martedì 31 ottobre 2017

I VERTICI DELL'ESECUTIVO CATALANO A BRUXELLES


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Come annunciato nelle ultime ora la possibilità che il Presidente della Catalunya Carles Puigdemont assieme alla maggior parte dei suoi ministri possano essere andati in Belgio si è fatta cosa vera e così anche se non c'è stata almeno per ora nessuna richiesta di asilo politico c'è dunque la conferma dell'arrivo dei vertici della neonata repubblica catalana in territorio belga ufficialmente per confrontarsi con i nazionalisti fiamminghi.
Nell'articolo odierno di Contropiano(puigdemont-bruxelles-podem )che ricalca quello di ieri(puigdemont-esilio-belgio-podemos-si-spacca-commissaria-podem )i motivi non ancora chiari dell'esodo dell'esecutivo di Barcellona,con lo stesso Puigdemont che dichiara il volere di tornare in patria solamente se potesse avere un equo processo,cosa molto lontana a mio parere e anche da quello del suo avvocato visto il clima di vendetta e di tolleranza zero di Rajoy.
Anche la data del 21 dicembre indetta per nuove elezioni"regionali"dallo stesso Rajoy è ancora citata e credo ritenuta possibilmente valida solo se ci sarà il rispetto del suo esito visto che molte liste e partiti indipendentisti non sono dell'idea di partecipare.
Nel senso che per ora sono solo una votazione farsa voluta da Madrid ma che col proseguire delle settimane se ci sarà un chiaro riferimento ad un indipendenza comunque già proclamata questi partiti e movimenti vari potrebbero parteciparvi.
Mentre Podemos,già ambiguo ai tempi del referendum(madn le-ambiguita-di-podemos-e-catalunya-en comù )nella persona del leader Iglesias commissaria la creatura Podem nata proprio da una costola del partito che si dice ancora progressista ma che non vede di buon'occhio l'uscita catalana dalla Spagna.

Puigdemont parla da Bruxelles. Podem si ribella a Podemos.

di  Marco Santopadre 
Il leader catalano Carles Puigdemont, da Bruxelles, accusa Madrid di aver chiuso al dialogo con la Catalogna. “Venerdì pomeriggio – ha detto – ero alla Generalitat dopo la dichiarazione di indipendenza del parlamento e con una serie di dati che indicavano che il governo spagnolo stava preparando un’offensiva senza precedenti e anche una denuncia del procuratore che prevedeva pene che potevano arrivare a molti anni di detenzione. Abbiamo sempre voluto la strada del dialogo, ma in queste condizioni questa via non era percorribile. Il governo spagnolo rispetterà i risultati, qualunque siano, delle elezioni del 21 dicembre? Dobbiamo saperlo, non devono esserci diseguaglianze, elettori di seria A e elettori di serie B. Io – assicura il President appena destituito – non sono qui per chiedere asilo politico ma per lavorare in libertà e sicurezza. Se mi fosse garantito un processo giusto, allora tornerei subito in Catalogna per continuare a lavorare”.

Le parole del dirigente del PDeCat sono sibilline, non si capisce se rimarrà o meno in Belgio, se chiederà o meno asilo a Bruxelles. E se, come ipotizzano alcuni, se gli andasse male in Belgio, proverà con la Russia o addirittura con Israele pur di sfuggire alla condanna dai 15 ai 30 anni che comportano le accuse contro di lui formulate dalla Procura Generale di Madrid. E anche se non mancano nei suoi confronti le critiche, sia dei sostenitori sia degli avversari, per aver abbandonato il campo ed essere fuggito all’estero per scampare alle conseguenze delle sue azioni, la mossa di Puigdemont ha ottenuto un risultato importante e oggettivo: internazionalizzare una crisi che fino a ieri mattina l’Unione Europea e tutti i principali governi continentali affermavano di considerare un “affare interno alla Spagna”.

“Abbiamo voluto garantire che non ci saranno scontri nè violenza – ha detto ancora Puigdemont da una piccola sala stampa di Bruxelles stipata di giornalisti (pare che il governo Michel gli abbia impedito di usare una sala più grande e prestigiosa) – Se lo stato spagnolo vuole portare avanti il suo progetto con la violenza sarà una decisione sua. La denuncia del procuratore spagnolo persegue idee e persone e non un reato. Questa denuncia dimostra le intenzioni bellicose del governo di Madrid. Noi non abbiamo mai abbandonato il governo, noi continueremo a lavorare. Non sfuggiremo alla giustizia ma ci confronteremo con la giustizia in modo politico. Alla comunità internazionale, all’Europa chiedo che reagisca: l’Europa deve reagire: il caso e la causa catalana mettono in questione i valori su cui si basa l’Europa”.

Assieme a Carles Puigdemont, presidente di una Repubblica annunciata ma stroncata sul nascere dalla repressione e dai mancati passi di un Govern che si è lasciato sciogliere senza colpo ferire, ci sono anche sette dei suoi ministri (del PDeCat e di ERC), cinque dei quali lo hanno accompagnato ieri nel viaggio via Marsiglia e altri due che lo hanno raggiunto oggi.

L’avvocato fiammingo di Puigdemont, noto per aver difeso in passato alcuni cittadini baschi accusati di far parte dell’Eta e di cui Madrid chiedeva l’estradizione, ha detto che per il momento l’ex President non ha intenzione di chiedere l’asilo in Belgio: “Teniamo aperte tutte le opzioni e studiamo tutte le possibilità. Abbiamo tempo”. Bekaert ha riconosciuto che sarà difficile per Puigdemont ottenere la protezione del Belgio, che pure è uno dei paesi più garantisti di tutto il continente. “L’asilo può essere chiesto, ma ottenerlo è un’altra cosa”, ha detto il legale, secondo il quale è ancora troppo presto per parlare di incidente diplomatico con la Spagna. “Per il momento non si tratta che di un cittadino europeo venuto a Bruxelles”, ha affermato l’avvocato, sul quale non pendono provvedimenti giudiziari ma solo un’inchiesta. Certo “La Spagna è molto suscettibile sulla questione, posso testimoniarlo”, ha aggiunto l’avvocato.

Intanto, il ministro degli esteri spagnolo Alfonso Dastis ha detto che “sarebbe sorprendente” se Puigdemont ottenesse l’asilo politico in Belgio. Fra paesi Ue “non sarebbe una situazione di normalità”, ha aggiunto. La decisione ha però ammesso non sarebbe presa dal governo ma dalla giustizia belga. Dastis ha detto anche di avere scambiato messaggi con il collega belga Didier Reynders evidentemente per tentare di bloccare ogni possibile iniziativa dell’esecutivo Michel che comunque ha preso le distanze dalle dichiarazioni possibiliste del ministro dell’Immigrazione Theo Francken, come d’altronde il suo stesso partito, la formazione di centro-destra Nuova Alleanza Fiamminga, che chiede l’indipendenza delle Fiandre ma fa parte della compagine governativa.

Per le ore 18, il premier spagnolo Mariano Rajoy ha convocato una riunione straordinaia del consiglio dei ministri sulla crisi catalana. La riunione dovrebbe preparare in particolare le elezioni convocate per il 21 dicembre e alla quale sembra che i partiti indipendentisti catalani, pur definendole illegittime e condizionate, sembrano proprio intenzionate a partecipare.

Intanto stamattina la Guardia Civil spagnola realizzate ben sei blitz in altrettanti commissariati dei Mossos d’Esquadra in diverse città della Catalogna con l’obiettivo di sequestrare le registrazioni delle comunicazioni interne al corpo di sicurezza durante il referendum del 1 ottobre. Gli agenti spagnoli hanno perquisito il centro di telecomunicazioni di Sabadell e i commissariati centrali di Barcellona, Girona, Manresa, Tortosa e Sant Felu de Llobregat alla ricerca di prove della ‘disobbedienza’ da parte degli agenti della polizia autonoma all’ordine impartito di impedire, lo scorso 1 ottobre, il voto di due milioni e mezzo di cittadini, anche con la forza.

Sul fronte politico, dentro Podemos si sta consumando definitivamente lo strappo tra la direzione statale e la diramazione catalana. Oggi Albano Dante Fachin, segretario di generale Podem esautorato domenica dalla direzione federale di Podemos, ha respinto il commissariamento ed ha accusato Pablo Iglesias di comportarsi come Rajoy, sottomettendo il suo partito ad un “commissariamento inaccettabile”.

“La giustificazione di Pablo Iglesias per commissariare Podem è uguale a quella di Mariano Rajoy per commissariare la Catalogna: così come Rajoy ha detto che occorre sciogliere un governo democraticamente eletto per dare voce alla gente Iglesias dice che bisogna rimuovere una direzione democraticamente eletta per dar voce agli iscritti. Questo è lontano dalle pratiche democratiche che abbiamo sempre difeso” ha detto Dante Fachin nel corso di una conferenza stampa.

Il leader di Podem ha sfidato Iglesias a dimostrare che tre dei quattro deputati del movimento non abbiano votato contro una delle due risoluzioni indipendentiste approvate venerdì dal Parlament di Barcellona. I tre parlamentari, ha detto, si sono attenuti alle indicazioni del movimento, votando ‘no’, ma non hanno mostrato il voto scritto sulla scheda in segno di solidarietà con i deputati indipendentisti che a causa della loro scelta potrebbero andare in galera. Inoltre, ha denunciato Dante Fachin, mentre Iglesias imponeva a Podem una consultazione tra gli iscritti di Podem sulla coalizione con cui andare al voto nelle elezioni del 21 dicembre imposte da Rajoy, la direzione di Podemos aveva già deciso di presentarsi attraverso la coalizione Catalunya en Comù.

Al contrario la direzione di Podem, ha spiegato il suo segretario, ha deciso di iniziare un giro di consultazioni con tutte le forze indipendentiste e di sinistra per accordare una reazione comune alle elezioni ‘straordinarie’ di fine dicembre. “Indipendentisti e non indipendentisti dobbiamo lavorare insieme in queste elezioni che non sono normali” ha chiarito.

Invitato a farsi da parte e a lasciare il movimento da Pablo Iglesias e da altri big del partito statale, Dante Fachin ha affermato che metterà a disposizione il suo incarico nel corso della prossima riunione di direzione di Podem, all’interno della quale può godere di un ampio sostegno da parte dei suoi e anche della corrente Anticapitalistes. Dante Fachin ha anche criticato l’accordo di governo a Barcellona tra Ada Colau e i socialisti “che sostengono la repressione”.

lunedì 30 ottobre 2017

TRUMP TREMA


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L'effetto del Russiagate,le azioni da hackeraggio e di spionaggio avvenute durante l'ultima campagna elettorale statunitense,continua a mietere vittime e nomi illustri come quelli di due stretti consiglieri di Donald Trump,Paul Monfort e Rick Gates,che comunque già in sentore di indagini sul loro conto avevano lasciato il loro incarico ancor prima del voto.
Accuse gravi per i due che si sono presentati all'Fbi per evitare l'arresto e le interferenze negative nei loro affari,e devono rispondere di una dozzina di capi d'imputazione dal riciclaggio all'evasione fiscale passando alla violazione delle norme che regolano la professione di lobbisti(in Usa è norma comune passare da essere imprenditori nel settore privato e passare ad essere amministratori pubblici e viceversa).
L'articolo preso da Contropiano(due-collaboratori-trump-si-consegnano-allfbi )non parla direttamente di implicazioni nel Russiagate ma comunque accennano che questo gesto potrebbe rientrare in quello che si prospetta come uno dei maggiori scandali degli ultimi anni negli Usa.

Due collaboratori di Trump si consegnano all’Fbi.

di  Alessandro Avvisato 
L’establishment capitalistico può perdere le elezioni, ma non la dotazione di armamenti che gli permette di ridimensionare, ribaltare, annientare le “perturbazioni” occasionali.

E’ uno dei primi pensieri nel leggere che, negli Stati Uniti, due dei principali collaboratori di Donald Trump nella campagna elettorale si sono presentati stamattina nella sede dell’Fbi di Washington, ovviamente accompagnati da uno stuolo di avvocati famosi.

Paul Manafort e Rick Gates, ex consiglieri di Donald Trump, non avevano più alternative, se non volevano rischiare l’arresto e il tracollo immediato dei propri affari (sono anche soci).

Devono rispondere di ben 12 capi di imputazione – dall’evasione fiscale al riciclaggio, alla violazione delle regole che disciplinano la professione di lobbista – e apparentemente non riguardano alcun episodio del cosiddetto Russiagate, ovvero l’aver intrattenuto rapporti con l’ambasciatore russo negli Usa (o addirittura con il ministro degli esteri Lavrov) per ottenere il famoso “aiutino” hacker sulle mail di Hillary Clinton.

Il primo capo di imputazione è comunque «cospirazione contro gli Stati Uniti», che però viene interpretato in modo molto yankee (l’evasione fiscale, laggiù, è un crimine piuttosto serio contro lo Stato, come ha sperimentato a suo tempo anche Al Capone).

Manafort è un noto lobbysta e avvocato di Washington, e per i costumi statunitensi non c’è un “conflitto di interessi” nel passare nel giro di pochi giorni da una posizione privata con agganci nell’amministrazione pubblica (questo è un lobbysta) a una posizione pubblica e viceversa (ricordiamo i salti continui di Dick Cheney e Donald Rumsfeld da società a posti da ministro con le presidenze Bush, padre e figlio).

Manafort e Gates hanno lasciato il comitato elettorale di Trump prima che questi vincesse le elezioni, ma lo avevano fatto proprio a causa dei loro comportamenti “chiacchierati” e la frequentazione con personale diplomatico russo. Sono infatti i primi a essere stati incriminati dal procuratore speciale Robert Mueller. Al centro dell’indagine ci sarebbero le dichiarazioni fiscali di Manafort, che avrebbe mantenuto collaborazioni d’affari e consulenze con oligarchi ucraini vicini a Yanukovich, poi travolto dai fatti di Majdan, in buona parte finanziati e sostenuti da un arco di soggetti che va da George Soros alla stessa Hillary.

E’ chiaro che l’Fbi e il procuratore Mueller ritengono di poter costringere i due imputati a uno “scambio” (anche questo tipico nella giurisdizione Usa) tra confessioni su fatti riguardanti “altra causa” (ovvero i rapporti del cerchio magico di Trump con i russi) e l’impunità per reati come quelli ora contestati-

Non è l’unica fonte di sofferenza, per Trump, perché un altro dei suoi collaboratori – George Papadopolous, un semplice volontario della campagna elettorale – si è dichiarato colpevole per aver reso false dichiarazioni all’Fbi nell’ambito delle indagini del procuratore speciale Robert Mueller.

Al vertice degli Stati Uniti è arrivato quasi per sbaglio un “cavallo pazzo”, un vecchio palazzinaro molestatore e senza scrupoli. Ma il sistema sembra decisamente in grado di metabolizrlo ed espellerlo prima ancora che finisca il suo primo mandato…

ALCUNI HANNO DUBBI SUL'INDIPENDENZA CATALANA


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Molta gente che pensa politicamente a sinistra si è domandata se l'indipendenza proclamata dal Parlament catalano sia un'opportunità favorevole o meno rispetto al fatto che al posto di unire popoli si costruisca un altro confine.
In un recente viaggio in terra basca molti pensavano non necessaria almeno in questo periodo e/o con le modalità che si sono usate questa indipendenza della Catalunya da Madrid,sia per la creazione di un nuovo Stato che per le mire di una certa borghesia catalana cui fa comodo tutto questo discorso.
Evidentemente molta altra gente era a favore incondizionatamente di questo strappo netto e deciso voluto da Barcellona,e l'articolo preso da Contropiano(interventi )casca proprio a fagiolo in quanto si fa un ragionamento proprio sulle tematiche che hanno visto molti compagni essere dubbiosi su quanto accaduto nelle ultime settimane(madn e-repubblica ).
Senza stare tanto a menarla con Lenin,la rivoluzione russa ed altri riferimenti che sono storia passata il mio appoggio verso l'indipendenza catalana è totale e sono d'accordo che le ultime e ancora potenti monarchie europee debbano finire perché il medioevo è finito da un pezzo,nonostante certi rigurgiti e atti possano fugare questa certezza.
Di sicura i riferimenti agli articoli(a partire da quello 155)della costituzione fascista spagnola ed il riferimento a Franco(ancora ieri gli unionisti hanno fatto mostra di saluti romani e violenze)non fanno altro che accrescere la mia stima per la Catalunya ed il suo popolo.

Ai compagni che non condividono il mio omaggio alla Catalogna.

di  Giorgio Cremaschi 
Alle compagne e ai compagni che mi hanno criticato per il mio omaggio al popolo della Catalogna, giudicando la sua lotta sbagliata, ambigua, borghese, egoista, nazionalista, eccetera, e che hanno contrapposto ad essa la lotta di classe di Marx e Lenin, rispondo ricorrendo proprio al più grande rivoluzionario della storia moderna.

Mi permetto di citare ciò che Lenin disse dell’emiro dell’Afghanistan, un reazionario che nel 1920 si batteva contro gli inglesi… Lenin disse che aveva fatto più danni all’imperialismo quell’emiro che tutta la socialdemocrazia e la sinistra europea…

Per favore, a cento anni dalla Rivoluzione contro Il Capitale, come la definì Gramsci, non usate Marx e Lenin in senso scolastico e soprattutto da menscevichi.

Le rotture del sistema avvengono oggi su faglie non previste dal manuale delle giovani marmotte marxiste-leniniste. E sono piene di ambiguità e contraddizioni… ma sono rotture. E in questo caso lo stato confusionale dei poteri forti UE dimostra che la rottura c’è.

E poi con chi stareste voi, con un popolo che si ribella, ripeto con ambiguità e contraddizioni, e che in questa ribellione matura, o con il Re e e i postfranchisti che lo reprimono? Siete sicuri di potervi chiamare fuori da tutto questo? Aggiungo che quando Fidel ed il Che sbarcarono dal Granma a Cuba dicendo “liberiamo la Patria”, il partito comunista di allora, di cui nessuno di loro faceva parte, li definì come avventuristi piccolo borghesi.

Sono stato nel Donbass; non ho visto il socialismo, che non c’è, ma un popolo antifascista e progressista che lotta per la propria autodeterminazione… Cosa dovevano fare? Aspettare la rivoluzione in tutta l’Ucraina e intanto farsi massacrare?

Lenin scriveva che per la rivoluzione vale il motto di Napoleone: si comincia lo scontro e poi si vede…

Per favore compagni non date i voti a chi ci prova nella condizione reale in cui sta, soprattutto da un paese, il nostro, che dopo essere stato per decenni all’avanguardia dei conflitti in Europa oggi è alla più triste retroguardia.

Cari compagni non fate i pedanti, ma siate generosi…

Per nostro interesse, prima di tutto.

domenica 29 ottobre 2017

LA SCELTA DI PIETRO GRASSO


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Forse non se n'è capita davvero l'importanza della scelta di Pietro Grasso,seconda carica dello Stato essendo il Presidente del Senato,di avere abbandonato il Pd e tutta la sequela di fatti ignobili che ne hanno caratterizzato la politica italiana negli ultimi dieci anni.
Dopo l'approvazione del Rosatellum come legge elettorale per il prossimo voto consultivo proprio non ce l'ha fatta a proseguire con la politica ambigua,liberale e reazionaria di un partito che giorno dopo giorno perde i pezzi e contestualmente la fiducia degli italiani che non hanno ancora ben chiaro che se vogliono essere partecipi e complici di uno schieramento di destra hanno un'ampia scelta piuttosto che votare un gruppo che si maschera ancora dietro la facciata del centrosinistra.
Nell'articolo preso dall'Ansa(senato-grasso-lascia-il-gruppo-del-pd )la notizia e le reazioni nel mondo politico che è rimasto scioccato da tale decisione presa sicuramente non a cuor leggero.

Pietro Grasso lascia il gruppo del Pd: 'Fiducia una violenza'.

Il presidente del Senato sarà dunque iscritto al gruppo Misto.
 
Con "questo" Pd ho chiuso. Dopo le dimissioni dal gruppo Dem Pietro Grasso ha spiegato le ragioni di una scelta che viene da lontano, maturata lentamente ed esplosa con la mancata difesa da parte del suo partito al momento della richiesta della fiducia sulla legge elettorale. "Ho ritenuto di lasciare questo Pd perché non mi riconosco più né nel merito né nel metodo", ha scandito questa mattina circondato dai giornalisti che gli chiedevano il perchè delle sue dimissioni. E il presidente del Senato ha spiegato che il punto di non ritorno è stato raggiunto proprio con la richiesta della fiducia: "il fatto che il presidente del Senato veda passare una legge elettorale redatta in altra Camera senza poter discutere, senza poter cambiare nemmeno una virgola è stata una sorta di violenza che ho voluto rappresentare". Insomma, per Grasso il Senato non ha potuto discutere del Rosatellum per colpa del Pd.

E come ha detto Napolitano ha fatto pressioni a suo avviso indebite su Gentiloni. Immediate sono partite le sirene di Mdp che già vedono in Grasso un leader da spendere in chiave elettorale. Mentre all'interno del Pd riemergono le varie anime, e sulla figura dell'ex magistrato antimafia il Pd torna a dividersi. Lui non entra nel merito, svicola le domande sul futuro e si ritira nella sua Palermo per un fine settimana di decantazione e riflessione. Non prima di aver precisato che - naturalmente - non è in discussione la sua presidenza al Senato. Precisazione importante perchè fonti di Governo non nascondono che alcuni ministri sono irritati per l'uso della parola "violenza": "allora doveva andare da Mattarella e non dimettersi dal Pd", osservano confidando che gestirà la successiva fase parlamentare con imparzialità. Grasso comunque ha provveduto ad avvertire in anticipo le "cariche istituzionali affinchè non lo venissero a sapere dalle agenzie".

Cariche istituzionali che si riassumono in tre contatti: il presidente Mattarella, il premier Gentiloni e il capo-gruppo del Pd al Senato Zanda. Ora l'interrogativo che circola forte a sinistra è sul dove esattamente potrebbe collocarsi Pietro Grasso a pochi mesi dalle elezioni. Dentro Mdp? Potrebbe essere. Nel processo di allontanamento di tanti dal Pd renziano non ci sono troppe differenze sui contenuti. Certamente diversa è stata la velocità del distacco del presidente del Senato con il quale non sono mai state ricucite le crepe apertesi sin dalla battaglia referendaria dell'anno scorso.

Screzi antichi che richiamano alla memoria gli scontri con Renzi e con Orfini e che Grasso ha metabolizzato con una punta di amarezza, forse pensando all'offerta decisamente prosaica di Zanda di garantirgli un collegio alle prossime elezioni. Quel che è certo è che nello scorrere le dichiarazioni tra Pd e sinistra si capisce bene che gli schieramenti non sono ancora assestati.

Se il ministro Orlando spinge tutti a "interrogarsi" su questa scelta, in molti invitano il Pd a non far finta che non sia successo nulla. Renzi reagisce a suo modo premettendo di avere "pieno rispetto" per la scelta di Grasso ma chiede di non aprire una nuova polemica. Ma dai Dem escono allo scoperto anche Veltroni ("spiace, speriamo di ritrovarci presto") e Cuperlo che parla di una "sconfitta" per il Pd. D'Alema non rinuncia a evidenziare con piacere una "consonanza di giudizio".

sabato 28 ottobre 2017

E' REPUBBLICA!


Finalmente la Catalunya ha avuto il coraggio grazie all'annuncio del Parlament dalla voce del Presidente della Generalitat catalana Puidgemont di dichiararsi  Repubblica,Stato indipendente e sovrano,di diritto,democratico e sociale.
Subito Rajoy da buon franchista l'ha commissariato così come tutti i Ministri della Generalitat,rimuovendo il capo dei mossos d'esquadra fissando per il 21 dicembre una nuova elezione regionale.
Coinvolte decine di dirigenti e funzionari che sono stati destituiti,anche il resto dell'Europa e del mondo non riconoscono ancora la Repubblica Catalana,anzi in certi casi come in Italia tramite il leccaculo Alfano,si riconosce Madrid come unica capitale di un unico Stato spagnolo.
Io invece riconosco questo nuovo Stato sperando che altre zone spagnole già autonome possano avere l'intraprendenza di dichiararsi al di fuori di una nazione che non ha mai chiuso i conti col suo recente passato fascista.
I due articoli presi da Infoaut(catalogna-e-repubblica-crack-totale-con-madrid )e Contropiano(madrid-soffocare-repubblica-catalana )parlano della grande gioia del popolo catalano e della repressione già promessa da parte di Madrid con l'applicazione del famigerato articolo 155 della Costituzione franchista spagnola.

Catalogna,è Repubblica: crack totale con Madrid.

Alle ore 15:30 di una seduta di fuoco, il Parlament ha proclamato la Catalogna come Repubblica indipendente e sovrana. Rajoy convoca il parlamento spagnolo a Madrid alle ore 19 per attivare l'articolo 155 che destituisce l'autonomia della regione pirenaica.

L'Assemblea Nazionale Catalana si appella alle decine di migliaia di persone che si stanno ammassando davanti al Parlament a rimanere a difenderlo, riempiendo anche le strade laterali.

- Un primo quadro mentre si sta tenendo la sessione parlamentare più importante della Catalogna del post-franchismo. In decine di migliaia ora nelle strade di Barcellona. La dichiarazione come risposta all' applicazione dell' articolo 155 -

ore 15:04: Carme Forcadell, presidente del Parlamento legge la risoluzione con cui si costituisce la repubblica di Catalogna

ore 15:01 - approvate le prime risoluzioni proposte dal FrentXSi e la CUP

ore 14:52 - rigettate le proposte di Ciudadanos e CPSQ, le opposizioni come annunciato abbandonano l' Aula durante la votazione delle risoluzioni del FrentXSi

ore 14:45: Rajoy convoca il CdM alle 19 per applicare l'articolo 155

Partita istituzionale e partita di piazza. La tensione non scende da due giorni in Spagna e in Catalogna. La dichiarazione di Indipendenza è a un passo; si avvieranno i lavori costituenti? Come reagiranno nell' immediato le alti cariche dello stato Spagnolo che fanno blocco unico per l'attivazione più dura possibile dell'articolo 155?

La sessione Parlamentare catalana che sta culminando con la Dichiarazione di Indipendenza Unilaterale ha visto gli interventi di tutti i sindaci della comunità a favore del Processo Costituente. Al contempo BILDU ha fatto sapere a mezzo stampa che non si tratta più di un problema legale con la Spagna, quanto di effettiva legittimità politica. Iñarritu ha rincarato con un “viva la Catalogna Libera”.
Parole che pesano e che saranno subito giunte alle orecchie dell' ala dura del Partido Popular, che non pago di avallare le misure dell' articolo 155 senza possibilità di appello, ha in questi giorni paventato la possibilità di estenderne l'attuazione alle altre Comunità del Paese che per motivi storico-politici e linguistici hanno connotazioni nazionali differenti da quella castigliana (si parla di Paesi Baschi, Andalusia, Galizia, Navarra e Castilla-la Mancha).
Anche il Governatore delle Canarie si è espresso in questi concitati minuti, dicendo che “non avrebbero voluto l'applicazione del 155, ma nemmeno la DUI; oggi vanno a rompersi 40 anni di mediazione”. Nel frattempo, il palesamento della dichiarazione di Indipendenza ha portato la dirigenza del PSOE ad affrettarsi a fare blocco compatto con il PP, dando via libera a quest'ultimo senza condizioni sulla nature delle misure che saranno adottate dal Governo Spagnolo.
Il Partido Social Catalano afferma che con la determinazione il govern catalano sta minando la pace sociale, anche i portavoce catalani del PP si sono espressi in questi istanti dichiarando gli avvenimenti in corso come errori dalle durissime conseguenze.

In Catalogna, il President, (neoliberale e di destra) ha toccato ieri con mano la gravosità e lo stress di tentare di tenere insieme il rispetto della volontà di autodeterminazione con la quale e per la quale ricopre il suo mandato cercado nel frattempo di mantenere a tutti i costi uno spazio aperto di dialogo e mediazione e rabbonimento delle istituzioni finanziarie internazionali. Un' equazione impossibile, che ha portato al continuo susseguirsi di dichiarazioni di intenti a tratti antitetiche tra loro e a destabilizzare il quadro mediatico spagnolo quanto internazionale.

Da una parte, Puidgemont è stato stressato dal suo partito e dai canali informali di comunicazione (unilaterali) tentati da PP e PSOE negli ultimi giorni al fine di preservare l'esistente e non creare rottura politica convocando nuove elezioni e sciogliendo il Parlamento. Una proposta che ha provocato subito la rottura interna del PdeCat che, sebbene concentrazione di interessi industriali e finanziari passibili di essere anche loro messi in discussione dagli eventi in corso, ha visto subito esponenti di rilievo distaccarsi e dichiarare dimissioni di fronte al cedere a una sorta di ricatto, quello di indire elezioni nella speranza di attenuare le volontà di imposizione del famigerato articolo 155 che saranno ufficializzate in tutta la sua articolazione nella giornata di domani. Teoricamente, in cambio dell'indizione di nuove elezioni, si chiedeva un dietrofont al Governo spagnolo su diversi fronti, compresi l'immediata liberazione dei presidenti di Omnium e ANC, in arresto da 12 giorni, il ritiro delle unità di polizia dal territorio catalano inviate da oltre un mese, nonché il mentenimento dello statuto di autonomia attualmente vigente nella regione.

Il tentativo di Puidgemont è stato osteggiato anche dai partiti del Fronte del Si con i quali si assicura la maggioranza, che hanno ritenuto inaccettabile tale decisione e hanno costretto al clamoroso dietrofont; non si patteggia con Madrid. E Madrid nel frattempo, tramite i portavoce del PP, faceva palesare la volontà di non fare alcuna retromarcia rispetto alla promulgazione dell'articolo 155 e ad eventuali concessioni. Nel frattempo le piazze studentesche si facevano sentire davanti al Parlament di Barcellona gridando “repubblica subito” e, come nel caso dello sciopero studentesco a Girona, contestando Puidgemont al grido di “traditore” della volontà popolare.

Una situazione politica insostenibile per le élites catalane, e di lì il rocambolesco dietrofont e nuove ferventi consultazioni tra i partiti sostenitori del processo indipendentista, con il peso centrale di ERC che av rebbe abbandonato il Govern in caso di indizione di nuov e elezioni, per arrivare alla sessione di oggi in cui si proclamerà l'agognata indipendenza in forma di repubblica sospesa nel discorso fatto da Puidgemont il 10 Ottobre per cercare un “dialogo” che a tutti gli effetti era e si rivela impossibile.

Si è giunti infine alla risoluzione del Fronte per il Si e della Cup che propongono di costituire la Repubblica Catalana. Attraverso un documento scritto di 10 pagine, ultimato ieri in nottata, ma probabilmente sulle scrivanie dei partiti sottoforma di bozza da almeno una settimana. Un documento che ribadisce il contesto politico per il quale si è arrivati alla DUI, con il Governo spagnolo ritenuto responsabile di tutte le chiusure a fronte di una attivazione di canali democratici rigettati dal tribunale Costituzionale che avrebbe violato i principi di autodeterminazione dei catalani macchiandosi di una colpevole mancanza di neutralità. Da qui il precipitare della situazione e l'incancrenirsi della crisi politica, che dopo le ulteriori indisponibilità al dialogo inter-istituzionale giunte da Madrid nelle ultime ore avrebbero reso irreversibile il processo di dichiarazione unilaterale di indipendenza in forma di Repubblica.

Si legge in alcuni passi:

“la Repubblica catalana è una opportunità per correggere gli attuali deficit democratici e sociali e imbastire una società più prospera, più giusta, più sicura, sostenibile e solidale.

In virtù di quanto finora esposto, noi, rappresentanti democratici del popolo catalano, nel libero esercizio del diritto all' autodeterminazione, e in accordo con i mandati affidatici dalla cittadinanza della Catalogna,

COSTITUIAMO la Repubblica Catalana, come stato indipendente e sovrano, di diritto, democratico e sociale.

DISPONIAMO l'entrata in vigore della legge di Transitortietà giuridica e fondativa della Repubblica.

INIZIAMO il processo costituente, democratico, dalla base cittadina, trasversale, partecipativo e vincolante.

AFFERMIAMO la volontà di aprire negoziazioni con lo Stato Spagnolo, senza condizionamenti previ, indirizzate a stabilire un regome di collaborazione a beneficio di ambo le parti. Le negoziazioni dovranno essere, necessariamente, in condizioni egualitarie.

PONIAMO A CONOSCENZA della Comunità Internazionale e le autorità dell' UNIONE EUROPEA della costituzione della Repubblica Catalana e della proposta di negoziazione con lo Stato Spagnolo.

APPELLIAMO la Comunità Internazionale e le autorità dell' UNIONE EUROPEA a intervenire per fermare la violazione dei diritti civili e politici in corso, e a garantire lo sviluppo del processo di negoziazione con lo Stato spagnolo e ad esserne testimoni.
...

Ci APPELLIAMO agli STATI e alle organizzazioni internazionali a riconoscere la Repubblica Catalana come stato indipendente e sovrano.

DEMANDIAMO al Govern della Generalitat di adottare le misure necessarie per rendere possibile la piena effettività di questa Dichiarazione di Indipendenza e delle disposizioni previste dalla Legge di transitorietà giuridica e fondativa della Repubblica.

Facciamo un appello a ciascuno dei cittadini e delle cittadine della Repubblica Catalana a farsi degni della libertà che ci siamo presi e a costruire uno Stato che traduca in azioni e modelli di condotta le aspirazioni collettive.

ASSUMIAMO il mandato del popolo della Catalogna espresso nel Referendum di Autodeterminazione dell' 1 Ottobre e dichiariamo che la Catalogna diviene uno stato indipendente in forma di Repubblica.”

Stamattina, la piazza di fronte al Parco della Ciutadella, a Barcellona, dove si trova il Parlamento Catalano, ha iniziato a gremirsi di persone col fiato sospeso.
Tutte le articolazioni dell' indipendentismo e del sovranismo catalano sono chiamate alla mobilitazione, dopo le mobilitazioni intraprese da tre giorni dalle ali giovanili e studentesche. Sta ora capire quali forme assumerà il crack con il Governo Spagnolo e che intensità e forme di resistenza di massa di fronte ai giri di vite che imporrà Madrid potranno darsi in un lasso di tempo che pare destinato ad essere breve, brevissimo, ma con risvolti a loro modo epocali.

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Madrid si prepara a soffocare la Repubblica Catalana

“Lo Stato si prepara a soffocare l’insurrezione” titola l’edizione cartacea di quello che passa come il quotidiano progressista di Madrid, ‘El Pais’.

I media la descrivono come la legittima risposta dello Stato Spagnolo alla violazione della Costituzione e della legalità, o comunque come una vendetta. La realtà è che il governo spagnolo del PP e i suoi alleati di Ciudadanos e Psoe non hanno mai messo in conto di abbassare i toni per fornire una sponda ai settori ‘pattisti’ del governo catalano. Come è stato chiaro quando giovedì Puigdemont offriva lo scioglimento del Parlament e quindi l’azzeramento dell’iter di proclamazione dell’indipendenza, Rajoy, Sanchez e Rivera non erano affatto disponibili a frenare il commissariamento della Generalitat.

Misura – l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione scritta da un parlamento egemonizzato da franchisti che avevano appena cambiato casacca, nel 1977-78 – che infatti ieri il Senato spagnolo ha approvato senza tentennamenti, tra gli applausi entusiasti degli ultrà del PP.
 Subito dopo, Mariano Rajoy ha tenuto una breve riunione del Consiglio dei Ministri al termine del quale ha annunciato una raffica di provvedimenti coercitivi, un vero e proprio colpo di stato contro quell’autonomia della Catalogna che i ‘costituzionalisti’ spagnoli affermano di voler difendere dagli eccessi degli indipendentisti.

Mentre decine di migliaia di catalani festeggiavano nel centro di Barcellona la avvenuta proclamazione d’indipendenza, il presidente del Governo elencava i provvedimenti coercitivi appena decisi e subito effettivi, vista la pubblicazione in tempi record sull’edizione digitale del Boe, la ‘gazzetta ufficiale’ di Madrid. Cinque i “Decreti Reali” approvati: il primo destituisce il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont; il secondo destituisce il vicepresidente Oriol Junqueras e il resto dei consellers, cioè dei ministri catalani. I loro dicasteri, nelle intenzioni di Madrid, dovrebbero essere controllati direttamente dai ministri del governo spagnolo a seconda delle loro competenze specifiche, e coordinati da quella che in molti già chiamano la ‘vicerè’, Soraya Saenz de Santamaria (PP), una delle leader più estremiste del nazionalismo sciovinista spagnolo.

Gli altri decreti impongono la destituzione di 141 dirigenti e funzionari della Generalitat, la destituzione del direttore generale dei Mossos d’Esquadra – la polizia autonoma catalana già parzialmente commissariata – Pere Soler e del loro comandante, quel maggiore Lluis Trapero che è già indagato perché accusato di aver disobbedito agli ordini del governo centrale lo scorso 1 ottobre, rifiutandosi di reprimere con la violenza i cittadini catalani in fila ai seggi. Inoltre le misure approvate prevedono che quei funzionari e dipendenti pubblici catalani che si rifiutino di obbedire alle indicazioni dei commissari siano accusati di “disobbedienza alla Costituzione e allo Statuto d’Autonomia”, incorrendo nelle sanzioni previste.

Oltre a sciogliere il Govern, i decreti varati dal Gobierno impongono anche l’immediato scioglimento del Parlament di Barcellona e la convocazione di nuove elezioni ‘regionali’ il prossimo 21 dicembre. Una misura che il capo del Partito Socialista Catalano, Miquel Iceta, ha incredibilmente definito “un raggio di sole in un giorno triste”.

La sinistra indipendentista (Cup) ha già fatto sapere ieri che boicotterà le elezioni attraverso le quali le forze della destra nazionalista spagnola, nettamente minoritarie in Catalogna (il PP ha solo l’8% dei voti nel Parlament uscente) tenteranno di impossessarsi delle istituzioni locali. Anche Albano Dante Fachin, leader di Podem – formazione catalana vicina a Podemos ma da tempo in polemica con la direzione spagnola del movimento – ha affermato che sarebbe una grande contraddizione per le forze progressiste e di cambiamento partecipare ad elezioni gestite dal governo di Madrid contro la volontà della maggioranza del popolo catalano.

Rajoy ha anche deciso la chiusura delle ‘ambasciate’ catalane aperte nell’ultimo anno in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia. Il leader della destra nazionalista spagnola ha voluto ringraziare i leader del Psoe Pedro Sanchez e di Ciudadanos Albert Rivera, per il loro sostegno, e ha invitato i cittadini a confidare nell’esecutivo e ha chiesto “prudenza e serenità”: “lo Stato dispone dei mezzi per recuperare la legalità”.

Quale che sia la strategia repressiva spagnola – sicuramente l’Unione Europea consiglierà ‘moderazione’ per non replicare lo scenario di violenza indiscriminata del 1 ottobre, ma non è detto che Madrid sia sensibile ai richiami di Bruxelles – nelle prossime ore e nei prossimi giorni è lecito attendersi un’ondata di arresti e di denunce nei confronti di altri leader del movimento indipendentista, e degli stessi componenti di un governo catalano che, stando alle dichiarazioni di ieri di Puigdemont, ha chiesto alle istituzioni e ai cittadini catalani di resistere all’intervento spagnolo. Lo stesso President potrebbe finire dietro le sbarre, con un’accusa di ‘ribellione’ che potrebbe costargli fino a 30 anni di reclusione.

Ieri sera un centinaio di estremisti di destra ha reagito alla proclamazione di indipendenza improvvisando una razzia nel centro di Barcellona. Guardati a vista dai Mossos, i fascisti spagnoli hanno percorso in corteo alcuni chilometri nel centro di Barcellona aggredendo passanti e manifestanti indipendentisti (in tre hanno dovuto ricorrere alle cure ospedaliere) e tentando di assaltare la sede di Catalunya Radio, l’emittente pubblica accusata dai nazionalisti spagnoli di essere il ‘megafono’ dei ribelli. Gli estremisti hanno assediato la sede della radio catalana tentando di sfondare la porta principale e aggredendo i giornalisti che gli capitano a tiro, poi hanno ripreso la loro marcia verso piazza Sant Jaume ancora piena di manifestanti indipendentisti: a quel punto i Mossos li hanno bloccati impedendogli di continuare pur senza usare la forza. Domani a Barcellona il gruppo “Società Civile Catalana”, copertura associativa dei nazionalisti spagnoli in Catalogna, ha convocato una manifestazione ‘per l’unità della Spagna’ alla quale parteciperanno tutti i gruppi neofascisti e neonazisti dello Stato.

Continua intanto l’esodo delle imprese. Stamattina il consiglio d’amministrazione di Allianz Seguros ha comunicato la sua decisione di spostare da Barcellona a Madrid il domicilio sociale e fiscale della società.

Marco Santopadre

venerdì 27 ottobre 2017

I RISARCIMENTI PER BOLZANETO E LA DIAZ(E ASTI)LI PAGHERANNO TUTTI


Risultati immagini per bolzaneto risarcimenti
L'ennesima bacchettata della Corte europea per i diritti umani contro la polizia per le vicende della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto(cui si è aggiunto il carcere di Asti)arriva con una parcella da pagare abbastanza cara come indennizzo per le persone torturate e massacrate,gran parte di essi stranieri,che ne abbiano fatto richiesta.
Nulla da eccepire sui risarcimenti che sono anche poca cosa rispetto a quello subito,ma il fatto che a dover pagare singoli compensazioni dai 10 agli 85 mila Euro a persona per un totale di circa tre milioni di Euro siano tutti i cittadini non mi va proprio.
Dovrebbero risarcire il danno fatto dal più misero agente o celerino delle forze del disordine fino ai ministri in carica in quei giorni invece che tutto uno Stato che prima li ha coperti,poi assolti ed infine glorificati e promossi.
L'accusa pesantissima già di per se alle forze del disordine che fecero di tutto e di più in barba alle norme scritte(madn la-sentenza-sulla-macelleria-messicana )è aggravata dal fatto che l'Italia non abbia mai indagato a fondo,facendolo con insufficienza disarmante con la politica o almeno una parte di essa che coprì facendogli fare addirittura carriera i carnefici di quei giorni a Genova nel lontano 2001.
Articolo di Popoff(tortura-in-carcere )che da molto risalto anche alla storia del carcere di Asti ed alle guardie penitenziarie riconosciute ora colpevoli di torture e vessazioni nei confronti di due detenuti.

Tortura in carcere, l’Europa ricondanna l’Italia per Asti e Bolzaneto

Bolzaneto e carcere di Asti, la Corte europea condanna l’Italia per due vecchie storie di tortura. Ora però c’è una nuova legge, bruttissima

di Checchino Antonini
Nella caserma della celere di Bolzaneto e nel carcere di Asti fu tortura. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia per le azioni dei membri delle forze dell’ordine, e perché lo Stato non ha condotto un’indagine efficace. I giudici hanno riconosciuto ai ricorrenti di Bolzaneto il diritto a ricevere tra 10mila e 85mila euro a testa per i danni morali.

«I ricorrenti, trattati come oggetti per mano del potere pubblico, hanno vissuto durante tutta la durata della loro detenzione in un luogo ‘di non dirittò dove le garanzie più elementari erano state sospese». Cosi i giudici di Strasburgo definiscono, nella sentenza di condanna dell’Italia, la situazione vissuta da 48 persone a Bolzaneto. I togati evidenziano inoltre che «l’insieme dei fatti emersi dimostra che i membri della polizia presenti, gli agenti semplici, e per estensione, la catena di comando, hanno gravemente contravvenuto al loro dovere deontologico primario di proteggere le persone poste sotto la loro sorveglianza». Nella sentenza è anche messo in risalto il fatto che «nessuno ha passato un solo giorno in carcere per quanto inflitto ai ricorrenti». E la Corte osserva che questo è stato causato principalmente da due elementi. Il primo, dicono i giudici, è stata l’impossibilità di identificare gli agenti coinvolti, sia perché a Bolzaneto non portavano segni distintivi sulle uniformi, che per la mancanza di cooperazione della polizia con la magistratura. Il secondo fattore invece «sono le lacune strutturali dell’ordine giuridico italiano» al tempo dei fatti. Nella sentenza la Corte afferma di «aver preso nota della nuova legge sulla tortura entrata in vigore il 18 luglio di questo anno, ma che le nuove disposizioni non possono essere applicate a questo caso».

Dell'applicazione della nuova legge sulla tortura si parlerà dopodomani all'assemblea dei Giuristi democrattici Dell’applicazione della nuova legge sulla tortura si parlerà dopodomani all’assemblea dei Giuristi democratici

Antigone, parte civile dal 2011 in un processo contro 5 agenti (la procura ne aveva coinvolti dodici), annuncia l’ennesima condanna dell’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani, per le violenze e le torture subite da due detenuti nell’istituto di pena del capoluogo piemontese. Il caso oggetto della sentenza odierna risale a ben 13 anni fa. Nel dicembre 2004 i due detenuti vennero condotti nelle celle di isolamento prive di vetri nonostante il freddo intenso, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello. Gli venne razionato il cibo, impedito di dormire, furono insultati e sottoposti nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo e giungendo, nel caso di uno dei due, a schiacciargli la testa con i piedi.

La vicenda giudiziaria ebbe inizio a seguito di due intercettazioni nel febbraio del 2005 nei confronti di alcuni operatori di polizia penitenziaria sottoposti a indagine per altri fatti.
 Il 27 Ottobre 2011 si aprì un processo che, il 30 gennaio 2012, arrivò alla sentenza di primo grado. Il giudice scrisse nelle motivazioni che i fatti avvenuti nel carcere erano vere e proprie torture, ma non essendoci in Italia una legge che le punisse si dovette procedere con la contestazione di reati di più lieve entità e quindi verso i colpevoli di queste violenze, per varie ragioni, non si potè procedere.

Nel frattempo uno dei due detenuti è deceduto.

“Per lunghi anni in Italia non c’è stato modo di avere giustizia – dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Ancora una volta abbiamo dovuto aspettare una decisione europea. Questo è un caso di tortura in prigione. Ci auguriamo che ci sia una presa di coscienza e che non ci sia impunità per i responsabili. Ricordiamo – prosegue Gonnella – che nei prossimi giorni l’Italia andrà sotto osservazione dinanzi al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Al di là di questo caso singolo noi chiediamo: che sia adottato un codice di condotta per i comportamenti in servizio di tutti gli appartenente alle forze dell’ordine; che ci sia sempre l’identificabilità di tutti coloro che svolgono compiti nei settori della sicurezza e dell’ordine pubblico; che si interrompano le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che difendono, anche in sede legale, i responsabili di questi comportamenti; che dinanzi a questi casi lo stato si costituisca parte civile”.

Antigone ha ricostruito il caso del carcere di Asti che ha visto i cinque agenti di polizia penitenziaria «in concorso tra loro e abusando dei poteri inerenti la loro funzione hanno maltrattato i detenuti Claudio Renne e Andrea Cirino nel carcere di Asti sottoponendoli – parole testuali del Pm – “a un tormentoso e vessatorio regime” di vita all’interno del carcere».

E’ il dicembre 2004 quando il detenuto Renne viene spogliato completamente, messo in cella di isolamento, priva di vetri alle finestre, di materasso, di lavandino, sedie e di sgabelli. Viene lasciato così per due mesi. Per due giorni viene lasciato completamente nudo. Gli viene razionato il cibo. Gli viene dato solo pane e acqua come nei film. Claudio Renne viene picchiato ripetutamente, anche più volte al giorno, con calci e pugni su tutto il corpo. Gli viene diagnosticata la frattura di una costola. Gli viene strappato con le mani il codino che aveva ai capelli.

Il detenuto Cirino viene anche lui isolato per 20 giorni, subisce analogo trattamento e viene lasciato senza acqua corrente in bagno. Gli viene impedito di dormire. Viene picchiato più volte al giorno, anche schiacciandogli la testa. Dalle intercettazioni e dalla relazione della polizia giudiziaria emerse, oltre ai dettagli raccapriccianti, il dato di una cultura diffusa di violenza da parte degli operatori e di indifferenza da parte di chi doveva coordinare e valutare il loro lavoro, la direzione del carcere e la componente medica. Ad Asti, come da tradizione di diversi istituti di pena, operava una “squadretta” di picchiatori.

Ecco un brano da un’intercettazione del 19 febbraio 2005. Dialogo tra gli agenti di polizia penitenziaria P. e B.

P …Invece da noi non è così…a parte il fatto che…da noi tutta la maggior parte che sono…è tutta gentaglia…è tutta gente che prima…e poi scappa…Poi vengono solo…quando sono in quattro cinque…così è facile picchiare le persone

B. E bello…

P. Ma che uomo sei…devi avere pure le palle…lo devi picchiare…lo becchi da solo e lo picchi…io la maggior parte che ho picchiato li ho picchiati da solo…

B Si..sì

P. Ma perché comunque non c’hai grattacapi…non c’hai niente…perché con sta gente di merda…hai capito…perché qua..oramai…sono tutti bastardi…oramai c’abbiamo il grande Puffo…che deve fare le indagini…hai capito?

B. Chi?

P. Eh P.!!!Ha rotto i coglioni…mo dice che ha mandato la cosa di S….in Procura…

B. Quale S?

P. S…dice che ha picchiato non so a chi…là ….ha mandato tutto in Procura…ha preso a testimoniare un detenuto…cioè noi dobbiamo stare attenti pure su……se c’è un… pure con le    mani    bisogna stare attenti   Eh    anche perché rovinarti    per uno così     a me    l’altra volta che io e D. picchiammo ……..

E qui un estratto dalla relazione di polizia giudiziaria

“P. dichiara personalmente di aver percosso numerosi detenuti; racconta di un altro episodio, mai emerso nelle dichiarazioni  delle persone che sono state escusse a verbale, in cui insieme a D. ha percosso il detenuto O. E’ da evidenziare che P. , per prevenire il fatto che il detenuto potesse dichiarare l’accaduto, si è fatto visitare provvedendo a farsi rilasciare un certificato medico, dopodichè ha relazionato che aveva avuto una colluttazione in quanto il detenuto non voleva entrare in cella….Emerge il forte disappunto da parte di P. per il fatto di dover lavorare con quelle che definisce ‘persone di merda e bastardi’, riferendosi all’Ispettore P,il quale ‘ha rotto i coglioni’  per aver inviato in Procura gli atti relativi al collega S. dopo che questi aveva picchiato un detenuto”

Ancora:

In data 23 febbraio 2006 vengono arrestati l’assistente di polizia penitenziaria F. e la di lui convivente P.S. che rilasciavano le seguenti dichiarazioni:

Ps: “F. mi riferì che era frequente dare lezioni ai detenuti anche negandogli pasti per più giorni. Mi parlò anche di pestaggi da parte di colleghi in particolare da parte  di un collega che era solito picchiare duro gli extracomunitari..   C. andò nella cella di un detenuto marocchino il quale aveva cercato di suicidarsi e che aveva al collo una cintura; C. a quel punto prese la cintura e la strinse al collo del marocchino a tal punto da farlo diventare viola”.

F: “Io ho assistito personalmente al pestaggio del Renne da parte di B. e G….Per quanto ne so non vengono mai refertate le lesioni, in parte perché si cerca di evitare di lasciare segni mentre si picchia, in parte perché in ogni caso l’altro detenuto la cui cella viene lasciata aperta, viene utilizzato per testimoniare, se necessario, che l’agente aveva subito un’aggressione dalla persona che l’aveva invece subita.….Nel caso in cui i detenuti risultino avere segni esterni delle lesioni, spesso i medici di turno evitano di refertarli e mandano via il detenuto dicendogli che non si è fatto niente o comunque chissà come si è procurato le lesioni. Inoltre convincono a non fare la denuncia dicendogli che poi vengono portati in isolamento dove non ci sono le telecamere e poi picchiati nuovamente. So che B. prima di effettuare pestaggi verifica quale è il medico di turno”.

“…So che anche il collega S. è solito picchiare i detenuti. S. beve super alcolici sistematicamente anche in servizio;    specialmente nel turno serale è quasi impossibile parlarci per quanto ha bevuto. Spesso picchia i detenuti quando è in questo stato. Oltre ai pestaggi punitivi, tra noi agenti che facevamo servizio in isolamento, ci passavamo la consegna di non dare da mangiare al detenuto ‘punito’. Quando un detenuto andava punito si faceva in modo che si facesse una relazione per farlo mandare in isolamento perché lì si poteva picchiare o togliere i pasti senza problemi”… In particolare Renne è “stato picchiato da B., S., D., D e il detenuto G.”

L’assistente prosegue:

“Posso dire che ultimamente vigeva un clima di menefreghismo da parte di tutti ossia sia da parte della Direzione che di noi agenti… tutti sapevano quello che era successo all’interno dell’isolamento”

In un ordine di servizio il direttore vietava l’ingresso in isolamento di quei poliziotti che non erano in servizio in quel reparto.

Testimonianza del detenuto T.

“… ho visto delle cose indescrivibili, ossia agenti che portavano all’interno droga per i detenuti avendone in cambio anche per loro, agenti che pestavano a sangue i detenuti solo per divertimento o per puro svago, dimostrando una cattiveria allo stato puro, anche perché la maggior parte di loro si trovavano sotto l’effetto di stupefacenti, in particolare cocaina e marijuana.….ho assistito a parecchi pestaggi…” ho sentito “due detenuti urlare in modo disumano per le botte che prendevano”, le botte “erano talmente forti che il rumore si sentiva dalla mia cella”…un’ora e mezza di botte continue…”arrivavano in mimetica e con gli anfibi…”  le persone venivano “messe nude in due celle che erano in condizioni pietose…ai predetti non veniva dato né cibo né acqua per almeno una settimana e dopo tale settimana gli è stato dato un pezzo di pane duro ed un po’ d’acqua…”. il picchiato non riusciva più a respirare…

Le violenze a un detenuto instabile:

“..Non solo veniva picchiato…l’acqua che gli veniva data era quella del gabinetto. Veniva vietato di fare la doccia infatti puzzava molto.”

due psicologi, Zamperini e Menegatto, si occupano da tempo di traumi psicopolitico due psicologi, Zamperini e Menegatto, si occupano da tempo di traumi psicopolitico

La pessima legge sulla tortura

Nel frattempo, lo scorso luglio, l’Italia ha approvato una legge contro la tortura, attesa quanto meno dal 1984, anno della ratifica della Convenzione ONU contro la Tortura,  e per di più unica fattispecie penale espressamente prevista in Costituzione << art. 13 co. 3 “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà”>>. Ma è una legge pessima. La nuova fattispecie non riconosce il reato di tortura come reato tipico del pubblico ufficiale in barba alla Convenzione firmata dall’Italia nel 1989. Inoltre la previsione della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla verificabilità del trauma psichico e i tempi di prescrizione ordinari annacquano un testo quasi a consigliare, agli addetti ai lavori, le condizioni per abusare piuttosto che per rispettare i diritti delle persone in custodia dello Stato. Più di mille editoriali vale il commento di uno come Gasparri, postfascista impiantato in Forza Italia: «Chi canta vittoria ha in realtà fatto un buco nell’acqua. Mentre chi a sinistra dice che la legge non serve a nulla ha ragione. Il testo così com’è è carta straccia».

Basta qualche accorgimento, infatti, e anche l’ultimo tra i piantoni in divisa potrà abusare su un individuo in sua custodia senza incappare nelle nuove norme sfornate ieri dal parlamento (illegittimo, visto che è stato eletto con una legge incostituzionale) di questo Paese, dopo un iter che ha avuto cura di ascoltare con attenzione le raccomandazioni delle lobby di polizia e militari e non ha degnato di uno sguardo il tessuto associativo che si batte per la difesa dei diritti umani.

Così scrissero all’epoca i legali Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa:

Da reato proprio del pubblico ufficiale (cioè quello che può essere compiuto SOLO PROPRIO da chi si trovi in quella particolare condizione di legge) si è passati ad un reato comune, dove la ampiezza dell’ individuazione del “Chiunque” possa compierlo è tanto flessibile da risultare evanescente.

La condizione di pubblico ufficiale (o esercente compiti di custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza) segue immediatamente  come aggravante, ma non essendo stata sottratta esplicitamente al calcolo del bilanciamento con le altre circostanze, anche attenuanti, non garantirà pene proporzionate alla gravità dei fatti, non reggerà l’urto della prescrizione e soprattutto non contribuirà a rendere netti i confini dell’esercizio dell’uso della forza e dei pubblici poteri.

Il comportamento punito poi nel corpo del nuovo art. 613 bis del codice penale è tutto al plurale: violenze ripetute da più condotte, minacce esclusivamente gravi, sofferenze solo se acute o traumi psicologici verificabili (??); la punizione di un comportamento durevole piuttosto che di uno istantaneo, aggravato eventualmente dalla reiterazione, resta comunque ostaggio di una prova diabolica in assenza di qualsivoglia previsione sulla facilitazione nell’individuazione dei colpevoli, sulla competenza di indagine, sul dovere di collaborazione ai fini dell’accertamento da parte degli stessi organi di polizia.

La zona grigia dell’impunità delle Forze dell’Ordine con questa legge si allarga invece che restringersi e non sorprende che ad approvarla sia oggi il governo dei decreti Minniti, quello che all’indomani del frontale attacco ai migranti, alle povertà ed al dissenso sociale in nome del decoro urbano riequilibra l’intervento punitivo dello Stato con l’introduzione di una norma contenitore senza contenuto, priva cioè di efficacia deterrente e concretamente dissuasiva, sperando così di mettere a tacere non solo le critiche sulla democraticità dell’attuale intervento di Governo ma anche le numerose condanne provenienti dalle corti europee.

Qui la dichiarazione di Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista:

«Dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo arriva l’ennesima conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che a Bolzaneto, nel luglio 2001, fu praticata la tortura. Noi lo diciamo dai giorni di quella mattanza, della macelleria messicana, quando scendemmo in piazza contro il G8 e il movimento altermondialista venne massacrato e Carlo Giuliani ucciso. Solo la politica italiana può far finta di non aver ancora capito cosa accadde a Genova. È inquietante che i responsabili delle violenze contro il movimento e delle violazioni dei diritti umani abbiano goduto della copertura da parte della politica e dei vertici dello Stato. Di fronte alla condanna europea, l’Italia dovrebbe almeno avere la decenza di istituire pienamente e subito il reato di tortura e il numero identificativo per gli agenti delle forze dell’ordine» .

giovedì 26 ottobre 2017

JACINDA ARDERN PREMIER IN NUOVA ZELANDA


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Si parla dell'altra parte del mondo in questo post che dev'essere di buon auspicio per tutto il movimento progressista globale,visto che la Nuova Zelanda si trova proprio fisicamente al punto di massima distanza dall'Italia,non solo geograficamente ma purtroppo anche politicamente negli ultimi tempi.
Il volto nuovo nel paese dei maori si chiama Jacinda Ardern,nuova primo ministro neozelandese che a distanza di un mese dalle elezioni di settembre ha avuto le idee chiare e sta mettendo mano con i fatti a tutto quello promesso in campagna elettorale partendo dal reddito garantito e l'istruzione gratuita per tutti.
Nel redazionale di Left(inizia-la-rivoluzione-di-jacinda-ardern )la storia della donna classe 1980 che ora è anche a capo del Partito laburista della Nuova Zelanda,partito socialdemocratico e progressista al contrario del Partito nazionale,liberale e conservatore,che era rimasto al potere negli ultimi nove anni.
Si parla di argomenti tabù nella terra dei kiwis come la povertà infantile e l'ineguaglianza finanziaria,due fatti di questa società che spesso vengono spiegati in telefilm e pellicole dedicate a questa splendida terra,in una nazione sempre più attenta all'ambiente e ai cambiamenti climatici.
Oltre a voler debellare la povertà nel paese col già citato salario minimo garantito,la Ardern vuole case dignitose per tutti gli abitanti,con una riforma abitativa popolare,ed è supportata a distanza da due figure simbolo della sinistra mondiale come lo statunitense Berne Sanders e il britannico Jeremy Corbin.

Inizia la rivoluzione di Jacinda Ardern, la premier che piace a Corbyn.

La premier neozelandese Jacinda Ardern ha stretto la mano al deputato populista Wiston Peters, con cui ha stipulato un accordo. Prima di oggi le ripetevano quotidianamente che era impossibile vincere: non solo per lei, ma per il suo intero partito, quello laburista. Prima di candidarsi alla guida della Nuova Zelanda, la Ardern ha rifiutato sette volte le proposte per correre alle elezioni. Quelle che ha poi vinto scatenando la “Jacindamania”.

In coalizione con il partito dei Verdi, la nuova leader renderà i kiwis, – i cittadini della Nuova Zelanda-, un popolo libero dalle due paure inconfessate che attanagliano il Paese da decenni: l’estrema povertà infantile e l’ineguaglianza finanziaria. Perché una democrazia senza equità è nulla, secondo la terza leader donna a capo del Paese, che, fino a poche settimane fa, era all’opposizione, in un partito che rischiava di essere dimenticato per sempre.

Jacinda dagli occhi azzurri ha fatto della determinazione e della semplicità una strategia da quando a 17 anni è entrata in politica. Solo tre mesi fa diceva che si sarebbe messa «a capo dei Labour solo se tutto il caucus del partito si fosse polverizzato all’improvviso» e lei sarebbe stata scelta come “sopravvissuto designato”. Invece oggi 24 ottobre comincia la sua rivoluzione.

Jacinda promette uguaglianza economica alla popolazione, ma pretende responsabilità ambientale dai cittadini, perché entro il 2050 il loro Stato deve diventare ad emissioni zero, grazie alla commissione climatica che sta per creare. Ha vinto così, promettendo battaglia a povertà, cambiamento climatico, al fine di favorire “rigenerazione regionale”. «La nostra priorità – ha dichiarato – è dare una casa decente a tutti, ripristinare il sistema sanitario, pulire i nostri fiumi. Tutti i nostri sforzi saranno compiuti per ridurre l’ineguaglianza».

Più trasporti pubblici, meno auto. Più investimenti alternativi, meno sfruttamento. Non ha solo belle parole, ma anche numeri nel suo programma di governo: venti dollari neozelandesi sarà il minimo garantito all’ora per chi verrà assunto. La riforma salariale è stata la prima cosa di cui ha scelto di occuparsi. Basta povertà. Basta case popolari in decadenza. Invece avanti verso il salario garantito e un’istruzione gratuita.

Quando i neozelandesi hanno scelto di fidarsi di lei, hanno dimostrato di saper non arroccarsi, non chiudersi in se stessi. Hanno rischiato puntando su quella che è diventata la leader più giovane degli ultimi 150 anni della loro storia. Che prima di essere il Capo dello Stato, era una dj. Che ha abbandonato la sua famiglia d’origine, perché religiosa e mormona. Che vive con un fidanzato surfista e un gatto. Che ha scelto di rispondere così ad un intervistatore che la provocava sulla questione dell’orologio biologico femminile, perché lei non ha figli: «è scandaloso che lei porga queste domande sessiste, nel 2017 le donne non sono più obbligate a rispondere a questa domanda. Né io, né alcuna donna sul suo luogo di lavoro».

Non arretra mai, non teme le stigmate della cattiva stampa, soprattutto quella americana, che la trova indigeribile e radicale. Per i modi bruschi, il Washington Post la paragona a Trump. In un mondo che procede seguendo dinamiche nebulose, lei marcia sempre più a sinistra lungo un percorso che ha reso chiaro a tutti. E a chi non piace la sua tabella di marcia, Jacinda indica la via d’uscita dal governo. Piace al canadese Trudeau, ma soprattutto a Bernie Sanders e Jeremy Corbyn, che le ha detto: «Jacinda, fallo per tutti noi, do it for us all». Noi, the many. E lei gli ha risposto «ok Jeremy, non mi dispiace fare la portabandiera dei progressisti del mondo».

LA NUOVA SINISTRA(CHE ANCORA NON C'E')


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Mentre sto scrivendo probabilmente pezzi della sinistra italiana si stanno staccando o litigando tra loro piuttosto che insistere a cercare un clima ed un senso di unità,ma se davvero si vuole fare da collante tra persone che fondamentalmente la pensano ugualmente solo con piccole sfaccettature da limare,bisogna fare dei progressi sul modo di vedere la sinistra così com'è oggi.
Un buon punto di partenza sarebbe quello di tirarsi fuori per sempre dal centro-sinistra dei vari Mdp,Sinistra italiana,Articolo 1....insomma da quelli che hanno sempre fatto da stampella al Pd in Parlamento e che non hanno affossato i vari governi Renzi,Monti,Gentiloni,Letta.
Che ancora adesso stanno facendo intrallazzi col Pd e con tutti quei partiti di autoproclamato centro-sinistra o socialisti a livello europeo che hanno avallato le direttive comunitarie portando austerità ed impoverimento,peggiorando le condizioni di vita sociale ed economica aumentando le diseguaglianze.
L'articolo a firma di Eleonora Forenza(popoff forenza-il-problema )parla della subalternità della sinistra che sta seduta ancora sui banchi delle camere romane e con cui non si dovrebbe avere nulla a che fare,dello stallo di Rifondazione Comunista che non si vuole staccare da questi politici del piede in due scarpe e del progetto del Brancaccio,di Montanari e Falcone(madn resistere-oggi )dove si parla bene ma poi come al solito la pratica non segue la teoria.

Forenza: Il problema non è Speranza ma la subalternità della sinistra.

Sinistra: Speranza apre al Pd, Sinistra italiana ha il piede in due scarpe e Rifondazione non dice se è incompatibile con Mdp

di Eleonora Forenza*
Io non ho capito che aspetta il segretario del mio partito a dire che Rifondazione comunista è incompatibile con Mdp. Non con le candidature di D’Alema o Bersani, ma con Mdp.
Perché è incompatibile? Perchè siamo rancorosi? NO. Perché non si sommano cose che non si possono sommare per superare uno sbarramento.
Il Prc è per la costruzione di una alleanza in Europa contro il neoliberismo e le politiche di austerità. Per la costruzione di una alternativa ai Socialisti europei, che in tutta Europa crollano perché protagonisti di quelle politiche (Grecia, Francia, Spagna, Germania ecc…)
Per la costruzione di una alternativa politica e sociale al Pd, non solo al renzismo: alle privatizzazioni di Bersani, alla ferita costituzionale inferta con l’articolo 81, contro il governo Gentiloni che persone responsabili avrebbero dovuto far cadere, non mantenere in vita. ecc. ecc.
Non si tratta di essere rancorosi, ma di essere coerenti e credibili.
Che aspettiamo, dunque? È gia tardi, molto tardi.
Certo, sarebbe auspicabile che Falcone e Montanari chiarissero che se Mdp vuole rifare il centrosinistra è incompatibile col Brancaccio.
Sarebbe auspicabile che Sinistra italiana – appena entrata come osservatore nella Sinistra Europea – spiegasse il perché di una interlocuzione privilegiata con Mdp, e quindi con i socialisti europei – a ridosso delle elezioni.
Ma quello che non possiamo fare è attendere gli altri.
Quello che non possiamo fare è rinunciare a una interlocuzione in primo luogo con quelle e con quelli con cui in questi anni abbiamo camminato nelle piazze, costruito faticose resistenze, mutualismo e conflitto.
Io partirei da lì.

*Eleonora Forenza è una parlamentare europea di Rifondazione comunista-L’Altra Europa

mercoledì 25 ottobre 2017

LA DEMOCRAZIA RIFIUTA IL FASCISMO


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Uno degli errori che capitano spesso nella dialettica politica è del dare del fascista o del comunista,sempre comunque in senso spregiativo,senza capire quello che in realtà si stia dicendo,e propongo questo breve articolo(ecn.org/antifail-contrario-del-comunismo-ma-della-democrazia )a firma della scrittrice Michela Murgia che analizza a modo suo questo tema.
Ribadendo che il fascismo non è democrazia ma dittatura e che questo,nonostante sia associato prettamente alla politica ed alle persone di destra più o meno estrema,può essere associato ad altre ideologie e pensieri.
Dipende dal modo di proporre ed esporre le proprie idee ed intenzioni,dipende dal modo in cui si è portati al confronto o all'imposizione dei propri credo,in un periodo sociale dove si apre un nuovo e pericoloso conflitto tra differenti fazioni.

Michela Murgia: “Il fascismo non è il contrario del comunismo, ma della democrazia.” ·

“Il fascismo non è il contrario del comunismo, ma della democrazia.” – “Dire che il fascismo è un’opinione politica è come dire che la mafia è un’opinione politica.” …Una breve profonda riflessione tutta da leggere

 Piccolo discorso sul fascismo che siamo.

 A te che hai vent’anni e mi chiedi cos’è il fascismo, vorrei non doverti rispondere. Vorrei che nel 2017 la risposta a questa domanda la sapessimo già tutti, ma se me lo chiedi è perché non è così.
 So perché me lo domandi. Credi che io sia intollerante se dico che il fascismo è reato e deve rimanerlo sempre. Credi che “se il fascismo e il comunismo hanno causato entrambi tanto dolore nel corso della storia devono essere considerati reato senza distinguo”.
È quindi colpa mia se me lo chiedi.
 Colpa del fatto che non ti ho detto che il fascismo non è il contrario del comunismo, ma della democrazia. Dovevo dirtelo prima che il fascismo non è un’ideologia, ma un metodo che può applicarsi a qualunque ideologia, nessuna esclusa, e cambiarne dall’interno la natura. Mussolini era socialista e forse non te l’ho spiegato mai. Ho dimenticato di dirti che si intestava le istanze dei poveri e dei diseredati. Ho omesso di raccontarti che i suoi editoriali erano zeppi di parole d’ordine della sinistra, parole come “lavoratori” e “proletariato”. Non ti ho insegnato che un socialismo che pretende di realizzarsi con metodo fascista è un fascismo, perché nelle questioni politiche la forma è sempre sostanza e il come determina anche il cosa. Per questo il fascismo agisce anche nei sistemi che si richiamano a valori di sinistra e anzi è lì che fa i danni più grandi, perché non c’è niente di più difficile del riconoscere che l’avversario è seduto a tavola con te e ti chiama compagno.
 Dire che il fascismo è un’opinione politica è come dire che la mafia è un’opinione politica; invece, proprio come la mafia, il fascismo non è di destra né di sinistra: il suo obiettivo è la sostituzione stessa dello stato democratico ed è la ragione per cui ogni stato democratico dovrebbe combatterli entrambi – mafia e fascismo – senza alcun cedimento. Tu sei vittima dell’equivoco che identifica il fascismo con una destra ed è un equivoco facile, perché il fascismo è la modalità che meglio si adatta alla visione di mondo di molta della destra che agisce in Italia oggi. Ma guai se questo ti rendesse incapace di riconoscere i semi del pensiero fascista se li incontri quando sei convinto di guardare da qualche altra parte.
 Può esserti utile sapere come riconosco io il fascismo quando lo incontro: ogni volta che in nome della meta non si può discutere la direzione, in nome della direzione non si può discutere la forza e in nome della forza non si può discutere la volontà, lì c’è un fascismo in azione. In democrazia il cosa ottieni non vale mai più del come lo hai ottenuto e il perché di una scelta non deve mai farti dimenticare del per chi la stai compiendo. Se i rapporti si invertono qualunque soggetto collettivo diventa un fascismo, persino il partito di sinistra, il gruppo parrocchiale e il circolo della bocciofila.
 Nessuno è al sicuro, se non dentro allo sforzo di ricordarsi in ogni momento che cosa rischiamo tutti quando cominciamo a pensare che il fascismo è solo un’opinione tra le altre.
 Michela Murgia

 http://ilfastidioso.myblog.it/2017/09/03/michela-murgia-il-fascismo-non-e-il-contrario-del-comunismo-ma-della-democrazia-dire-che-il-fascismo-e-unopinione-politica-e-come-dire-che-la-mafia-e-unopinione-politica/

martedì 24 ottobre 2017

RITROVATO IL CORPO DI SANTIAGO MALDONADO


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E'il corpo di Santiago Maldonado quello trovato la scorsa settimana a poca distanza da dove era stato visto l'ultima volta due mesi e mezzo fa dopo degli scontri con la polizia argentina intervenuta per sedare le proteste del popolo mapuche e dei suoi sostenitori(vedi:madn santiago-maldonadodesaparecido ).
Quella che era ancora una flebile speranza di ritrovarlo in vita è stato purtroppo smentito già dal fratello Sergio che aveva riconosciuto i tatuaggi senza aspettare gli esiti della scientifica e nei due articoli presi da Popoff(santiago-maldonado-forse-ritrovato-il-corpo e il fratello-di-maldonado-al-presidente-macri-sei-un-ipocrita )si parla di questi giorni e delle manifestazioni svoltesi a Buenos Aires e in tutta l'Argentina per questa scomparsa che vede la mano insanguinata della polizia essere armata dai politici ed industriali(Benetton è tra i principali artefici dello sfruttamento del territorio mapuche).

Santiago Maldonado, forse ritrovato il corpo.

Potrebbe essere quello di Santiago Maldonado il corpo ritrovato martedì a 300 metri dal luogo della sua scomparsa. Le foto della manifestazione a Buenos Aires.

di Marina Zenobio
Le autorità argentine hanno trovato, martedì scorso, il corpo di un uomo nella stessa zona dove è stato visto per l’ultima volta Santiago Maldonado , il tatuatore e militante mapuche di 28 anni scomparso 78 giorni fa. Il cadavere era appena nascosto tra i cespugli e l’acqua di una riva del fiume Chubut, a 300 metri dalla comunità mapuche dei Pu Lof, dove il 1° agosto si era tenuta un protesta indigena contro l’arresto di una attivista della comunità, a cui Maldonado aveva preso parte. La protesta è stata dispersa dalla polizia e da quel momento si sono perse le tracce del giovane.

Quello che si sa al momento è che il corpo ritrovato indossava vestiti molto simili a quelli che, secondo le testimonianze raccolte, indossava Maldonado il giorno della protesta indigena e della scomparsa, anche i capelli con i dreads corrispondono a quelli del giovane che viveva a El Bolsòn, nella Patagonia argentina, dove aveva aderito alle rivendicazioni del popolo mapuche per il diritto alla terra.

Tutto lascia tragicamente pensare che si tratti proprio di Maldonado, ma sia la famiglia che le autorità non confermeranno fino ai risultati dell’autopsia, a causa dell’avanzato stato di decomposizione del corpo. “Finché non avremo i risultati delle perizie non è possibile stabilire l’indentà né la causa della morte. Chiediamo per favore che si rispetti questo nostro difficile momento” ha dichiarato la famiglia in un comunicato alla stampa.

Il corpo, da quanto riportato dal quotidiano argentino La Naciòn, sarà trasferito presso l’istituto di medicina legale di Buenos Aires e all’autopsia presenzieranno esperti della Corte Suprema.
 La comunità mapuche di Pu Lof, si è stabilita in quella zona nel 2015 per rivendicare alla industria tessile Benetton la proprietà del territorio, è convinta che il corpo di Maldonado non sia morto per affogamento, come qualcuno sta ipotizzando. Quella zona è stata rastrellata tre volte, le acque del fiume scandagliate dai pompieri ma il corpo non era stato trovato. Secondo la teoria della comunità mapuche fino a tre giorni fa quel corpo non era lì. “Quel corpo è stato messo lì perché si potesse ritrovare facilmente” ha dichiarato alla stampa Soraya Maicoñ, portavoce dei e delle mapuche Pu Lof.

Se la perizia legale confermerà che quel corpo è di Santiago Maldonato, dovranno anche determinare la cause della morte, se affogato oppure vittima della repressione della polizia, tra le varie incognite di un caso che sta sconvolgendo l’Argentina in piena campagna per le elezioni legislative di domenica prossima.

La scomparsa di Maldonado ha prodotto decine di proteste sia in Argentina che a livello internazionale. Per domani, giovedi, altre manifestazioni sono state convocate in diverse città argentine.

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Il fratello di Maldonado al presidente Macri: “Sei un ipocrita”

Per la famiglia è della polizia la responsabilità della morte di Santiago Maldonado, e definisce “ipocrita” l’invito di Macrì alla vigilia delle elezioni

di Marina Zenobio
E’ di Santiago Maldonado il corpo ritrovato martedì scorso sulle rive del rio Chobut, in territorio Cushamen rivendicato dai mapuche Pu Laf ma targato Patagonia Benetton, a qualche centinaio di metri dal punto dove era stato visto per l’ultima volta, prima che si buttasse nel fiume per scappare ad una violenta carica della Gendarmeria nazionale. Il 1 agosto scorso decine di poliziotti hanno attaccato la comunità mapuche, dopo aver rimosso alcuni blocchi stradali posti in segno di protesta per l’arresto di uno dei loro leader. Santiago, come molti altri, ha tentato la fuga, buttandosi nelle acque del Chubut. O almeno questa è la ricostruzione giudiziaria.
 L’identità di Maldonado è stata determinata attraverso le impronte papillari, ha detto Gustavo Lleral, il magistrato che segue il caso, ma già tempo prima Sergio Maldonado, fratello maggiore di Santiago, aveva confermato l’identificazione dopo un riconoscimento visivo dei tatuaggi, che erano sia passione che lavoro per il giovane artigiano di 28 anni.

Secondo le prime conclusioni dell’autopsia il corpo non presenta ferite, potrebbe essere affogato ma ci vorranno ancora un paio di settimane per saperne di più e avere un quadro esaustivo di come siano andate le cose. Un piccolo esercito ha partecipato all’autopsia. 55, tra esperti medici forensi, un trentina di osservatori e avvocati. A guidare l’esame esperti medicoforensi della Corte Suprema, addirittura la prestigiosa Equipe Argentina di Antropoli Forensti (EAAF).

Sergio Maldonado, che per oltre due mesi e mezzo ha guidato le ricerche del fratello, è tornato ad accusare la Gendarmeria Nazionale per la morte di Santiago, e anche il governo di Mauricio Macri per non aver accettato la presenza di osservatori dell’Onu alle indagini. E ha rincarato ancora la dose nei confronti del presidente argentino definendolo “ipocrita” per aver inviato sua madre ad una visita a Palazzo, invito rifiutato. “Mi sembra un’azione bassa. Ha invitato mia madre poco prima delle elezioni, mi vergogno per lui” ha dichiarato Sergio alla stampa.

L’esito tragico di Santiago Maldonado è arrivato a poche ore dalle elezioni legislative a medio termine, per il rinnovo del parlamento argentino.
 Il movimento argentino resta comunque convinto che, comunque sia andata, la responsabilità resta della polizia e della sua aggressività.

Ieri pomeriggio a Buenos Aires in migliaia si sono ritrovati a Plaza de Mayo per esigere giustizia per il giovane attivista e artigiano Santiago Maldonado. La mobilitazione è partita dal Partito operaio, il Movimento socialista dei lavoratori e il Partito piquetero sotto lo slogan: “lo sapevo che ad uccidere Santiago Maldonado è stata la Gendarmeria assassina. Che i responsabili politici e diretti paghino”. Altre manifestazioni ci sono state a La Plata, Mendoza, Rosario, Cordoba, a Neuquén e altre comunità locali.

lunedì 23 ottobre 2017

NUMERI SUL REFERENDUM LOMBARDO-VENETO


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Come era nelle previsioni il si al voto referendario in Lombardia e Veneto ha avuto una percentuale schiacciante sui voti validi per il quesito sull'autonomia(madn il-referendum-in-lombardia-e-veneto )e la possibilità di contrattare direttamente con lo Stato in materia soprattutto economica e fiscale.
Mentre in Veneto c'è stata una buona affluenza nella Lombardia questa non supera il 40%,dato non ancora ufficiale per via di diversi problemi legati al voto elettronico mentre in Veneto si era votato ancora col cartaceo ed anche il quesito era leggermente differente.
L'articolo di Contropiano(numeri-del-referendum-lombardo-veneto )dà le cifre delle affluenze e dei votanti facendo paralleli con le ultime elezioni regionali,e si certifica che la voglia di autonomia è più legata al Veneto che alla terra lombarda,e che la questione settentrionale è sempre più rilevante in materia politica visto che il prossimo anno ci saranno le regionali con l'apertura ufficiale della campagna elettorale.

I numeri del referendum lombardo-veneto. Qualche considerazione.

di  Franco Astengo
Finalmente, nella tarda mattinata di Lunedì 23 ottobre, sono arrivati i numeri definitivi del referendum sull’autonomia del Lombardo–Veneto.

Responsabilità del ritardo il sistema di voto elettronico adottato in Lombardia rivelatosi molto più farraginoso del previsto: in verità se il meccanismo adottato fosse stato esplicitato in anticipo si sarebbe capito subito che i tempi sarebbero slittati rispetto a quelli del Veneto, dove si è votato con il sistema tradizionale.

Prescindendo da questo elemento, emerge sicuramente un dato: al di là di ciò che potrà o non potrà essere determinato sul piano legislativo, istituzionale, amministrativo dai dati referendari è emerso con chiarezza l’esistenza di un problema al riguardo del NordEst del Paese.

Un problema che si presentava già con chiarezza da tempo, derivante dalla particolare struttura economica di quella parte d’Italia adottata nel momento del passaggio dallo sviluppo agricolo a quello piccolo-medio industriale con il sistema dei distretti e la ridotta dimensione delle concentrazioni produttive, con forti quote di lavoro a dimensione artigianale, se non casalingo: modello che presenta, innalzando la percentuale del lavoro autonomo, evidenti questioni di carattere fiscale (non a caso la più alta percentuale di partecipazione al voto si è avuta nel vicentino, laddove proprio il modello di sviluppo appena indicato ha avuto fin dagli anni’80 il massimo della sua espansione reclamando in conseguenza un alto grado di autonomia nell’organizzazione sociale).

Nel voto referendario emerge una vera e propria faglia geografica corrispondente più o meno addirittura all’antico confine tra il Granducato di Milano e la Repubblica di Venezia, nella sua parte di terraferma, cioè l’Adda, come ci ha ricordato Manzoni nei Promessi Sposi. Nel Milanese l’interesse per l’autonomia è molto debole mentre cresce a partire dal Bergamasco e relative valli.

Non esiste quindi un Lombardo–Veneto, ma un Veneto con propaggini lombarde: situazione con la quale fare comunque i conti.

Disponendo però soltanto i numeri globali proviamo comunque a sviluppare un minimo di analisi.

VENETO

I voti validi nell’occasione del referendum 2017 sono stati 2.317.923 con 2.262.955 favorevoli.

Se assumiamo com’è giusto come dato politico in punto di partenza di una proposta che viene dal centro–destra non si può non notare come la stessa abbia sfondato sia nel campo del centro sinistra, sia in quello del Movimento 5 Stelle.

I voti validi espressi nel referendum 2017, infatti, hanno superato i voti validi espressi nelle Regionali 2015 che assommavano a 2.212.204 nelle espressioni di suffragio per i candidati presidenti: Zaia ottenne 1.108.065 voti, la candidata del PD Alessandra Moretti 583.147 e quella del M5S 262.749. Rispetto alle regionali 2015 si può quindi ben affermare che la proposta referendaria abbia sia pur minimamente sfondato anche nel campo dell’astensione.

Da considerare inoltre che la quota dei voti validi ottenuta nel referendum 2017 equivale più o meno anche al totale dei voti validi realizzato nelle Europee 2014 che assommò a 2.397.744.

Considerato il trend della partecipazione elettorale non è quindi esagerato definire l’esito veneto quasi come quello di un plebiscito

LOMBARDIA

Ben diverso il quadro della Lombardia dove i voti validi sono stati in totale 2.987.903: 2.869.268 sì e 118.635 no.

Oltre all’emergere di quella spaccatura geografica già indicata si può ben affermare che, in questo caso non si è verificato alcun sfondamento da parte del centro destra che detiene la maggioranza in regione verso gli altri campi.

Maroni infatti fu eletto nel 2013 con 2.456.921 voti, staccando Ambrosoli fermo a 2.194.169 e il candidato del M5S a 775.211 per un totale di voti validi di 5.737.827 (compresi naturalmente altri candidati oltre i tre indicati).

In sostanza al referendum 2017 i voti validi sono stati rispetto a quelli delle regionali il 52,07%. Il si rappresenta quindi circa il 37% dell’intero elettorato lombardo (quindi cancelliamo l’oltre 90%, così come va cancellata la stessa percentuale per quel che riguarda il Veneto regione nella quale il sì si attesta però al 60,18%, di conseguenza la maggioranza assoluta).

Riassumendo: il dato referendario indica come non esista alcun Lombardo–Veneto considerato che il voto ha avuto nelle due regioni un esito ben difforme.

Emerge quindi come problema politico una questione riguardante il NordEst e si presentano tendenze ben diverse soprattutto tra Milano e il suo hinterland e parte della stessa regione Lombardia, all’interno della quale comunque la tensione autonomistica appare molto meno sentita che non nelle province venete: è questione essenzialmente di struttura economica e produttiva (e di conseguenza fiscale): un discorso che viene da lontano e che non sarà semplice da affrontare.

Da ricordare, infine, che i due quesiti (diversi tra Lombardia e Veneto) apparivano quanto mai generici se non ambigui: il presidente della Regione Veneto ha dichiarato che intende aprire un confronto con il Governo su 37 punti. Se questi 37 punti fossero state ben esplicitati allora l’elettorato avrebbe potuto compiere una scelta ben più ponderata di quella sicuramente approssimativa compiuta domenica scorsa.