venerdì 31 gennaio 2020

STUDIARE FA BENE


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Che i banchi di scuola per molta gente siano oggetti da evitare e nel caso se occupati restino comunque degli oggetti in un contesto da dimenticare,gli italiani ancora una volta i dimostrano tra i primi quando ci sono le classifiche d'ignoranza.
Lo dimostrano i dati Eurispes(www.corriere.it eurispes-shoah )con il 15% dei connazionali che negano l'olocausto e lo stermino di ebrei e dei dissidenti per razza,religione,credo politico o per diversità fisica o mentale,mentre uno su quattro parlano ancora del Dvce come di un bambolotto che alla fine ha fatto qualcosa di buono,le solite idiozie che sistematicamente irrompono nelle cronache e nei libri(vedi il mafioso Dell'Utri:madn dopo-il-papa-buono-anche-il-duce-buono ).
Il fatto sostanziale rimane il bombardamento mediatico col quale ci propinano cattivi esempi e la verità che i politici(Pd in testa)sono riusciti a sdoganare il fascismo e renderlo ancora agibile politicamente ed istituzionalmente,una vergogna per i milioni di morti che hanno causato assieme ai nazisti e per chi ha combattuto e sta ancora combattendo contro questi infami.

Eurispes: la Shoah per il 15% degli italiani non è mai esistita. Il rapporto choc

Nel 2004 i negazionisti erano il 2,7%. Il Viminale: «Dati allarmanti, non dobbiamo sottovalutarli». E per un italiano su cinque «Mussolini è stato un grande leader».

di Alessandra Arachi
La Shoah? Per un italiano su sei non è mai esistita. È scritto nel rapporto Eurispes 2020, e a scorrere i suoi dati vengono i brividi, e non soltanto perché il 15,6 per cento degli italiani nega che la Shoah sia mai avvenuta ma anche perché poi c’è un altro 16,1 per cento di italiani che dice sì, la Shoah c’è stata ma non è stata un fenomeno così importante. Nel 2004 il negazionismo riguardava il 2,7 per cento degli italiani . «Sono dati allarmanti che non dobbiamo sottovalutare», dice Matteo Mauri, vice ministro dell’Interno, aggiungendo: «Il negazionismo continua ad infangare la memoria di questa tragedia».

Negazionismo attuale

Il negazionismo degli italiani non guarda soltanto al passato. Secondo l’Eurispes c’è un fenomeno molto diffuso che riguarda i giorni nostri. Ben il 61,7 per cento, infatti, dichiara candidamente che i recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati e non sono indice di un reale problema. Di più: il 37, 2 per cento la butta sull’ironia, sostenendo che quegli episodi di antisemitismo altro non sono che «bravate messe in atto per provocazione o per scherzo».

Mussolini rivisitato

Ma non è finita. Nelle pagine dell’Eurispes si legge che un italiano su cinque rivaluta Benito Mussolini. Per il 19,8 per cento, infatti «Mussolini è stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio», omettendo che fu proprio Benito Mussolini che nel 1938 emanò le leggi razziali, in linea con le altre affermazioni negazioniste contenute nel rapporto.

giovedì 30 gennaio 2020

UNA SOCIETA' DA RIFONDARE


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Il tema della divisione della società in classi è un argomento caro a una sinistra che sta tendendo sempre più a scomparire e che toglie la diseguaglianza dagli impegni politici quotidiani salvo farla riaffiorare durante le campagne elettorale salvo poi affossarle nuovamente quando e se si vince.
L'articolo di Left(la-giustizia-sociale-e-il-grande-inganno-della-meritocrazia )fa un'analisi di quelli che sembrano riflessioni banali ma che evidentemente tanto ovvie non sono,in quanto lo sviluppo dell'intera società è ostacolato dalla propria provenienza,talvolta anche geografica,ma più ordinariamente da quella del reddito,con il benessere che passa di generazione in generazione quasi esclusivamente alle famiglie di ceto sociale medio alto.
Si affronta anche il tema della meritocrazia,legata a doppio filo alla giustizia sociale dove solitamente chi effettivamente chi eccelle nel proprio lavoro avrà difficoltà a venire riconosciuti tali meriti in quanto gli italiani oltre ad essere un popolo di poeti,navigatori e santi è anche il paese dei leccaculo.
E questo incide malamente sullo sviluppo dell'intera società e lo si evince dalla scarsezza della classe dirigente e politica,dalla poca lungimiranza su troppi temi sociali(ambiente,salute,educazione,etc.)e lo si nota in maniera evidente dall'estero,dove ridono di noi e del nostro modo di fare e di pensare.
Tutto questo comporta alla tendenza a corrompere ed essere corrotti,a dare la colpa sempre agli altri(soprattutto se arrivati da poco o stranieri),al fatto di non riuscire in certe politiche a predicare bene e razzolare male.
Dove proprio la politica si basa sull'assistenzialismo o al volontariato,agli aiuti della chiesa e dove nel migliore dei casi il ricco fa l'elemosina al povero e nel peggio questo viene denigrato ed escluso in quanto scarto di tutta questa cialtroneria sociale.

La giustizia sociale e il grande inganno della meritocrazia.

di Fabrizio Moscato
La democrazia si fonda sul principio di uguaglianza, cioè sul riconoscimento a ognuno di uguali diritti e doveri. Tuttavia questa enunciazione formale non determina una reale parità fra cittadini per l’intervento di altri elementi ostativi, come il diverso ceto di provenienza. È evidente infatti come a fronte di un diritto uguale per tutti, possano intervenire fattori esterni capaci di condizionarne il godimento: così laddove è riconosciuto formalmente a tutti il diritto allo studio, sussistono differenze nelle reali possibilità di goderne in uguale misura tra chi ha un reddito o un patrimonio tale da poter impegnare tempo e risorse nella propria formazione e chi invece questa possibilità non ce l’ha, stretto dalla necessità di percepire un reddito o alleggerire il peso del proprio sostentamento sulle spalle della famiglia di provenienza.

Si tratta di una condizione che era ben presente ai membri dell’Assemblea costituente, che dopo aver enunciato il principio di uguaglianza quale cardine su cui si fondava la nuova Repubblica, avevano previsto anche un impegno pratico, un compito concreto cui lo Stato era chiamato, nella seconda parte dell’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Eppure in Europa e negli Stati Uniti il mito della crescita infinita e della mobilità sociale aveva illuso molti, nel trentennio successivo al secondo dopoguerra, definito “glorioso” dall’economista francese Thomas Piketty, che tali discrepanze sarebbero state gradualmente diminuite, fino ad essere assorbite dalla progressiva crescita sociale dei ceti più deboli, con i figli destinati a guadagnare una qualità della vita migliore di quella dei propri genitori. In Italia in particolare, con il boom economico, molti pensarono che il conflitto fra classi sociali sarebbe stato sedato dal progressivo miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici.

Un mito, quello della crescita infinita, che si scontra con le ripetute crisi finanziarie globali: difficile ipotizzare che sia un caso che i “gloriosi trent’anni” di cui parla Piketty terminino quasi in perfetta coincidenza con la crisi inflazionistica del 1974, dovuta all’aumento del prezzo del petrolio. D’altronde anche un rapporto Unicef del 2014 dimostrava come la crisi economica del 2008 avesse determinato nei cosiddetti “Paesi ricchi”, una diminuzione del benessere dei bambini rispetto a quelli della generazione precedente. I numeri dunque restituiscono l’immagine di un sistema non solo incapace di creare ricchezza continua, ma anche inefficiente quando si tratta di distribuire la stessa all’interno dei singoli sistemi-Paese.

I dati raccolti da Istat e Ocse circa la mobilità sociale in Italia non sono confortanti: l’elasticità di guadagno intergenerazionale, cioè la possibilità che i figli guadagnino quanto i propri genitori, risulta molto elevata, tanto che passare da una fascia di reddito bassa ad una media potrebbe rendere necessario l’impiego di cinque generazioni nel corso di cento anni. Uno studio degli economisti Guglielmo Barone e Sauro Moccetti, pubblicato sul sito della Banca d’Italia, descrive una situazione ancora più cristallizzata: prendendo in esame i dati disponibili per la città di Firenze sin dal 1427, i patrimoni familiari sarebbero pressoché invariati da addirittura seicento anni, circa venti generazioni, con una certa tendenza di avvocati, banchieri, medici, farmacisti e orafi ad avere discendenti che praticano il loro stesso mestiere, l’accesso al quale è invece più difficile per discendenti di famiglie collocate in un ceto sociale più basso.

Questa scarsa mobilità sociale incide negativamente non solo sulla democrazia reale, impedendo di fatto che tutti godano effettivamente dei diritti garantiti dalle costituzioni democratiche, ma anche sul sistema economico, limitando fortemente la possibilità di elementi validi ma di estrazione sociale medio bassa, di ricoprire ruoli nei quali sarebbe maggiore l’apporto garantito al progresso collettivo: un fenomeno che finisce per frenare lo sviluppo quasi in ogni campo e che si pone in totale opposizione a quel “pieno sviluppo della persona umana “ cui ogni sistema dovrebbe tendere. Anche nel campo della cultura e della creatività c’è chi lancia l’allarme: Tiziano Bonini, autore radiofonico, scrittore e ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università di Siena, ha denunciato la presenza di «una classe che continua a produrre simboli, rappresentazioni del mondo, opinioni, narrazioni e una classe che le consuma, senza avere accesso ai mezzi di produzione». E quale sarebbe l’elemento distintivo fra queste due categorie? Ancora una volta la provenienza da famiglie che vivono in zone urbane, colte e con maggiore disponibilità economica, che permette ai più ricchi di formarsi, fare esperienze all’estero, partecipare a stage non retribuiti presso industrie culturali (case editrici, giornali, radio, tv) e rende la cosiddetta “gavetta” non più solo un dovere, ma un vero privilegio che, come tale, è riservato a pochi.

Questo aspetto non dovrebbe essere sottovalutato dalle forze progressiste che dichiarano di volersi far carico dell’elevazione morale e materiale della “working class”, contrapponendo al privilegio la meritocrazia, invocata quale panacea di tutti i mali. È evidente infatti come, sebbene la meritocrazia rappresenti un valore irrinunciabile, essa si riveli un grande inganno se chi misura l’ordine di arrivo non ha vigilato che le condizioni di partenza siano state le stesse per tutti. Se studiare è più facile per chi proviene dai ceti più abbienti, è facilmente prevedibile chi sarà ad ottenere i risultati migliori, in minor tempo, presso istituti di maggior prestigio. In Italia fu proprio il primo segretario del neonato Partito democratico, Walter Veltroni, a denunciare in apertura di un congresso la “rottura dell’ascensore sociale”: peccato che poi le scelte politiche dei i governi sostenuti dal Pd non abbiano mai dato in merito segni di sostanziale discontinuità rispetto alla destra, con la suddivisione fra chi ha maggiori possibilità di successo e chi non le ha che non è stata nemmeno scalfita.

Un aspetto che sembra permeare la vita di ognuno sin dai primissimi passi, come dimostra l’episodio che ha visto la scuola elementare IC di Via Trionfale a Roma presentare il proprio istituto dividendo in distinte classi sociali i bambini che frequentano le diverse sezioni, descrivendo quali siano quelle frequentate da professionisti e quali quelle con una maggiore presenza di bambini appartenenti a famiglie immigrate. Tutto ciò contribuisce a costruire una visione della società, dei modelli economici e della convivenza, imperniata sull’assunto che il successo rappresenti di per sé un elemento meritocratico, senza alcun riguardo verso le difficoltà che le classi svantaggiate devono affrontare per arrivare allo stesso punto sul traguardo, con una distorsione della realtà che arriva ad imputare l’insuccesso come una responsabilità di chi non ce la fa, non è competitivo, è incapace di adeguarsi agli standard richiesti o non ha voluto investire su sé stesso, anche quando, semplicemente, non era nelle condizioni di poterlo fare.
Ripartire dal riconoscimento delle diverse condizioni di partenza e impegnarsi nella rimozione degli ostacoli reali che incontra chi non proviene da una famiglia agiata, colta, in grado di sostenere ogni legittima aspirazione di miglioramento, è il dovere principale di chiunque oggi voglia rappresentare le istanze progressiste: per essere di sinistra non basta richiamarsi a valori come tolleranza e accoglienza, se non si comprende che sono figlie di questa visione anche le aberrazioni che spingono a vedere nella povertà una colpa, producendo ordinanze che vietano l’accattonaggio o multano chi rovista nei cassonetti, come se chi è costretto a farlo fosse nelle condizioni di poter pagare la propria indigenza.

Non mettere questo aspetto al centro della propria azione politica sarebbe invece funzionale soltanto a chi trae vantaggio dalle disuguaglianze, per speculazioni economiche o politiche, fondate sulla stigmatizzazione di chi rimane indietro che, nel migliore dei casi approdano a soluzioni assistenzialistiche che poco si discostano concettualmente dall’elemosina del ricco verso il povero, mentre nel peggiore finiscono con la demonizzazione di chi non ha nulla, vissuto come una minaccia per chi invece ha una posizione privilegiata, fosse anche di pochissimo. Rinunciare al contributo di quanti, per origini o vissuto, a parità di talento sarebbero in grado di garantire un approccio meno conforme alle cose e portare una sensibilità arricchita da un’esperienza diversa, sarebbe una responsabilità gravissima per chiunque creda ancora nell’idea di progresso collettivo e democrazia. Una responsabilità che, al netto di ogni valutazione legata al concetto stesso di giustizia sociale, non possiamo più evitare di assumerci.

FABRIZIO MOSCATO È IL DIRETTORE DEL FESTIVAL LIBERI SULLA CARTA

mercoledì 29 gennaio 2020

UNA PROVOCAZIONE PIU' CHE UN ACCORDO DI PACE

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Il piano che con superbia Trump ha illustrato ieri per risolvere la questione israelo-palestinese ha destato molti dubbi in tutto il mondo,figurarsi nel mondo arabo anche se qualche nazione ha detto che non è una pessima base su cui lavorare nell'immediato futuro.
Non basta però dire due Stati per due popoli per risolvere la questione tra Israele e la Palestina,anche se erano da decenni che nessuno parlava di una sostanziale divisione,ma bisogna entrare nel dettaglio di quello che sembra un'offerta di denaro ai palestinesi in cambio di tanti territori controllati(già di fatto da più di cinquant'anni)dagli israeliani.
Partendo da Gerusalemme capitale arrivando ai territori cisgiordani nonché delle colonie praticamente ad Israele verrebbe concesso tanto spazio in più,in maniera ufficiale e definitiva,ricordando la costruzione della barriera che non è ancora terminata e l'impossibilità per i palestinesi di muoversi già ora nei loro territori senza venire controllati e sottoposti a check point.
Insomma non proprio un piano di pace,ma cosa si voleva attendere da qualcosa partorito da Trump e da Netanyahu,due che hanno nella guerra la loro missione e questo fa pensare che questo accordo sia stato più una provocazione per scatenare qualcosa di più grande anche a livello di tutto il Medio Oriente,un un territorio caldissimo dove per ora chi è parte in causa non ha mai visto le proprie intenzioni almeno discusse in maniera seria.
Articolo di Contropiano internazionale-news .

Trump spiana la strada all’annessione di Gerusalemme e colonie a Israele.

di  Alessandro Avvisato 
Trump lo aveva definito l’Accordo del secolo e lo ha perseguito da un anno. In cambio della annessione definitiva di Gerusalemme e delle colonie a Israele, offre 50 miliardi di dollari ai palestinesi, esattamente come si faceva con perline e oggetti verso gli indigeni che cedevano terre, risorse e libertà ai colonizzatori.

Nella fotografia ufficiale insieme al premier israeliano Netanyahu, Trump a Washington ha delineato la soluzione con cui gli Stati uniti assegnano in via ufficiale – perché sul terreno è già così dal 1967 – quasi tutto il territorio della Palestina storica a Israele. Ai palestinesi, oltre i soldi, offre una serie Bantustan in Cisgiordania e la Striscia di Gaza – collegati da una combinazione di strade e tunnel – che saranno definiti come “Stato di Palestina” ma solo obbedendo ad una serie di rigide condizioni di sicurezza e di gestione amministrativa. 

C’è però un dettaglio che appare ancora molto ingarbugliato e dunque soggetto alle solite manovre israeliane sui fatti compiuti. Infatti il ridotto Stato di Palestina, avrebbe come capitale la zona araba di Gerusalemme Est, giustamente Michele Giorgio sottolinea che “come ciò potrà avvenire è un mistero se, come ha enfatizzato, tutta Gerusalemme resterà la capitale indivisa dello Stato di Israele. Funzionari statunitensi spiegano che la capitale palestinese in realtà sarà soltanto in alcune porzioni periferiche di Gerusalemme est”.

Infine con l’accordo, sarebbe riconosciuta la sovranità israeliana sugli insediamenti coloniali ebraici in Cisgiordania (condannati dall’Onu perché costruiti in violazione delle leggi internazionali) con l’impegno a non costruire nuove case per quattro anni, ma i coloni e il blocco dei partiti di destra guidato da Netanyahu non accetteranno mai un congelamento delle costruzioni e il primo segnale è arrivato proprio dal no all’accordo da parte del consiglio delle colonie ebraiche.

Ieri a a Gaza e in molte città della Cisgiordania ci sono state manifestazioni di palestinesi convocati per la “giornata della collera” contro l’Accordo del secolo. Il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha rifiutato di ricevere una copia delle 50 pagine del piano Usa e ha chiesto la convocazione d’urgenza della Lega araba, mentre c’è stato un incontro tra Al Fatah con Hamas.

Qui l’audio del Piano del Secolo tra Trump e Netanyahu

martedì 28 gennaio 2020

INSULTI OFFENSIVI DURANTE IL GIORNO DELLA MEMORIA


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In questi giorni dedicati al ricordo ed alla memoria delle vittime dell'infamia nazista ci sono stati numerosi atti vandalici che hanno offeso figli di deportati nei campi di concentramento e sterminio tedeschi con scritte contro gli ebrei e un duro attacco avvenuto a Rezzato(Bs)nei confronti di un bar gestito da una ragazza di origini marocchine.
Proprio a quest'ultimo gesto vergognoso è dedicato l'articolo(www.radiondadurto.org dove si possono ascoltare due interviste)visto che la violenza e l'odio perpetrati con la matrice chiara di estrema destra,in quanto adesso la ragazza ha paura a proseguire nella sua attività e per stasera è stato organizzato un aperitivo solidale proprio presso il bar Casablanca colpito da questi bastardi ratti di fogna.

REZZATO (BRESCIA): GRAVE RAID RAZZISTA. SVASTICHE E CELTICHE CONTRO IL BAR GESTITO DA MADIHA. MARTEDI APERITIVO SOLIDALE

Martedì 28 gennaio alle ore 18,30, Diritti per tutti, Centro sociale autogestito Magazzino 47 e un gruppo di abitanti di Rezzato convocano un presidio di solidarietà davanti al bar anche per raccogliere fondi con un aperitivo antisessista, antirazzista e antifascista per aiutare Madiha a ripartire.

Rezzato, hinterland orientale di Brescia, lunedì 27 gennaio, Giornata della Memoria 2020.

Nelle ore in cui si celebrano i 75 anni dalla liberazione del lager nazista di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa dell’Unione Sovietica, che mostrò al mondo il genocidio perpetrato dai nazisti – con la fattiva complicità degli alleati fascisti -, in Italia si registra una violenta aggressione razzista.

Vetrate sfondate, tende esterne rotte, porte divelte. A terra, sul pavimento, una grande scritta, “negra troia”, con tanto di svastica e croce celtica.

E’ quanto si è trovata davanti, Madiha, la barista italiana di origini marocchine che gestisce il bar “Casablanca” di via Garibaldi, 54 a Rezzato, lungo la strada statale che collega Brescia capoluogo al paese dell’hinterland.

Madiha, che ha 36 anni ed è nata in Italia da genitori arrivati nel Bresciano dal Marocco, è stata svegliata verso le 2 di notte di lunedì 27 gennaio dall’allarme del bar. Una volta arrivata sul posto, ha visto quanto accaduto, con il bar pesantemente colpito dal raid razzista e sessista.

La nostra intervista a Madiha. Ascolta o scarica

La voce di Umberto, di Diritti per Tutti, con l’annuncio dell’aperitivo antirazzista, antifascista e antisessista di martedì 28 gennaio, alle 18.30, a sostegno di Madiha. Ascolta o scarica

lunedì 27 gennaio 2020

IL VOTO IN EMILIA ROMAGNA E CALABRIA


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La liberazione dell'Emilia Romagna,slogan di Salvini che bestemmiando paragona e bisticcia con la storia che evidentemente ha mai studiato,con la Liberazione dal nazifascismo che vide questa regione tra le più attive e che diede molte vite alla vittoria della guerra contro i traditori italiani e gli occupanti tedeschi.
In Calabria invece era tutto deciso,il centrodestra ha vinto in un territorio tra i più colpiti dal cancro della criminalità,con la 'ndrangheta a farla da padrona e con Berlusconi che è riuscito a strappare la leadership a Salvini e Meloni.
L'articolo di Left(niente-scherzavano )commenta il voto elettorale di ieri,le pescentuali dei votanti,l'astensionismo,il crollo dei pentastellati e l'aiutino della gioventù sardiniana,le buffonate di Salvini e soprattutto le vittorie di Bonaccini e Santelli,col primo premiato da quando Zingaretti ha detto che il progetto Pd è al termine e la seconda che è stata burlata dal puttaniere con becere battute e lei peggio a ridere di questo.

Niente, scherzavano.

di Giulio Cavalli
C’è qualcosa di inebriante nelle elezioni regionali che vengono ribaltate sul piano politico nazionale per accreditare eventuali crisi e ribaltoni: se non vanno come dovevano andare nei progetti di qualcuno diventano subito un “l’importante è partecipare”, “ce la siamo giocata” e altre amene sciocchezze del genere.

Salvini aveva promesso di liberare l’Emilia Romagna e poi prendersi l’Italia e invece l’Emilia Romagna si è liberata di lui e l’Italia continua ad avere un governo come sancito dalle elezioni che riguardavano il Parlamento perché no, non è sempre tutto campagna elettorale e no, non è obbligatorio votare ogni volta che qualcuno recrimina facendo casino. Però alcune osservazioni vale la pena farle.

Il Partito democratico risorge proprio nel momento in cui si era dichiarato morto. Con poco tempismo Zingaretti aveva annunciato il fallimento del progetto Pd e per tutta la sera ieri ha detto “viva il Pd!”. Forse, semplicemente, fare campagna elettorale sui contenuti senza preoccuparsi dei fuoriusciti rende tutto molto più interessante e forse qualcuno dalle parti del Nazareno può cominciare a rendersi conto che le questioni ombelicali (e i fuoriusciti con percentuali ombelicali) interessano poco e a pochi. Ora si potrebbe anche fare qualcosa al contrario rispetto a Salvini anche nelle politiche, i decreti Sicurezza, ad esempio, che dite?

Il Movimento 5 stelle (quelli che puntavano al 51%, ve lo ricordate?) affondano e forse sarebbe il caso che si occupino degli elettori oltre che dei quadri dirigenti. Di Maio ha abbandonato la nave prima dello schianto (tempismo perfetto) ma si ritrova anche lui l’acqua in cabina. Ora l’errore che può fare è quello di illudersi di pesare anche nel Paese reale per i parlamentari che si ritrova (e che diminuiscono in continuazione): lo faranno, sicuro.

Salvini l’ha messa sul personale, Bene, bravo, bis. E ieri si è riscoperto moderato. Bene, bravo, bis. Ora ci dirà che ce l’hanno tutti con lui, vedrete. Intanto il centrodestra che non vede l’ora di ammazzare Berlusconi deve fare i conti con Berlusconi che stravince in Calabria.

Poi c’è un dato generale: chi perde dice che ha alzato i toni ma stava scherzando, chi vince dice che ha vinto dappertutto e invece non è vero. Chissà però se ora accada tutto quello che non accadeva perché bisognava aspettare le elezioni regionali in Emilia Romagna. Siamo qui.

Buon lunedì.

giovedì 23 gennaio 2020

DUDA (LOOKS LIKE A NAZI)


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In un periodo zeppo di forum e conferenze alquanto inutili sull'economia,sull'ambiente,su temi che nascondono altri interessi ovviamente di potere e di economia,quello che si sta tenendo a Gerusalemme in questi giorni prima della giornata della memoria dedicata all'olocausto ebraico e di tutte le minoranze,etniche,religiose o ideologiche massacrati dai nazisti,sembra essere quello più in sistema rispetto ad altri,anche perché si rinnova la tradizione della memoria storica.
Giornata che corrisponde alla liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa,fatto ultimamente riconosciuto anche da Israele e per questo Putin in queste ore è il personaggio più in auge non solo a Gerusalemme ma anche sul piano internazionale.
Per l'Italia è presente il Presidente Mattarella e anche gli altri Stati sono rappresentati da importanti personaggi della sfera politica,ed il caso dell'assenza del Presidente polacco Duda e di quello lituano Nauseda sono il segnale nemmeno tanto velato che la Polonia e la Lituania hanno ancora tanta cenere con cui cospargersi il capo,nonostante un paio di anni fa lo stesso Duda fece varare una legge che punisca chiunque accosti la sua nazione come complice dei nazisti allo sterminio dei campi di concentramento(corriere.it duda-firma-legge-polonia-crimini-nazisti-lager ).
L'articolo di Contropiano(la-polonia-e-lolocausto-duda-non-va-in-israele )parla invece del contrario,dello stretto collaborazionismo polacco durante la seconda guerra mondiale verso i tedeschi,fatti storici che qualcuno vorrebbe cancellare dai libri di storia,come i negazionisti che parlano a vanvera a tutte le latitudini,e che poi sono combattono l'antisemitismo a giorni alterni(vedi Salvini).

La Polonia e l’Olocausto: Duda non va in Israele.

di  Fabrizio Poggi 
Vladimir Putin è oggi a Gerusalemme per partecipare al quinto Forum mondiale sull’Olocausto, presso il memoriale “Yad Vashem”, e in vista del 75° anniversario della liberazione del lager di Auschwitz. Dietro le quinte, si dice che potrebbe discutere con Benyamin Netanyahu la questione della giovane israeliana, condannata in Russia a 7 anni per traffico di droga. Ma, tema focale dei colloqui in margine al Forum (sarebbe più esatto dire che il Forum costituisce il pretesto per temi attualissimi) sarà senz’altro la situazione siriana, dopo l’assassinio di Soleimani e i nuovi colpi sferrati da Israele contro la Siria.

In Palestina, Putin si incontrerà poi col Presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abū Māzen, in una visita che è vista per lo più quasi solamente come simbolica. Poco probabile che qualcuno, soprattutto in questi tempi di anniversari, sollevi a Gerusalemme la questione del popolo palestinese e dei metodi da olocausto adottati da Israele nei suoi confronti.

Ma qui si parla di altro.

Tra la cinquantina di capi di Stato e dei presidenti di Parlamenti di Europa, Nord America e Australia che partecipano al Forum, non ci saranno né il presidente polacco Andrzej Duda, né quello lituano Gitanas Nauseda. Ci sarà invece il presidente ucraino Vladimir Zelenskij, che anzi spera in un colloquio faccia a faccia con Putin. A Gerusalemme, Putin inaugurerà anche il monumento alle vittime dell’assedio di Leningrado: sembra che in Israele vivano ancora oltre 1.300 sopravvissuti all’assedio.

Il fatto che Israele, proprio in questo momento, riconosca il ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione di Auschwitz, rappresenta un significativo appoggio per Mosca, da mesi impegnata a rintuzzare le uscite polacche sul tema dello scatenamento della Seconda guerra mondiale e in particolare sul ruolo dei soldati sovietici nel conflitto. Sul tema specifico del lager nazista in Polonia, nei giorni scorsi il premier polacco Mateusz Morawiecki è arrivato a dire che il campo di sterminio avrebbe potuto esser liberato sei mesi prima, se l’Armata Rossa non se la fosse presa così comoda a coprire i 200 km che la separavano da Auschwitz; “l’Unione Sovietica fu tutt’altro che liberatrice; fu alleata della Germania nazista ed essa stessa si macchiò di crimini, sia prima che dopo la liberazione di Auschwitz”.

Duda non è andato in Israele perché, a quanto pare, se la sarebbe presa per il fatto di dover parlare dopo Putin o di non essere stato affatto inserito nell’elenco degli oratori ufficiali: “Non capisco perché in tale luogo, in un’occasione simile e in un anniversario così importante, possano intervenire i Presidenti di Germania, Russia, Francia, i rappresentanti di Gran Bretagna e Stati Uniti, ma non il Presidente della Polonia”. Varsavia sarà rappresentata dall’ambasciatore in Israele Marek Megirowski.

Ma, in vista dell’intervento di Putin, sembra che la cancelleria presidenziale polacca abbia predisposto uno staff di storici e di esperti in comunicazione, per rispondere “in tempo reale” alle parole del presidente russo a Gerusalemme, mentre l’ufficio del Primo ministro avrebbe già redatto una serie di articoli da pubblicare a pagamento sui giornali americani e israeliani per illustrare “la variante polacca” dei fatti storici.

In effetti, a Gerusalemme ci saranno Putin, Macron, Steinmeier, Zelenskij, il vice Presidente USA Mike Pence, e un buon numero di capi di governo. Non ci sarà Trump, che, peraltro, non andrà nemmeno in Polonia il prossimo 27 gennaio; e non andrà nemmeno Pence: alla cerimonia ad Auschwitz ci sarà il Segretario al tesoro Steven Mnuchin: che voglia dire qualcosa, dopo che Mosca non è stata invitata e sarà rappresentata solo dall’ambasciatore Sergej Andreev?

In Israele, oltre che Duda, non è andato nemmeno il lituano Nauseda, che ha deciso di trattenersi a Davos un giorno più del previsto; il paese baltico sarà rappresentato dallo speaker del Parlamento Viktoras Prantsketis. Al pari di Varsavia, che già da un paio d’anni condanna amministrativamente chiunque metta in dubbio la negazione della partecipazione polacca all’assassinio di ebrei (all’epoca, in Israele si ricordò la citazione dell’ex premier Yitzhak Shamir, che “ogni polacco assorbe l’antisemitismo con il latte materno”), anche Vilnius sta preparando un disegno di legge in cui si nega la partecipazione lituana all’Olocausto, il che ha già sollevato, prima ancora dell’approvazione, forti critiche delle comunità ebraiche baltiche e straniere. Critiche sono venute da parte di Pinchas Goldschmidt, capo del Consiglio dei rabbini d’Europa: “E’ un insulto diretto ai 240.000 ebrei lituani, al cui assassinio contribuirono molti esponenti politici e militari lituani, oltre alla popolazione locale lituana. Il governo lituano dovrebbe riconoscere la propria storia e non cercare di ignorarla o negarla”.

Su rubaltic.ru, Aleksej Iljaševič ricorda le parole di Efraim Zuroff, secondo cui i polacchi stessi hanno più ragioni per negare la partecipazione al genocidio degli ebrei: la Polonia come paese non esisteva più dal settembre 1939. In Lituania, invece, il governo provvisorio filo-nazista, nelle sei settimane di esistenza, riuscì a darsi molto da fare nella soluzione della “questione ebraica”, per non parlare del fatto che azioni antisemite, quali il pogrom di Kaunas, ebbero luogo prima dell’arrivo dei tedeschi”. Al contrario, si elevano al rango di eroi nazionali, komplizen quali Jonas Noreika o Juozas Ambrazevičius.

E’ un fatto, che i komplizen abbiano partecipato in maniera più che attiva a formare intere divisioni nazionali di SS o battaglioni inquadrati in divisioni SS tedesche, e si siano distinti nei massacri della popolazione civile, non solo ebrea, nei paesi occupati dai nazisti. Qualcuno ne ha fatto addirittura una questione di “misure”: Ilja Polonskij ha calcolato che, ad esempio in Francia – paese che fornì una non piccola parte di volontari alle divisioni SS che operavano in Europa orientale – il numero di collaborazionisti e polizei può esser valutato in 50-80 ogni 10.000 abitanti, in Olanda o Belgio 200-250, in Lussemburgo, addirittura, 526.

Ma si parla anche di 143 traditori ogni 10.000 abitanti nella stessa Unione Sovietica e tale cifra sembra da addebitare, tra le altre cose, anche all’alto numero di filo-nazisti in Ucraina e nei Paesi baltici. In Lituania, ad esempio, il numero è stato calcolato in 183,3 collaborazionisti; in Estonia si arriva poi a 884,9 e in Lettonia a 738,2: in pratica, un decimo della popolazione collaborò coi nazisti allo sterminio di soldati sovietici, popolazione civile locale, ebrei, zigani, non solo in patria, ma anche in Bielorussia, Polonia, Ucraina. A solo titolo di “curiosità”, vale forse la pena di ricordare come il principale ideologo nazista, Alfred Rosenberg, fosse nato a Reval (oggi Tallin) da una famiglia di tedeschi del Baltico.

Ma il 9 maggio è ancora lontano e la battaglia, per ora verbale, a distanza tra Mosca e Varsavia non fa che guadagnare tono ogni giorno che passa.

mercoledì 22 gennaio 2020

A DAVOS CON LA PANCIA PIENA


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A differenza del freddo delle montagne che circondano Davos,i più potenti del mondo se ne stanno al caldo ed in maniera molto esclusiva a chiacchierare sulle sorti dei loro interessi fregandosene ampiamente della maggioranza degli abitanti della terra e del suo pessimo stato di salute che va a braccetto con quello delle persone.
Nell'articolo sottostante(contropiano davos-fronte-abisso )si parte appunto con quello che ci vogliono fare vedere e sentire,perché il forum dell'economia mondiale di Davos da sempre è esclusivo e blindato(madn numeri-e-persone ),e prosegue con facili disamine sulla situazione attuale con una parte minima della popolazione mondiale che detiene quasi tutta la ricchezza.
Si fa qualche nome,su tutti Trump,che con i suoi metodi tradizionalisti e reazionari di vedere la politica e l'economia,con dazi e ricatti,getta soprattutto in Europa un clima di tetri presagi(madn le-conseguenze-sullaccordo-tra-pechino e washington ).
Come l'ultima grande conferenza farsa di Madrid dello scorso mese(madn il-fallimento-del-cop-25 )anche Davos non proporrà soluzioni concrete su come affrontare la povertà e limitare al massimo il nostro impatto devastante con la natura,sempre più messa alle corde dallo spietato sistema capitalistico che ormai con una sovrapproduzione fuori controllo nei prossimi anni produrrà una sempre più catastrofe sociale.

Davos di fronte all’abisso.

di  Claudio Conti - Guido Salerno Aletta * 
Seguire il vertice di Davos a grande distanza, senza neanche potercisi avvicinare, è complicato. I media mainstream ne danno un quadro sicuramente fasullo, ma qualche informazione utile trapela lo stesso. Guarda caso, come sempre, da quelle testate specializzate, lette da imprenditori e operatori finanziari, che non possono permettersi di fornire informazioni sbagliate come base per le decisioni di investimento.

Al di là della cronaca, l’analisi di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, stavolta centra il punto di crisi vera cui è giunto il modo di produzione capitalistico nel suo complesso – l’eccesso di capacità produttiva installata, che marxianamente inquadriamo come un aspetto della crisi di sovrapproduzione – e le due diverse ipotesi di “soluzione” che dividono il campo capitalista.

L’America di Trump ha scelto sicuramente una strada retrograda, che facilita una gestione ideologica reazionaria sul piano politico e culturale. Il resto del “mondo che conta” invece punta sul green deal per uscire dalla stessa impasse.

Entrambe le soluzioni, conviene dirlo subito chiaramente, presuppongono che non ci sia alternativa al capitalismo più brutale, al neoliberismo più sfrenato. Entrambe le soluzioni,insomma, prevedono morte e distruzione, profitti inimmaginabili e povertà sempre più diffusa. E una crisi ambientale inarrestabile.

La differenza sta fondamentalmente nel fregarsene della crisi ambientale oppure usarla come occasione di ulteriore business. Il che comporta un corollario politicamente importante: difendere soprattutto gli interessi e la struttura produttiva degli Stati Uniti (America first) oppure provare a disegnare una “globalizzazione di riserva”, con tanta vernice verde a nascondere sangue e povertà.

Non c’è un “meno peggio” da accettare obtorto collo. Non c’è alcun “progressismo capitalistico” proprio perché non c’è una via d’uscita capitalistica che permetta di salvare capra e cavoli, Ossia: ritorno alla crescita e tutti i singoli capitali esistenti, organizzati su base nazionale o multinazionale (“si comprano le aziende marginali solo per chiuderne gli impianti, come è evidente nel caso della siderurgia“, vedi l’Ilva).  Peggio ancora: “Dopo il passaggio dall’agricoltura all’industria, e da questa ai servizi, ora c’è solo la prospettiva di un aumento della disoccupazione tecnologica“).

La “soluzione Trump” prevede infatti la distruzione di capitali altrui e contemporaneamente anche di ciò che resta di equilibri ambientali. E anche la “soluzione Davos” prevede la stessa cosa, ma con una diversa – opposta – lista di capitali da sacrificare e obbiettivi ambientali da sbandierare (solo per la retorica, visto che nessuna impresa cambierà il suo modo di produrre in tempi utili per arrestare la corsa verso lo choc termico planetario).

Può stupire gli ingenui l’esplicita ironia con cui un analista economico inquadra anche Greta Turnberg tra le foglie di fico inventate per imbellettare il neoliberismo green. Ma basterebbe constatare la scomparsa dai media del movimento Friday for Future, non appena le sue assemblee – come quella nazionale a Napoli dello scorso ottobre – hanno cominciato a legare più esplicitamente crisi ambientale e capitalismo, nonché a schierarsi con le resistenze territoriali più odiate dall’establishment (“Sosteniamo ogni battaglia territoriale portata avanti dai tanti comitati locali, come No-TAV per Val di Susa, No-Grandi navi per Venezia, no Muos per Catania e Siracusa, no TAP per Lecce e Stopbiocidio per Napoli e la terra dei fuochi, Bagnoli Libera contro il commissariamento, la lotta all’Enel per Civitavecchia, la Snam per l’Abruzzo, il Terzo Valico per Alessandria. Rifiutiamo ogni speculazione sullo smaltimento dei rifiuti, sul consumo del suolo e quelle infrastrutture che causano dissesto idrogeologico. Pretendiamo che l’unica grande opera da portare avanti sia la bonifica e la messa in sicurezza dei territori”).

Al loro posto, negli stessi giorni, sono state “scoperte” le Sardine, sicuramente più disponibili a far finta di nulla su certe cose…

Ma queste sono le piccole cose di casa nostra, irrilevanti rispetto al futuro del pianeta e quindi dell’umanità.

L’anarchia mercantilista del capitalismo multinazionale è arrivata al suo limite fisico, perché l’ambiente naturale non è agli ordini delle esigenze del profitto e non lo si può “costringere” coattivamente né cancellarlo. Nell’ambiente ci stiamo dentro, non si può guardarlo a fuori e trattarlo come un oggetto disponibile a qualsiasi trattamento. L’esigenza di una pianificazione centralizzata – che sarebbe l’unica idea accettata per la soluzione di qualsiasi problema diverso dall’economia capitalistica – si fa strada addirittura in modo “perverso”, come l’accordo commerciale Usa-Cina che prescrive dettagliatamente quali produzioni e quali consumi dovranno essere implementati tra i due paesi che insieme fanno quasi la metà del Pil mondiale.

E, come giustamente viene subito notato, “in un sistema a somma zero, se la Cina comprerà più prodotti americani, dovrà ridurre l’import dagli altri Paesi”.

La guerra commerciale globale è appena agli inizi. Discettare di “politica” senza aver presente il quadro è una perdita di tempo.

*****

A Davos, tutti contro Donald Trump

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Tutti contro Donald Trump, a Davos. Lo hanno messo in mezzo, come in un panino televisivo ben confezionato, in cui la tecnica persuasiva contempla di dar subito conto delle opinioni di chi governa, per poi offrire un piccolo spazio all’opposizione e concludere riportando le opinioni della maggioranza.

Trump parlerà infatti solo in seconda giornata, martedì 21, a metà mattinata, dopo la grancassa sui rischi ambientali. Da solo, in una sessione dal titolo quanto mai anodino e per questo emblematico: “Miscellaneous”, lo spazio del dibattito che negli ordini del giorno viene rubricato come “Varie ed eventuali”.

Sembra quasi che la vera opposizione al Presidente americano non la facciano i Democratici a Washington, promuovendone l’impeachment, ma l’intero mondo che anche quest’anno si raccoglie al World Economici Forum.

D’altra parte, che Trump sia isolato, e non solo sulla questione del clima, è di tutta evidenza: non solo ha ritirato gli Usa dall’Accordo di Parigi, ma ha lanciato una sfida nei confronti della Cina che va molto al di là dei dazi commerciali. E’ in gioco, secondo il Presidente americano, il predominio globale dell’America. Il suo intervento, preceduto dalla sessione intitolata “Come salvare il Pianetaliberamente trasformabile”, verrà seguito da un dibattito su un altro tema che prosegue il controcanto: “Oltre la geopolitica”.

Il collante della nuova globalizzazione è duplice: non solo i rischi ambientali sono indivisibili, ma occorre superare i conflitti sempre più aspri tra le nazioni ed i blocchi. Tutto il contrario della estensione della Nato, che Trump ha appena auspicato per includervi i Paesi del Medio Oriente, ed alla prospettiva di farvi aderire da subito l’Australia in funzione anti-Cina.

Anche il soffitto di cristallo del maschilismo viene sfondato: nella home page del Meeting 2020, nelle foto degli ospiti di livello mondiale compare per prima Greta Thunberg, definita Climate and Environmental Activist; solo dopo, appaiato alla giovane svedese, compare Donald Trump, l’unico uomo in partita.

Occorre andare a fondo su questa contrapposizione di strategie che emerge a Davos.

Trump ha tre obiettivi principali: riequilibrare le relazioni commerciali verso l’estero iniziando con la Cina, chiedendo di aumentare le importazioni di merci e servizi statunitensi; riportare a casa una serie di produzioni di alta tecnologia fin qui delegate a Paesi terzi; considerare la sfida portata dalla Cina alla supremazia americana come una priorità assoluta, sul piano della contrapposizione geopolitica.

E’ importante, a questo punto, analizzare il mix di maggiori importazioni cinesi dagli Stati Uniti, su cui si fonda l’accordo appena raggiunto nella Fase 1 della trattativa. E’ un piano dirigista, che non lascia nessuno spazio alle dinamiche del mercato: la Cina si è impegnata ad acquistare ulteriori beni e servizi americani per 200 miliardi di dollari entro la fine del 2021, di cui 77 miliardi già nel 2020. Conseguentemente, l’export americano verso la Cina dovrebbe arrivare a 263 miliardi entro la fine di quest’anno ed a 309 miliardi nel 2021.

Il maggiore import cinese è predeterminato per settori merceologici: per i prodotti manifatturieri si tratta di +32,9 miliardi nel 2020 e +44,8 nel 2021; per i prodotti agricoli sono +12,5 miliardi nel 2020 e +19,5 nel 2021; per gli energetici +18,5 miliardi nel 2020 e +33,9 nel 2021; per i servizi appena +12,8 miliardi nel 2020 e +25,1 nel 2021.

A farne le spese sarà il resto del mondo: in un sistema a somma zero, se la Cina comprerà più prodotti americani, dovrà ridurre l’import dagli altri Paesi. E’ una pianificazione dirigista, inaccettabile per il mondo che si riunisce a Davos.

La strategia di Trump rifugge inoltre dalle prospettive di crescita fondata su nuovi paradigmi produttivi: punta sul riequilibrio delle produzioni tradizionali, con un rapporto tra merci e servizi che vale 3 ad 1. Per crescere, l’economia americana deve tornare all’agricoltura ed all’industria, e non insistere sui servizi. Non c’è niente di innovativo, a differenza di Ronald Reagan che già professava le virtù della New Economy basata su Internet.

Meno ancora ci si fida delle bardature regolamentari, come quelle ambientali dei Clean Air Act californiani. Le preoccupazioni climatiche, i rischi che derivano da un aumento della temperatura del Pianeta, la decarbonizzazione della produzione e la prospettiva di azzerare l’incremento delle emissioni di CO2 sono completamente assenti dall’agenda di Trump, mentre sono il fulcro di quella di Davos 2020.

Trump si propone di ridurre gli squilibri commerciali americani mantenendo invariate le politiche industriali e quelle finanziarie, intrattenendo relazione politiche bilaterali con i partner in attivo strutturale, per spostare i luoghi della produzione verso gli Usa e chiudere così la forbice con i consumi .

Di segno completamente opposto è la strategia che viene sposata a Davos, che si fonda sui rischi sistemici derivanti dai cambiamenti climatici e sulla insostenibilità ambientale delle produzioni in atto. Si propone un cambio di paradigma, che è allo stesso tempo produttivo e finanziario, analogo a quello cui si assistette del lancio di Internet, con la creazione del Nasdaq e con la valutazione finanziaria delle imprese del tutto svincolata dalle performance economiche attuali.

Già oggi, la capitalizzazione di Borsa di Tesla arriva a ben 85,8 miliardi di dollari, quando la somma di quelle di Ford e GM è di 87 miliardi. Il mercato sconta per Tesla una crescita ed una redditività futura impareggiabile, nonostante abbia venduto lo scorso anno meno di 400 mila vetture, quando GM ne ha vendute 2,9 milioni solo negli Usa e la Ford ben 123 mila in Italia.

I green bond costituiscono parimenti un nuovo segmento del mercato finanziario, che si muove in autonomia ed a cui gli operatori dedicano particolare attenzione. Anche le banche centrali saranno coinvolte: i prossimi Qe, chissà, avranno come oggetto l’acquisto di titoli ricompresi in questa categoria, nonostante le preoccupazioni per l’annacquamento delle caratteristiche di innovazione e di sostenibilità degli investimenti sottesi.

C’è una ragione fondamentale che unifica la strategia ambientalistica di Davos: siamo in presenza di un sovrappiù di capacità produttiva istallata ed ad una stasi generalizzata degli investimenti: si comprano le aziende marginali solo per chiuderne gli impianti, come è evidente nel caso della siderurgia. Anche il settore delle auto è ingolfato, e la creazione di gruppi sempre più grandi serve solo a mettere in comune gli investimenti in innovazione.

Dopo il passaggio dall’agricoltura all’industria, e da questa ai servizi, ora c’è solo la prospettiva di un aumento della disoccupazione tecnologica.

Detto con parole che erano di moda in altri tempi, a Davos si prefigura un “nuovo modello di sviluppo”, ma a condizione di mantenere in vita il modello capitalistico di produzione e di ridurre i rischi di una nuova crisi per il sistema finanziario. Così facendo, la instabilità sistemica non deriverebbe più dagli squilibri commerciali sull’estero o dalle ricorrenti bolle dei debiti e dei valori mobiliari o immobiliari, come è accaduto finora.

Senza avere il coraggio di affermarlo, è la fiducia nelle politiche monetarie ad essersi ormai azzerata, mentre ovviamente si continua a diffidare delle tradizionali manovre keynesiane. Serve una nuova politica dell’offerta, imposta a livello globale.

Invece di ridurre gli squilibri internazionali attuali, e di scongiurare i rischi legati alle varie bolle, si cerca una alternativa al paradigma della moltiplicazione dei consumi. La loro complicazione, stavolta, passa dalla creazione di un nuovo driver, la crescita fondata sulla sostenibilità ambientale.

Mentre Donald Trump, cerca assai brutalmente di mettere ordine al mondo attuale, a sfidarlo, a Davos, sarà Greta Thunberg. E’ un’icona senza identità politica e senza passato, cui si accodano i veri facitori del racconto, col marketing di un mondo tutto nuovo, bello e possibile: “Son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”.

martedì 21 gennaio 2020

SALVINI,UN CRIMINALE ITALIANO

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Già vedere Salvini o sentirlo parlare è come avere un grappolo di emorroidi,un fastidio continuo che provoca una rassegna di bestemmie e di lamenti,ed ora che da bravo narcisista e con altre varie patologie psichiche da uno di"quelli bravi",ci ha stressato sulla vicenda della nave Gregoretti e sul suo garantismo a giorno alterni(così come il suo antisemitismo)e sul fatto che si proceda ad essere indagato e processato.
Una vetrina elettorale cucita apposta per il suino milanese che non sarà mai dichiarato colpevole,anche dai giudici che intima di andare a lavorare,lui che è in politica da sempre e che le mani se le è sporcate solamente con rubli,diamanti e 49 milioni di Euro.
Salvini,che invoca il popolo,che afferma che dovrebbero costruire un'aula grandissima per contenere tutti i milioni di italiani che sono dalla sua parte,uno che è sostenuto dal popolo italiano e che in realtà è molto meno di tutto questo,un criminale come ce ne sono tanti,solo che lui ha fatto del gossip e soprattutto del nulla politico un'arma potente visto anche l'analfabetismo funzionale degli italioti.
Nell'articolo(left.it )ecco un relitto umano ormai caricatura di se stesso,un essere vile e schizoide che vuole farci affondare con lui alla guida di un Italia che abbiamo già visto in pochi mesi tutto il male e l'odio fatto e propagandato.
Un inetto,un'idiota che se davvero ci fosse una giustizia del popolo lo vedrebbe appeso ad un lampione come un suo funesto predecessore.

Come un coniglio che abbaia.

di Giulio Cavalli
Siamo alle battute conclusive, Salvini andrà a processo per avere lasciato alla deriva una nave militare italiana (la Gregoretti) con l’intento di lanciare un segnale all’Europa e per potere fingere di avere chiuso i porti anche se mai i porti siano stati chiusi. Oggi è il giorno tanto atteso e si voterà per l’autorizzazione a procedere. Si alzerà molto fumo, ci saranno molte parole e regnerà il chiasso. Il chiasso fa comodo a tutti, sia a quelli che possono fingere di avere vinto (chissà che cosa, poi, mandando qualcuno a processo) e ci saranno quelli che potranno insistere nel fare le vittime.

Salvini è riuscito a fare il solito Salvini, del resto è schiavo di se stesso, e dopo avere citofonato in giro un po’ a tutti con il piattino in mano ora si è inventato che si farà processare perché l’ha deciso lui. Sono come i fidanzati che vengono lasciati ma alzano il divino per dire «però volevo lasciarti prima io». Una cosa così. E come accade spesso per quelli che sanno di avere torto ora il trucco sarà quello di rivendere il fatto di essere processato come un tentativo di condanna. Forti questi garantisti, solo quando riguarda gli altri.

Poi c’è il solito refrain de “il popolo è con me”, ora rilanciato con un “è un processo al popolo”. Come se davvero Salvini fosse convinto di essere proprietario del sentire comune e come se non si rendesse conto che nessuna giudica le sue convinzioni politiche ma lo Stato ha il dovere di giudicare i suoi comportamenti. Di tutti. Di lui e del suo popolo che troppo spesso negli ultimi mesi è stato protagonista del’Italia peggiore.

Però in tutto questo c’è un punto sostanziale: Salvini era scappato da un processo per lo stesso motivo frignando dagli ex alleati del Movimento 5 Stelle, ha cercato in tutti i modi di salvarsi anche questa volta (nonostante come sempre dica che è una medaglia sul petto) e ora dice di volersi fare processare. Vi sembra credibile? Come un coniglio che abbaia.

Buon lunedì.

sabato 18 gennaio 2020

NICOLA GRATTERI E LA MONTAGNA DA SCALARE


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Che il Procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri sia nel mirino della 'ndrangheta da anni è risaputo,la brama di vederlo morto dev'essere tra i principali obiettivi dei malavitosi che di strada ne hanno fatta dal controllo della Calabria ad un contesto internazionale negli ultimi decenni.
Tutto ciò grazie all'omertà delle persone e da una politica che se non ha contrastato attivamente e in maniera decisiva questi bastardi ne ha addirittura agevolato l'azione,e proprio il collegamento a doppio filo che lega le ndrine ai vertici dello Stato(vedi:madn un-carcere-intero ),che di fatto ha sorpassato quello che la mafia esercitava negli anni ottanta e novanta(in primis con Andreotti),è sotto la lente d'ingrandimento di Gratteri e degli uomini ai suoi ordini.
Ma non si parla solo di politici come detto nell'articolo proposto(left svelare-il-nesso-tra-mafia-e-poteri-forti-riuscira-gratteri )in quanto i poteri forti che sono coinvolti vedono anche
massoni,banchieri,magistrati,avvocati,giornalisti ed industriali protagonisti in prima linea in questa desolante e triste storia di una nazione che da sempre ha contraddistinto la propria società fin dalla sua nascita.
Proprio oggi a Catanzaro è in corso una manifestazione a favore del Procuratore e della decisione di aver compiuto una vasta operazione anti'ndrangheta nei giorni scorsi,osteggiata da ambienti politici e giudiziari,ostacolata proprio dallo Stato.
Sempre qui sotto si fa il parallelismo con altri due personaggi fondamentali nella lotta contro la criminalità organizzata,Falcone e Borsellino,che hanno pagato con la vita le loro indagini sulle relazioni tra la mafia e lo Stato,abbandonati da quest'ultimo sperando davvero che questo governo riesca a sostenere il lavoro difficile di Gratteri che sembra proprio difficile come una montagna da scalare.

Svelare il nesso tra mafia e poteri forti: riuscirà Gratteri nell’impresa tentata da Falcone e Borsellino?

di Vincenzo Musacchio
L’indagine sulla ‘ndrangheta denominata Rinascita-Scott e condotta da Nicola Gratteri conferma ciò che da qualche tempo scriviamo. Esistono punti di collegamento tra i vertici della ndrangheta e centri occulti di potere che hanno interessi comuni con quest’organizzazione criminale. Per noi cittadini è arrivato il momento di comprendere che la “nuova ndrangheta del terzo millennio” ha acquisito rapporti stretti con i poteri forti, nazionali e internazionali.

L’importanza storica dell’indagine di Gratteri, pertanto, dipenderà dal riuscire a provare in giudizio l’esistenza di una rete, ove si anniderebbero questi poteri forti, una sorta di “super comitato”, costituito da uomini politici, massoni, banchieri, giornalisti, alti burocrati dello Stato (magistrati, avvocati, docenti universitari), industriali, che influenzerebbe (direttamente o indirettamente) anche le sorti dello Stato italiano e della sua democrazia.

I poteri forti nazionali costituiscono il cosiddetto terzo livello, mentre quelli sovranazionali realizzerebbero il quarto livello, di cui ancor poco si sa e si scrive. La ‘ndrangheta calabrese prima di tutte le mafie italiane ha compiuto, con particolare arguzia, un vero e proprio avanzamento di qualità riuscendo a cogliere, meglio di altri, le opportunità offerte dalla globalizzazione dei mercati, così come dall’abbattimento dei confini e dalle innovazioni tecnologiche. Ha compreso che la propria pervasività dovesse estendersi alle organizzazioni e alle multinazionali (il quarto livello) abbastanza grandi da contare e pesare nello scenario politico ed economico non solo nazionale ma anche internazionale. Si è organizzata con le strutture intermedie attive ormai in ogni parte del mondo (Americhe, Asia, Australia, Nuova Zelanda, solo per citarne alcune).

La ‘ndrangheta ha capito il ruolo che la globalizzazione dell’economia avrebbe giocato e si è adeguata ai tempi per il semplice fatto che l’attività predatoria di questo tipo di organizzazioni criminali si rivolge sempre verso la ricchezza. Oggi, la ‘ndrangheta è una “impresa multinazionale” entrata a pieno titolo nell’economia globale. Lo stretto legame di consanguineità tra i consociati le consente di espandersi in maniera organica, di accreditarsi con forza (usando violenza o corruzione) in circuiti che sono utili per condizionare scelte politiche e amministrative o regolare rapporti con imprese, enti, banche e istituzioni nazionali e sovranazionali.

La nuova ndrangheta organizzata possiede il know-how relazionale e professionale necessario per mimetizzarsi nell’economia legale rinsaldando alleanze affaristico-mafiose tra consorterie di matrice nazionale e internazionale. L’immensa quantità di denaro di cui dispone la ndrangheta – una massa in continua crescita derivante dal traffico di stupefacenti sempre più lucroso e organizzato – fa si che possa inevitabilmente aggirare, infrangere, piegare ai propri interessi, le leggi dei singoli Stati in cui intende estendere i propri loschi affari.

Per far ciò ha assoluto bisogno dell’appoggio di questi poteri forti. Per rendersene conto basta osservare il comportamento delle multinazionali, dei colossi della finanza, degli operatori dell’economia globale. I principi che li guidano sono gli stessi di quelli mafiosi e la compatibilità e l’adattamento fra i due sistemi sono sostanzialmente analoghi. Una prova di quanto affermato: il contrabbando e tratta degli schiavi e i giovani che abbandonano il Sud non solo per la mancanza di lavoro ma perché non intravedono il futuro di questi territori.

Se rileggessimo gli scritti di Giovanni Falcone, ci tornerebbe a mente come, la mediazione di questi poteri forti era essenziale per le mafie ed era vista da queste ultime come il modo più sicuro, rapido ed efficiente di garantire rapporti finalizzati alla realizzazione del massimo utile possibile. Questo quarto livello, dunque, è molto più pericoloso del terzo e indubbiamente segna il passaggio per la ‘ndrangheta, non da ora, da dimensioni puramente localistiche e nazionali a un livello d’incidenza globale.

La ‘ndrangheta è diventata negli anni un soggetto politico ed economico di livello sovranazionale e la globalizzazione ha rappresentato un ottimo propulsore per la sua espansione. Sono sempre stato convinto che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino siano morti perché, probabilmente, avevano toccato i fili del livello internazionale e mediante le loro analisi finanziarie, complesse e profonde, erano arrivati a individuare quei “poteri forti” sovranazionali (penso alle indagini condotte con Carla Ponte in Svizzera). Furono, presumibilmente, uccisi perché quel livello sovranazionale una volta scoperto, avrebbe rivelato scenari impensabili e inimmaginabili per la pubblica opinione. Avrebbe svelato connessioni tra mafie e poteri militari, oligarchico-finanziari e politici collegati tra loro per scopi non di certo leciti.

Ci riprova oggi Nicola Gratteri cosciente che esista una mafia senza confini che spesso è influenzata da nuovi poteri forti anche a livello sovranazionale. Dobbiamo, pertanto, domandarci se siamo pronti a contrastare questa nuova dimensione delle mafie moderne come lo è oggi la ndrangheta. Dobbiamo chiederci se Gratteri sarà supportato dallo Stato, oppure sarà osteggiato. Ai posteri l’ardua sentenza!

* Vincenzo Musacchio, giurista, associato per il Diritto penale alla School of Public affairs and administration della Reuters University di Newark

venerdì 17 gennaio 2020

LE CONSEGUENZE SULL'ACCORDO TRA PECHINO E WASHINGTON


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L'accordo stipulato tra gli Usa e la Cina potrebbe mettere nei guai tutto il sistema economico europeo e di gran parte del resto del mondo,perché con la firma tutte e due le potenze dichiarano di essere soddisfatte anche se alla fine Trump forse ha portato a casa qualcosina in più,o meglio lo fa credere perché come al solito abbaia più forte,gli interessi bilaterali tra i due paesi fanno tremare le gambe a chi è rimasto fuori.
C'è di sicuro che la guerra dei dazi si sgonfia(madn dazi-nostri )sul fronte Pechino-Washington,mentre in altri ambiti,tipo Ue e Turchia,non sembra che vi siano notizie positive,con l'Italia come al solito spettatrice muta in uno scenario che potrebbe vedere tragiche ricadute sugli export.
Con gli Usa che in pratica obbligano la Cina ad acquistare merci alimentari e prodotti agricoli per svariati miliardi di Dollari,le certezze che l'Ue e soprattutto l'Italia continuino ad avere gli stessi volumi di commercio sia con la Cina che con gli Usa,che già hanno imposto tasse su prodotti tipici del belpaese,si affievoliscono e ci saranno perdite in doppia cifra:articolo di Contropiano(lintesa-usa-cina-e-la-fine-della-new-economy ).

L’intesa Usa-Cina e la fine della new economy.

di  Kartana 
E finalmente arrivò la firma e la tregua della guerra commerciale tra gli americani e i cinesi.

Due anni di scontri, di stop and go, con le borse mondiali che salivano o scendevano a secondo dell’umore di Trump e della risposta cinese.

Cinesi sornioni, pazienti, fermi nei loro punti. Americani sempre pronti a dichiarazioni alla stampa, una volta bellicosi, l’altra pacifici. Bipolarismo della Casa Bianca assoluto.

La pazienza cinese ha avuto la meglio, ma gli americani, c’è da dirlo, hanno avuto una vittoria storica. Vediamo i 5 punti.

La Cina si impegna nei prossimi due anni a maggiori importazioni americane per un totale di 200 miliardi, dimezzando il surplus commerciale che nel 2019 è diminuito dell’8,5% nei confronti degli Usa e si attesta a 285 miliardi. 32 miliardi in più di prodotti agricoli, 50 miliardi in più di prodotti energetici e petrolchimici, 80 miliardi in più di prodotti industriali (auto, aerei, componentistica, ecc.), 40 di servizi finanziari.

Quel che si presumeva essere un’intesa basata sugli interessi di Wall Street è in realtà un accordo basato sulla old economy. Infatti, solo il 20% dell’intesa riguarda la finanza americana, il resto settore primario e industria.

L’impatto occupazionale di 40 miliardi di servizi finanziari è enormemente inferiore all’impatto sugli 80 miliardi di prodotti industriali.

Un altro aspetto è il dirigismo dell’intesa. Trump ha voluto tot di industria, tot di agricoltura, tot di servizi finanziari, una cosa che non si era mai vista in Usa. Trump valuta l’impatto occupazionale dell’intesa sulla classe operaia americana  e soprattutto punta sul plusvalore derivante dall’industria e non sul capitale fittizio della finanza americana.

Un mondo è finito, addio alla new economy, quel che da noi non si è ancora capito. Il profitto industriale, e del settore primario, è alla base dell’intesa tra americani e cinesi.

Da questo punto di vista gli Usa copiano dopo decenni la Cina, l’industria torna dopo decenni centrale per gli Usa.

Chi ci perde? Nei prodotti agricoli senz’altro Argentina, Brasile e la stessa Ue. Ieri, sul Corriere della sera, il Presidente di Confagricoltura stimava in 130 miliardi l’export europeo di prodotti agricoli e agroalimentari in Cina. Con quest’intesa perderanno il 30% del mercato asiatico.

Sulle auto perdono gli europei, così come suglia aerei e sugli altri prodotti industriali. Wall Street e Unione Europea escono sconfitti da questa intesa.

Gli Usa ritornano al  profitto industriale per far calare il capitale fittizio e aumentare l’occupazione americana. L’Unione Europea si sogna l’austerità verde. Gli Usa si sono garantiti nei prossimi anni sbocchi di mercato alla loro strategia di reindustrializzazione.

Che dire? Bel colpo, quello tra americani e cinesi.

giovedì 16 gennaio 2020

L'ASSIST DI MEDVEDEV PER PUTIN


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L'asso pigliatutto Putin,come da pronostico visti gli ultimi segnali provenienti dal Cremlino,ha deciso di proseguire l'alternanza tra essere Presidente e Premier in un ping pong che dura di più di vent'anni annunciando cambiamenti alla Costituzione russa a breve tempo in modo da conferire più poteri esecutivi alla carica di Primo Ministro livellando quelli della carica che ricopre ora e che dovrebbe mantenere fino al 2024.
Dopo questo annuncio prontamente l'attuale premier Medvedev,anche lui alternatosi alla guida presidenziale della Russia,ha rassegnato le proprie dimissioni assieme a quelle del governo,accolte favorevolmente da Putin che ha già incaricato Mikhail Mišustin per la formazione di un nuovo esecutivo che avrà proprio nelle riforme costituzionali il principale scopo,dopodiché presumibilmente questo governo di transizione cesserà la ragion d'essere per dare via ad una consultazione elettorale.
Mišustin è l'ex capo del servizio fiscale federale,e assieme a Medvedev che ora è il nuovo vice Presidente del Consiglio di sicurezza,carica coniata all'occasione proprio ora per lui,sono due fedelissimi di Putin che se al di fuori dei confini russi è personaggio di spicco nelle questioni internazionali,ago della bilancia necessario nella geopolitica mondiale,in casa sta vivendo momenti meno felici anche se il dissenso a Mosca non viene facilmente esternato e diffuso sia dentro che fuori dalla nazione.
Nell'articolo di Contropiano(putin-prepara-la-strada-al-proprio-futuro-politico )i futuri piani sociali,politici ed economici che andranno ad interessare positivamente gli oligarchi russi a scapito di una maggioranza della popolazione che rimpiange l'avere poco ma per tutti del comunismo,in un clima di diseguaglianza sotto tutti gli aspetti sempre maggiore e tragica.

Putin prepara la strada al proprio futuro politico.

di  Fabrizio Poggi
Che qualcosa di significativo fosse nell’aria era stato chiaro sin dall’antivigilia. Il fatto che Vladimir Putin avesse anticipato al 15 gennaio il messaggio all’Assemblea Federale, che tradizionalmente rivolgeva un po’ più tardi, aveva messo sull’avviso.

E infatti è arrivata puntuale la stangata: di fronte a deputati, senatori, Governo, presidenti di Corte costituzionale, Corte dei Conti, Procuratore generale e patriarca Kirill, Putin ha elencato una serie di non poco conto di correzioni costituzionali da apportare ai poteri di Duma, Consiglio di Stato, autonomie regionali. Dopo di che, con una rapidità difficilmente scambiabile per “casuale”, sono arrivate le dimissioni dell’intero governo e la candidatura del nuovo Presidente del consiglio da parte di Putin. Tutto questo, tra le 10 e le 15 di mercoledì 15 gennaio.

Passa così, dal puro campo speculativo a quello delle reali manovre di potere, quanto ipotizzato da tempo e messo poi nero su bianco oltre un anno fa, in coincidenza con alcune esternazioni del Presidente della Corte costituzionale, Valerij Zorkin. In sintesi, non una nuova Costituzione, ma alcuni “aggiustamenti” dell’attuale carta eltsiniana, nel quadro di una revisione della ripartizione dei poteri tra i massimi organi statali; un maggior bilanciamento tra esecutivo e legislativo, e anche tra Presidente e governo; più “sintonia” tra potere centrale e regioni: quello che Zorkin aveva definito come “necessità che il governo locale divenga l’anello più basso del potere centrale”.

E, non di poco conto: prevalenza sia della Costituzione, sia di tutta la legislazione russa, sulle norme internazionali. Il potere, scrive oggi ROTFront, sta compiendo “un ulteriore passo verso l’arbitrio. Ora, sarà possibile adottare qualsiasi legge che annulli l’efficacia degli accordi internazionali, in primo luogo i diritti umani e gli interessi dei lavoratori: sarà possibile, ad esempio, annullare l’effetto sul territorio russo delle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro”. Ancora: si potranno ignorare “trattati e norme internazionali che interferiscano con le opportunità della borghesia russa, si potranno introdurre dazi su import e export e sarà molto più facile per i capitalisti russi eludere le sanzioni internazionali”.

Secondo Putin, le modifiche proposte non incidono sui fondamenti della Carta, così da poter essere approvate dal Parlamento con procedura normale. La Russia rimane in ogni caso una Repubblica presidenziale.

Dopo alcuni punti, che sembravano messi apposta per rispondere alle richieste dell’opposizione di sinistra (il KPRF di Gennadij Zjuganov ha da anni al centro della propria politica la parola d’ordine “Dimissioni del governo Medvedev”), in particolare sui problemi sociali più acuti – pauroso calo demografico, sostegno alle famiglie, istruzione, sanità, salario minimo, minimo di sussistenza, ecc. – Putin è venuto al dunque delle variazioni costituzionali, da sottoporre al voto dei cittadini, forse con referendum. Dunque: trasferimento della nomina di Premier e Ministri nelle mani dell’Assemblea federale (Duma e Senato), che oggi può solo dare il proprio consenso alla loro nomina da parte del Presidente.

Se la correzione verrà accolta, saranno i deputati ad avanzare le candidature e il Presidente non potrà respingerle, pur mantenendo il diritto di congedare il Governo. Per quanto riguarda rafforzamento e istituzionalizzazione del Consiglio di stato (sul cui ruolo l’attuale Costituzione tace), non pochi lo vedono quale nuova poltrona, di peso, per Vladimir Putin, allorché nel 2024 dovrà lasciare il Cremlino in mano a una figura presidenziale che sarà ben lontana dai poteri concessigli oggi dalla Costituzione e un Governo controllato dalla Duma.

Per il politologo Aleksej Makarkin, il discorso di Putin significa che la trasmissione di poteri è già iniziata e la prospettata sostanziale limitazione del futuro Presidente potrà togliere “drammaticità” alla questione su chi sostituirà Vladimir Vladimirovič: chiunque sia, sarà una figura che non potrà mettere in ombra gli altri rami della élite .

Così, a tempo di record, Putin ha accolto le dimissioni di Medvedev e dei suoi Ministri e porterà oggi all’esame della Duma la candidatura del nuovo premier, il cinquantaquattrenne attuale capo del Servizio fiscale federale, Mikhail Mišustin. L’art.111 della Costituzione dice che il Premier è nominato dal Presidente con il consenso della Duma di Stato; al comma 4, specifica che, in caso di triplice diniego della Duma sulla candidatura del Premier, il Presidente nomina il Premier, scioglie la Duma e indice le elezioni. Per gli sprovveduti che avessero qualche dubbio, stamattina la Tass precisava che fonti di “Russia Unita” (343 deputati su 450 alla Duma) hanno già confermato che il partito sosterrà la candidatura di Mišustin. Da non credere!

Putin ha già trovato lavoro anche per il dimissionario Medvedev: per lui sarà istituita la nuova figura di vice Presidente del Consiglio di sicurezza.

Resta a vedere se, quanto e in cosa, su quali politiche, il nuovo governo si differenzierà dall’attuale, cui Putin ha chiesto di continuare il lavoro ordinario fino alla formazione del nuovo esecutivo.

La reazione del KPRF è stata affidata a Gennadij Zjuganov: “Insistevamo da tempo per un cambio di rotta e la formazione di un Governo di difesa degli interessi nazionali”. Riferendosi ai punti “sociali” toccati di sfuggita da Putin, Zjuganov ha detto che, “alla fine si sono resi conto che il paese sta morendo; noi appoggeremo una serie di proposte presidenziali. Ho più volte dichiarato che con questo corso non risolveremo nessun compito. È necessario un bilancio di sviluppo, che consenta al paese di avanzare sicuro, di rafforzare la sfera sociale, l’economia, la demografia”. Nel segno della “concordia nazionale”, di cui è da sempre assertore, Zjuganov ha detto: “Spero che, tutti insieme, faremo un passo in avanti”.

Quanto a passi, meno ottimista il suo compagno di partito, membro del Presidium del KPRF, Valerij Raškin che, per quanto riguarda le dimissioni del governo Medvedev, parla di “passo ammortizzatore”: di fronte alla profonda insoddisfazione del popolo, Putin “doveva pur sacrificare qualcosa e qualcuno”.

“La cosa più importante” ha detto stamani il futuro premier Mišustin, incontrandosi coi deputati di “Russia Unita”, è “rimuovere le barriere per il business, ridurre i costi per il business, parlare in modo concreto con il business”. Appunto.

L’ex deputato del KPRF, Ivan Nikitčuk, ha freddamente osservato che Putin, nel discorso del 15 gennaio, “i problemi chiave non li ha nemmeno toccati. Ad esempio, il fatto che giorno per giorno un pugno di oligarchi derubi il nostro paese, ne estragga tutte le ricchezze, creando così miseria di massa, mancanza di diritti, assenza di prospettive e di fiducia nel futuro, selvaggia stratificazione sociale”.

Su questo, attendiamo sfiduciosi.

mercoledì 15 gennaio 2020

MORTE DI UN REVISIONISTA


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Come si sa la memoria storica è un esercizio che si deve ricordare e rinnovare ogni giorno,e parlando prettamente della Resistenza italiana,della vittoria sui fascisti ed i nazisti traditori della patria,non ci si deve limitare solamente al 25 aprile.
A partire dal nuovo millennio infatti sempre più persone hanno tentato di accomunare le morti partigiane con quelle dei repubblichini,le baggianate e le bufale su inesattezze storiche dei tempi del fascismo,con i famosi quanto disgustosi"ma il fascismo ha fatto anche cose positive,Mvssolini ha fatto anche cose belle(tipo venire arrestato con la divisa tedesca per poi venire appeso)".
Uno dei massimi fautori di questo revisionismo storico è stato senza dubbio Giampaolo Pansa,che di diritto entrò nel 2008 in questo blog nella sezione Neuro Deliri(madn il-grande-sclerato )durante una sua presenza a Crema.
I suoi saggi e romanzi sulla Resistenza,tutto il fango,anzi la merda gettata addosso ai partigiani e alla loro lotta contro il nazifascismo sono scritti tangibili di quanto la menzogna possa tentare di passare come evento storico.
Dopo la sua morte i soliti commenti bipartisan di cordoglio,di quanto sia stato importante per il giornalismo italiano,una mente libera e critica,insomma come al solito da bambini tutti belli e da morti tutti santi.
Invece con le sue inchieste sgangherate e con le prove delle inesattezze(bugie vere e proprie)e manipolazioni storiche ha prodotto una scia di altri scribacchini e pennivendoli pronti a dissacrare la lotta partigiana e esaltare il patriottismo di gentaglia che della patria non ha mai avuto amore proprio,che ha abbracciato prima un'ideologia dittatoriale per poi vendersi al nemico.
L'articolo di Infoaut(antifascismonuove-destre e link inseriti)ci fa capire che personaggi come Pansa hanno influenzato la società e la politica italiana in modo peggiore e forse irreversibile,sdoganando di fatto il fascismo dopo decenni e rendendolo agibile nei partiti e nelle associazioni.

In morte di Giampaolo Pansa.

In Italia, negli ultimi vent’anni circa, il mainstream ha sdoganato e amplificato una grande quantità di bufale storiche e leggende d’odio antipartigiane che a lungo erano rimaste confinate nelle cerchie neofasciste.

La legittimazione e l’imprimatur da parte dei grandi media e della politica hanno incoraggiato i neofascisti a inventare sempre nuove bufale, ancora e ancora. Dalla fine degli anni Novanta, li abbiamo visti coniare storie di «eccidi partigiani» dei quali mai si era parlato, o aggiungere a storie vecchie dettagli sempre più macabri assenti dalle precedenti ricostruzioni. Inutile dire che tali aggiunte erano prive di pezze d’appoggio documentali: in queste storie, le fonti latitano e ci si affida alla «storiografia del nonno»: «Mio nonno raccontava che…»

L’avvento dei social media ha impresso a questo processo un’accelerazione fortissima: oggi una bufala storica antipartigiana può nascere e diffondersi in poche ore.
Su Facebook, ad esempio, prosperano pagine dove si sparano a casaccio cifre iperboliche — ovviamente prive del benché minimo riscontro — su presunti stupri compiuti da partigiani. Cifre implausibilmente precise, per farle sembrare basate su ricerche in realtà inesistenti: 3245, oppure 4768. Ebbene, la diffamazione dei partigiani fondata su accuse di violenza sessuale è un fenomeno divenuto popolare tra i neofascisti soltanto di recente, queste presunte «migliaia» di stupri sono assenti dalla stessa memorialistica e pseudo-storiografia di estrema destra pubblicata nel XX secolo.

La manipolazione di Wikipedia da parte di milieux neofascisti — o comunque anti-antifascisti — organizzati ha fornito pezze d’appoggio per queste operazioni: centinaia di pagine della Wikipedia italiana dedicate a fascismo, seconda guerra mondiale e Resistenza sono inquinate dalla propaganda di cui sopra. Ce ne siamo occupate molte volte.

Veniamo al punto: uno dei massimi responsabili di tutto questo è stato Giampaolo Pansa. Nel 2003, il suo bestseller Il sangue dei vinti — che, come ha fatto notare Wu Ming 1 in Predappio Toxic Waste Blues, conteneva una menzogna già nel titolo — inaugurò una produzione di «oggetti narrativi male identificati» che usavano come fonti la memorialistica repubblichina sulla guerra civile, ne accettavano le ricostruzioni piene di buchi e aporie, e riempivano i buchi ricorrendo a tecniche letterarie ed espedienti vari.

Tecniche ed espedienti prese più volte in esame: ne hanno scritto Ilenia Rossini nel suo L’uso pubblico della Resistenza: il «caso Pansa» tra vecchie e nuove polemiche (pdf qui) e Gino Candreva nel suo La storiografia à la carte di Giampaolo Pansa (pdf quipdf qui).

Al principio, la fama dell’autore, il suo essere «di sinistra» e l’uso strumentale e ambiguo di certi caveat e disclaimer — della serie «Io sono antifascista ma», «la Resistenza fu un fenomeno nobile ma» — ha reso subdola l’operazione. Oggi, certi caveat non c’è più bisogno di usarli: i romanzi-spacciati-per-inchieste che si inseriscono nel solco scavato da Pansa, come quelli di Gianfranco Stella, stanno platealmente, sguaiatamente, dalla parte di Salò (cioè, ricordiamolo sempre, di Hitler).

Chi si occupa di questo revisionismo non può che imbattersi in Pansa girando ogni angolo. È capitato più volte anche a noi, mentre smontavamo bufale di estrema destra alla cui circolazione l’ex-vicedirettore di Repubblica aveva dato un contributo fondamentale. In quelle occcasioni, abbiamo mostrato come Pansa avesse dato dignità di fonti ai libri di pubblicisti di estrema destra come Pisanò, Pirina o Serena, o di improvvisati “storici” locali, “abbellendo” quelle storie con ulteriori dettagli e svolazzi.

Qui si possono trovare le inchieste dove abbiamo parlato (anche) di lui, unitamente ad alcuni scritti di Wu Ming, come il già citato Predappio Toxic Waste Blues, dove si smontano le retoriche pansiane.

Oggi che la morte di Pansa suscita uno scontato cordoglio bipartisan e il suo nome sta per essere accolto nel canone della «memoria condivisa», noi vogliamo ricordare i danni gravissimi che i suoi libri e i polveroni mediatici che si compiaceva di suscitare hanno arrecato alla cultura storica e alla memoria pubblica in Italia.

Pansa è morto, ma il pansismo resterà con noi a lungo, purtroppo.

Di Nicoletta Bourbaki su medium

martedì 14 gennaio 2020

LO SCACCHIERE LIBICO E MEDITERRANEO


L'incontro di Mosca di ieri sulla situazione libica e che ha visto Haftar abbandonare il tavolo delle trattative con Al Serraj,Putn ed Erdogan,è stato un buco nell'acqua e la tregua che ha preceduto l'appuntamento diplomatico non dovrebbe essere molto lunga.
Infatti il cessate il fuoco auspicato dai più non ha convinto il generale Haftar,che è il capo milizia che ha saputo mettere assieme il maggior numero di tribù nella Libia post Gheddafi,e l'articolo preso da Contropiano(internazionale-news )parte proprio dall'eliminazione del Rais cercata e trovata dalla Francia seguita dall'Italia dell ex grande amicone Berlusconi e dagli Usa come elemento scatenante di questa guerra.
Che era fin troppo facile da predire visto che Al Serraj,il fantoccio messo al potere a Tripoli dagli invasori,non è stato accolto bene proprio nella capitale e figuriamoci nella Cirenaica dove fin da subito non è stato riconosciuto il governo precostituito dall'Ue e dagli Usa.
Questi ultimi si sono al momento tirati fuori mentre la Russia e la Turchia hanno preso i posti principali se non nell'eventuale spartizione di territori e beni nelle future ricompense rispettivamente di Haftar e Al Serraj,visto che gli investimenti ci sono stati,ci saranno e sono ingenti.
Non ultimo viene trattata la mira espansionistica non solo dei confini di terra ma anche marini di Erdogan,con le mire di volere accaparrarsi tratte del Mediterraneo che ora sono sotto il controllo greco e cipriota,in un progetto più ampio che coinvolgono le tante nazioni che si affacciano sul Mare Nostrum,da Israele all'Egitto passando per l'Italia(vedi anche:madn la-libia-e-la-nuova-siria ).

Haftar non firma il cessate il fuoco, la Ue prepara i militari.

di  Dante Barontini - Guido Salerno Aletta 
Follow the money, quando vuoi capire come c’è in ballo al di sotto di mosse altrimenti incomprensibili. Ma segui anche il percorso delle armi, quando il minuetto della diplomazia palesemente non determina più le relazioni tra Paesi o frammenti di questi.

La Libia è esplosa quando quell’imbecille ambizioso di Nicolas Sarkozy ha deciso di buttar giù militarmente Muammar Gheddafi per prendere possesso in via privilegiata dei terminali di petrolio e gas fin lì gestiti prevalentemente dall’Eni. Il “geniale” e ricattatissimo Silvio Berlusconi gli andò dietro (contro “gli interessi dell’Italia”), in un’operazione folle che non prevedeva nessun regime change credibile. Destabilizzare un equilibrio – gestito con indubbia “durezza” – in un mosaico di tribù è dar via a una guerra civile infinita, non certo a una “più avanzata democrazia”.

Da allora è successo di tutto. E siamo arrivati al vertice di Mosca, ieri, in cui il padrone della situazione sul piano militare – il generale Haftar – si è rifiutato di sottoscrivere un cessate il fuoco contrattato tra Vladimir Putin e Reyyip Erdogan, neo sponsor principale del “sindaco di Tripoli”, Al Serraj.

Sui media mainstream si sprecano le interpretazioni interessate, univocamente orientate a dimostrare che “gli altri” (Russia, Turchia, Egitto, Emirati, ecc) agiscono solo sulla base degli “interessi”, mentre l’Italia e l’Unione Europea avrebbero come faro la “legalità internazionale” e naturalmente “la pace”.

Menzogne.

Da anni la Libia è vista da tutti come un forziere, un tesoro pressoché indifeso ma pericoloso. Sembra una contraddizione, ma non lo è. La libia è indifesa perché lì è stato distrutto lo Stato, con l’abbattimento violento di Gheddafi. E’ stata con lui annientata l’infrastruttura amministrativa, l’esercito, la polizia, l’autonomia decisionale – ripetiamo – in una società fatta di tribù, dove l’appartenenza si misura su una base simil-familiare estesa.

Ma è anche un posto pericoloso perché ogni tribù ha le sue milizie armate. Certamente in modo insufficiente per ricostruire l’unità del Paese o contrastare un’invasione straniera. Ma abbastanza da rendere la vita degli occupanti molto difficile, se non impossibile.

Haftar è il più forte dei “capi-milizia”, è riuscito federare di nuovo tribù diverse, ma anche lui dipende per le armi dai rifornimenti stranieri – Egitto e Russia, in primo luogo; ma anche Francia (alla faccia dell’unità europea…) – che dovrà ripagare con contratti di sfruttamento delle risorse energetiche.

Al Serraj è invece solo un fantoccio portato lì dalle truppe Usa ed europee, fatto sbarcare dopo giorni perché nessuno – neanche a Tripoli – era disposto ad accettarlo come “capo”. Lui, ancora più di Haftar, deve ripagare l’appoggio straniero con promessa di contratti di sfruttamento delle stesse risorse.

Peggio. La sua debolezza politica, tribale e militare lo ha condotto a cercare l’appoggio della Turchia, l’unico paese, per il momento, disposto a mandare proprie truppe sul terreno, oltre che a rifornimenti militari.

Un “tradimento” degli sponsor occidentali che ha momentaneamente congelato gli appoggi sia diplomatici che in armi, e che sembra costringere ora l’Unione Europea a un intervento militare vero e proprio: il primo in completa autonomia anche dal tradizionale leader delle avventure militari, gli Stati Uniti.

Sono quasi costretti a farlo perché il “traditore” Al Serraj ha promesso a Erdogan qualcosa che stravolge la “legalità internazionale”, estendendo la propria “sovranità” (concetto ridicolo per un fantoccio che controlla a malapena una città sotto assedio) sulle acque territoriali fino a farle confinare con quelle turche (altrettanto estese arbitrariamente). Il che pesta ovviamente i piedi a mezzo Mediterraneo, a cominciare dai paesi membri dell’Unione Europea che a questo punto chiedono una tutela militare dei propri interessi: Grecia, Cipro, Malta.

Per non parlare dell’Egitto e persino di Israele, che stava procedendo nello stesso senso (espropriando di fatto la fascia costiera di Gaza e “invadendo” la Zee destinata a Cipro).

Come si vede, nulla di quel che viene raccontato sui media mainstream corrisponde a quel che avviene davvero. Solo propaganda per preparare la popolazione al “fatto nuovo”: stiamo entrando in una spirale di guerra estremamente pericolosa, in un paese “alle porte di casa” di cui qualche “geniale” fascioleghista di era occupato solo ai fini di “limitare gli sbarchi” (come del resto il “democratico” Minniti prima di lui).

Per chi vuole seguire nei dettagli the money, a proposito del bubbone libico, consigliamo l’analisi di Guido Salerno Aletta, come sempre chiaro ed efficace.

*****

La questione della Libia è esplosa

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

La questione libica investe ormai gli equilibri di tutto il Mediterraneo: non si tratta più solo della instabilità interna, del conflitto tra le fazioni e le tribù e della rivalità tra Italia e Francia, che risale allo “schiaffo di Tunisi” di fine Ottocento; è tutto il contesto geopolitico delle alleanze in corso ad essere cambiato.

Gli Usa si sono ritirati dallo scacchiere, mentre la Russia si è messa comoda al tavolo. La Turchia si sta mettendo in mezzo, non solo in senso politico ma geografico, dacché cerca di creare un vero e proprio asse marittimo che taglia in due il Mediterraneo centrale, con ambizioni neo-ottomane.

Non solo Ankara ha proceduto alla formalizzazione di un accordo di assistenza militare con il governo di Tripoli, ma ha manifestato unilateralmente la pretesa di sfruttare le risorse energetiche sottomarine che invece spettano a Cipro e Grecia, con un accordo contestualmente raggiunto con Tripoli sulle rispettive giurisdizioni marittimi. Passando per meridiani, si crea una zona economica esclusiva che congiunge senza soluzione di continuità le coste turche a quelle libiche, in violazione delle Convenzioni internazionali.

La Turchia si attribuisce autonomamente non solo la possibilità di estrazione di gas e petrolio in un’area strategica per più nazioni del Mediterraneo orientale, ma soprattutto un potere decisionale sui gasdotti che attraverseranno quei tratti di mare. Ostacola da subito il passaggio dell’Eastmed, proveniente dai giacimenti israeliani già in produzione, per il quale l’Accordo doveva essere firmato ad Atene il 2 gennaio scorso, alla presenza del premier greco Kyriakos Mitsotakis, di quello israeliano Benjamin Netanyahu e del presidente cipriota Nikos Anastasiades. Successivamente anche l’Italia dovrebbe congiungersi al progetto.

La reazione di Atene all’accordo turco-libico sulla giurisdizione marittima è stata violentissima: l’ambasciatore di Tripoli ad Atene è stato espulso, per quella che il Ministro degli Esteri ellenico ha definito “un’aperta violazione del diritto di navigazione e dei diritti sovrani di Grecia e di altri Paesi”.

Il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, ha stigmatizzato gli accordi, definendoli non legittimi: è inaccettabile che due Stati come la Turchia e il Governo libico decidano quali siano i limiti delle acque territoriali.

Come sempre, l’Unione europea traccheggia: Josep Borrell, Alto Rappresentante per la politica estera, ha detto di aspettarsi “una posizione comune dopo l’analisi del memorandum d’intesa. La priorità principale è l’unità. Non possiamo pensare di essere un attore globale, se non abbiamo posizioni comuni”.

L’Italia si trova a che fare con due questioni nuove, parimenti spinose: da una parte, l’arroganza turca; dall’altra, il voltafaccia del Presidente libico al Serraij, che pure ha solitariamente sostenuto per anni.

Non solo costui ci ha rimproverato di non avergli fornito il supporto militare che ci aveva richiesto per contenere gli attacchi del generale Khalif Haftar, talché alla fine si è dovuto affidare all’aiuto turco, ma addirittura, piccato per la presenza a Roma di quest’ultimo, questa settimana non si è fermato a Roma, di ritorno da Bruxelles, per incontrare il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che lo aveva invitato.

L’errore non è stato quello protocollare, d’aver ricevuto prima di lui, che è il Presidente legittimo della Libia, il suo rivale ed aggressore Haftar, ma il fatto stesso di averlo invitato nonostante il voltafaccia nei nostri confronti, consumato con il duplice Accordo con Ankara: non ci può più essere equidistanza di fronte ad atteggiamenti così impudenti.

Della intenzione della Turchia di essere protagonista nella soluzione della vicenda libica, ostacolando le pretese di Haftar, c’era stata una chiara avvisaglia già nel corso della Conferenza di Palermo tenutasi a metà novembre del 2018: dopo che Haftar aveva manifestato la sua insoddisfazione lasciando in anticipo i lavori della Conferenza, che infatti si concluse senza giungere ad una dichiarazione finale, anche la delegazione turca decise di abbandonarli “con profondo disappunto” per non essere stata coinvolta alla riunione informale del mattino con al Serraj e Haftar, sottolineando lo sgarbo compiuto da quest’ultimo nei nostri confronti: “Qualcuno all’ultimo minuto ha abusato dell’ospitalità italiana”, affermò il vicepresidente turco, Fuat Oktay, senza però nominare Haftar.

Ed aggiunse: “Non si può pensare di risolvere la crisi in Libia coinvolgendo le persone che l’hanno causata ed escludendo la Turchia. Per questo lasciamo questo incontro profondamente delusi”.

E’ la politica estera italiana ad essere inadatta ai tempi di cambiamento in cui viviamo. Si trastulla, percorrendo tutte le strade possibili, anche se sono contraddittorie e ci portano ad un vicolo cieco.

Il coro che si leva più numeroso è quello di coloro che invocano una soluzione da parte di Bruxelles, a cominciare dal Commissario europeo Paolo Gentiloni e dal Presidente dell’Europarlamento David Sassoli. Il fallimento europeo, nonostante le ripetute sollecitazioni italiane ad affrontare i temi di nostra preoccupazione, è sotto gli occhi di tutti: a partire dal Migration Compact, il non paper che fu presentato da Matteo Renzi nel suo ruolo di Presidente di turno del Consiglio europeo nel 2016, e che dedicava alla stabilizzazione della Libia il paragrafo conclusivo. Nulla si è fatto sulla questione delle quote migranti, nè sulla revisione dell’Accordo di Dublino.

Se le soluzioni politiche europee non arrivano mai, le proposte di azione militare congiunta arrivano quando è ormai troppo tardi: il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell’Unione, in questi giorni ha avanzato l’ipotesi di rivitalizzare la missione Sophia Eunavformed, che fu già messa in campo per garantire la sicurezza marittima europea: “sarebbe importantissima come segnale europeo e come effetto deterrenza”.

Pro domo sua, ha ripreso una posizione già sostenuta a margine della Conferenza di Berlino sulla sicurezza, svoltasi il 26-27 novembre nella capitale tedesca: Sophia è “una risposta europea a una crisi internazionale” Inoltre, grazie all’operazione, “attraverso un comando in Italia che rappresenta l’Europa, è possibile avere rapporti con un paese certamente in grave crisi” come la Libia. Servirebbe innanzitutto per contrastare chi intende violare l’embargo delle armi per e dalla Libia, creando una sorta di “blocco navale”: peccato che ci siano alcuni Paesi, anche europei, che fanno arrivare aiuti militari di straforo e che ora c’è addirittura la Turchia che vanta un accordo formale con il governo di Tripoli.

Abbiamo già visto che cosa è successo al largo di Cipro, quando una nave militare turca ha costretto una piattaforma di prospezione petrolifera italiana ad allontanarsi: prima di mandare le cannoniere, bisogna attivare una serie di contromisure legali, economiche e finanziarie. Solo una azione politica fondata su forti interessi può sostenere successive prove di forza.

E’ parimenti illusorio, da parte italiana, appoggiare il cosiddetto processo di Berlino che dovrebbe approdare ad una Conferenza sulla Libia, che era stata inizialmente prevista per la metà del mese in corso. La Germania, soprattutto dopo l’entrata in scena della Turchia nello scacchiere libico, ha una triplice debolezza negoziale. per via della cospicua colonia di turchi e di tedeschi di recente ascendenza turca che vivono colì, ed a cui lo stesso Presidente Erdogan ha rivolto appelli di solidarietà in qualche occasione; a motivo delle interdipendenze commerciali e finanziarie strettissime; a causa dell’ospitalità offerta dalla Turchia a centinaia di migliaia di profughi non solo siriani, che sono pronti a riprendere la via balcanica per cercare asilo in Germania. Con la Turchia di mezzo, la Germania non ha perso solo la terzietà, ma è sotto ricatto politico.

C’è invece l’occasione per creare un fronte unico mediterraneo per contrastare le iniziative turche, mettendo l’Italia in asse con la Grecia, Cipro, l’Egitto e la Francia, considerando il comune interesse di Israele. E’ il generale Haftar che può trovare ora nell’Italia un punto di riferimento.

D’altra parte, neppure la Russia appare in grado di fare tutto da sola, chiedendo congiuntamente alla Turchia il cessate il fuoco alle parti in conflitto in Libia, con decorrenza da questa prossima domenica, visto che il Presidente Vladimir Putin manovrerebbe entrambi i contendenti: non solo il generale Haftar, che da anni beneficia di aiuti russi, ma indirettamente anche il Presidente al Serraj per il tramite della Turchia, dove ha appena inaugurato quella parte del gasdotto che in passato era stato immaginato come South Stream.

Il diniego che è stato già espresso da Haftar alla richiesta di cessate il fuoco la dice tutta sul fatto che in Libia i giochi sono più aperti che mai: per Haftar, nel nuovo contesto, il sostegno della Russia si palesa insufficiente, al pari di quello ricevuto dalla Francia. D’altra parte, nessun Paese europeo, e di certo non l’Egitto, è disponibile a sostenere una presenza turca così prepotente nel Mediterraneo.

La mossa di al Serraj, per le violazioni del diritto internazionale marittimo che derivano dall’Accordo stretto con Ankara, gli ha fatto perdere quel poco di credibilità che ancora aveva. Per di più, si è alienato il sostegno del nostro governo, che pure in questi ultimi giorni si era prodigato con un incontro recentissimo ad Ankara per aprire un tavolo tecnico con Turchia e Russia, e che neppure aveva firmato le conclusioni dell’incontro tenutosi in Egitto, in quanto critiche verso il governo di Tripoli per via dell’accordo stretto con la Turchia. L’arroganza non paga.

Può essere che stavolta Francia e Italia, da tempo in competizione sulla questione libica, siano costrette a mettersi d’accordo per delineare i nuovi equilibri nel Mediterraneo. D’altra parte, furono loro ad iniziare lo smantellamento dell’Impero Ottomano su queste sponde: prima l’una con la Tunisia, e poi l’altra con la Libia. L’interesse comune è di stabilizzare l’area nel rispetto dei diritti di tutti i popoli, evitando vecchie e nuove prepotenze.

*****

QUELLA PAZZA VOGLIA DI LIBIA. (Milano Finanza sabato 11 gennaio) D’altra parte, neppure la Russia appare in grado di fare tutto da sola, chiedendo congiuntamente alla Turchia il cessate il fuoco alle parti in conflitto in Libia, con decorrenza da questa prossima domenica, visto che il Presidente Vladimir Putin manovrerebbe entrambi i contendenti: non solo il generale Haftar, che da anni beneficia di aiuti russi, ma indirettamente anche il Presidente al Serraj per il tramite della Turchia, dove ha appena inaugurato quella parte del gasdotto che in passato era stato immaginato come South Stream.

Il diniego che è stato già espresso da Haftar alla richiesta di cessate il fuoco la dice tutta sul fatto che in Libia i giochi sono più aperti che mai: per Haftar, nel nuovo contesto, il sostegno della Russia si palesa insufficiente, al pari di quello ricevuto dalla Francia. D’altra parte, nessun Paese europeo, e di certo non l’Egitto, è disponibile a sostenere una presenza turca così prepotente nel Mediterraneo.