore ha perso circa il 75%. Pur di accontentare gli albergatori però sono state cancellate feste e sagre, con gravissimo danno per centinaia di paesi, mentre ristoratori e baristi anche della zone interne sono stati messi in croce da misure di emergenza dovute all’apertura massima per un turismo minimo.

Adesso in Italia agitano l’immaginario dell’infetto che viene dalla Sardegna, mentre da noi andranno in fumo anche prossime iniziative importanti come Cortes Apertas e le tante feste autunnali, con milioni di euro di danno per quelle famose zone interne che non si dovrebbero spopolare.

Una situazione disastrosa che rende ancor più urgente la necessità di nuova classe politica, capace di difendere gli interessi generali del popolo sardo davanti alle lobby e al potere romano.

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Essere Flavio Briatore.

di Giulio Cavalli 
Io vorrei essere per qualche ora, qualche ora soltanto, nella testa di Flavio Briatore, del manager dei manager che quest’estate ci siamo dovuti sciroppare un po’ dappertutto perché la stampa qui da noi funziona così: chiami un volto noto, qualcuno che funziona, gli chiedi di spararla grossa o forse non glielo chiedi nemmeno perché gli autori del programma sanno già per certo che la sparerà grossa, e lo intervisti su tutto, lo intervisti sul virus, lo intervisti sull’economia, lo intervisti sulla politica, lo intervisti sulla società e tutto il resto.

La testa di Flavio Briatore deve essere uno spazioso loft non ancora arredato in cui si misura il resto del mondo secondo canoni tutti suoi: un piatto è buono solo se lo mangiano i calciatori, una discoteca è bella se viene frequentata da personaggi pubblici, un lido è interessante solo se è estremamente costoso e una donna è interessante solo se può essere sua. Misurare il mondo attraverso i soldi e osservare la realtà come se fosse solo un’escrescenza del proprio ego deve avere qualcosa di mistico, deve essere la stessa sensazione di un nirvana solo che questo tende verso il basso.

Così Flavio Briatore quest’estate è diventato esperto di Covid e ci ha insegnato come gestire un’emergenza. Ne è uscito alla grande. Prima se l’è presa con il sindaco di Arzachena accusato di essersi occupato della chiusura dei locali che favorivano assembramenti e contagio (“Abbiamo trovato un altro grillino contro il turismo!”, ha detto) e poi si è lanciato in una considerazione elegantissima: “A me spiace per i nostri clienti, la costa Smeralda si stava riprendendo, abbiamo portato giù i calciatori, non capisco è una vendetta? Questa è gente che non ha mai fatto un cazzo nella vita, Arzachena nessuno sa dove cazzo sia, la conoscono lui e due pecore!”. Ha portato giù i calciatori. Capito, che figo, Briatore.

Il sindaco Roberto Ragnedda, al contrario di quelli che strisciano servili ai piedi dei tanti briatori che abbiamo in giro, gli ha risposto per le rime: “questa ordinanza serve a tutelare soprattutto gli anziani come lui”. Chissà come si è sentito male Briatore, lui che la gioventù se l’è comprata via internet ma non capisce perché non gliel’abbiano ancora consegnata.

E per chiudere in bellezza la sua estate si finisce con sei suoi dipendenti positivi al Covid e qualche centinaio messi in isolamento. Chissà come sono contenti quelli di avere preso il virus in versione deluxe. E cosa ha fatto Briatore? Se n’è tornato mesto mesto nella sua Montecarlo, perché il grande vate dell’economia italiana ovviamente paga le tasse in giro per l’Europa. Qui da noi “porta giù i calciatori” e noi dovremmo volergli bene per questo.

Bene, bravo, bis.

Buon lunedì.

venerdì 21 agosto 2020

POPULISTI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI

Lo stratega che tanto ha fatto per permettere a Trump di prendere possesso degli Usa e di una buona fetta del resto del Mondo,Steve Bannon,da ieri è finito in manette per frode ed appropriazione indebita riguardo le cospicue donazioni ricevute per la costruzione del muro tra gli Stati Uniti ed il Messico(madn il-muro-di-trump ).

Non è il primo nome importante che esce fuori dalla cerchia di Trump che viene arrestato,quasi tutti ormai licenziati visto l'esuberanza vulcanica del presidente che tanto si confonde con i sintomi di una malattia mentale,così come quest'altro articolo fa notare(wired trump-consiglieri-campagna-2016-reati ).

Invece in quello proposto da Contropiano(arrestato-steve-bannon-grosso-guaio-per-il-mondo-di-trump-e-di-salvini-meloni )si da ampio spazio ai consigli ed alle relazioni avvenute in Italia con Salvini e la Meloni,accomunati da una politica di estrema destra e da un populismo che scatena ovazioni in due terre dove l'ignoranza regna sovrana anche se siamo divisi da un'oceano.

Molto rilievo pure all'acquisto della Certosa di Trisulti in provincia di Frosinone acquistata da una congrega che fa riferimento a Bannon nonostante faccia parte del patrimonio monumentale italiano,in uno scenario che è tutt'ora sotto indagine.

Arrestato Steve Bannon. Grosso guaio per il mondo di Trump (e di Salvini/Meloni).

di  Federico Rucco

Steve Bannon, lo stratega e consigliere della campagna elettorale di Donald Trump, e’ stato arrestato con l’accusa di frode e appropriazione indebita. Ad annunciarlo è stata la procura di New York che ne ha ordinato l’arresto.

Secondo la procura di New York, Bannon insieme ad altre tre persone ha “orchestrato uno schema per defraudare centinaia di migliaia di dollari di donazioni” raccolti dalla campagna di raccolta fondi online ‘We Build The Wall’. La campagna ha totalizzato oltre 25 milioni di dollari per costruire un muro lungo la frontiera meridionale degli Stati Uniti.

I quattro sono stati arrestati con l’accusa di cospirazione per frode informatica e cospirazione per riciclaggio di denaro. Sono accuse, che comportano ciascuna una pena massima di 20 anni.

“We Build the Wall” è stata lanciata come campagna GoFundMe alla fine del 2018, con l’obiettivo di raccogliere direttamente dal pubblico il denaro necessario per costruire un muro anti migranti alla frontiera del Messico, malgrado l’opposizione del Congresso a quella che era una delle maggiori promesse elettorali del presidente americano Donald Trump.

Bannon avrebbe intascato più di un milione di dollari tramite una organizzazione no profit da lui controllata. I quattro avrebbero trasferito il denaro raccolto verso l’organizzazione no profit e poi verso un società fantasma, grazie a fatture false.

Steve Bannon ha avuto modo di farsi conoscere anche in Italia, dove negli anni scorsi ha tenuto un serie di conferenze ed incontri con esponenti della destra politica e religiosa.

A marzo del 2018 si incontrò in modo molto “riservato” con Salvini a Milano, mentre nel settembre 2018 è intervenuto ad un dibattito con Giorgia Meloni al festival annuale Atreju, organizzato da Fratelli d’Italia.

Secondo più di qualche osservatore, dietro la costruzione de “La Bestia” salviniana sui social network ci sarebbe proprio la consulenza di Steve Bannon.

Più nota è la controversia sulla splendida Certosa di Trisulti (in Ciociaria) acquistata da una fondazione legata alla rete di Bannon ed il cui acquisto era stato contestato, tardivamente, dal Ministero dei Beni Culturali. La rete di Bannon voleva farne un centro studi per il suo universo nero. Ed a maggio aveva anche vinto la prima partita legale con il Mibac.

La Dignitatis Humanae Institute (Dhi), ossia l’associazione religiosa di destra finanziata da Steve Bannon, ha infatti vinto la prima battaglia legale per rimanere nella Certosa di Trisulti.

In una sentenza pubblicata il 26 maggio, il Tar del Lazio ha rigettato il tentativo del Ministero per i Beni culturali di revocare il contratto di locazione di 19 anni dell’abbazia costruita dai monaci certosini nel XIII secolo e concessa oltre due anni fa alla Dhi.

 I giudici hanno concluso che il Ministero non aveva agito entro il termine previsto per l’annullamento degli appalti pubblici. Il verdetto è una sconfitta grave per il Mibact che sosteneva che la clausola del limite di tempo non avrebbe dovuto essere applicata in quanto il Dhi aveva fatto dichiarazioni «false e mendaci» nella sua domanda di locazione, accusa per la quale, secondo i giudici amministrativi, il Ministero non è riuscito a fornire prove e che dovrà essere dimostrata in un Tribunale penale prima che il contratto di locazione possa essere revocato.

Le mani allungate dalla rete di Steve Bannon sulla Certosa di Trisulti e sul progetto di costruzione di una destra in Italia simile a quella statunitense, sono state oggetto di una puntata di Report che ha provocato più di qualche mal di pancia, tanto che la Digos si recò nella redazione di Report per acquisire il materiale usato dai redattori per la loro inchiesta.

giovedì 20 agosto 2020

CINQUE STELLE:DA MOVIMENTO A PARTITO,DAL POTERE ALLA FINE

Dopo aver superato di poco il decennio di esistenza ecco che il Movimento 5 stelle è prossimo alla scomparsa,ed il colpo di grazia è stato decretato dagli stessi,pochi(nemmeno 50 mila)votanti al referendum interno sui quesiti del mandato zero e sulle alleanze(vedi l'articolo:www.adnkronos.com/fatti ).

Famosi a parole per essere il nuovo della politica,gli amministratori grillini facevano un vanto del loro disaffezionamento alla poltrona giurando sull'unicità dei loro mandati,poi aumentati a due ed ora in numero illimitato,forse perché non sono riusciti ad avere ricambi degni di nota oppure per il torpore che mano a mano ne ha contraddistinto il percorso politico.

Il potere ha dato alla testa alla maggior parte dei politici pentastellati,ed anche la possibilità di alleanze-inciuci con altre rappresentanze è un modo di ritornare all'antico e,ricordo in poco più di dieci anni,di rapportarsi e di conformarsi alla politica.

Con le regionali alle porte dove si prevede una tremenda mazzata sia essi concorrano da soli che con il Pd o altre realtà,possono confidare vista l'ignoranza più totale degli italiani,a strappare la vittoria di Pirro col risultato referendario sul taglio dei parlamentari(e della democrazia)da sempre cavallo di battaglia dei grillini...proprio come il mandato unico,l'assoluta indipendenza politica,i No Tav etc.

M5S, sì a modifica mandato zero e alle alleanze.

Pubblicato il: 14/08/2020

Sì alla modifica del cosiddetto 'mandato zero' e alle alleanze con i "partiti tradizionali" sul territorio. La base 5 Stelle ha deciso: alle 12 si è conclusa la votazione su Rousseau, con il via libera ai due quesiti proposti dal capo politico Vito Crimi. Sono 39.235 i voti favorevoli al quesito sul mandato zero (80,1%), mentre i sì alle alleanze sono stati 29.196 (59,9%).

Di Maio: "Inizia una nuova era"

Zingaretti: "Voto 5S su alleanze positivo, ma non sosterremo mai Raggi"

"Hanno partecipato alle due votazioni un totale di 48.975 aventi diritto che hanno espresso complessivamente 97.685 preferenze", si legge in un post sul Blog delle Stelle. Grazie all'esito di questa votazione, il sindaco di Roma Virginia Raggi potrà candidarsi alle elezioni del prossimo anno per un nuovo mandato.

"Sono contento della grande partecipazione degli iscritti a questo voto. Da oggi i parlamentari e consiglieri regionali potranno riportare la loro esperienza nei comuni, e viceversa i consiglieri comunali e gli attivisti potranno essere attori di quel ricambio necessario per non far diventare la politica una professione". Così su Facebook Davide Casaleggio, presidente di Rousseau, commenta l'esito della votazione.

Crimi: "E' nuova esperienza di democrazia diretta"

Raggi: "Avanti a testa alta, compito complesso ma uniti vinceremo"

"Il MoVimento in questi anni - ha continuato Casaleggio - ha sempre dimostrato che le decisioni si prendono tutti assieme. Il vero organo collegiale decisionale del movimento sono sempre stati gli iscritti ed è sempre stata la grande differenza dalle altre forze politiche".

"Ho sempre pensato - aggiunge - che i processi partecipativi debbano coinvolgere tutti con percorsi di informazione e di approfondimento come quelli che abbiamo attivato in passato per la legge elettorale e per indicare il nome del Presidente della Repubblica. In questa direzione ci impegneremo nei prossimi mesi e ne discuteremo il 4 ottobre".

"Voglio anche ringraziare tutto il team Rousseau che, in questi giorni di vacanza per molti, ha garantito il voto e sta dando assistenza senza sosta alle migliaia di candidati che stanno preparando i documenti per il deposito delle liste regionali e comunali", conclude il figlio del cofondatore del M5S.

mercoledì 19 agosto 2020

LA GUERRA DELL'ACQUA IN ROJAVA

Una delle tattiche di guerra per annientare la resistenza di una città o di un'intera regione,soprattutto in terre dove già esiste una secolare carenza,è quella di togliere l'acqua alla popolazione,così come toglierne i viveri,lo si è fatto da sempre ed è un modo crudele e lungo per mettere in ginocchio una delle parti del conflitto.

Da decenni Israele utilizza anche questa tattica nei territori palestinesi ed oggi spostati un poco più a nord è quello che sta attuando l'esercito turco nel Rojava presso la città di Heseke posta al confine nord orientale,dove già una siccità stagionale eccezionale si è aggiunta ai problemi della pandemia di coronavirus.

Da settimane i turchi che controllano le dighe poste sull'Eufrate e sul Tigri fanno sì che l'acqua arrivi a singhiozzo nel territorio,costringendo la popolazione a rifornirsi di acqua con cisterne con sempre maggiore fatica,lasciando le terre coltivate prive di sostentamento e quindi con raccolti insufficienti per sfamare.

L'articolo(comune-info.net )racchiude un appello alla comunità internazionale per fare cessare questa ignobile tattica di guerra che sta cominciando ad avere effetti devastanti soprattutto verso la popolazione più debole ed indifesa nel silenzio più totale.

La Turchia toglie l’acqua nel Rojava.

Gulistan 17 Agosto 2020

La sete è un’arma micidiale. Se poi si unisce alla mancanza di elettricità, gas, alla difficoltà di accesso al cibo e al rischio derivante dalla pandemia, la resistenza diventa quasi impossibile. Per questo la campagna “Make Rojava Green Again” ha lanciato, attraverso la lettera aperta di una donna di Heseke, un appello urgentissimo rivolto alla solidarietà di chiunque abbia a cuore il destino di un milione di persone delle città e delle regioni di Heseke e Tel Tamir cui l’aggressione del regime turco da dieci giorni ha interrotto la fornitura di acqua potabile. Le forze mercenarie assoldate dalle forze turche per l’aggressione al Rojava controllano ora la stazione idrica di Allouk (Elok), la sola che distribuisce acqua potabile nella regione, e questo, purtroppo, non è il solo caso in cui la mancanza di acqua viene utilizzata come arma per indebolire la resistenza in un periodo in cui le temperature sono proibitive: le dighe turche sull’Eufrate colpiscono l’agricoltura di quella regione della Siria nord orientale in modo durissimo da diversi mesi. L’acqua non è mai stata così bassa

A tutte le organizzazioni e agenzie internazionali pertinenti,

A tutto il mondo

A tutti coloro che hanno a cuore l’umanità,

Heseke in questo momento sta affrontando una situazione terribile a causa del taglio dell’acqua per più di dieci giorni, da parte della Turchia e dei suoi delegati, che controllano Serekaniye (Ras-al-Ain) e tutta la campagna vicina, dove si trova la centrale idrica di Alouk.

Questa centrale è l’unica fonte di acqua potabile per l’intera regione di Tel Tamer e Heseke.

Inoltre, Heseke soffre della carenza di elettricità, gas, pane e dei prezzi elevati dei costi di gestione giornalieri.

Questo cattivo clima con altissime temperature da un lato, e la pandemia di Corona nell’altro, mette la vita a più di un milione di persone in pericolo e a rischio. In queste difficili circostanze dobbiamo diffondere un appello di emergenza a tutto il mondo per interferire e contribuire a salvare la vita dei civili e considerare Heseke come una città veramente allo stremo.

L’uso dell’acqua come arma da parte della Turchia.

Negli ultimi mesi, la Turchia ha intensificato la pressione sulla Siria nord-orientale utilizzando l’acqua come arma. Si tratta di un grave attacco che sta già causando una grave crisi ambientale e umana e colpisce la Mesopotamia nel suo complesso!

Se continuasse così, ci sono buone probabilità che l’intera Mesopotamia, ricca dei suoi mille anni di storia, si trasformi in un deserto …

Esempi di attacchi turchi sono:

Tagliare il flusso d’acqua dal fiume Eufrate.

Con le loro dighe, si stima che la Turchia abbia il potenziale per tagliare completamente l’acqua del fiume per 3 anni. Già ora, poiché l’acqua è stata drasticamente ridotta per alcune settimane, ha un effetto drammatico sull’agricoltura nella Siria nord-orientale e sulla natura. L’acqua dell’Eufrate non è mai stata così bassa nella storia umana!

Taglio della stazione centrale idrica di Allouk.

La stazione idrica Allouk che fornisce acqua all’intera regione di Heseke / Tel Tamir si trova nella regione invasa di Serekaniye e l’acqua viene regolarmente interrotta per giorni e settimane.

Ora è la decima volta che i mercenari turchi tagliano l’acqua, lasciando più di un milione di persone senza acqua già da più di 10 giorni. L’unico modo per dare acqua alla gente è portare migliaia di cisterne d’acqua in tutti i quartieri di Heseke.

Poiché anche i mercenari turchi non lasciano mai abbastanza pressione per farla uscire dalla centrale, non consentono ai depositi d’acqua di Heseke di riempire tutto il quartiere, il che significa che alcuni di loro sono stati privati dall’acqua per mesi!

Ridurre l’acqua del fiume Tigri.

Lo stato turco riduce anche il livello del fiume Tigri, un’altra grande fonte d’acqua per l’agricoltura del Rojava. Il fiume è il confine tra Siria e Turchia e la Turchia impedisce anche alla gente del posto di usare l’acqua o di installare canali o pompe sparandogli addosso dal confine.

Mentre il lato turco (o dovremmo dire il Kurdistan settentrionale sotto occupazione) del fiume è di un verde lussureggiante, il lato siriano è giallo-marrone …

Inquinare i fiumi.

La Turchia toglie l’acqua nel Rojava. I mercenari turchi inquinano anche i corsi d’acqua nelle aree invase di Serekaniye e Gire Spî, rendendo l’acqua imbevibile per le regioni a valle .

martedì 18 agosto 2020

MORTO ROMITI IL NEMICO DELL'OPERAIO

Uno dei più grandi nemici dei lavoratori italiani è morto dopo una lunga vita fatta di arroganza e di cattiveria nei confronti degli ultimi,degli operai e dei sindacati,è stato colui che ha cominciato l'era del regresso e della perdita di tutti i diritti sindacali ottenuti con sacrifici e con dei martiri nel corso di decenni.

L'articolo di Contropiano(e-morto-romiti-un-uomo-nero-del-capitalismo-italiano )ne traccia giustamente un profilo negativo definendolo uomo nero del capitalismo italiano,un mangiateste anche verso chi era al suo stesso livello dirigenziale,insomma un poco di buono che ha fatto della spietatezza un'arma vincente.

Una figura che con i suoi licenziamenti ha messo in ginocchio migliaia di operai con le loro famiglie in nome del capitalismo e della produzione,un nemico del popolo,che ha calpestato i diritti dei lavoratori rimanendo sempre ai posti di comando.

Si delinea un riassunto della sua carriera professionale,della Fiat,dell'amicizia interessata con Agnelli e Cuccia,non proprio due santerelli proprio come lui,in un giorno dove nessun lavoratore piangerà una lacrima per lui anzi si stapperanno qualche bottiglie.

E’ morto Romiti, un “uomo nero” del capitalismo italiano.

di  Sergio Cararo   

E’ deceduto a 97 anni Cesare Romiti. Ai più giovani è un nome che non dice nulla. Per un’altra generazione è l’uomo che guidò gli interessi della Fiat nel decisivo scontro di classe nel 1980 contro gli operai della principale fabbrica italiana e, conseguentemente, contro tutto il movimento operaio nel nostro paese.

Romiti è stato il volto dell’arroganza padronale e della determinazione nel mettere in ginocchio la classe operaia alla fine di un ciclo di emancipazione storica dei lavoratori e dell’intera società. Una emancipazione che mal si adattava agli interessi materiali ed ideologici del capitalismo in Italia.

Come molte altre, la sua è una storia che nasce dal basso ma che sin da subito si integra perfettamente con i poteri forti fino a diventarne un uomo di fiducia e di punta per tutto il lavoro sporco.

Nel 1947, a 24 anni viene assunto al Gruppo Bombrini Parodi Delfino di Colleferro in provincia di Roma. Si tratta di una grande fabbrica di produzioni militari sotto il controllo della Difesa e dei servizi segreti italiani e statunitensi. Ne diventa il direttore finanziario. Per dare un’idea della valenza dell’impianto in cui il giovane Romiti fa la gavetta, insieme a lui lavora anche Mario Schimberni, quello che sarà il futuro presidente della Montedison.

Dopo la fusione con la Snia Viscosa, nel 1968, Romiti diventa direttore generale e qui inizia a costruire un rapporto di fiducia personale con Enrico Cuccia, ossia il principe nero di Mediobanca (il salotto dominante della finanza in Italia). Lo stretto rapporto con Cuccia gli farà da battistrada nel diventare il principale manager privato in Italia.

Dopo alcuni anni come amministratore delegato all’Alitalia, nel 1974 su richiesta di Gianni Agnelli Cuccia lo segnala come direttore centrale di finanza, amministrazione e controllo del gruppo Fiat e nel 1976 ne diventa l’amministratore delegato.

La dolorosa ristrutturazione della Fiat nasce proprio in quel salotto privato di Mediobanca in cui Romiti è di casa. E sarà Romiti a pianificare lo scontro frontale per piegare gli operai della Fiat. Prima con i 61 licenziamenti politici nel 1979 e poi con i licenziamenti di massa nel 1980.

Il 5 settembre 1980 la Fiat mette in cassintegrazione per 18 mesi 24mila dipendenti (quasi tutti operai). L’11 settembre – dopo una settimana di trattative con i sindacati– la Fiat annuncia 14.469 licenziamenti. Romiti, definisce i licenziamenti essenziali per non fare fallire l’azienda. Sono giorni e giorni di picchetti ai cancelli della fabbrica che viene addirittura occupata. L’allora segretario del Pci Berlinguer terrà un comizio ai cancelli della Fiat annunciando (in minoranza nella segreteria del Pci) il suo sostegno alla lotta.

Romiti, sostenuto dall’intero sistema politico/mediatico (La Repubblica inclusa per intendersi, con De Benedetti avrà un rapporto di odio/amore per anni ndr), accentua lo scontro e organizza la Marcia dei Quarantamila (impiegati e funzionari della Fiat ma anche commercianti ed esponenti dell’anticomunismo diffuso) in funzione antioperaia. 

I sindacati Cgil Cisl Uil invece di rispondere chiamando alla mobilitazione il movimento operaio, calano le braghe e accettano il piano Fiat sulla cassa integrazione a zero ore che diventeranno poi licenziamenti veri e propri. Nelle assemblee operaie negli stabilimenti Fiat i sindacalisti verranno presi a ombrellate, contestati e rincorsi dagli operai che si sentono traditi. Con la sconfitta del 1980 alla Fiat inizierà il ciclo regressivo delle conquiste sociali e sindacali nel nostro paese.

Con la sconfitta degli operai alla Fiat e il rapporto fiduciario con il banchiere dei banchieri Enrico Cuccia, Romiti condizionerà anche la stessa famiglia Agnelli e diventa il manager più potente d’Italia fino a metà degli anni ’90. Dimessosi dalla Fiat (con una buona uscita di 105 miliardi più 99 per il patto di non concorrenza, ndr), passerà alla Gemina, la finanziaria che controllava il gruppo editoriale Rcs (Corriere della Sera).

Insomma Romiti è stato un vero e proprio “Uomo nero” del capitalismo italiano, spietato e potentissimo, sia contro gli operai che verso i competitori nel suo mondo. Il fatto che nel 2009 sostenne l’appello all’unità per far eleggere Napolitano a Presidente della Repubblica (in contrasto con Berlusconi) gli ha assicurato la pubblica benevolenza da salvatore della patria del tutto immeritata. La dipartita di Romiti non merita neanche una lacrima.

lunedì 17 agosto 2020

BORBONI LADRONI

Sono due settimane che l'ufficialità della notizia dell'esilio volontario dell'ex re spagnolo Juan Carlos Primo di Borbone per motivi prettamente giudiziari in quanto sotto la lente d'ingrandimento della magistratura(anche svizzera)per via di svariati reati legati al fisco e alla propria ricchezza personale di dubbia provenienza.

Conservatore e fascista,ha legato indissolubilmente il proprio nome e quello della Spagna al franchismo e a tutto ciò che la dittatura di destra portò nel paese iberico dagli anni trenta fino agli anni settanta,con pesanti strascichi che si notano tutt'ora.

Il figlio,che prosegue nella politica reazionaria del padre anche se la monarchia è più che altro una sorta di spaventapasseri nel paese,comunque detiene molto potere sia sociale che soprattutto economico,e le ricchezze incalcolabili detenute dalla corona spagnola come evidenziato nell'articolo di Contropiano(spagna-operazione-salvare-la-corona )vengono cullati dall'attuale governo Psoe-Podemos con questi ultimi sempre più simili ai nostri grillini per incoerenza ed incompetenza politica.

Già dall'abdicazione verso Felipe(re-juan-carlos-di-spagna-abdica )si capiva che il livello di corruzione aumentati sempre più con scandali ormai quasi mensili,avevano consigliato all'ex reggente di passare in secondo piano,e gli ulteriori sviluppi di quelle indecenze lo hanno costretto ad un ulteriore spostamento nell'ombra,ora è ad Abu Dhabi.

L'articolo si conclude con un riferimento al"terrorismo musicale"che fece arrestare qualche tempo addietro alcuni artisti spagnoli per avere aperto gli occhi e parlato di tutte le nefandezze compiute dai reali del loro paese(madn lodio-giustificato-nella-musica(e perseguito) ).

Spagna. Operazione “salvare la corona”.

di  Andrea Quaranta  

I fatti erano noti da mesi e facevano presagire una mossa della famiglia reale volta a mettere la corona al riparo dall’ultimo scandalo che minacciava non solo di travolgere il re emerito Juan Carlos (indagato in Svizzera e in Spagna per riciclaggio di denaro sporco, evasione fiscale e corruzione) ma anche di far traballare il trono del figlio Filippo. 

La trama era stata scoperta da alcune inchieste giornalistiche inglesi e svizzere, che ne avevano rivelato i dettagli, mentre Filippo VI cercava di prendere le distanze dal padre e annacquare la vicenda. 

Ma è difficile mettere la sordina ai cento milioni di dollari che nel 2008 sarebbero transitati dalla monarchia saudita al conto svizzero dell’ex sovrano e approdati alla fondazione Lucum, una entità finanziaria con sede a Panama e ora chiusa, il cui beneficiario risultava essere, dopo Juan Carlos, l’attuale re Filippo VI, secondo quanto rivelato dal quotidiano inglese The Telegraph. 

La somma sarebbe stata una commissione in nero legata all’aggiudicamento dei lavori dell’alta velocità da Medina a La Mecca a un consorzio di imprese spagnole.

La necessità di arginare la prevedibile indignazione dell’opinione pubblica (la cui fiducia nella monarchia è scesa in Catalunya a livelli minimi, dietro la chiesa e le banche) è così all’origine della pezza cucita dal governo e da Filippo VI alla istituzione più rappresentativa del regime del ’78: la fuga del re emerito non è un gesto impulsivo e disperato, ma un’operazione dei più alti poteri dello stato, preparata con cura per salvare una corona sempre più sommersa dalla corruzione. 


Come in un gioco di prestigio, il governo PSOE-Podemos ne ha organizzato la sparizione esibendosi in una imbarazzante commedia delle parti. In un primo momento il segretario del PSOE, rispondendo alla domanda se era a conoscenza della mossa del re emerito, ha dichiarato che “i nostri uffici sono discreti. Tra la mia persona e la casa reale c’è una riservatezza che intendo preservare“, lasciando intendere di sapere più di quanto era disposto a raccontare. 

La reazione sdegnata non solo dei partiti indipendentisti di tutto lo Stato (ERC, CUP, BNG, EH Bildu…), ma anche dei soci di governo, ha costretto i socialisti a correggere il tiro, affermando tardivamente di non aver accordato con la casa reale la fuga dell’anziano ex governante. Ma tutto ciò che ha a che fare con la sicurezza del re emerito  viene gestito direttamente dal ministero dell’interno, attualmente occupato dal socialista Fernando Grande-Marlaska. 

Per quanto riguarda il ruolo svolto da Podemos nella vicenda, nonostante il partito vanti la vicepresidenza del governo (occupata da Pablo Iglesias) e sia dunque presumibilmente al corrente delle scelte del governo di coalizione, sembra aver potuto fare ben poco per evitare la fuga dell’anziano Borbone, mostrando una volta di più lo scarso peso specifico di cui gode nel governo. 

A questo proposito è interessante l’opinione di uno storico militante dell’esquerra independentista, lo scrittore Julià de Jòdar, secondo il quale “Podemos è vittima di un miraggio: fare la politica del PCE di Carrillo durante la transizione. Lottare per ottenere un posto nell’establishment che l’establishment non ti concederà mai, perché se lo stato spagnolo ha una caratteristica distintiva (sia durante il franchismo che nella transizione) è l’anticomunismo. Chiunque si dica comunista non sarà mai accettato, né dalle élites economiche né dall’oligarchia politica“. 

E nonostante abbia cercato disperatamente di smarcarsi dalla posizione di Sánchez, la formazione della sinistra spagnola è stata aspramente criticata dall’esquerra independentista. 

Secondo Vidal Aragonés, deputato della CUP alla camera catalana, il repubblicanesimo di Podemos, privo di misure tattiche e strategiche per raggiungere l’obbiettivo, si riduce alla occasionale difesa di un simbolo, la repubblica spagnola, dietro il quale si nasconde la difesa dell’unità di Spagna. Perciò Aragonés ha ribadito la scommessa per la repubblica catalana, una rottura in grado di riaprire un processo di democratizzazione in tutto lo Stato. 

La persistente corruzione e l’impunità della corona non sono che ulteriori elementi rivelatori del fallimento della transizione e mostrano tutti i limiti delle istituzioni liberaldemocratiche in Spagna (dove le famiglie arricchitesi col franchismo continuano a rappresentare l’élite economica del paese). Riproponendo la favola della transizione modello, Pedro Sánchez ha difeso la monarchia e la fuga di Juan Carlos affermando di considerare “pienamente vigente il patto costituzionale“. 

Peccato che questo patto non abbia mai incluso una votazione popolare sull’istituzione monarchica, la cui legittimità risiede ancora nel regime franchista. Juan Carlos infatti accetta il titolo offertogli da Franco nel 1969 giurando con la seguente formula: “ricevo da Sua Eccellenza il Capo dello Stato e Generalissimo Franco la legittimità politica sorta il 18 luglio del 1936, in mezzo a tanto patimento, triste ma necessario perché la nostra patria recuperi nuovamente il suo destino“. 

Difficile essere più chiari. Una fedeltà al fascismo spagnolo che i partiti democratici ingoiano all’epoca come un rospo, ribadita solennemente da Juan Carlos dopo la morte del Generalissimo, quando il Borbone sale al trono e giura “nel ricordo emozionato di Franco” di “difendere i principi fondamentali del movimiento nacional”.

«Repubblica sí, sempre, però catalana, come unica garanzia di un nuovo patto istituzionale che non si porti dietro né i fantasmi della dittatura né le oligarchie inamovibili“, ha affermato la deputata della CUP a Madrid Mireia Vehí. 

E gli anticapitalisti e indipendentisti catalani hanno rilanciato la loro proposta radicale per le prossime settimane proponendo una serie di misure per cambiare le condizioni delle classi popolari: esproprio di tutte le risorse sanitarie private e servizi pubblici al 100%, fine delle esternalizzazioni, abolizione della riforma del lavoro e riduzione dell’orario, nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia, esproprio delle proprietà immobiliari degli istituti finanziari e alloggio degno per tutti, istituzione di una banca pubblica, esercizio del diritto all’autodeterminazione dei Països Catalans e uscita dall’Unione Europea. 

Per la CUP, infatti, il recente accordo di Bruxelles è in perfetta continuità con le ricette liberiste seguite da decenni dai governi europei che, secondo gli anticapitalisti e indipendentisti catalani, semplicemente “vogliono sostituire gli uomini in nero della Troika con quelli grigi dei paesi frugali“. 

Perciò la CUP ritiene più che mai necessario difendere la sovranità dei popoli davanti alla UE, al capitale finanziario (rappresentato dall’Íbex35, il principale indice di borsa spagnolo) e allo stato.  Istituzioni davanti alle quali per la formazione dell’esquerra independentista “non c’è altra soluzione che l’autodeterminazione“.

***

Il video del giuramento di Juan Carlos si trova all’indirizzo https://youtu.be/sX-ZW-AgybI

Nel 2018,, un collettivo di musicisti formatosi per l’occasione compose l’evocativo singolo Los Borbones son unos ladrones, in solidarietà con i rapper Pablo Hasél e Valtònyc, accusati di istigazione al terrorismo e ingiuria alla corona: il video, girato nella prigione franchista recentemente dimessa della Model di Barcellona, si può vedere qui sotto.

venerdì 14 agosto 2020

IL BONUS E LA LOGICA DELLA FLAT TAX

Tornando sul discorso dei bonus accaparrati da numerosi politici e anche da professionisti con guadagni anche superiori ai 100 mila Euro l'anno(madn lo-scandalo-dei-bonus-nel-periodo referendario )ecco un articolo breve da Contropiano(ora-e-chiaro-perche-la-flat-tax-fa-schifo )che spiega semplicemente che la richiesta fatta dai parlamentari e da centinaia di amministratori pubblica ai fini di legge è coerente.

Moralmente invece si sa che è uno schifo ed una vergogna,ma i 600 Euro li hanno potuti richiedere chi non becca un quattrino o chi ne prende 15 mila al mese,una regola sbagliata e figlia della logica della flat tax,con molti politici della Lega che ne hanno beneficiato e con scuse varie cercano di far finta di nulla,l'ennesima ruberia di questi politici razzisti e ladri(madn nuova-lega-vecchia-mafia ).

Ora è chiaro perché la “flat tax” fa schifo?

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)   

Lo scandalo per i parlamentari che con 13000 euro al mese hanno comunque chiesto e preso i 600 di aiuto concessi per le partite IVA, porta ad un doppio insegnamento.

Il primo, più scontato, è il giudizio su una classe politica che si dimostra sempre peggio, anche perché questi signori qualcuno li avrà pure scelti, e non si venga a dire gli elettori, perché le liste sono bloccate. Se poi ai parlamentari aggiungiamo i tanti consiglieri e assessori regionali, anch’essi più che lautamente retribuiti, che avrebbero ottenuto l’aiuto pubblico, la fotografia di una classe politica indecente diventa un maxi poster.

Tuttavia la lezione più importante è probabilmente un’altra. Questi deputati avevano pieno diritto ad ottenere quei soldi pubblici perché essi non erano condizionati ad alcuna soglia di reddito. Tanto è vero che sono andati anche a professionisti che li guadagnano con una sola piccola parcella.

Questo non è un errore, ma una scelta politica nella logica della Flat Tax, cioè di quel sistema di tassazione – inventato da Reagan e oggi rivendicato da Salvini e dalle destre liberiste di tutto il mondo – che dispone una aliquota unica, indipendentemente dalla ricchezza di chi deve pagare. Un sistema che regala tanti più soldi a chi più ne ha.

Evidentemente anche il governo PD M5S è entrato in quella logica ed infatti continuamente sentiamo esponenti di quei partiti promettere la riduzione delle tasse per tutti, quando invece esse dovrebbero essere ridotte ai poveri e aumentate ai ricchi.

Insomma è il comune sentire liberista di tutto il palazzo della politica che ha fatto sì che i 600 euro andassero sia a chi 13000 euro li guadagna in un mese, sia a chi non riesce a prenderli in un anno.

È chiaro ora perché la FLAT TAX fa schifo?

giovedì 13 agosto 2020

LA SITUAZIONE(CHE VOGLIONO FARCI CREDERE)IN BIELORUSSIA

 

La Bielorussia non è un paese amico e comodo a certo giornalismo e a certi"democratici occidentali"e la nomea di essere una dittatura ormai è una prassi in ogni dove del mondo in cui il comunismo ed il socialismo ha ancora qualche presenza,vedi Venezuela,Cuba,Corea del Nord,ma anche la Cina spesso è un regime.

D'accordo,il Presidente Lukaschenko sono anni che continua ad essere il leader-padre della nazione,anche troppi,una sorta di Putin che non ha giocato con Medvedev allo scambio delle poltrone da premier a capo dello Stato solo per rimanere nell'area geografica.

D'altronde una nazione che non ha ancora subito l'egemonia statunitense ed occidentale di che cosa potrebbe essere tacciata se non di regime dai rappresentanti politici e mediatici di quella sfera d'appartenenza?

L'articolo di Contropiano(la-bielorussia-tra-dittatori-comunisti-e-nazi-majdanisti-democratici )parla di questo tra gli ultimi baluardi a non essere una marionetta nelle mani Usa e delle"grandi democrazie" europee,e le ultime elezioni dove Lukaschenko ha ottenuto ancora l'80% dei voti e la sua avversaria politica Svetlana Tikhanovskaja(una Guaidò del vecchio continente)se n'è andata a frignare nei"democratici"paesi baltici ma critica anche l'operato di Minks perché la Bielorussia non è certamente il paradiso.

Ma da qui a finire come una nuova Ucraina il passo non è necessariamente lungo,ricordiamoci dei fatti di Maidan e della forte deriva nazista che l'altro Stato ex Urss ormai sempre più in un declino economico e sociale(madn lucraina-e-la-confusione-mentale propria del nazismo )ha avuto in poco tempo senza scordarci della guerra in Donbass,ferita ancora aperta in Europa che sostengono la"democratica"Kiev.

La Bielorussia tra “dittatori comunisti” e nazi-majdanisti “democratici”.

di  Fabrizio Poggi  

Cosa sta succedendo in Bielorussia? È in atto a Minsk l’ennesima “majdan”, che ha attraversato negli anni praticamente tutte le ex Repubbliche sovietiche, con risultati fortunatamente non uniformi? È veramente crollato l’appoggio popolare a Aleksandr Lukašenko e, dunque, quell’ormai fatidico 80% di voti accreditatogli domenica scorsa dagli elettori dovrebbe esser ribaltato a favore della principale candidata avversaria, Svetlana Tikhanovskaja, che da Vilnius si autoproclama “vincitrice”?

Non è davvero semplice raccapezzarsi nell’attuale situazione bielorussa e gli attori esterni, ufficiali e non, sono davvero tanti e quasi tutti, chi più apertamente, chi meno, sarebbero stati felici di sbarazzarsi di quello che, ormai dal 1994, i demo-liberali sono usi qualificare come “ultimo dittatore d’Europa”: un titolo che, per dire, non sembra di aver mai sentito uscire dalle loro bocche a proposito di un Petro Porošenko qualsiasi. 

Tra l’altro, nel comune linguaggio liberale, la qualifica di “dittatore” o la categoria di “dittatura”, sono sempre assoluti e rigorosamente privi di qualsiasi riferimento di classe: dittatura su chi, su quale classe, e democrazia per chi, per quale classe.

In effetti, non è che, specialmente negli ultimi anni, Bats’ka [padre-patriarca, boss: bat’ko in ucraino, bat’ka in russo. Il cliché di “bats’ka” fu appioppato a Lukašenko già al suo primo mandato presidenziale, per sottolineare i suoi modi abbastanza rustici, quasi contadineschi, con pretese di “padre della nazione”) abbia fatto molto per consolidare veramente i rapporti con questa o quella delle capitali confinanti. 

Lo stesso “stato unitario” Russia-Bielorussia – ormai quasi una saga – conosce da anni alti e bassi abbastanza bruschi. E non si può dire che le responsabilità siano sempre venute da est del Berezina; anche se ieri, Lukašenko, nell’indicare i “burattinai” che da Varsavia, Praga, Kiev, “consigliano ai manifestanti bielorussi di accordarsi pacificamente con il governo perché ceda volontariamente e pacificamente il potere”, ha citato anche “un certo flusso di persone, arrivate in Bielorussia, purtroppo, anche dalla Russia”. 

Sarà un caso che, a fronte delle “calde congratulazioni” giunte a Lukašenko, ad esempio, da Cina e Cecenia, quelle del Cremlino siano state abbastanza di prammatica. Alla Duma russa, qualcuno ha addirittura chiesto di non riconoscere la sua vittoria e si è arrivati anche a proporre sanzioni contro la Bielorussia.

Insomma: non è facili districarsi nelle vicende di un paese che – non ce ne vorranno i nostri che, sulla scia dei comunisti russi zjuganovisti, alludono alla Bielorussia quasi come a un paese socialista – insieme a indubbi successi sul piano sociale e forse uno dei più prosperi tra gli stati dell’ex URSS, pur non ricco di risorse naturali, sta oggi attraversando un periodo abbastanza difficile, assediato a ovest dalle mire economiche e politiche USA-UE e controllato a vista da est per i suoi ripetuti zig-zag che, con o senza Lukašenko, potrebbero significare “democratiche” basi militari USA e NATO nel paese. 

Lo scorso febbraio, dopo la visita a Minsk del Segretario di stato Mike Pompeo, Lukašenko parlò di “partenariato prioritario” con gli Stati Uniti, anche se, per ora, la Bielorussia rimane praticamente l’unico paese (insieme alla Russia) dell’ex Patto di Varsavia, in cui non siano presenti basi e armamenti USA. 

Tra tali zig-zag e giravolte, non vanno dimenticati i ripetuti abbracci del “bats’ka” prima con Porošenko e ora con Vladimir Zelenskij e la posizione negativa bielorussa su Donbass e Crimea; lo scorso aprile, Lukašenko aveva dichiarato nero su bianco che Kiev dovrebbe fare di tutto per liquidare le Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk! 

Questo, nonostante Minsk ospiti sin dal settembre 2014 le cosiddette trattative sul Donbass. Sino all’ultimo, c’è stato il rischio che i famosi “33 uomini verdi” russi (della compagnia privata “Wagner”) arrestati in Bielorussia nei giorni precedenti il voto, venissero consegnati all’Ucraina, in quanto ex combattenti nel Donbass. 

D’altra parte, il conflitto con Mosca, a parere del politologo russo Rostislav Iščenko, sarebbe opera di una ben determinata cerchia governativa che, in questo modo, intenderebbe preparare per Lukašenko lo stesso destino del presidente ucraino Viktor Janukovič, stretto tra i “prestiti” occidentali e i “crediti condizionati” russi e, ondeggiante nella scelta, fu infine deposto dal nazi-majdan e costretto a fuggire in Russia. 

Il continuo cercare di destreggiarsi di Minsk tra est e ovest, il tentare di ricattare ora l’uno ora l’altro, senza definirsi fino in fondo alleata di questo o di quello, alla lunga rischiano di portare più guai che benefici, tanto più che, a Washington come a Bruxelles, a parte qualche necessità di smercio (in particolare: il gas di scisto yankee) la Bielorussia interessa quasi esclusivamente come ulteriore tassello nell’accerchiamento della Russia. 

Come che sia, attingendo ai fatti più o meno “oggettivi”, si deve constatare, per ora, la continuazione degli scontri tra manifestanti e polizia, con il largo uso, da parte dei primi, del canale telegram “NEXTA” per il coordinamento delle azioni, dopo che il governo aveva chiuso i collegamenti via internet: insomma, una sorta di “rivolta-twitter”, con le istruzioni diffuse da un canale operante dalla Polonia e registrato a nome del ventiduenne Stepan Putilo. 

E il politologo Sergej Markov ipotizza su news-front uno scenario per cui, proprio dalla Polonia sanfedista e dalla Lituania delle redivive Waffen SS, d’accordo con Washington (quest’ultima, ufficialmente, almeno per ora mantiene un certo riserbo) si starebbe organizzando un percorso “venezuelano”, facendo della Tikhanovskaja la “Guaidò” bielorussa e riconoscendola quale “presidente”: non a caso, è già all’ordine del giorno il suo incontro con Mike Pompeo, a Varsavia o a Vilnius.

In ogni caso, non pochi osservatori rilevano come “bats’ka” abbia non tanto perso le elezioni, quanto subito “una schiacciante sconfitta nella guerra informativa”, come testimonia appunto NEXTA, messo in piedi nel giro di pochi giorni in vista delle elezioni e che continua tuttora a diffondere istruzioni sulle azioni da intraprendere contro la polizia e le autorità locali. 

In questo quadro, Lukašenko, a differenza di Janukovič, che aveva lasciato disarmati i reparti di polizia contro nazisti e banderisti a majdan, potrebbe ordinare (sembra che, di fatto, sia già così) di rispondere col il pugno duro ai gruppi di manifestanti, tra cui spiccano non pochi polacchi, baltici, ucraini e altri “democratici” confinanti. Difficile ipotizzare un compromesso tra le parti, anche per le spinte che all’opposizione vengono da Kiev, Varsavia, Paesi baltici, USA.

Sul fronte politico, la russa ROTFront ha pubblicato una dichiarazione della sezione bielorussa di “Per l’Unione e il partito comunista dell’Unione”, in cui si afferma che, dopo varie “sconfitte subite a opera dei lavoratori, l’oligarchia finanziaria mondiale, sotto le vesti democratiche di combattente per i diritti umani e con l’aiuto della sua ‘quinta colonna’, ha avviato in Bielorussia un’aggressione ibrida, cercando di spingere la classe operaia a scioperare. Tuttavia, la classe operaia ha reagito: i lavoratori hanno votato secondo i propri interessi e non per quelli oligarchici stranieri. Da qui, ecco ora i tentativi di spingere allo sciopero i collettivi di lavoro, con gruppi di provocatori che si affollano agli ingressi di alcune fabbriche. Tuttavia, non è vantaggioso per i lavoratori scioperare per gli interessi degli oligarchi stranieri. Ricordiamo come i minatori russi avessero aiutato il “democratico” Eltsin in Russia, e come lui li avesse ringraziati, chiudendo le miniere”.

Da parte sua, ROTFront commenta che “Con tutto il rispetto per i nostri compagni, non possiamo essere d’accordo con la loro idea che votare per Lukašenko significhi votare per gli interessi dei lavoratori. La politica socioeconomica di Lukašenko differisce solo in quanto i processi di privatizzazione e di aumento dei prezzi sono lenti e controllati dalle autorità. Sappiamo molto bene come finiscono questi processi. Il regime di Lukašenko è una forma di dittatura borghese. Come i suoi colleghi nello spazio post-sovietico, egli non è in grado di risolvere le contraddizioni sociali fondamentali. Ciò significa che, nel profondo della società bielorussa, matureranno costantemente i presupposti per un’esplosione sociale. La tragedia del vicino popolo ucraino è che il malcontento popolare è stato cavalcato da una fazione borghese, nel ruolo di marionetta USA. I lavoratori che avevano sinceramente protestato contro il regime di Janukovič, si sono rivelati pedine nelle mani di persone che non erano diverse da Janukovič. I lavoratori bielorussi possono rinnovare il destino dei loro fratelli ucraini, se si uniscono ai ranghi dei manifestanti sotto false bandiere e per interessi loro estranei”. 

Secondo la sezione bielorussa del VKPB (il partito fondato da Nina Andreeva, recentemente scomparsa) hanno dichiarato che “i banderisti bielorussi, dopo aver perso le elezioni, cercano ora di organizzare una majdan a Minsk”. Si può già “dire che il “maidan” di Minsk sta crollando, che i nazisti falliranno. Ma non è questo un motivo per rallegrarsi particolarmente: la costruzione del capitalismo in Bielorussia continuerà, qualunque sia l’esito degli eventi. Quanto a Lukašenko, è il presidente borghese di uno stato borghese. E anche se in realtà ci siamo schierati dalla sua parte” – contrariamente alla linea generale del VKPB, in Bielorussia hanno partecipato alle elezioni, votando per ‘bats’ka’ – “ora ci prepariamo alla lotta. Sebbene ci proibisca di manifestare il 1 maggio, il 9 maggio, il 7 novembre, mentre consente ai nazisti di tenere le proprie adunate, con lui abbiamo condizioni più accettabili per la nostra lotta di quanto non lo sarebbero nel caso di una vittoria del majdan“.

Davvero stretta la strada per i lavoratori bielorussi, tra dittatura borghese e “nazi-democrazia” liberale.