mercoledì 31 maggio 2017

NO,NON E' UN INCIUCIO(RENZI)

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Ormai la vita politica italiana si è ridotta ad una barzelletta che però fa ridere una piccolissima parte degli abitanti del belpaese che altresì non riescono ad inorridirsi a dovere sferrando un attacco finale e risolutivo verso questa vecchia classe dirigente che vede in tutti i suoi rappresentanti(anche se gli autoproclamatisi "giovani" dei 5 stelle sono marci e vecchi dentro come o anche più dei loro colleghi)un pericolo verso la democrazia.
Questo colpo potrebbe essere inferto alle prossime elezioni e proprio queste ultime sono l'input per la stesura di questo post nato sul vomito provocato dall'inciucio(nonostante i protagonisti non vogliano usare questo termine lo è,eccome)sul modello tedesco che sarà quello col quale potrebbe nascere il nuovo governo,non si sa ancora esattamente quando.
L'articolo di Left(dobbiamo-liberarci-dalla-scimmia-berlusconi )traccia un resoconto delle affermazioni di Renzi,molte delle quali riferite all'odiato nemico Berlusconi di cui è un clone più giovane ma come detto sopra il giullare fiorentino mantiene le brutte e cattive promesse di quello di Arcore.
A corollario di ciò alcuni links:madn il-patto-tra-un-non-eletto-e-un incandidabile - madn il-renzi-pensiero oltre che ai due neuro deliri precedenti dell'altro compare Berlusconi(madn il-partito-dellamore - madn silvio-berlusconi-2 - madn silvio-berlusconi-1 ).

“Dobbiamo liberarci dalla scimmia Berlusconi che è sulla nostra spalla"diceva Renzi.
di Giulio Cavalli

Renzi dixit:
  • Dopo il governo Berlusconi anche un governo guidato dal pulcino pio sarebbe in grado di fare meglio.”
  • “Un leader è chi, leggendo i sondaggi, prova a cambiarli, non a contestarli.” (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare)
  • “Voglio cambiare l’Italia, non cambiare il governo.”
  • “Berlusconi da solo non ce la farebbe. Ha bisogno di qualcuno che cada nel suo trappolone. Ha bisogno che ogni sua dichiarazione – lungamente studiata – sia accolta da un coro di critiche, che i suoi avversari si lancino sul primo cronista Ansa per manifestare tutto il loro sdegno: ma come, proprio lui adesso dice che dobbiamo tagliare le tasse?”  (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare )
  • “Dobbiamo abituarci a pensare che le scelte per un Paese non si fanno per le elezioni successive, ma si fanno per le generazioni successive.” (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare )
  • “Prima di fare dichiarazioni sulle ultime frasi di Silvio Berlusconi, contiamo fino a dieci. E poi, nel dubbio, è comunque meglio tacere. Nove volte su dieci le uscite del Cavaliere ottengono il proprio scopo solo se qualcuno, rispondendogli, cade nel suo gioco.” (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare )
  • “Nessuna intesa tra Letta, Alfano e me. Non voglio assolutamente essere accomunato a loro, integrato come in uno schema: io sono totalmente diverso, per tanti motivi. Ma non ho alcun interesse a mettere pedine e scambiare caselle.” (era il 29 dicembre 2013)
  • “La staffetta Letta-Renzi non è assolutamente all’ordine del giorno. Io, sia chiaro, sto fuori da tutto.” (5 febbraio 2014)
  • “Creiamo un hashtag ‘enricostaisereno’, nessuno ti vuole prendere il posto, vai avanti, fai quel che devi fare, fallo.” (18 gennaio 2014)
  • “Il governo Letta deve lavorare per tutto il 2014.” (13 gennaio 2014)
  • “Per il 2014 il Premier è e sarà Enrico Letta.” (22 dicembre 2013)
  • “Punto a far lavorare il governo, non a farlo cadere. Enrico ci ha chiesto un patto di coalizione e io sono d’accordo.” (10 dicembre 2013)
  • “Da mesi leggo sui giornali che Renzi vuole il posto di Letta: se avessi ambizioni personali, avrei giocato un’altra partita, non mi sarei messo a candidarmi alla segreteria del Pd.” (3 dicembre 2013)
  • ““Il mio partito non ha paura degli altri, è curioso. Il mio partito abbatte i muri, non alza i ponti. Il mio partito accoglie, non respinge gli elettori. Il mio partito si fa giudicare dai cittadini con il voto, non li giudica con moralismo supponente. Il mio partito usa la digitale, non il rullino. Il mio partito non è schizofrenico per cui un giorno vuole arrestare Berlusconi e il giorno dopo lo farebbe presidente della Convenzione costituente. Il mio partito rispetta la magistratura non solo quando manda gli avvisi di garanzia agli avversari. Il mio partito non cambia le regole di una gara perché ha paura di un candidato. Il mio partito prende i voti degli altri. Perché se non prende i voti degli altri, poi gli tocca prendersi i ministri degli altri. Il mio partito difende le donne non una volta l’anno, ma tutti i giorni, con la parità di genere. E sa che le quote rosa sono un sistema grezzo. Ma non ne ha trovato uno migliore. Il mio partito rispetta i referendum. Anche quando dicono che il finanziamento pubblico ai partiti va abolito. Il mio partito crede negli open data. Il mio partito vuole cambiare l’Italia, non gli italiani. Il mio partito non ha la puzza sotto il naso.” (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare)
  • “Dobbiamo liberarci dalla scimmia Berlusconi che è sulla nostra spalla, incombente e condizionante. Dobbiamo dimostrare che siamo per il merito, per le capacità individuali. Che non siamo contro la piccola e media impresa o le partite Iva. Arriviamo al governo e cosa scrive Rifondazione sul suo manifesto: “Anche i ricchi piangano”. Anche i ricchi piangano? Il tema della sinistra, deve essere anche i poveri sorridano. È come se avessimo rinunciato a essere il partito delle opportunità.”
  • [Al presidente Berlusconi] “Lei ci prova con tutti”, gli ho detto. La sua concezione della politica mi fa parafrasare una pubblicità: “Ci sono cose che non si possono comprare. Per tutto il resto c’è Berlusconi”.
  • “La sinistra che non cambia si chiama destra.”
Buon mercoledì.

lunedì 29 maggio 2017

IL 28 MAGGIO E IL REFERENDUM MAI VOTATO


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Ieri domenica 28 maggio sarebbe stata la data per il referendum per l'abolizione dei voucher che erano stati accantonati da Renzi e Gentiloni ma che sono stati nuovamente rimessi in carreggiata nonostante le proteste di sindacati e lavoratori ed il fatto che dallo scorso 17 marzo siano stati soppressi.
Una vera e propria beffa che vede tre principali responsabili,Renzi,Salvini e Berlusconi col primo che è l'anello di tramite tra la destra istituzionale diciamo berlusconiana e quella ignorante leghista,sempre d'accordo a trovare soluzioni se i padroni le domandano.
Berlusconi di fatto li aveva istituiti col nome di buoni lavoro nel 2003 durante il suo secondo governo,e cinque anni più tardi con la riforma Biagi sotto il secondo governo Prodi vennero regolarizzati e istituiti solo per determinati rapporti di lavoro a tempo determinato mentre poi sia i governi Monti con la riforma Fornero e successivamente con Renzi vennero praticamente liberalizzati per tutti i settori lavorativi aumentandone il limite economico.
Riguardo Salvini,quello contro l'Euro e l'Europa a parole,sottosta ai voleri dei governatori di Lombardia e Veneto Maroni e Zaia e a quello di Confindustria mentre i contro fa la voce grossa con i migranti e i più deboli economicamente e socialmente.
Articolo preso da Contropiano(politica-news ).

I tre imbroglioni rimettono i voucher.

E così è proprio vero, la più sfacciata truffa politica della storia repubblicana è stata compiuta. Renzi, Berlusconi e Salvini hanno rimesso i voucher. Il 28 maggio – oggi – avremmo dovuto votare per abolirli, invece per paura del voto Renzi e semprepronto Gentiloni li avevano cancellati. Ora li ripristinano, cucù il voto non c’è più, passata la festa gabbato lo santo. Ne abbiamo passate tante, ma io non ricordo un’ offesa alla sovranità popolare sfacciata e arrogante come questa. Tornano i voucher e dilagheranno di nuovo, non è infatti assolutamente vero che ci sono clausole che li limitano. Basti pensare che il limite per le aziende è sì di 5 dipendenti, ma a tempo indeterminato. Chi ha 1000 dipendenti precari potrà ricorrere ai voucher. E i controlli saranno impossibili visto che ogni azienda ha 3 giorni per “regolarizzarsi” nel caso esageri, tra un voucher e l’altro. Saranno tre giorni di ricatti e lavoro nero.
Ma capisco che queste sono obiezioni che non contano nulla per chi aveva il solo obiettivo di dimostrare alla Confindustria e al sistema degli affari di essere rimasto quello di sempre. Non è neppure da escludere che la restaurazione dei voucher sia stata offerta alla Commissione Europea per far approvare la manovrina di bilancio. Vi facciamo vedere un anticipo delle “riforme” che ci chiedete per l’anno prossimo. Bravini dicono i commissari.
Devo dire che dei tre imbroglioni che hanno contemporaneamente sbeffeggiato i diritti del lavoro, il popolo italiano e la democrazia, il meglio è Silvio Berlusconi. In fondo lui i voucher li aveva istituiti e quanto alla affidabilità, beh è stato maestro nel negare e rinnegare le verità più clamorose. Il peggio è sicuramente Matteo Salvini. L’eroe della Lega di lotta, durissimo con i poveri migranti alla stazione di Milano, è diventato un coniglio bagnato di fronte agli interessi padronali che i suoi soci Maroni e Zaia, dallo scranno di presidenti delle regioni, gli hanno imposto di rispettare. E lui vuole andare contro l’euro e la UE? Ma va là baüscia.
In mezzo ai due imbroglioni, il vecchio e il nuovo, sta Matteo Renzi. È lui l’anello di congiunzione che mancava alla destra per riunificarsi, chi meglio del grande fan di Marchionne poteva esserlo?
Mentre il parlamento rimetteva i voucher a Roma manifestavano in migliaia i lavoratori di Alitalia, Ilva, Almaviva, Acinformatica, Sky, insieme a tanti altri, chiedendo al potere pubblico di non permettere o di fermare i licenziamenti. I tre imbroglioni hanno subito dato la loro risposta: avrete i voucher.
A coloro che ancora sostengono Renzi, Berlusconi e Salvini io auguro di sperimentare il lavoro coi voucher. Così potranno ringraziare chi li ha rimessi.

venerdì 26 maggio 2017

RATTI DI FOGNA CON LA TUNICA


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I rapporti tra chiesa e fascismo non sono certamente cessati all'atto dall'appesa di Mussolini come un salame in Piazzale Loreto il 29 aprile 1945 ma sono proseguiti e tutt'ora sono saldi in alcuni spazi oscuri ma non troppo dove preti dichiaratamente dell'ideologia che ci ha fatti sprofondare in un periodo di dittatura e di guerra con gesti e parole vanno contro la legge italiana.
Esempio lampante fu l'ex don Giulio Tam(madn giulio-tamburu )e negli ultimi periodi l'altrettanto infame prete attivista Orlando Amendola,ancora prete e cappellano del Campo X del cimitero Maggiore di Milano,luogo dove sono seppelliti i caduti della Rsi.
C'è da dire che di queste buffonate se ne vedono poche con numeri così elevati di presenza,occasioni che si possono contare sulle dita di una mano e naturalmente quando accadono questi ratti di fogna sono protetti e coccolati dall'esterno dalla sbirraglia.
Nonostante il divieto della Prefettura con un manipolo di decine di facinorosi fascisti più o meno attempati con orgoglio da ventennio alzavano il braccio nel saluto romano che di fatto è reato per apologia di fascismo.
Piccola postilla sulla manifestazione organizzata dalla destra domani a Milano in risposta a quella di settimana scorsa per l'accoglienza dove il sindaco Sala dice che è un corteo sbagliato e che non si dovrebbe fare ma nonostante la sua carica non la vieterà.
L'articolo sotto è preso da Infoaut(antifascismonuove-destre ).

Milano, saluto romano del prete al camerata defunto.

“Camerata don Orlando Amendola: presente!”

Così, col vecchio motto cameratesco del “presente”, oltre a saluto romano e bandiera di Avanguardia Nazionale, si conclude il filmato messo online per la commemorazione di Umberto Vivirito, militante della stessa formazione ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia il 21 maggio 1977. Lo stesso due giorni prima si era guadagnato la ferita fatale per una rapina ad una gioielleria terminata con l’omicidio del proprietario colpito a morte da 6 proiettili e della moglie gravemente ferita ma scampata.
Don Orlando Amendola per lui non ha mezze misure: lui era una persona “differente”, "Ragazzi come lui ne nasceva uno ogni ottocento" e che “era un giovane che si poneva delle domande sulle regole e cercava risposte con passione". Per il sacerdote, insomma, un esempio da seguire, sicuramente canonico agli ideali della Chiesa vista la viva approvazione per la vita di questo quasi santo.
La rapina, rivelarono le indagini, sarebbe servita a finanziare quelle trame d’allora di progetti eversivi dell’estrema destra poi mai svelata del tutto tra chi un giorno metteva una bomba in una stazione, l’altro sprangava a morte chi si batteva per impedire le azioni dei neo-fascisti.
Un vero prete-camerata don Orlando Amendola che, oltre a celebrare la messa, partecipa anche a livello politico, attraverso braccia tese e slogan. È lui infatti il cappellano del Campo X del cimitero Maggiore (dove sono sepolti appunto i caduti della Rsi) e che ogni anno lo vede presente alla cerimonia in ricordo dei caduti della Rsi nel “suo” campo, l’ultima il 29 aprile scorso nonostante i divieti della prefettura. Tanto c’è il capo con le chiavi ad aprirgli, a lavargli le anime e le mani sporche di sangue.

FRANCESCHINI,IL TAR E LA PRIVATIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARTISTICO ITALIANO

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La coppia triste Franceschini-Renzi sbraitano alla televisione il loro punto di vista sulla decisione del Tar del Lazio in merito alle nomine di alcuni dirigenti senza la cittadinanza italiana alla guida di musei italiani di importanza mondiale.
Se le recriminazioni di un Franceschini arrabbiatissimo non fanno conto di una legge del 2001 da lui scavalcata o addirittura oltraggiata che prevede che nessuna persona che non sia cittadino italiano non possa sedere ai posti della dirigenza pubblica(che sia giusta o sbagliata comunque prima poteva tentare di cambiarla),Renzi va oltre e come un Berlusconi qualsiasi(mi chiedo ancora che differenze ci siano tra di loro)va duro dicendo che i Tar devono essere "democraticamente" aboliti.
L'articolo di Contropiano(montanari-sui-musei-pasticcio-non-tar-la-fretta-franceschini )parla della polemica che i due politici del Pd dicono di aver svergognato l'Italia al mondo,come se questo fosse stato il passo decisivo di una simile constatazione,e più avanti un'intervista con Tomaso Montanari,storico dell'arte e Presidente dell'associazione italiana di cultura politica Libertà e Giustizia.
Il quale racconta che il patrimonio artistico italiano da metà degli anni novanta è stato svenduto ai privati e che i colloqui che il ministro per i beni culturali per le nuove nomine dei musei e dei siti archeologici e di interesse artistico in Italia sono stati frettolosi e che hanno calpestato i diritti di molti partecipanti a queste audizioni.
Finendo con una forte e giusta critica alla politica del fare che sì è stata fatta ma male,anzi malissimo,frettolosamente e calpestando la Costituzione:fortunatamente in molti casi sia la Corte Costituzionale che il Consiglio di Stato oltre che il referendum del 4 dicembre hanno stoppato le velleità di cambiamento in peggio di riforme liberiste.

Montanari:“Sui musei il pasticcio non è il Tar ma la fretta di Franceschini”.

Uno storico dell’arte, Tomaso Montanari, prende parola sul vespaio sollevato da una sentenza del Tar relativa alla nomina di dirigenti stranieri in alcuni importanti musei italiani. Il Tar afferma che quella decisione ha violato la legge esistente e che si è agito con fretta sospetta. L’autore della decisione il ministro Franceschini, insieme al suo sponsor Renzi, evocano l’idea che a questo punto vadano sciolti i Tar e violata la legge piuttosto che “fare brutta figura”. Un rovesciamento di responsabilità che la dice lunga sulla coerenza costituzionale di ministri e dirigenti nel nostro paese. L’unica vera critica al Tar, semmai, è quella di essere stato tardivo nel pronunciarsi. Lo storico dell’arte Tomaso Montanari è sempre stato piuttosto severo con il Ministro dei Beni Culturali. Ma ha ragioni da vendere. E’ sufficiente rammentare il doppio pasticcio sul Colosseo (sia con la generosa concessione ai privati che incassano l’80% degli introiti dei biglietti, sia con lo scippo contro il Comune di Roma), oppure lo scandalo degli “scontrinisti” alla Biblioteca Nazionale, o ancora il generosissimo regime di concessioni ai privati nella gestione dell’immenso, prezioso e pubblico patrimonio museale del nostro paese.
E’ dalla famigerata Legge Ronchey, varata durante il furore privatizzatore e ultraliberista dei governi di metà anni Novanta, che il patrimonio pubblico in materia archeologica, museale e culturale nel nostro paese è stato prima lasciato degradare per poterlo poi privatizzare nei fatti. I benefici che trae il paese si limitano a quelli dei grandi eventi e magari dell’immagine, ma sul piano delle risorse, queste prendono sempre più la strada degli interessi privati piuttosto che distribuirsi nella società.
Sulla questione delle nomine dei direttori dei musei, lasciamo parlare Tomaso Montanari che nel suo blog sull’Huffington Post ha scritto “cose che noi umani dovremmo conoscere”, a fondo.
La sentenza del Tar e l’arroganza della politica
di Tomaso Montanari
Vorrei ringraziare sinceramente Dario Franceschini, Matteo Renzi e Andrea Orlando. Le loro dichiarazioni di oggi mi hanno ringiovanito, riportandomi come per incanto all’Italia di vent’anni fa. Quando un pugnace Silvio Berlusconi attaccava frontalmente ogni giudice che gli desse torto, minacciando sfracelli e facendo rivoltare nella tomba il povero Montesquieu, che aveva ben spiegato perché il potere giudiziario, quello legislativo e quello esecutivo dovessero stare ben divisi.
 E ora siamo daccapo. Il Tar del Lazio boccia impietosamente la “riforma” dei musei di Franceschini? Renzi tuona su facebook: “Non abbiamo sbagliato perché abbiamo provato a cambiare i musei: abbiamo sbagliato perché non abbiamo provato a cambiare i Tar!”.
 Gli fa eco l’alternativa, cioè Orlando: “I Tar andrebbero cambiati“. E Franceschini si scaglia contro i giudici:“Sono preoccupato per la figura che l’Italia fa nel resto del mondo, e per le conseguenze pratiche perché da oggi alcuni musei sono senza direttore”.
 Ma possibile che nessuno di costoro senta invece il bisogno di scusarsi? Di dimostrare un po’ di umiltà, invece di sfoderare una simile arroganza?
Il punto è molto semplice: una legge (non fascista: novellata nel 2001) dice che i posti della dirigenza pubblica sono riservati a chi ha la cittadinanza italiana. Si potrà discutere sulla sua bontà. Io non la trovo insensata: dai dirigenti dipendono molti posti di lavoro, sistemi complessi. In molti casi ci sono in gioco settori strategici. Ed è così in tutti i paesi. Franceschini grida che la National Gallery è diretta da un italiano: ma si dimentica di dire che quell’italiano è cittadino britannico.
 E in ogni caso: se a un ministro una legge non piace, può chiedere al Parlamento di cambiarla. E Franceschini aveva i numeri per farlo. Se invece firma un atto che la aggira o peggio la vìola, può capitare che un giudice amministrativo annulli quell’atto. È la democrazia, bellezza! E io me ne sento garantito.
Non sarà il caso di cominciare a dire che non basta fare le cose, ma bisogna anche farle bene? La riforma Madia è stata massacrata dal Consiglio di Stato e dalla Corte Costituzionale, la riforma costituzionale è stata respinta dal popolo italiano: ma non sarebbe stato meglio farle bene, quelle riforme, invece che gridare contro chi ha dovuto constatarne il fallimento? Non è che la figuraccia dell’Italia l’ha causata un ministro incompetente circondato da incapaci?
E poi c’è un punto di merito. Il Tar dice che i colloqui per selezionare i direttori sono stati troppo frettolosi, e sono stati celebrati a porte chiuse. E che dunque i diritti dei concorrenti non sono stati rispettati. Se è vero è una cosa grave. E io so che è vero.
Quel concorso è stato condotto malissimo, ai limiti della farsa, per la stessa ragione per cui Franceschini non ha cambiato la legge: per la maledetta fretta mediatica di poter dire che aveva fatto qualcosa.
La commissione ha avuto (nella migliore delle ipotesi) nove minuti per leggere e valutare ogni curriculum e quindici minuti (questo è un dato ufficiale) per il colloquio che ha deciso la sorte degli Uffizi, o di Capodimonte.
Un elemento di comparazione: per scegliere l’ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto come curatore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles ha ritenuto necessari un’intervista preliminare di 2 ore, un colloquio privato col direttore di 2 ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato ha trascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungo colloquio col presidente dei Trustee.
E in questo caso era un direttore di museo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrario (abbiamo preso direttori che in quasi tutti i casi non erano mai stati tali, ma al massimo conservatori di sezioni di musei secondari) in un quarto d’ora. La commissione contava solo due tecnici (un archeologo e uno storico dell’arte, entrambi professionalmente non italiani), accanto a una manager museale, a un rappresentante diretto del ministro stesso (l’autore materiale della riforma e consigliere giuridico principale del ministro) e a un presidente non proprio terzo rispetto alle volontà ministeriali (perché contestualmente confermato alla guida della Biennale di Venezia con una deroga alla legislazione vigente decisa dal governo).
Franceschini si trincera dietro i dati dell’affluenza ai musei: che però non dipendono certo dalla sua riforma (o pensiamo che gli australiani vadano gli Uffizi per la riforma Franceschini?), ma dalla congiuntura internazionale legata al terrorismo che vede crollare il turismo in Francia e nel Mediterraneo, e lo spinge nel nostro Paese, ritenuto più sicuro.
E poi: siamo sicuri che i musei di misurino solo con i numeri? A Brera moltissime tavole del Rinascimento hanno subito gravi danni a causa della noncuranza del nuovo direttore. Palazzo Pitti è diventato una cava di opere di pregio concesse in prestito per ragioni politiche, e un set da addii al celibato privati di lusso. Al Palazzo Ducale di Mantova si fa la fiera del mobile. E da nessuna parte si fa più ricerca, cioè non si produce più conoscenza. I musei assomigliano ormai a luna park pregiati: e a rimetterci sono i cittadini comuni, che non hanno molte altre occasioni di crescere culturalmente.
Il prossimo ministro per i Beni culturali dovrà smontare la “riforma” Franceschini pietra per pietra, errore per errore. Questa sentenza del Tar può essere un buon inizio.

giovedì 25 maggio 2017

UN ACCORDO IN VISTA TRA ISRAELE E GLI STATI DEL GOLFO?

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L'ultima visita di Trump che ha toccato l'Arabia Saudita e poi Israele,con puntate italiane e belghe per finire a Taormina in questo weekend per il prossimo G7(madn the-trumpwarworld-tour ),è stato come già detto un viaggio d'affari con intrinseche programmazioni di guerre,che esse ne siano il proseguimento o proposte di altre preventive(vedi Iran in zona mediorientale e Corea del Nord più ad est).
L'articolo preso da Contropiano(laccordo-arabia-saudita-israele )parla di un reportage tra gli Stati del Golfo ed Israele,con gli Usa intermediari molto più ben visti con Trump presidente che con Obama da entrambe i lati,che non è ancora stato smentito dalle nazioni chiamate in causa.
Che vorrebbe mettere fine alla questione palestinese con la promessa di Israele di non costruire più insediamenti nei territori occupati in cambio di un'espansione dei propri affari proprio negli Emirati arabi,Arabia Saudita e Qatar.
Fatto che starebbe comodo più agli Usa che alla Palestina con i primi che unirebbero il mondo sunnita musulmano contro un Iran sempre più per loro pericoloso sfruttando la voglia di protezione israeliana e quella di dominio religioso degli Stati del Golfo(primi finanziatori dell'Isis)sulla minoranza sciita.

L’accordo Arabia Saudita-Israele per chiudere la questione palestinese.

Il silenzio è sceso sui media arabi dopo la pubblicazione di un reportage sul piano degli Stati del Golfo per una parziale normalizzazione con Israele. Non si è sentita nessuna risposta ufficiale da parte dell’Arabia Saudita, degli Stati del Golfo o del Qatar. I soliti opinionisti hanno preferito dedicarsi ad altri argomenti, come se non avessero né sentito né visto lo scoop sul ” Wall Street Journal”. I soliti portavoce del governo in Israele sembrano essere stati colti da una malattia alle corde vocali.
Quando sono stati pubblicati reportage simili nel passato, portavoce ufficiali, sia arabi che israeliani, hanno subito diffuso una smentita. Ma questa volta non c’è ancora stata. Ciò suggerisce che ci siano solide basi sui criteri della proposta – quanto meno tra l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati uniti.
A quanto pare, dopo il primo incontro di Trump con Mohammed bin Salman, il trentunenne figlio del re saudita e sovrano di fatto del regno, nella loro riunione a Washington di martedì sono stati definiti gli ultimi dettagli tra il principe ereditario degli E.A.U., Mohammed bin Zayed Al Nahyan, e il presidente USA Donald Trump.
I tre punti principali dell’accordo si fondano sulla concessione di permessi alle imprese israeliane di aprire succursali negli Stati del Golfo, agli aerei israeliani di volare nello spazio aereo degli E.A.U. e sull’installazione di linee telefoniche dirette tra i due Paesi. Non è ancora la totale normalizzazione che era stata promessa con l’iniziativa araba di pace del 2002 o nella sua ratifica dettagliata al summit arabo di aprile in Giordania.
Ma se arrivasse una dichiarazione ufficiale da parte di Riyadh su questa iniziativa, meriterebbe il titolo di “storica”, perché per la prima volta per una completa normalizzazione non verrebbero più richiesti il totale ritiro da tutti i territori occupati e la fine del conflitto. Al contrario, questa proposta è un percorso, consistente in varie fasi, in cui la prima si accontenta della promessa di Israele di congelare la costruzione [di colonie] nei territori.
L’altra novità è che gli Stati del Golfo tradurranno il proprio impegno concreto in un linguaggio che l’opinione pubblica israeliana può capire. Potrebbero essere in grado di esercitare pressioni locali ed internazionali sul governo israeliano se questo decidesse di rifiutare l’iniziativa.
E’ questo il modo il cui Trump pensa di avverare l’accordo che sogna per la pace tra Israele ed i palestinesi, e, se così fosse, perché gli Stati del Golfo sarebbero disposti a collaborare proprio ora?
I dirigenti della maggior parte dei Paesi arabi hanno molte cose in comune con la destra israeliana. Entrambi vedono Trump come una boccata d’aria fresca dopo la fine della presidenza di Barack Obama. Entrambi hanno interesse a contenere l’influenza dell’Iran in Medio oriente e né Israele né gli Stati del Golfo dispongono di una superpotenza alternativa agli Stati uniti. La preoccupazione riguardo alla rottura del rapporto unico creato nel corso dei decenni tra gli Stati del Golfo, soprattutto l’Arabia saudita, e le amministrazioni USA, ha portato alla conclusione che non ci sono alternative al rafforzamento dei rapporti con un presidente americano, che può anche detestare i musulmani, ma capisce il linguaggio degli affari.
Quindi Trump è stato invitato non a un solo incontro, ma a tre: il primo con il re saudita, il secondo con i dirigenti degli Stati del Golfo e il terzo con i dirigenti dei Paesi musulmani sunniti, in cui rilascerà una dichiarazione “al mondo musulmano”.
Sarà interessante fare un confronto tra il discorso di Trump ai leader del mondo musulmano con quello di Obama al Cairo nel 2009, in cui si era impegnato a costituire un’alleanza con i Paesi musulmani dopo un periodo di gelo sotto la presidenza di George W. Bush.
Trump e il re saudita Salman firmeranno due accordi per un valore di centinaia di miliardi di dollari. Uno riguarda un vasto accordo sugli armamenti di circa 100 miliardi di dollari iniziali, con un’opzione fino a 300 miliardi in un decennio. Il secondo è un accordo di investimenti sauditi in infrastrutture negli Stati uniti per circa 40 miliardi di dollari. Tutto questo si aggiunge a un nuovo accordo di difesa che sarà firmato tra Washington e gli E.A.U.
Nel passato gli Stati del Golfo, guidati dall’Arabia saudita, si sarebbero uniti alle iniziative arabe, che provenivano principalmente dall’Egitto. Nel 2002 l’iniziativa saudita fu anomala a questo riguardo, ma dopo che è naufragata in un mare di obiezioni israeliane, l’Arabia saudita si è prestata ad iniziative locali, come la riconciliazione tra Hamas e Fatah, o si è occupata della politica interna in Libano. Salman, e soprattutto suo figlio, si sono trasformati in attivi propugnatori di politiche, anche se non sempre con molto successo. La fallimentare guerra in Yemen è un esempio, la debolezza nel fare i conti con la crisi in Siria un altro. Ora cercheranno di guidare un’iniziativa politica tra Israele e i palestinesi. Il vantaggio dell’Arabia saudita e dei suoi alleati del Golfo è che non hanno la necessità, né l’intenzione, di chiedere l’accordo degli arabi radicali per queste iniziative.
La partecipazione della Siria alla Lega Araba è stata sospesa, l’Iraq è considerato un alleato dell’Iran, la Libia si sta sgretolando, lo Yemen è in guerra, la Giordania e l’Egitto sono sostenute dall’Arabia saudita, come lo sono alcuni Stati del Maghreb. Quindi una parziale o totale normalizzazione tra gli Stati del Golfo ed Israele non impegnerà altri Paesi arabi. Ma ciò deciderà la questione di chi è da biasimare per lo stallo del processo di pace se l’iniziativa non prendesse il via. E se Israele e i palestinesi avanzassero verso la ripresa di negoziati sulle principali questioni, ciò potrebbe essere utile come essenziale effetto leva.
  • da Ha’aretz, traduzione di Amedeo Rossi – Zeitun.info

LE INNOCENTI VITTIME DELLA GUERRA GLOBALE

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Negli ultimi giorni decine di bambini sono morti per guerre che non sono state volute da loro e che fanno orrore e che danno un segno d'impotenza che lascia molto amaro in bocca.
Sia a Manchester(contropiano strage-manchester-bomba-al-concerto )che nel Mediterraneo le vittime sono state uccise da poteri più forti di loro,che vestano giacca e cravatta o tunica e turbante poco importa,sono due facce della stessa medaglia che per motivi differenti ma legati dall'odio fanno stragi di persone,e quando i morti sono gli innocenti questo fa ancora più male.
L'articolo preso da Infoaut(la-strage-dei-bambini-bianchi-la-strage-dei-bambini-neri )parla delle stesse vittime di una guerra globale senza guardare al colore della pelle o al conto in banca,soprattutto di quelle provocate dai flussi migratori e del ruolo in politica estera italiana che prosegue nell'anonimato più totale,e se proprio si fa qualcosa si peggiora addirittura la situazione.

La strage dei bambini bianchi, la strage dei bambini neri.

Trentuno morti annegati in mare; tra loro, si parla di decine di bambini. Queste le cifre dell’ennesimo “naufragio” in cui muoiono famiglie e giovani diretti in Europa.

Questa volta erano in circa 500, su una nave di fortuna perché i confortevoli traghetti che solcano il mediterraneo sono riservati a chi ha i documenti giusti e in testa un viaggio di piacere. Per chi ha il colore della pelle sbagliato e l’idea di cercare una vita migliore altrove c’è il servizio dei tanto aborriti scafisti. Dicono le agenzie di stampa che il naufragio è stato causato dalle condizioni meteo-marine. È una maniera di presentare la cosa. Un’altra sarebbe di notare che le stesse condizioni non hanno avuto effetti sensibili sui già citati vascelli riservati ai viaggiatori giusti. Parlare di tragedia significherebbe evocare una fatalità, mentre, come al solito, non c’è niente di aleatorio in questi “naufragi” ma la ricorsività di una politica che ha deciso che la tranquillità elettorale vale più delle morti in mare.
Il clima è d’altronde propizio, dopo settimane di martellanti allusioni più o meno esplicite sulle ONG “colluse” con gli scafisti, in un’operazione politico-mediatica nient’affatto scomoda, come vorrebbero far credere impomatati youtuber, ma appoggiata dalla stessa UE per liberarsi di indiscreti occhi non governativi prima della grande mattanza estiva. Un’UE fedele alle sue linee guida in politica migratoria: lontano dagli occhi, lontano dal cuore (ma con un occhio sempre al portafogli). Da qualche settimana è infatti entrato in forza il Piano Minniti, il fumoso accordo con le “tribù libiche” promosso dal ministro dell’interno italiano assieme alla consegna delle motovedette alle autorità del paese nordafricano, ormai ridotto a spazio di una contesa gangsteristica in cui il più pulito, come si suol dire, c’ha la rogna. Il piano del ministro di ferro fa parte di un più generale ri-posizionamento funzionale dell’Italia nel contesto europeo, infiocchettata nel Migration compact, il progetto cui l’Italia spera di ritagliarsi un ruolo di capo-gendarme d’Europa e rilanciare gli investimenti tricolori nel continente africano. Un orientamento strategico di cui fa parte anche, ad esempio, l’accordo siglato dal presidente tunisino Essebsi a Roma lo scorso febbraio. Il nostro paese ha barattato investimenti e favori nelle politiche commerciali con l’impegno da parte del paese nordafricano a bloccare i flussi di persone – ché quelli di denaro, ça va sans dire, devono intensificarsi. Proprio in Tunisia, a Tatouine, si combatte in questi giorni a forza di scioperi e blocchi contro un governo corrotto che incarcera gli oppositori e drena le risorse del territorio in accordo con le compagnie petrolifere occidentali, lasciando migliaia di disoccupati per strada. Restare non si può, per la rapina della propria terra; fuggire nemmeno, perché ne gli accordi sulla sicurezza ne fanno un carcere. Non c'è alternativa, si lotta. Nessuno vuole morire in mare. 
Marco Minniti, davanti alla platea del COISP (sì, proprio il sindacato di polizia che applaudiva gli assassini di Federico Aldrovandi), ha parlato ieri di una “raggelante strage di teenager, di bambini, di quanto c’è di più prezioso nella società”. Non si riferiva, però, a quanto successo nel mare tra l’Italia e il suo partner strategico libico. Abbiamo detto che i nostri morti, ad Aleppo come a Manchester come davanti alle coste libiche, muoiono di una guerra che non gli appartiene, di cinici incravattati contro mostri col turbante, sullo sfondo della santa trinità dollari, armi e petrolio. La strage dei bambini bianchi e quella dei bambini neri fanno parte della stessa guerra globale, fatta sulle loro e sulle nostre teste. E nessun governo ci aiuterà a salvarli. E a salvarci.

mercoledì 24 maggio 2017

COSA SUCCEDE REALMENTE IN VENEZUELA


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Se c'è un argomento politico internazionale di cui si parla a sproposito sia per ignoranza che per il fatto ben più grave del mercimonio giornalistico sicuramente la situazione venezuelana vincerebbe il premio Oscar come peggiore tentativo di diffamazione.
Nei due articoli presi da Contropiano(gianni-mina-si-persegue-la-fine-del-governo-maduro-passato-chavez e amnesty-international-venezuela-lettera-critica-al-portavoce-italiano-riccardo-noury )si cerca di fare luce sui fatti che nelle ultime settimane stanno succedendo nello Stato sudamericano e si pongono serie questioni sull'integrità del giornalismo nel raccontare questi eventi con l'intento di smascherare le enormi menzogne che emergono da penne foraggiate soprattutto dagli Stati Uniti.
La nazione dei padroni del mondo che proprio non sopporta che in uno degli Stati con più ricchezza nel sottosuolo vi sia un controllo diretto del governo senza ingerenze delle loro multinazionali fiancheggiate dai paesi europei.
Perché alla base degli scontri e degli omicidi addossati al governo di Maduro si nascondono interventi diretti della Cia e deglo Usa volti a destabilizzare e a delegittimare il suo lavoro nel solco tracciato da Chavez.
Confondono di proposito mentendo scelte coraggiose di un Presidente votato dal popolo con la dittatura(e non solo qui)mandando immagini e fornendo notizie fuorvianti e palesemente false e che spesso ingannano anche testate come Il Manifesto ed organizzazioni come Amnesty.
Il primo articolo è un'intervista a Gianni Minà,profondo conoscitore innamorato del sudamerica che parla dell'ennesimo tentativo di golpe"morbido",dopo quelli avvenuti nel 2002 e nel 2014 in Venezuela e dopo quelli in Honduras,Brasile e Paraguay negli ultimi tempi,mettendo in risalto il cattivo giornalismo non solo per quanto riguarda Caracas ma un po tutto quello che orbita quando i potenti tentano di scrivere la storia attuale.
Il secondo è un appello firmato da varie personalità legate al mondo della cultura per non trascinare Amnesty nello sporco gioco Usa,che con Trump al potere è ancor più pericoloso,di continuare a cercare d'imporre il suo dominio su tutto il sub continente americano foraggiando rivolte in ogni angolo di questa meravigliosa terra.
Vedi anche:madn dopo-la-vittoria-di-maduro .

Gianni Minà: “Si persegue la fine del governo Maduro, come in passato con Chavez”.

di Alessandro Bianchi - Lantidiplomatico
Intervista a Gianni Minà. Oltre cinquant'anni di giornalismo con un'attenzione particolare ai diritti dei più deboli e a chi si ribella alle ingiustizie nel nuovo libro conversazione (con Giuseppe de Marzo) di Gianni Minà, un gigante di una professione che ha visto lentamente morire in occidente. Il titolo del libro è: “Cosi va il mondo, Conversazioni su potere, giornalismo e libertà”.  “Questa professione da noi è totalmente morta. Io sono da anni che lavoro poco o niente. Ma ho accettato la realtà e non mi lagno. È il prezzo che si paga per la libertà”.
 

La prima domanda è d'obbligo visto il titolo del libro: come va il mondo in questo fase?
Male, molto male. In questa fase sembra che tutto debba essere veloce. E mi fa ridere, ma anche arrabbiare. Cosa significa essere veloci? Ho conosciuto uomini che hanno dato all’umanità regali di saggezza, civiltà e scrittura senza paragoni e che non hanno mai tenuto in conto la velocità e il tempo. Per loro al centro c’era la riflessione. Così mi sento di affermare che nel mondo moderno spesso si utilizza la velocità come scusa. Un malinteso per truccare e neutralizzare quello che dici. Si tratta di un piano perfetto, un capolavoro che annulla il bisogno della censura tanto caro al potere. Da questo punto di vista le reti sociali compiono molte volte purtroppo un ruolo fondamentale e diventano conniventi.
 

Qual è stata la scintilla per scrivere questo libro?
Il Referendum di Renzi. La prepotenza di chi ha voluto legare i destini di un paese ad un aut aut sulla menzogna affermando che con la vittoria del NO non ci sarebbe stato un domani. Ma, del resto, è l’epoca dei colpi di Stato mascherati.
 

E dopo questa frase non possiamo non arrivare all’America Latina, alla tua America Latina…
Eh già. Honduras, Paraguay, Brasile e ora Venezuela. In America Latina si ripete con ancora più arroganza e violenza quella che è stata per anni la campagna contro Hugo Chávez. E poi quando è morto, al funerale c’erano 33 fra capi di stato o di governo e milioni di persone presenti. Milioni. Lo ripeto sempre perché è la prova visiva più grande che tutto quello che i media occidentali avevano raccontato dal 1999 sulla rivoluzione bolivariana era falso. Si sono accorti che non era un criminale come l’avevano dipinto. Chávez aveva perso una sola elezione in quindici anni e aveva ammesso la sconfitta subito il giorno dopo. Se penso al volto attuale degli Stati Uniti, Donald Trump, mi viene da ridere. Come mi viene da ridere a vedere certi giornalisti che prima lo descrivevano come il diavolo, e ora si sono già allineati quando hanno capito che avrebbe portato avanti, anzi insistito con la stessa politica bellicista praticata dagli Usa in Afghanistan, Iraq e Siria.
 
Adesso però  la situazione in Venezuela ha assunto un livello di scontro ulteriore…
Si persegue la fine del governo di Maduro. Così come in passato si puntava alla fine del governo di Chávez e si arrivò al golpe dell’aprile del 2002. Dopo le 43 vittime del 2014 che sono state responsabilità diretta per la quasi totalità della destra golpista e reazionaria (come testimonia il Comitato delle vittime delle Guarimbas) l’opposizione violenta è tornata a prendere in ostaggio il paese e sono tornati i morti in Venezuela. Si persegue l’antico obiettivo. Per essere chiari il fatto che non ci siano le multinazionali del petrolio Usa (o le sue alleate europee) a gestire le risorse venezuelane è uno scandalo per i padroni del mondo. E l’informazione compie il ruolo che ha già giocato nel paese nel 2002 e nel 2014: la ricerca del disordine, del caos organizzato da squadroni di mercenari armati specializzati, per esempio, nel boicottare rifornimenti di derrate alimentari, bevande e di ogni altro genere primario di sopravvivenza.
Maduro, eletto con il 50,78% dei voti nel 2013, magari non ha le capacità politiche che aveva Chávez, ma certamente finora ha saputo resistere a questo scorretto assedio, smentendo le previsioni e rispettando la democrazia.

 

Alcuni anticorpi, però, l’America latina sembra averli costruiti: Papa Francesco, Mujica ed il Premio Nobel Esquivel hanno espresso, per esempio, prese di posizioni importanti e chiare a difesa del Venezuela…
Si in questi anni l’America Latina si è vaccinata. Gli anticorpi sono tanti. Ma che sia Almagro, un ex ministro di Mujica, il capo della sollevazione contro la sovranità del Venezuela in questo nuovo golpe è triste e ci spiega un altro pezzo importante del mondo attuale: si può comprare tutto. Così capisco l’amarezza di Mujica nella sua dichiarazione: “Almagro non è solo un pericolo per il Venezuela, è un pericolo per tutta l’America Latina”. E’ l’amarezza del mondo moderno. Tutto ha un prezzo e tutti possono affermare l’esatto contrario il giorno dopo.
 
A Cuba l’anno scorso hai realizzato un documentario sulla visita di Papa Francesco. Come hai trovato l’isola?
Si, il documentario si intitola “Papa Francesco, Cuba e Fidel” ed è andato in onda in occasione della scomparsa del Comandante unitamente all’ultima intervista che avevo fatto con lui. Devo dirti che in questi mesi mi hanno fatto proprio pena i soloni che si sono affrettati a scrivere affermando che il popolo cubano ha ceduto e che presto tornerà ad essere il parco giochi degli Stati Uniti. Non conoscono nulla di Cuba o sono in malafede. Un’isola dei Caraibi che ha resistito decenni si è seduta da pari a pari con la più grande potenza militare della storia. Un miracolo. Poi che dopo l’accordo, il bloqueo sia ancora in vigore, non spaventa certo il futuro di Cuba che resiste già da 55 anni. Nel mondo in cui viviamo, è fallito il capitalismo, è fallito il comunismo, ma Cuba è ancora lì.
 
Che insegnamento può trarre il Venezuela dalla storia del popolo cubano?
Resistere. Resistere alle ingiustizie del nostro tempo. Resistere ai piani delle oligarchie. Piani che sono banali e noti a tutti: privatizzazioni di massa, povertà diffusa, perdita di diritti, ricchezza per pochi. Il Venezuela deve resistere a tutto questo come ha fatto Cuba.
 
Quali obiettivi ti sei prefissato con quest'ultimo libro?
Tirare fuori da storie infami, italiane e internazionali, di ieri e di oggi, alcune verità ancora nascoste. Lo presenteremo il 19 maggio alla feria del libro a Torino insieme a Giuseppe de Marzo e con la testimonianza del giudice Felice Casson. Poi forse non ci crederanno lo stesso, ma iniziamo. Esiste una batteria di quelli che oggi vengono definiti “troll”, secondo me con origine negli Stati Uniti, che quando scrivi un articolo, magari smentendo le menzogne che vengono diffuse dai media, organizzano una campagna diffamatoria proprio contro di te. I periodi e le frasi utilizzate sono standard anche se gli argomenti sono diversi ed è incredibile. Personalmente l’ho potuto registrare quando in pochi anni ho scritto di Cuba, di Venezuela e… di Moggi. Quando ho toccato gli interessi di Moggi, ho sperimentato sulla mia pelle le stesse parole, le stesse offese che mi arrivavano per Cuba. Con le reti sociali tutto è più veloce e immediato. Sono Dei in terra ed è un golpe anche quello. L’opinione si forma attraverso il filtraggio di queste reti sociali. Per fortuna io resisto. Alle mie figlie cerco di installare il dubbio e loro mi ringraziano.
 
Infine, che eredità e quale messaggio speri di lasciare alle giovani generazioni attraverso questo libro?
Di non fidarsi mai di quello che gli viene dato per assodato, perché la verità assoluta non esiste. Esistono porzioni di verità che devi andare a cercare ogni volta e coltivare. Devi cercare e ricercare con sforzo e dedizione. Non è veloce, richiede tempo, lavoro e fatica. Ma poi trovi le prove e colleghi i pezzi. Perdi un mese magari, ma poi le trovi. Il male del mondo moderno è che oggi vince nella comunicazione chi è più veloce. E chi è più potente è anche più veloce.
Un caso emblematico spiega più di tutti il triste declino del mondo di oggi: un leader studentesco della sinistra venezuelana viene ucciso dopo aver annunciato l’adesione della sua sigla al processo costituente indetto dal presidente Maduro, ma per i media occidentali si tratta di “un nuovo caso della repressione della dittatura”. Era invece un delitto dell’opposizione di destra. Purtroppo siamo ormai oltre la mistificazione, siamo in un mondo virtuale. Mi dispiace molto che anche il Manifesto, che fino ad oggi sull’America Latina non aveva mai compiuto errori di questo tipo, ha dovuto fare la smentita ufficiale dopo aver rilanciato questa menzogna. L’ennesima del mondo di oggi.

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Amnesty International e il Venezuela: una lettera critica al portavoce italiano Riccardo Noury.


Signor Riccardo Noury,Portavoce e responsabile della comunicazione di Amnesty International Italia
con grande rammarico e preoccupazione apprendiamo come la sua organizzazione sia tornata a prestare il fianco all’offensiva delle destre contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela. In un nuovo rapporto intitolato ‘Ridotti al silenzio con la forza: detenzioni arbitrarie e motivate politicamente in Venezuela’, Amnesty accusa le autorità venezuelane «di aver intensificato la persecuzione e le punizioni nei confronti di chi la pensa diversamente, in un contesto di crisi politica in cui le proteste che si susseguono in tutto il paese hanno dato luogo a diverse morti e a centinaia di ferimenti e arresti».
Si tratta di una ricostruzione falsa, tendenziosa e che getta ulteriore benzina sul fuoco delle violenze provocate da chi cerca, per la terza volta (2002 e 2014 i precedenti), di esautorare un governo legittimo con la violenza e con il terrorismo sulle strade.
I dirigenti dell’opposizione venezuelana hanno innescato una spirale di odio ormai sfuggito anche al loro stesso controllo. Gruppi di violenti – fascisti e mercenari con un tariffario preciso perlopiù – applicano con un’organizzazione paramilitare omicidi (che poi i media trasformano in “morti per la brutale repressione del regime”), rapine e devastazioni, oltre a veri e propri atti di terrorismo contro ospedali infantili, linciaggi in piazza, blocco di strade e distruzioni di edifici pubblici.
Se la situazione non fosse così grave per il futuro del Venezuela, suonerebbero quasi comiche le parole di Erika Guevara Rosas, direttrice per le Americhe della sua organizzazione, che arriva a parlare di una «campagna diffamatoria sui mezzi d’informazione nei confronti di oppositori politici». Siamo oltre il farsesco.
Quale sarebbe, signor Noury, secondo Lei la reazione di un qualunque governo occidentale se i dirigenti dell’estrema destra del paese scendessero in piazza a coordinare le azioni dei violenti, spesso armati, come fatto da Freddy Guevara di Voluntad Popular? Il Partito estremista e violento di Gilbert Caro e Stelcy Escalona, che citate nel vostro rapporto. Il dirigente e la militante del partito guidato dal golpista Leopoldo Lopez, sono stati fermati di ritorno dalla Colombia e trovati in possesso di un fucile FAL calibro 7,62 mm, di proprietà della Forza Armata Nazionale Bolivariana con il numero di serie cancellato; un caricatore con 20 cartucce; 3 stecche di esplosivo C4. Ci sembra quanto meno arduo prendere le difese di chi viene trovato in possesso di un vero e proprio arsenale.
Quale sarebbe, signor Noury, secondo Lei la reazione di un qualunque governo occidentale se uno dei leader dell’estrema destra del paese in un’intervista alla BBC, certamente non un organo che può essere additato di simpatie con l’attuale governo venezuelano, invitasse testualmente l’esercito e la polizia del paese a compiere un colpo di stato non obbedendo più agli ordini dello Stato? E’ quello che ha fatto recentemente Julio Borges, altro leader della destra venezuelana.
Come nel caso di Honduras, Haiti, Paraguay e Brasile, in Venezuela è in corso un nuovo tentativo di “golpe morbido”. E i mezzi di comunicazione, purtroppo, si sono posti al servizio dei grandi interessi economici e politici, con l’intento di screditare il governo venenzuelano attraverso notizie false che servono a provocare il deterioramento generale del paese. “Quello che mi spaventa di più del Venezuela è l’opposizione, o una gran parte di essa. Credo che ci sia un clima di radicalizzazione che si è trasformata in irrazionale e che nel lungo periodo finisca per favorire la destra. Questo è molto pericoloso dato che c’è Trump negli Stati Uniti. Siamo ormai abituati alla retorica della difesa della democrazia, dei diritti umani, contro le armi di distruzione di massa. E dopo arriva sempre il terribile intervento armato degli Stati Uniti. Il peggio che possiamo fare come latinoamericani è fare da sponda all’interventismo. La radicalizzazione e quello che sta facendo Almagro nell’OSA è un pericolo, non solo per il Venezuela, ma per tutto il continente”. Sono le parole illuminanti di Pepe Mujica, ex Presidente dell’Uruguay.
Ecco, signor Noury, perché la sua organizzazione ha deciso di fare da “sponda all’interventismo”? Prevenire le guerre di aggressione, come le tante che l’Occidente ha condotto in questi decenni, è un modo sicuro per evitare oceani di dolore e il disfacimento di interi paesi, che poi costringe a moltiplicare le organizzazioni addette all’emergenza umanitaria, bellica e post-bellica. Per prevenire le guerre occorre anche combattere le menzogne che le favoriscono, perché creano il pretesto. Quando – e solo ogni tanto – le menzogne sono smascherate, è troppo tardi e un paese è già distrutto.
Le ripetiamo, signor Noury: perché la sua organizzazione ha deciso di fare da sponda all’interventismo contro il Venezuela aiutando a creare il “pretesto”? Dopo ex Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Ucraina, Siria… la sua organizzazione non ha già visto troppi morti e sofferenza nel mondo prodotti dalla furia cieca dell’ingerenza occidentale?
E, per concludere, Signor Noury, non provate rimorso nei confronti delle famiglie delle vittime riunite nel ‘Comitato vittime delle Guarimbas e del Golpe Continuato’ che Lei, adducendo come motivazione la mancanza di tempo, ha rifiutato di incontrare l’anno scorso quando erano in visita in Italia? Sa signor Noury, quelle persone erano la testimonianza viva di quella violenza terrorista che oggi, come nel 2014, si ripete in Venezuela con gli stessi strumenti e protagonisti.
23 maggio 2017
Primi firmatari:
Adolfo Pérez Esquivel – Premio Nobel per la pace 1980. Carcerato e torturato dalla dittatura argentina.
Gianni Vattimo – Filosofo
Frei Betto – Teologo della liberazione brasiliano
Pino Cacucci – Scrittore
Gianni Minà – Giornalista e scrittore
Alessandra Riccio – Docente universitario e giornalista
Maïté Pinero – Giornalista 
Giorgio Cremaschi – Ex leader del sindacato Fiom 
Luciano Vasapollo – Docente universitario. Capitolo Italiano della Rete di Intellettuali in difesa dell’umanità
Seguono altre adesioni

martedì 23 maggio 2017

FALCONE,BORSELLINO E LA RETORICA DELL'ANTIMAFIA


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Il 23 maggio del 1992 è una data che ben ricordo anche se sono passati parecchi anni,e anche quella successiva del 19 luglio è rimasta impressa nonostante gli acerbi sedici anni in quanto quelle che non sono tragedie ma atti criminali mi avevano provocato molto dispiacere ma anche rabbia.
Non solo per le morti dei giudici Falcone e Borsellino,anche per quelle di tutti gli agenti di scorta e della moglie di Falcone,per le parole di una delle mogli delle vittime ai funerali di Stato che fanno ancora venire la pelle d'oca a ricordarle.
L'articolo preso oggi da Infoaut(falcone e borsellino )dal titolo crudo"non sono i miei eroi"che in realtà è un inizio fuorviante in quanto la lettera di uno studente palermitano è piena di stima verso chi ha donato la propria vita per la lotta alla mafia,è piena di rabbia e recriminazioni giuste,di lotta di classe e di palese incoerenza.
Dove chi parlerà oggi a memoria per commemorare Falcone e Borsellino,due persone diverse fin dalla loro ideologia politica ma che sono stati amici veri uniti dalla stessa lotta che hanno cercato di portare avanti(left quella-testa-di-minchia-di-giovanni-falcone ),per il meno peggio saranno collaboratori di mafiosi se non veri e propri criminali,nel grande e vergognoso mondo della retorica antimafiosa che giorno dopo giorno dona esempi di arresti e indagini contro chi fa della lotta alla mafia una falsa battaglia in quanto sono conniventi con essa(vedi anche:madn il-travagliato-matrimonio-stato-mafia ).

Falcone e Borsellino non sono i miei eroi.

Pubblichiamo di seguito la lettera aperta di uno studente palermitano riguardo la commemorazione che, ogni anno come oggi, si celebra a Palermo per ricordare i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Ho sempre rispettato la morte e i morti. Ho sempre rispettato la vita di tutti, perché tutti hanno pari diritto di viverla. Ma soprattutto ho sempre nutrito profondo rispetto per il sacrificio, quello inesorabile, segnato, consapevole. Quello che lo sai che per essere coerente, portare avanti un'idea, affermare qualcosa di nuovo, devi per forza incontrare. Così, tanti sono gli eroi cui il sacrificio è valso uno scatto: per un diritto, per maggiore libertà, per un mondo più giusto. Loro sono i miei eroi. Falcone e borsellino no, non sono i miei eroi!
Il 23 maggio è un giorno di commemorazione, di ricordo, di cordoglio. Associazioni, politici di vario genere e schieramento e cariche istituzionali, si immergono nella retorica dell’antimafia e di quanto hanno dato per lo stato, gli eroi dell’antimafia. Coloro che hanno dato tutto nel perseguire l’obiettivo di fermare l’avanzata delle cosche, il loro potere, la loro violenza e tutto quello che ne conseguiva (e ne consegue) in termini di corruzione, logica della clientela, distruzione e morti.
Falcone e Borsellino erano magistrati, pubblici ministeri. Rappresentavano cioè lo Stato nell’esercizio della difesa dei suoi interessi. Uno dei principali interessi dello Stato è, appunto, il rispetto delle leggi. Perché si sa la legge è uguale per tutti e va rispettata.
E’ lo Stato che oggi si celebra e si auto assolve, ma sappiamo tutti che proprio per i suoi equilibri e la sua "ragione" che i suoi due uomini sono morti. Questo non riesco a dimenticarlo. E non riesco a dimenticare che questo Stato è lo stesso che - è la storia a dirlo - ha messo bombe e fatto stragi, falsato carte e coperto omicidi ( pochi giorni fa era l'anniversario della morte di Impastato ). E, infine, non dimentico come procure e magistratura abbiano protetto quegli sporchi, sporchissimi affari.
L’anno in cui i due magistrati furono ammazzati avevo poco più di un anno. Adesso sono uno studente Palermitano fuori sede, e quello che so di loro è grazie (o a causa) alle carovane che ogni anno vengono organizzate dalle scuole per riempire una manifestazione che, se dovesse contare sulle scuole palermitane, correrebbe il rischio di risultare molto poco partecipata. Ricordo che prima di ogni 23 maggio ci preparavano ad affrontare in maniera adeguata questo importante appuntamento. Film, documentari e vari approfondimenti per provare a vedere da vicino cosa nella quotidianità, questi eroi, facevano. A quelle carovane partecipavo e una delle prime cose che mi è saltato all’occhio è stata la falsità di una commemorazione pensata come mattoncino nella costruzione di un immaginario del cambiamento possibile totalmente aleatorio, astratto. Come se il cambiamento passasse soprattutto dal ricordo di due magistrati che del rispetto della legge fecero la loro ragione di vita. Come se nel rispetto della legge, risiedesse il segreto del miglioramento di un sistema economico e politico, oggi come allora, marcio alla radice.
La legge permette a poche persone di avere tanto a discapito di molte altre che hanno poco o nulla. Permette che il diritto allo studio venga totalmente negato, escludendo dall’accesso al mondo della formazione chi ha così poco da non poterselo permettere. La legge permette che ci siano persone senza un tetto sulla testa, permette che una soluzione a questo problema non venga trovata. Per di più reprime chi per risolvere questo problema, si riprende luoghi pubblici inutilizzati. Sempre la legge permette che lavoratori e operai di un azienda prendano una paga da fame, mentre manager e dirigenti, premi milionari per averle affondate. C’è chi ha lavorato una vita e riesce a prendere a malapena la pensione e chi dopo due anni prende un vitalizio d’oro. Se la legge permette tutto questo io non posso ne difenderla ne onorarla ne tanto meno riconoscere come eroi coloro che hanno dato la vita per difenderla.

lunedì 22 maggio 2017

THE TRUMP(WAR)WORLD TOUR


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La guerra di Trump,più personale che esplicitamente richiesta dal popolo statunitense,sta virando in questi giorni verso l'altro nemico storico Usa(e di Israele)che è l'Iran:accantonata per qualche ora la Corea del Nord ecco che il guerrafondaio e spacciatore di armi presidente degli Stati Uniti proseguire il suo tour mondiale toccando prima l'Arabia Saudita e poi Israele.
L'articolo preso da Contropiano(donald-darabia )parla solamente degli incontri di Riyad,coloro che universalmente sono noti come i primi finanziatori dell'Isis assieme alle altre petrolmonarchie mediorientali.
Ora Trump,grazie ai notevoli interessi economici che lega gli Usa all'Arabia Saudita,sta cercando di dirottare il terrorismo Isis verso oriente in territorio iraniano per allontanarlo dall'occidente ed indirizzarli finché farà comodo verso i territori persiani in una sorta di protezionismo dell'islam sunnita contro quello sciita.
Aggiungo anche questa intervista(contropiano continuita-obama-trump )che permette di apprezzare meglio la linea perseguita dagli ultimi presidenti statunitensi/del mondo in materia di politica estera basata negli ultimi decenni su guerre preventive e ingerenze nelle altre nazioni del territorio del Medio Oriente.

Donald d’Arabia prova a dirottare l’Isis saudita contro gli sciiti.

di Alessandro Avvisato
Non è una svolta storica, quella proposta da Donald Trump alle petromonarchie del Golfo, ma un ritorno al passato. L’unica rottura – vedremo presto quanto gravida di conseguenze – è con la linea di Obama e Bush, ossia con l’approccio “dirittoumanista” dell’imperialismo statunitense.
Nel discorso sull’Islam pronunciato a Riad, davanti agli sceicchi del Gulf Cooperation Council (Gcc), Trump ha cancellato ogni ipotesi di “esportazione della democrazia” – tranne un fugace passaggio sull’oppressione delle donne – in campo islamico-sunnita. Ossai l’architrave ideologico con cui, negli ultimi venticinque, è stata giustificata ogni guerra d’aggressione a paesi musulmani (Iraq, Libia, Siria, lo stesso Afghanistan, e naturalmente le cosiddette “primavere arabe”).
“Non sono venuto qui a darvi lezioni, non sono io a dirvi come dovete vivere. Ma occorre una coalizione internazionale contro il terrorismo. Le nazioni del Medio Oriente non possono aspettare che sia l’America a sconfiggerlo. Dovete battere voi questo nemico che uccide in nome della fede”.
E’ lo stesso Trump che in campagna elettorale accusava l’Arabia Saudita per l’attacco dell’11 settembre 2001. Non bisogna insomma leggere le sue parole in senso letterale, ma ricostruire i nessi storici tra interessi divergenti che erano entrati in pesante conflitto.
In pratica, Trump e è andato a dire agli sceicchi che finanziano l’Isis e le altre formazioni jihadiste: “mollate questi gruppi e questa strategia, torniamo alleati nella lotta comune contro l’Iran e l’Islam sciita, in cambio non vi romperemo più le scatole con i diritti umani violati nei vostri paesi e vi venderemo tutte le armi che volete”.
Per essere ancora più convincente si era fatto precedere da un mega-accordo commerciale per 110 miliardi di dollari in armamenti, prima tranche di una commessa che vale 350 miliardi da qui ai prossimi dieci anni.
Gli Stati Uniti di Trump rinunciano tranquillamente alla pretesa di “conformare” una parte del mondo a propria immagine e somiglianza, prendendo atto che il terrorismo jihadista promosso dalle petromonarchie non è battibile senza pagare prezzi eccessivi; e soprattutto senza rompere definitivamente un legame con la più grande concentrazione di riserve petrolifere accertate e di relativamente facile estrazione.
Una rinuncia che naturalmente non diventa una nuova “dottrina” strategica, Il “diritto umanismo” strumentale potrà tornare utile in qualsiasi altro scenario, anche a costo di inventarsi dittature che non esistono (l’aggressione in corso contro il Venezuela chavista, in queste settimane, viene per l’appunto coperta con accuse di “dittatura” per la convocazione di un’assemblea costituente!). Ma l’Islam sunnita – perlomeno quello che staziona sul Golfo Persico – si è visto offrire un ramoscello d’ulivo dopo anni di “incomprensioni” che hanno generato Al Qaeda prima, Al Nusra e Isis subito dopo.
Lo raccoglieranno? Gli sceicchi non sono ingenui. Sanno che Trump può saltare prima della fine del mandato, e in quel caso il vecchio establishment (repubblicani e democratici Usa) potrebbe tornare a usare argomenti molto sgraditi per giustificare nuove aggressioni e destabilizzazioni. Ma dovranno mostrarsi pronti a cogliere l’occasione.
E’ presto per dire se questo implicherà nell’immediato una pressione sui gruppi jihadisti per ridurre numero e portata degli attacchi nelle metropoli occidentali. La strategia della “rete”, fatta di attivazioni di piccole cellule o addirittura individui slegati da ogni vincolo organizzativo duraturo, è difficile da disattivare per le stesse ragioni che la rendono impossibile da sradicare definitivamente. Soprattutto, in quei territori ormai occupati stabilmente (in Iraq, Siria, Libia, Mali, ecc), non sembra proponibile un “ritiro” jihadista. Ma certo una robusta chiusura dei rubinetti finanziari potrebbe convincere o costringere a ridurre le ambizioni dei gruppi più incontrollabili.
La svolta trumpiana sembra riportare moderatamente in auge il rispetto della sovranità nazionale e il principio della “non ingerenza negli affari interni” di un altro paese, e spiazza i pasdaran della “guerra umanitaria” nei governi occidentali. O quantomeno crea loro parecchi problemi nella gestione della propaganda. Ma non c’è infamia, su questo piano che non sia già stata ampiamente sperimentata (si sono attaccati in un quarto di secolo molti paesi perché governati da “dittatori”, ma sono sempre state protette le petromonarchie incubatrici dell’integralismo wahabbita); dunque non c’è da farsi troppe illusione.
L’approccio trumpiano è infatti dichiaratamente commerciale e “pragmatico”. Dunque ci si deve attendere una retorica di accompagnamento delle decisioni che varia caso per caso, al posto di un “pensiero generale” troppo difficile da rispettare in ogni angolo del pianeta.
Le conseguenze più rilevanti ed immediate riguardano invece il rapporto con l’Iran, messo di nuovo sul banco dei reietti nonostante la vittoria del candidato più “dialogante”. Non è difficile immaginare che Israele e le petromonarchie interpreteranno questa svolta come una semi-autorizzazione a forzare la mano in Libano (contro Hezbollah), in Siria e soprattutto contro Tehran.
Trump sta insomma cercando di liberarsi del “terrorismo” jihadista in Occidente incentivando i suoi sponsor a concentrarsi sull’avversario storico: gli sciiti. 

sabato 20 maggio 2017

IL VOTO IRANIANO

Risultati immagini per voto iran rohani
Il Presidente uscente Hassan Rohani ha vinto con più di sette milioni di voti di scarto le elezioni presidenziali iraniane contro il suo maggiore avversario,il conservatore Ebrahim Raisi,mentre gli altri candidati hanno ottenuto ben poco:alta l'affluenza al 70% che ha costretto il prolungamento della chiusura dei seggi di alcune ore.
L'Iran ha scelto di proseguire la via pacifica e di dialogo con l'occidente senza svendersi come al tempo dello scia Reza Pahlavi ma ancora con la nomea affibbiatagli più dagli Usa(con suggerimento decisivo di Israele)di"Stato canaglia soprattutto quando c'era Ahmadinejad alla presidenza dell'Iran dal 2005 al 2013(madn iran-o-siriaquale-la-prima ).
L'Iran è al centro di una zona tra le più calde e tra le più ricche della terra per via delle sue risorse naturali del sottosuolo,e proprio per via della geopolitica ha attratto l'attenzione mondiale per questa importante tornata elettorale.
Tra il discorso nucleare,le continue minacce statunitensi ed israeliane,il ruolo nelle guerre che si combattono in territorio mediorientale,il fatto che sia lo Stato islamico sciita più grande(assieme allo Yemen gli sciiti sono il gruppo religioso di maggioranza della nazione mentre in tutti gli altri Stati islamici la maggioranza è sunnita),l'Iran,l'antica Persia(guai a confondere un persiano con un arabo)gioca un ruolo primario nei fragili equilibri mediorientali e mondiali.
Articolo di Contropiano:internazionale-news .

Iran,Rohani bissa la presidenza.

Più di sette milioni di iraniani fanno pendere l’ago della bilancia d’un voto partecipato verso il presidente uscente Rohani. Per lui s’esprimono ventidue milioni e ottocentomila cittadini contro quindici milioni e mezzo che scelgono Raisi. Insignificanti le preferenze dirottate su Mirsalim (455.000) e Heshmitaba (210.000). Ma l’ufficialità dell’elezione non c’è ancora, manca lo spoglio di ben 15 milioni di schede che verranno smaltite in giornata, seppure non dovrebbero sovvertire la tendenza che vede Rohani attestato sul 58% e l’avversario sul 40%. Per consentire il maggior afflusso possibile alle urne, ieri sera il Comitato elettorale aveva deciso di prolungare la consultazione di due ore, poi di tre. Alla fine i seggi sono stati chiusi cinque ore dopo l’orario prefissato. Dunque il Paese si riaffida a un presidente uscente, una scelta che conferma la consuetudine e va oltre perché poggia su quanto la linea del chierico diplomatico ha mostrato negli ultimi tempi. Regge, specie fra i giovani, la speranza di poter veramente attuare quei piani d’investimento che la linea accogliente di Rohani ha sancito attraverso l’accordo sul nucleare. Poiché la nazione, pur dotata di proprie risorse e capacità materiali ed umane, necessita di confronto e cooperazione a tutto tondo.
Sul fronte opposto Raisi, il puro e il povero, gestore però della più potente e solvente bonyad iraniana, Astan Quds Razavi della città santa di Mashhad, poneva in primo piano il discorso ideologico della particolarità iraniana sostenitrice della causa dei diseredati dall’economia e dalla politica imperialista che squassa da oltre un secolo il medioriente e prosegue nella sua dissennata politica guerrafondaia. Il chierico dal turbante nero ha trovato seguito nelle città rurali e nei luoghi come il quartiere Khorasan di Teheran dove lo spirito della Rivoluzione Islamico rappresenta uno stendardo esibito e onorato. Raisi ha incentrato la sua campagna contro il presidente uscente, evidenziando le contraddizioni di promesse economiche inattive e forse inattuabili che picchiano duro sulle giovani leve, tenendo alto il tasso di disoccupazione (12% nazionale e 30% giovanile) e sulla corruzione che avvinghia affaristi e politici (laici e chierici). Sottolineava in quest’ultimo caso il trasferimento del consenso di quel ceto un tempo vicino a Rafsanjani verso il presidente in carica. Ma non è riuscito a sfondare, perché lo staff di Rohani gli ribatteva dove fosse il suo rigore durante il lungo periodo in cui ha rivestito l’incarico di giudice.
Per inimicarsi ancor più la gioventù urbana, che infatti ha votato in maggioranza il presidente uscente, Raisi aveva lanciato anche una polemica contro i concerti pop nella città santa di Mashhad “Prima di preoccuparsi dei concerti il governo dovrebbe interessarsi alla condizione dei poveri” sosteneva, ma la proposta di aumentare i sussidi verso i ceti meno abbienti, pur presenti in talune zone rurali, non ha sfondato come il severo sayyid pensava. Al contrario ha avuto il suo peso l’esplicito appoggio alla linea dell’apertura e della speranza, offerta da Rohani già quattro anni fa, di personaggi dello sport e dello spettacolo, fra cui le attrici Baran Kosari e Taraneh Alidoosty (la protagonista del film “Il cliente” di Asghar Farhadi) che aveva rifiutato il premio Oscar protestando contro il divieto antislamico del presidente Trump. Perché nell’animo dei sostenitori di Rohani apertura al mondo non è affatto intesa come ritorno al servilismo dell’epoca Pahlavi. Certamente se sarà confermato quale vincitore, il pacifico Rohani dovrà fare i conti con un quadro geopolitico sempre più complesso. Il presidente statunitense, se non sarà colpito da nessun impeachement è un personaggio infido, poco favorevole a distensioni e facilitazioni.
Lo dimostra l’incontro di queste ore con la dinastia Saud e con gli islamici del Golfo, che ha tenuto alla larga qualsiasi presenza iraniana, e non perché il Paese fosse impegnato con la consultazione presidenziale. Ma questa diventa storia del futuro prossimo. Per ora l’alleanza interna iraniana fra pragmatici e riformisti tiene. Ieri quando Mohammad Khatami si è presentato al seggio per esprimere il suo sostegno a Rohani, una folla osannante gli si è stretta attorno. Un’acclamazione di persone che non celavano i segnali d’un passato di contestazione, col verde risbocciato, dopo essere in quest’ultimi anni riparato nel viola. L’Iran dei simboli prosegue un cammino pur polarizzato. Quello in cui difficilmente vedrà prevalere la componente riformista riguarda la scelta della futura Guida Suprema. Fra gli ayatollah i tradizionalisti sembrano dettar legge, nonostante una spiccata linea geriatrica (Jannati, Shirazi, Hamedani, Yazdi, Mesbah-Yazdi) sono tutti novantenni o giù di lì. Eppure il faqih del futuro sembra già posto in prima fila, quando il malato Khamenei dovesse mancare. E’ lo sconfitto di oggi: Ibrahim Raisi che, in quel caso, potrebbe prendersi una rivincita corposa. Corposissima. Visto che sulla politica iraniana proiettata verso il mondo il velayat-e faqih non tramonta, forte anche del benestare del partito pasdaran.

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

venerdì 19 maggio 2017

A BASTONATE

Risultati immagini per mauro moretti buonuscita
Mentre la gente non riesce ad arrivare fisicamente,economicamente e mentalmente a fine mese ma nemmeno alla sua metà,la notizia dei 9,4 milioni di Euro ben 9.400.000 li scrivo con le cifre per capire l'enormità della somma di denaro pubblico(il maggior azionista è il ministero dell'economia e delle finanze)di buonuscita per Mauro Moretti,ex boss delle ferrovie dello Stato da tre anni amministratore delegato e direttore generale di Leonardo(l'azienda di Finmeccanica che si occupa del settore aerospaziale).
Ebbene questi soldi pubblici per levarselo dai coglioni(ora ha preso il suo posto un altro volpone della ladreria italiana Alessandro Profumo,ex presidente Unicredit e del Monte dei Paschi di Siena per intenderci)sono un abominio soprattutto in quanto questo criminale è stato condannato a sette anni di carcere per la strage ferroviaria di Viareggio(madn la-prima-sentenza-per-la-strage-di Viareggio )quando ne era amministratore.
Se questa cifra dovesse essere veritiera e credo purtroppo che lo sia deve essere necessariamente girata per coprire in parte i familiari delle vittime uccise nel rogo del 29 giugno 2009:una parziale somma dovuta penalmente e moralmente da colui che doveva vigilare e per l'appunto dirigere l'ente protagonista di quel macello.
Qui,come sottolineato nell'articolo preso da Contropiano(tre-anni-lavoro-94-milioni ),non si parla d'invidia ma di vero e proprio disprezzo per una persona e per un sistema che anni addietro o al giorno d'oggi in un altra nazione farebbe scattare un odio di classe con conseguenze negative e pericolose per personaggi così spregevoli da non meritare nemmeno l'appellativo di"essere umano".

Tre anni di “lavoro”, 9,4 milioni di buonuscita. Ottime ragioni per l’odio di classe.
La notizia è di quelle che farebbero salire il sangue agli occhi anche a un santo. Ammonta infatti a quasi 9,4 milioni di euro l'assegno di buonuscita che riceverà Mauro Moretti da Leonardo, l'azienda del settore aerospaziale di Finmeccanica del quale è stato amministratore delegato per soli tre anni. Il consiglio di amministrazione di Leonardo, nella prima riunione del nuovo cda tenutasi il 16 maggio scorso, "ha verificato la sussistenza dei presupposti per l'attribuzione all'ex amministratore delegato e direttore generale di un'indennità compensativa e risarcitoria pari a 9.262.000 euro oltre alle competenze di fine rapporto e di quanto spettante in relazione ai diritti maturati nell'ambito della partecipazione ai piani di incentivazione a breve e medio-lungo termine, come riportati nella relazione sulla remunerazione della società". A tale indennità, spiega ancora la nota, si aggiunge un importo di 180 mila euro "a fronte di rinunce specifiche effettuate" da Moretti "nell'ambito della risoluzione del rapporto". A Moretti subentra Profumo, anche lui ex presidente dell’Unicredit e persino del Monte dei Paschi di Siena.
Moretti, durante il suo mandato di a.d di Leonardo, è stato condannato a sette anni per la strage di Viareggio, avvenuta quando era amministratore delle Ferrovie dello Stato.
Proprio in questi giorni, il rapporto annuale dell’Istat ha provato a radiografare – con criteri posti sulla graticola da sociologi come Schizzerotto – il boom delle disuguaglianze sociali nel nostro paese. Una forbice cresciuta enormemente in questi ultimi dieci anni e che in larga parte è determinata proprio dalla bassa retribuzione del lavoro. Una condizione che ha portato alla crescita della popolazione che vive in condizione di povertà relativa.
Ma in un paese dove solo le pensioni d’oro non possono essere toccate perché sono un “patto tra stato e cittadini” (criterio non valido invece per quelli massacrati dalla riforma Fornero); dove il tetto alle retribuzioni più ricche viene giudicato un disvalore mentre i tagli a quelle più basse una inevitabile necessità; dove si muore e ci si ammala di più perché non ci sono più i soldi per curarsi, leggere che un pessimo personaggio come Moretti, per soli tre anni di lavoro in una azienda si porti a casa 9,4 milioni di euro di buonuscita, è una notizia che invoca quasi naturalmente quello che Marx prima e il grande Edoardo Sanguineti poi definirono come un giustificato odio di classe. Una categoria della coscienza sociale completamente diversa da quella che gentaccia come Briatore liquida come "invidia". E' qualcosa, anzi molto di più.