sabato 25 luglio 2020

I LAVORI PER CORTINA


In un silenzio quasi totale i lavori per i prossimi campionati del mondo di Cortina per il prossimo inverno e che sono l'antipasto di quelli che saranno indispensabili per le Olimpiadi invernali del 2026 procedono e sono blindati come quelli in Val Susa per il Tav,in quanto nei giorni scorsi una manifestazione indetta da associazioni ambientaliste è stata vietata per il solito capro del coronavirus nonostante l'organizzazione avesse garantito sia il distanziamento che l'assoluta pacificità dell'evento.
Nonostante questo alcuni partecipanti a gruppetti hanno raggiunto la prossimità dei cantieri verificando che i lavori stanno sventrando parti di montagna e che le vie d'accesso hanno allargato le strade fino a sette metri da stradine di prossimità per il passaggio dei mezzi.
Nell'articolo(comune-info.net e-i-mondiali-di-sci-cortina-2021 )le perplessità su questo ulteriore consumo di suolo"necessario"cui si aggiungeranno altre opere in vista delle Olimpiadi(piste,ulteriori vie d'accesso,funivie,etc.)oltre che le reazioni del Cai ma anche di molti albergatori che non vedono di buon occhio questi interventi come la"mobilità alternativa"ed il turismo"mordi e fuggi".

E i mondiali di sci Cortina 2021?

di Paolo Cacciari
19 Luglio 2020
Un centinaio di ambientalisti hanno raggiunto alcuni degli sbancamenti della montagna creati sul versante delle Tofane di Mezzo, nella conca cortinese, per allargare le piste da sci

Vietato vedere i luoghi delle devastazioni provocate dalle opere per i mondiali di sci di Cortina 2021. La Questura ha negato all’ultimo momento, domenica 19 luglio, a Italia Nostra, Wwf, Mountain Wilderness e altre associazioni ambientaliste venete l’autorizzazione alla marcia programmata per raggiungere – seppure con mascherina e in “fila indiana distanziata” – i cantieri per la costruzione degli impianti e dei servizi necessari alla manifestazione sportiva del prossimo anno.

Con un centinaio di ambientalisti, comunque, abbiamo raggiunto alla spicciolata – attraverso incantevoli sentieri tra i boschi e i prati profumati della splendida conca cortinese – alcuni degli sbancamenti della montagna creati sul versante delle Tofane di Mezzo per allargare le piste da sci, potenziare gli impianti di risalita, creare anfiteatri per far posto alle tribune d’arrivo, alle postazioni televisive e ai vari servizi, con il contorno della trasformazione di sentieri forestali in strade di cantiere larghe sette metri, scogliere antismottamenti alte otto metri, tubazioni e nuovi serbatoi d’acqua per i cannoni spara-neve, in totale – calcolano le associazioni ambientaliste – verrà disboscata e dissodata un’area di almeno 250.000 metri quadrati (più di trenta campi da calcio).

Il tutto, ovviamente, perfettamente autorizzato e vagliato dalle commissioni di valutazione di impatto ambientale in forza di una legge speciale, di un commissario ad hoc e della dichiarazione governativa di “pubblica utilità”.

Per chi volesse capire il significato concreto della parola “semplificazioni” in materia di conservazione del paesaggio, di difesa del suolo e della biodiversità dovrebbe fare un giro da queste parti. Ma i campionati del mondo di sci del 2021 sono solo un assaggio di ciò che si prospetta per le Olimpiadi invernali del 2026 “vinte” dall’Italia in cogestione tra Milano e Cortina, tra Sala e Zaia. Per allora a Cortina dovranno essere costruiti tre nuovi villaggi olimpici, una pista di bob, trampolini di salto e quant’altro.

Approfittando dell’evento, sono ripartiti i progetti di nuovi collegamenti con la Val Badia, con la Marmolada, con l’anello del Civetta. La chiamano senza pudore “mobilità alternativa” perché le nuove funivie dovrebbero alleggerire il traffico automobilistico attraverso i passi alpini. In realtà i prezzi proibitivi delle funivie non sono concorrenziali e nulla viene fatto in Veneto per disincentivare motociclette rombanti, quad ed ora anche bici elettriche a raggiungere le vette attraverso sentieri incontaminati.

L’aggressione del turismo “mordi e fuggi”, meno acculturato e più indifferente alle bellezze naturali è incentivato dai “grandi eventi” sportivi, che durano lo spazio di una telecronaca in mondovisione e lasciano sul posto ferite indelebili e montagne di opere inutili.

Roberta De Zanna, Patrizia Peruccon, Gianluigi Casanova sono tra i promotori e le promotrici dei comitati locali che fanno da sentinella ai cantieri denunciando le violazioni alla Convenzione delle Alpi, alla Carta del paesaggio e alle raccomandazioni dell’Unesco: “Ci dicono – affermano – che è tutto in regola e che verranno fatte le ricomposizioni e le compensazioni ambientali, anche per la CO2 immessa in atmosfera. A ogni albero abbattuto ne impianteranno un altro chissà dove. A noi pare il mercato delle indulgenze. Ma cominciano ad esserci anche albergatori locali – oltre a importanti enti come il Club Alpino Italiano – che hanno capito che questo non è il modello di turismo che fa bene all’economia delle nostre montagne”. Le monoculture turistiche intensive, il Covid insegna, rendono le economie locali ancora più fragili, più esposte ai contraccolpi delle crisi.

venerdì 24 luglio 2020

LA PUNTA DELL'ICEBERG


Carabinieri Piacenza, il lockdown con le orge in caserma. In un ...
E ci risiamo con la storia delle"mele marce"quand'è la pianta ad essere la malattia,il cancro di un'istituzione statale marcia e criminale che si attacca ai luoghi comuni del"non tutti sono così"e del cameratismo di un corpo che fa dell'omertà il suo punto di forza,uguale alla mafia.
D'altronde sono pochissimi quelli che si salvano,effettivamente sennò come si sarebbe potuto ad arrivare al sequestro di un'intera caserma,quella Levante di Piacenza dove tutti i carabinieri interessati sono stati arrestati o indagati in quella che è una storia che esiste in numerose altre caserme italiane,non c'è differenza tra nord e sud quando si parla di questi criminali.
Che rivendevano la droga sequestrata,si accordavano con alcuni spacciatori mentre altri venivano torturati e massacrati di botte per poi vantarsene in famiglia e con gli amici,con tanto di resoconto fotografico.
Nell'articolo di Contropiano(carabinieri-criminali-ma-protetti-dai-media )ecco il nuovo tradimento della divisa,e quelli che dicono che gli arrestati non sono carabinieri si sbagliano di grosso,lo sono e grazie a questo hanno potuto arricchirsi di denaro e di potere,sono ancora coccolati da una certa stampa e politica,di destra,che vedono ancora in loro un'ancora di salvezza in un mare di malvagità,quando alla fine i veri cattivi sono proprio loro.
Vedi anche:madn consip-e-armaun-cesto-pieno-di-mele marce e madn fedeli-ad-una-divisa-disonorata per una carrellata su tutti i delitti commessi che vanno dagli stupri agli omicidi,ma in ben pochi casi si è arrivati ad una condanna che ha visto carabinieri in carcere,sappiamo tutti che dopo i fatti di Genova vi furono oppure delle promozione mentre nella maggior parte dei casi la sospensione temporanea dal lavoro anche per fatti di seria gravità è la costante delle punizioni inferte loro.

Carabinieri criminali, ma “protetti” dai media.

di  Redazione Contropiano - Tuti Comito * 
La storia dei carabinieri di Piacenza, che avevano trasformato la stessa caserma in una centrale di spaccio e in sale di tortura, è un classico della cronaca nera italiana. Ed anche il “trattamento” che la notizia riceve da parte dei media ufficiali.

La metafora della “mela marcia” in un cesto di “mele sane” è sempre lì, a disposizione del cronista sfaticato, che neanche cerca i precedenti. Eppure sono decine, coinvolgono centinaia e forse migliaia di “mele marce”. I link in questo articolo permettono di ricordare solo i casi più rilevanti degli ultimi anni, senza alcuna ambizione di completezza.

Numeri che, a voler essere semplicemente accorti, rovesciano come un guanto una narrazione edificante stesa a copertura di un “virus criminale” di grandissima diffusione tra chi indossa una divisa (e una pistola) e solo per questo si sente investito di un’autorità sovra-umana. In senso letterale: sopra gli altri esseri umani.

L’unica principio riconosciuto, in quei corpi separati, è quello gerarchico. Per cui si deve obbedienza – o fingere di averla – nei confronti dei “superiori”. In cambio si ha “diritto sovrano” sui civili, untermenshen, senza divisa (e senza pistola).

E’ un diritto che viene loro riconosciuto dai superiori (e dai media, che vivono di relazioni incestuose con i “corpi separati”: le “soffiate” che vengono dalle questure e dalle caserme sono infatti il pane quotidiano della cronaca nera, ed esserne esclusi significa perdere “primizie”, lettori, copie vendute o ascolti).

L’impunità come condizione standard favorisce ogni deviazione. Dall'”eccesso di uso legittimo della forza” fino agli “interessi privati in atti d’ufficio”, fino alla vera e propria attività criminale in proprio. E l’impunità standard concessa a tutti i militari (forze dell’ordine ed esercito “professionista”) ha come ovvio contraltare la necessità di separare sempre “responsabilità individuali” e “bontà assoluta del corpo”. O, in questo caso, dell’Arma…

Così leggiamo o ascoltiamo ogni volta la stessa storiella, come se non fosse uguale a tutte le altre. Quelle trattate nello stesso modo e rapidamente cancellate dalla memoria pubblica. Questo commento di Turi Comito, a suo modo, centra parte del problema della “relazione incestuosa” tra corpi militari e informazione mainstream.

Buona lettura. Ma prima un’occhiata meritata ai pochi dati usciti, senza censura…

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Il parroco, il sindaco, il maresciallo e il provincialismo.

Non mi è chiaro il perché le foto dei tizi arrestati a Piacenza siano oscurate sui media né perché non se ne conoscano i nomi. Chi ha oscurato foto e nomi? La guardia di finanza che ha proceduto agli arresti? La procura che indaga? I media?

E perché? Sono minorenni? Sono testimoni di giustizia sotto protezione? Sono padri di famiglia ingiustamente incolpati che non si vuole dare in pasto alla folla pronta al linciaggio mediatico?

Com’è che quando arrestano un qualunque rubagalline le foto circolano manco fossero selfie della Ferragni agli Uffizi e adesso non conosciamo né facce né nomi degli arrestati?

Il dubbio che si fa strada è che questa cosa accada per un malinteso senso di “rispetto” per l’Arma. Come a dire che in pasto alla suburra dei social si può dare chiunque tranne il Maresciallo dei carabinieri, ché quello rappresenta l’ultima cosa buona che resta in questo paese, visto che della sacra trimurti – l’arciprete, il sindaco e il maresciallo appunto – il primo è pedofilo e il secondo è corrotto.

Non vorrei che le cose stessero così (ho diversi amici avvocati qui, saranno d’aiuto a sciogliere questo mistero, se vorranno).

Perché se questa fosse la ragione dell’oscuramento ci troveremmo di fronte, per l’ennesima volta, ad un caso classico di provincialismo mediocre, fatto da mediocri, ad uso e consumo di mediocri.

Una disgrazia, quella del provincialismo, che è lo specchio del mediocrismo di questa epoca.

mercoledì 22 luglio 2020

GENOVA 2001:SCONFITTA OPPURE NO?

Mentre già si stanno organizzando per l'anno prossimo i preparativi per il ventesimo anniversario del G8 di Genova(madn carlo-vive )quest'anno vista anche la situazione emergenziale si è parlato il più delle volte a sproposito e diffondendo odio e veleno verso i manifestanti sui social e marginalmente nei telegiornali e sulla carta stampata.
Nei due articoli proposti(contropiano 20-anni-dopo-cosa-imparare-dalla-sconfitta-al-g8-di-genova e comune-info.net/la-lotta-di-genova-non-finisce/ )ci sono riflessioni e spunti sulla politica e la società che non è cambiata molto da quegli anni,già si era sul tracollo economico ora sempre più accentuato con una divisione tra il ricco e il povero sempre più alta,le diseguaglianze sono aumentate e le risposte non arrivano.
E allora bisogna prendersele queste risposte,bisogna fare in modo che il cambiamento reale avvenga anche con mezzi poco o meno democratici,ma non peggio di quelli che ci stanno propinando da decenni perché oggi come allora(e anche prima)la polizia è pronta a spararti addosso,soffocare e reprimere qualsiasi atto di ribellione e di lotta.
Ci si domanda se siano state una sconfitta le giornate caldissime di quel luglio 2001,e come al solito non c'è una risposta assolutamente negativa o positiva,quel che è certo è il fatto che i manifestanti avessero ragione sulla globalizzazione e sul sistema capitalista sempre più spinto e spietato,con miliardi di persone a fare la fame mentre una sempre più ristretta élite si gode il frutto delle proprie carneficine,speculazioni e impoverimento delle risorse ambientali ed umane.

20 anni dopo: cosa imparare dalla sconfitta al G8 di Genova.

di  Turi Palidda - Heidi Giuliani  
Sui fatti del G8 di Genova sono stati scritti alcuni libri e tanti articoli oltre alla realizzazione di documentari e film. Una parte di questa letteratura e documentazione video-fotografica appare alquanto discutibile, un’altra parte resta imbrigliata in una quasi nostalgia piuttosto sconveniente e infine una parte resta documento d’archivio (fra i quali quelli del Geno Legal Forum e del Comitato Carlo Giuliani[1]). 

Ciò che sembra mancare è una chiara analisi critica di quei fatti, delle loro interpretazioni ideologizzanti o mitizzanti, insomma una decostruzione degli errori di diverse componenti del cosiddetto movimento dei movimenti e anche delle loro conseguenze negative su quanto avvenuto dopo. In questo testo propongo quindi un contributo sintetico (rinvio a questi testi citati in nota[2]) per districarsi dalla palude di tanti luoghi comuni e per cercare di capire cosa imparare da questi fatti e anche del dopo e in quale prospettiva praticabile, cosa che si dovrebbe fare prima e durante i giorni a Genova nel 20 anniversario.

* * *

Il movimento contro il G8 di Genova fu sconfitto innanzitutto dalla violenza sfrenata di un dispositivo militare-poliziesco approntato e aizzato appositamente. Carlo Giuliani fu ucciso e centinaia di manifestanti furono massacrati e in parte torturati. Ciononostante ci sono ancora persone che come allora asseriscono che fu una vittoria, tesi sconcertante che è un insulto alle vittime e anche alla necessità di capire le ragioni quella sconfitta.

La prima di queste ragioni è che le diverse componenti del movimento (e molti di noi fra questi) non capirono cos’era (e cos’è) il liberismo globalizzato, ossia la strategia e la tattica dei dominanti che esclude concessioni a chi protesta contro il loro operato, mira all’erosione e persino allo stroncamento anche brutale dell’agire collettivo e per questo fa ricorso a ogni mezzo e modalità. In altre parole, non si era ancora compreso che si aveva a che fare con una controparte che considera il movimento come nemico alla stregua del confronto militare e quindi s’è dotato di un dispositivo poliziesco-militare pronto al ricorso a ogni brutalità. Eppure le informazioni per capire questa deriva militare-poliziesca erano note sin dal lancio della Revolution in Military Affairs (RMA) del periodo di Reagan oltre che con la escalation mediatica che mirava a dissuadere la partecipazione al movimento contro tale G8 a Genova. Inoltre la conversione liberista della sinistra tradizionale era già compiuta in Italia sin dal governo D’Alema, la guerra contro la Serbia e l’istituzione dei Carabinieri come 4a forza armata[3].

L’illusione assai ingenua di poter penetrare pacificamente simbolicamente nella zona rossa in base a un presunto patto fra il leader delle tute bianche e la Digos di Padova si rivelò catastrofica. Come mostra anche in modo inequivocabile il video “OP Genova 2001 – L’Ordine Pubblico durante il G8” i Carabinieri attaccarono in maniera deliberata e brutale il corteo prima che arrivasse a Brignole, ignorando persino gli ordini del commissario di polizia con la fascia tricolore. L’obiettivo stabilito innanzitutto dal Pentagono era di dare una durissima lezione ai manifestanti anche a quelli ultra-pacifici per stroncare un movimento anti-liberista che dopo Seattle rischiava di dilagare su scala planetaria. Per i dominanti (G8, lobby e multinazionali) la messa in discussione dei loro scopi era ed è inammissibile e da distruggere con ogni mezzo. Tutto il movimento era destinato ad essere trattato come un nemico in guerra. E non a caso il dispositivo e le modalità operative militari in particolare dei Carabinieri e della Guardia di finanza nonché dei servizi segreti stranieri e italiani mirarono al massacro passando anche per le torture. Si pensi peraltro alla presenza del battaglione Tuscania, già sperimentato in Somalia[4]. Da notare che gli stessi black bloc stranieri (pochi forse solo trecento) decisero di abbandonare il campo probabilmente perché compresero di trovarsi in un frame del tutto sfavorevole in quanto prevaleva il gioco del disordine voluto dal dispositivo e dall’azione di CC e GdF, servizi segreti e infiltrati. Dopo la giornata del 21 i vertici della polizia credettero di riscattarsi dalle accuse di non aver saputo frenare il “caos” puntando a “fare più prigionieri possibile” sia con arresti persino a caso e persino di minorenni e ultra pacifici e soprattutto con il blitz alla Diaz[5], una sorta di “macelleria messicana” rivelatrice della scelta della gestione ultra brutale di una polizia italiana peraltro maldestra (rivelatrici le testimonianze di Andreassi e Micalizzi). Quella notte davanti alla Diaz eravamo in pochi ma c’erano anche tanti giornalisti e parlamentari e chiedevano di entrare o di parlare con dirigenti della polizia proprio mentre era in atto il massacro che abbiamo cominciato a immaginare solo quando abbiamo visto uscire barelle con persone che perdevano sangue … Non è stato fatto, ma forse da un preciso bilancio dei danni si potrebbe constatare che quelli prodotti dalle forze di polizia sono stati maggiori di quelli dovuti alla resistenza dei manifestanti e a qualche episodio -marginale- di “saccheggio” di negozi (fra l’altro la maggioranza dei mezzi danneggiati della polizia e dei CC era innanzitutto opera di loro stessi che avevano persino rischiato di scacciare sotto le ruote i manifestanti).

Sin dal momento dell’attacco dei Carabinieri al corteo pacifico delle tute bianche si creò uno sbandamento generale e i manifestanti si mossero a caso senza sapere dove andare e come proteggersi. Come sempre in questi casi quelli che non avevano alcuna esperienza hanno avuto la peggio (e ciò anche fra qualcuno delle forze di polizia).

La sconfitta fu ancora più tremenda perché dopo il 21 non vi fu più alcuna capacità di reazione collettiva; come d’improvviso il movimento si estinse e si disperse a curare le ferite e fare il lutto.

Dopo la mazzata pesantissima del 20-21 luglio arrivò la reazione dell’amministrazione USA all’attentato dell’11 settembre. Ossia il conclamato continuum fra guerre permanenti su scala planetaria e guerre sicuritarie all’interno di ogni paese. La guerra al terrorismo quindi si generalizzò sino a colpire anche le proteste locali contro grandi opere tacciandole di terrorismo (vedi TAV e non solo).

Ma le ragioni che riproducono le resistenze al liberismo globalizzato sono molteplici e diffuse dappertutto anche se non riescono a conquistare i sindacati e quantomeno una buona parte della sinistra storica (che si uniscono alle destre per invocare grandi opere e la sacralità della crescita economica uber alles).

La sconfitta di Genova non ha impedito il rispuntare di tanti momenti di rivolta, di resistenza, di lotta contro le diverse conseguenze del trionfo liberista. Ma di nuovo questi momenti passano e si estinguono tranne quelli circoscritti a un preciso contesto (vedi per esempio il caso dei NOTAV o quello dei nativi in Amazzonia o in Patagonia e altrove proprio perché sono resistenze per la sopravvivenza come innanzitutto fu la resistenza al fascismo e al nazismo che durò 20 anni ma ebbe un grande dispiegamento solo negli ultimi anni).

Il movimentismo e il suo “presentismo” ha la logica di inseguire ogni rivolta con l’illusione di incasellarla nel “movimento dei movimenti” ma questa è una sorta di ideologizzazione del movimento.

La mobilitazione di Genova ebbe il grande merito di agitare svariate questioni cruciali: non solo le conseguenze delle diseguaglianze economiche, sociali, sanitarie ma anche i rischi ecologici e le tragedie delle guerre. Ma mancò la comprensione che tutti i disastri sanitari, ambientali, economici e politici (fra i quali le economie sommerse e le neoschiavitù), sono tutti insieme il risultato dell’azione delle lobby e delle multinazionali su scala locale e su scala globale. Sono i disastri che non solo provocano emigrazioni disperate ma anche ogni anno quasi 60 milioni di morti. Disastri ignorati come se si trattasse di disgrazie casuali, sfortuna di chi muore di cancro o altre malattie che invece sono quasi sempre dovute a contaminazioni tossiche, a disastri ambientali, a condizioni di lavoro e di vita insostenibili. Si tratta insomma di ciò che Frederic Gros invita a capire come l’emergenza della teoria dei “disastri umanitari” e quindi della “sicurezza umanitaria” (in opposizione anzi in antitesi all’accezione sicuritaria militare-poliziesca che non a caso ignora tali disastri a sprezzo della protezione della vita animale e vegetale e quindi dell’ecosistema). Appare allora chiaro che non si tratta solo degli argomenti agitati durante Occupy Wall Street o l’analogo movimento degli Indignados in Spagna, né solo del sorprendente “movimento” dei giovanissimi contro il cambiamento climatico. Si tratta invece delle innumerevoli resistenze a ogni singola ingiustizia, sopruso e crimine contro l’umanità da parte dei dominanti come per esempio è oggi il Black Lives Matter e l’analogo movimento antirazzista in Francia, movimenti che hanno alle spalle le sconfitte di mobilitazioni precedenti sin dagli anni ’60 poi ’80 e poi ancora dopo e che sono spinti non da una sola motivazione ma da tante assieme.

Questo è il campo che alcuni militanti che ancora hanno nostalgia di Genoa 2001 non hanno ancora capito trascinandosi invece nell’inseguimento di una sorta di riedizione di Genova2001. Così come ancora si stenta a capire che il liberismo tende sempre più a scegliere la tanatopolitica (il lasciar morire) anziché la biopolitica del lasciar vivere. E’ questa la reazione dei dominanti al loro terrore rispetto a ciò che pensano sia un aumento incontrollato della popolazione mondiale che si sovrapporrebbe al cambiamento climatico e genererebbe migrazioni aggressive, invasioni di orde fameliche che devasterebbero i paesi ricchi[6]. A questo dovrebbero riflettere i militanti antiliberisti comprendendo così che il quasi genocidio dei migranti non è casuale ma allo stesso tempo non esclude la schiavizzazione di alcuni per un tempo determinato come usa-e-getta. Una tanatopolitica che è quella della devastazione dei paesi detti terzi così come preconizzava lo stesso Summers. Il liberismo globalizzato è distruzione e necropolitica. Sono le resistenze dei nativi dei territori devastati o quelle della popolazione tunisina contro la fabbrica di fosfati di Gabès o anche la lotta dei lavoratori portuali del CALP di Genova contro le navi saudite che trasportano armamenti contro gli Yemeniti, sono queste le lotte e le resistenze che saranno il futuro che conterà.

Il dopo fatti del G8 di Genova serve non per mettere un generico, inutile cappello alle lotte che si sono succedute da allora, né per reiterare la lettura ideologica dei movimenti, ma semmai per capire non solo gli errori e le illusioni tragiche di quel momento ma per rinnovare veramente l’impegno intellettuale e militante nelle nuove resistenze che si rinnovano e che hanno molteplici facce, molteplici modalità di agire collettivo che ingloba appunto molteplici componenti senza antitesi né pretesa di supremazia degli uni sugli altri, dei più radicali e dei più “pacifici”. E sta qua la ricerca di alternative attraverso la comprensione del valore del lavoro di cura e della stessa riproduzione della vita e dell’umanità in genere e quindi il rilancio di una cooperazione effettivamente antitetica alla logica del profitto, cioè di produttori e consumatori, a fianco del mutuo soccorso e infine del comune (vedi vari articoli su effimera.org).

Oggi la minaccia sta nel sovranismo e nel populismo che non sono affatto né vero sovranismo, perché è fedele agli interessi delle lobby e multinazionali e delle potenze mondiali credendo di poter scegliere il miglior alleato dominante … e non è populismo perché ignora lo stesso diritto alla vita degli stessi elettori poiché vittime di disastri sanitari e ambientali; il sovranismo-populista difende il furore di arricchirsi padroni e padroncini sulla pelle dei lavoratori[7].

Lungi dall’essere di fronte al collasso del capitalismo, il dopo pandemia tende a condurre a una situazione peggiore di quella precedente. Occorre uno sguardo scettico/critico salutare per capire l’attuale congiuntura e come resistere, resistere, resistere!

Il successo della mobilitazione antirazzista negli Stati Uniti ma anche in Francia indicano che occorre promuovere convergenze fra le molteplici ragioni delle singole resistenze. E’ possibile la convergenza nel reclamare non solo il definanziamento delle polizie e la protezione antirazzista e l’azzeramento delle spese militari, ma anche la destinazione di risorse alle politiche sociali contro precarietà e supersfruttamento.

Il 21 luglio si terrà al CAP alle 17,30 una riunione per la preparazione del 20° anniversario dei fatti del G8, promossa dal Comitato Carlo Giuliani e da diversi compagni anche di altre città.

Turi Palidda con la collaborazione. di Haidi Giuliani

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La lotta di Genova non finisce.

di Lorenzo Guadagnucci 
21 Luglio 2020
Al G8 del luglio 2001 la polizia tornò a sparare in piazza, la tortura fu praticata su larga scala, le garanzie costituzionali furono sospese. Ma quel patrimonio di lotte non si dimentica. E continua. «Lavora- consuma-crepa», quello slogan dei movimenti, beffardo, svela che in realtà sta crepando un modello di società. La storia non è finita, ma si deve rompere la congiura del silenzio 

Genova, via Cadorna, 17 luglio 2001. Dimostrante ad una manifestazione per la cancellazione del debito organizzata da Attac.

In questo smemorato e superficiale paese, il ricordo – la lezione – del G8 di Genova del 2001 non fa parte del discorso pubblico. Non se ne parla, non se ne discute.

Eppure, nella calda estate di 19 anni fa si consumò un’esperienza politica dalle molte facce, che dice ancora molto, moltissimo del nostro presente e del nostro futuro.

Nel luglio 2001 fu interrotta sul nascere un’esperienza nuova, originale, promettente: un movimento di movimenti che criticava con competenza e su scala globale il modello neoliberale.

Era la prima, importante critica alla globalizzazione economica dilagante. Pur di stroncare quell’esperienza che cresceva fra le persone e attraversava le frontiere, fu accantonato lo stato di diritto.

A Genova le forze di polizia tornarono a sparare in piazza e un carabiniere uccise un ragazzo disarmato, Carlo Giuliani; la tortura fu praticata su larga scala (leggi la sentenza della Corte di Strasburgo sulle torture alla Diaz) e per più giorni; le garanzie costituzionali e l’habeas corpus furono sospesi.

Fu un’apparente vittoria dei poteri costituiti, ma in realtà una caporetto della politica istituzionale, un drammatico punto di caduta delle democrazie occidentali, che in Italia come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti non ascoltarono le critiche e anzi le criminalizzarono, prima di annegarle nel sangue.

Stiamo ancora pagando quel tragico errore. Il collasso climatico in corso, le crescenti diseguaglianze sociali, lo svuotamento delle democrazie e da ultimo l’esplosione della pandemia da coronavirus – effetto diretto dell’attacco agli ecosistemi e alla dignità della vita animale – dimostrano quanto abbiamo bisogno di un radicale cambio di rotta. 

Di pensieri nuovi, di modelli sociali diversi, fuori dall’ottuso perimetro disegnato dall’ideologia neoliberale con le sue consunte parole d’ordine: crescita, mercato, deregulation, meritocrazia, traducibili nel beffardo e amaro controslogan «lavora- consuma-crepa».

Stiamo davvero crepando. Crepano gli «scarti» della storia, i profughi di guerra e i rifugiati ambientali, crepano gli esclusi dal banchetto allestito dai finanzieri e dai tecnocrati del neoliberismo tuttora dominante, crepano anche gli sfortunati – perfino nel primo mondo – colti dal contagio e poco o mal curati da sistemi sanitari svuotati e privatizzati.

In realtà sta crepando un modello di società, e tutti o quasi tutti lo sappiamo, ma è in atto un tentativo di rianimazione. I poteri forti, cioè i poteri reali, non intendono cedere alcunché: vogliono che tutto continui come sempre e che ogni crisi sia superata.

Anche al prezzo di contraddire i propri dogmi: salvando le banche private con fiumi di denaro pubblico nel 2008, eliminando vincoli di bilancio e ogni altro impaccio al tempo della pandemia, pur di ricominciare come prima più di prima, quindi più consumi, più viaggi, più crescita, più disuguaglianze, più scarti della storia e al diavolo il clima, i virus, la cura della vita sul pianeta. Destra e (ex) sinistra sul punto sono concordi.

Perciò non si parla, non si discute, non si ricorda il G8 di Genova. Perché in quel tempo, a cavallo del millennio, il modello neoliberale fu messo finalmente a nudo e milioni di persone, attraverso i continenti, scesero in piazza per dire che un altro mondo era possibile.

Cominciarono anche a praticarlo, a sperimentarlo, quel mondo, e a proporre soluzioni concrete, perché non erano – non eravamo – degli ingenui sognatori, e tanto meno degli sciocchi teppisti, come si tentò di far intendere.

A Genova nel 2001 per giorni nei seminari e negli incontri pubblici si parlò della crisi del debito pubblico e dei possibili rimedi, di una tassa sulle speculazioni finanziarie, dello strapotere di una «troika» al tempo sconosciuta (Banca mondiale – Fondo monetario internazionale – Organizzazione mondiale per il commercio), di sovranità alimentare e agricoltura contadina, di diritto d’espatrio e di migrazioni, di guerre incombenti, dell’acqua come bene comune e di esclusione dei brevetti dai farmaci essenziali per affrontare le malattie epidemiche.

Questo patrimonio di esperienze e di idee è ancora a disposizione. Nuovi movimenti potranno – dovranno – farne tesoro, rompendo la congiura del silenzio che le classi dirigenti stanno calando, più ottuse e violente che mai, sul pensiero divergente.

La storia non è finita, tutto deve cambiare e quindi tutto dobbiamo ricordare, anche come è andata a finire: con le democrazie che mettono da parte costituzioni e libertà civili.

Il resto, cioè tutto, è lotta politica da condurre sul piano delle idee e facendo tesoro di quanto imparato in questi anni: la forza delle reti sociali, la creatività dei movimenti, la generosità delle persone.

La memoria, diceva uno slogan in voga negli anni seguenti il G8 genovese, è un ingranaggio collettivo. Oggi possiamo aggiungere: e una risorsa preziosa.

* Comitato Verità e Giustizia per Genova

martedì 21 luglio 2020

LA SPECULAZIONE IMMOBILIARE E LA GREEN ECONOMY


Sfruttare il ciclo sul mercato immobiliare per entrare ed uscire ...
La green economy,il futuro tanto decantato dalla politica progressista di tutta Europa ed in Italia rappresentata non degnamente dal Pd,dovrebbe essere il traino di tutto un nuovo di pensare riflettendo sull'ambiente scegliendo sistemi compatibili ed amici della natura.
L'azzeramento o una forte diminuzione del consumo del suolo era uno dei dogmi di questo pensiero ancora prima dei gridi francesi di Macron all'indomani della propria sconfitta di qualche settimana fa quando per rimanere aggrappato alla poltrona ha giurato la svolta green in Francia(madn la-guerra-civica-francese )e la successiva dichiarazione del sindaco di Lione sull'inutilità del Tav(madn lione-riafferma-lennesimo-no-al progetto tav ).
Tornando all'Italia l'articolo di Contropiano(modello-milano-pastp-nudo-speculazione-immobiliare )pone riflessioni e quesiti sulla speculazione immobiliare partendo dal"modello Milano"di antica memoria che è proseguito negli ultimi decenni con il dominio della destra ed un'intensificazione dell'urbanizzazione a scapito di migliaia di alloggi sfitti,ma anche delle costruzioni che hanno favorito l'utilizzo privato piuttosto che quello pubblico.
Allargando la visione a tutto il paese il divario tra il nord ed il sud si fa ancora più ampio con un settentrione invaso da abitazioni che sono superflue ed un intensificarsi d'infrastrutture che hanno deturpato l'aspetto paesaggistico,molte delle quali inutili e male usufruite.

“Modello Milano”, il pasto nudo della speculazione immobiliare.

di  Redazione Contropiano 
Il dualismo Nord/Sud è stato evidente nel decorso di questa epidemia, con una diffusione nettamente superiore al Nord piuttosto che al Sud.

Sergio Brenna, ex docente di urbanistica al Politecnico di Milano, risponde ad alcune domande e affronta alcune questioni rispetto al modello di sviluppo urbanistico e territoriale del nord Italia e in particolare di Milano, come anticipazione di quanto verrà sviluppato nel dibattito di mercoledì prossimo a Milano, sulla “questione settentrionale”.

La crisi sanitaria da cui il Paese, e soprattutto la Lombardia, non è ancora uscita del tutto ha colpito in modo particolare le zone più altamente industrializzate e inquinate del Paese. Verosimilmente l’alta urbanizzazione del nord, e la necessità di concentrare un gran numero di esseri umani nei luoghi della produzione, sono state concause determinanti nel favorire la diffusione dei contagi. E altrettanto verosimilmente l’inquinamento, soprattutto nella pianura padana, è stato ed è un fattore di indebolimento delle difese naturali contro i virus. Il ruolo di una pianificazione urbanistica e di un modello di sviluppo industriale e territoriale vorace come quello della Lombardia, quanto ha inciso in questa dinamica?

Per quanto non si possa sostenere che ci sia una correlazione diretta tra storture nella pianificazione dell’uso del territorio e sviluppo della pandemia nelle regioni del Nord, credo si possano individuare alcuni punti di carattere urbanistico-insediativo che soprattutto nelle leggi regionali della Lombardia destro-leghista hanno posto ulteriori condizioni di facilitazione della sua diffusione e difficoltà di controllo.

Tra questi mi pare di poter indicare principalmente:

1) l’equiparazione tra spazi per servizi pubblici e servizi privati sostitutivi;

2) la conseguente riduzione quantitativa degli spazi pubblici di una regione che si pretende più ricca delle più avanzate economie europee, ma non sa essere altrettanto civile;

3) l’indifferenza funzionale delle scelte localizzative decise privatamente;

4) una riduzione del consumo di suolo, non solo molto più modesta e lenta degli obiettivi europei, ma senza una vera riduzione del peso insediativo cui invece si sta consentendo di concentrarsi senza limiti sul già urbanizzato.

Parliamo della deregolamentazione della pianificazione urbanistica. Molte delle leggi regionali sulla riduzione del consumo di suolo hanno, tra cui quella della Lombardia, hanno promosso la fine del concetto di pianificazione e sdoganato la svendita del territorio ai costruttori. Il cosiddetto “Modello Milano” è stato ed è la punta di diamante dello sviluppo industriale ed urbano che premia la speculazione urbana in salsa green, la privatizzazione e la deregolamentazione del sistema pubblico…

Esattamente. Mi è capitato recentemente di ascoltare, in una trasmissione televisiva sulle “magnifiche sorti e progressive” del cosiddetto Modello Milano, la comune rivendicazione, da parte di esponenti di parti politiche che dovrebbero essere avverse, della bontà di un nuovo “rito ambrosiano”.

Questo dimenticando che quello “storico” degli anni ’50/’60 (imitato poi in diversi comuni del Paese) è consistito nell’ignorare la legge n. 1150/42, che richiedeva l’obbligo preventivo di un Piano regolatore generale, sostituendovi invece la prassi di contrattazioni “provvisorie” caso per caso, i cui contenuti ipocritamente avrebbero dovuto essere poi soggetti a conferma o rigetto in una futura pianificazione pubblica del Piano Regolatore Generale.

Ciò che una volta almeno si ammetteva essere un’ipocrita scappatoia arrangiata e formalmente provvisoria, oggi viene rivendicato come metodo stabile legalizzato dalla legislazione regionale e ratificato come legittimo persino da una recente sentenza del TAR sull’Accordo di Programma tra Comune di Milano e FS/Sistemi Urban,i in merito al riuso degli ex scali ferroviari.

Si sancisce così che, nei cosiddetti nuovi strumenti di pianificazione strategica, le leggi regionali possono autorizzare i Comuni a derogare dal rispetto delle normative minime inderogabili della legislazione nazionale.

In questo modo, implicitamente, si ratifica che in Lombardia (ma anche in molte altre regioni del Nord e non solo) in campo urbanistico la molto discutibile “autonomia differenziata” è già in essere…

Basta poi continuare a votare leggi regionali a mio avviso in palese contrasto con la legislazione nazionale (in Lombardia, ad esempio, la L.R. 12/05 e la recente L. R. 18/19 sulla Rigenerazione Urbana: +20% sulle quantità edificatorie dei PGT, -60% sugli oneri urbanizzativi!) e il gioco è fatto. Non costa nulla a chi le approva, non essendoci pericolo che il Governo o il Parlamento, tramite l’Avvocatura dello Stato, le impugni per violazione delle proprie prerogative, e i cittadini in dissenso sugli esiti di queste procedure molto spesso o non si vedono riconosciuta la legittimazione a impugnare via via le mille deroghe in esse contenute o – quando ciò viene ammesso – difficilmente hanno le risorse economiche per continuare ripetutamente a farlo.

E in tutto ciò che fine fa la questione della riduzione del consumo di suolo?

In tutto ciò c’è una palese deformazione dell’obiettivo di una riduzione del consumo di nuovi suoli (in Lombardia rinviato sine die dopo che la L.R. n. 31/2014 aveva indicato ritmi di riduzione ben più blandi di quelli già vigenti Germania e coi quali ben difficilmente si sarebbe potuto giungere al consumo di suolo zero al 2050, come indicato dalle direttive europee) non solo perché rimane il dubbio di fondo sulla reale efficacia di questo strumento nelle mani di un’amministrazione regionale che, prima con Formigoni, poi con Maroni, ora con Fontana, ha voluto connotarsi con lo slogan “ognuno padrone a casa propria“.

Ossia la logica che ha portato a far approvare piani urbanistici di durata solo quinquennale (cioè senza alcuna visione di lungo periodo) da parte di ciascun Comune e praticamente senza più alcun controllo di area vasta; ma soprattutto perché il tema correlato della “rigenerazione urbana”, cioè della concentrazione dei nuovi interventi edificatori su aree già urbanizzate, suscita più di una legittima preoccupazione.

Innanzitutto per la genericità ed indeterminazione di obiettivi e strumenti con cui dovrà attuarsi; e poi per la riduzione degli standard pubblici, riportati dalla Legge Regionale 12/2005 al livello minimo inderogabile dei 18 mq/abitante del 1968 e questo in una Regione che per sviluppo economico ama appunto paragonarsi e confrontarsi con quelle più sviluppate della Germania, ma non sa imitarne il livello di dotazioni pubbliche e di tutela ambientale.

Insomma la tanto decantata “eccellenza lombarda” in verità è uno esercizio di retorica che lascia buchi pesantissimi sul territorio…  In verità nel modello Milano non arriva (e non intende arrivare) nemmeno lontanamente vicino ai livelli della dotazione di spazi pubblici come invece in altre regioni competitor (come ad esempio la Baviera). La restrizione degli spazi fisici pubblici da un lato, e privatizzazione del territorio è una storia politica di lunga data….

Si. Si noti che la Lombardia – che con la prima legge urbanistica regionale approvata in Italia, la L.R. n. 51/75, aveva portato gli standard minimi per spazi pubblici di quartiere a 26,5 mq/abitante, mentre le realtà urbane europee si spingono a prevedere 50 mq/abitante e oltre. Insomma, la Lombardia che si proclama più ricca delle altre regioni italiane e persino più della ricca Baviera, non sa essere altrettanto civilmente sviluppata in tema di dotazioni di spazi pubblici!

Anche la durata quinquennale e non ripetibile dei vincoli di uso pubblico, stabilita a botta calda dal Parlamento dopo la sentenza choc della Corte Costituzionale del 1968 (ricordo in Facoltà di Architettura i TazeBao che a caratteri cubitali strillavano”Urbanistica incostituzionale !”), potrebbe motivatamente essere rimessa in discussione da una visione progressista oggi sempre più evanescente.

La sentenza della Corte Costituzionale, infatti, chiedeva solo un termine temporale ai vincoli di uso pubblico, anziché la durata a tempo indeterminato di ogni genere di vincolo prevista per i PRG nella Legge 1150/42. Se si considera però che Piani Regolatori della Legge del 1865 duravano ben 25 anni e i Piani Attuativi degli attuali PRG/PGT ne durano tuttora 10, non si vede perché in linea di principio non si potrebbe tornare a proporre una simile durata, sicuramente più congrua a quella delle dinamiche urbane.

Questa riflessione non sarebbe completa se non ci si soffermasse anche su altri limiti della Legge Ponte. La 1150/42 prevedeva, infatti, che dopo la redazione del PRG vi fosse un’ulteriore fase di pianificazione pubblica comunale, coi Piani Particolareggiati di Esecuzione: solo dopo il privato avrebbe potuto presentare i propri piani di lottizzazione, che avrebbero però avuto una valenza poco più che di riassetto catastale delle proprietà, in adeguamento alle indicazioni del piano attuativo pubblico.

La Legge Ponte, invece, dopo l’approvazione del PRG con le sue prescrizioni localizzative e quantitative affida direttamente ai Piani di lottizzazione privati il compito di configurare l’assetto urbano ed edificatorio, e il privato lo fa ovviamente tutelando soprattutto la facilità attuativa del prodotto edilizio che deve poi far fruttare. Certo, le quantità edificatorie e di spazi pubblici sono quelle del PRG, ma come distribuirle è in funzione del massimo rispetto dell’assetto fondiario esistente in modo da turbarlo il meno possibile e le cessioni di aree pubbliche sono spesso fatte in zone residuali e frazionate.

Addirittura si è andata affermando la consuetudine che coi progetti cosiddetti “innovativi” in deroga al piano urbanistico vigente – una volta contrattate pattiziamente le quantità edificatorie e altrettanto pattiziamente gli spazi pubblici da realizzarsi, in genere non più del 50%, in una sorta di spartizione mezzadrile, mentre il rispetto degli standard minimi inderogabili richiederebbe il 65-70% e oltre – l’attuatore privato possa liberamente scegliere le funzioni (residenza, terziario, commercio; inutile pensare ad attività produttive oggi non più ritenute remunerative in ambito urbano) con cui dare attuazione all’intervento, secondo le convenienze di mercato che via via si vanno manifestando.

E’ evidente che in questa concezione l’ordine dell’assetto insediativo e la compatibilità tra le funzioni è l’ultima delle preoccupazioni che passa per la testa agli amministratori pubblici.

Ai molti che oggi lamentano che la cosiddetta “ragioneria degli standard”, conseguente al DM 1444/68, sia limitativa della libertà di fantasia progettuale, ricordo che nella mia esperienza di assessore ho visto discutere animatamente nei Consigli comunali quali fossero i limiti entro cui si potesse concedere di “monetizzare” le quantità di spazi pubblici da cedere per “far tornare i conti” delle norme imposte dal PRG, ma si discuteva di percentuali dell’1-2% e con valori assoluti di 500-1.000 mq.

È evidente, invece, che quando indici incongruenti “pattiziamente contrattati” negli strumenti urbanistici cosiddetti “innovativi” impongono la “monetizzazione” del 40-50% e oltre delle cessioni di aree pubbliche dovute, siamo di fronte a “convenzioni non urbanistiche” del tutto simili a quelle di prima della Legge Ponte e negli anni ’70-‘90 unanimemente deprecate, come lo erano quelle de Le mani sulla città, per rifarsi al bel film di testimonianza civile girato dal regista Francesco Rosi appunto nel 1963.

Si era già cominciato negli anni ’90 con i PII (Programmi integrati di intervento), PRU (Programmi di riqualificazione urbana), PRUSST (Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio) e con gli Accordi di programma, anche se per quasi vent’anni l’immobiliarismo tradizionale non aveva nemmeno osato credere alla possibilità di uno stravolgimento così totale della logica urbanistica che si era instaurata con la Legge Ponte 765/67 e con il relativo decreto attuativo DM 1444/68.

Poi è entrata in campo la grande finanza globalizzata, con la sua sterminata capacità di investimento su scommesse speculative di lungo periodo (aree pagate il doppio della rendita fondiaria corrente), e i Comuni col cappello in mano si sono resi complici nel cercare di raggranellare qualche briciola degli altrui grandi guadagni attesi.

Sulle grandi aree dismesse (ex aree fieristiche urbane, ex scali ferroviari di più o meno recente dismissione, ex caserme, ex insediamenti industriali) si sta procedendo come negli anni ’50/’60, quando a decidere dove, quanto e che cosa costruire era la convenienza economica di proprietà fondiarie e investitori immobiliari.

Con due aggravanti, però: 1) che oggi la dimensione fisica ed economico-temporale degli interventi proposti ai Comuni è enormemente accresciuta dalla dimensione finanziaria globalizzata e da quella delle aree in corso di dismissione d’uso (fabbriche, scali ferroviari, caserme, ecc.); 2) che allora i Comuni si dividevano tra quelli asserviti da Giunte compiacenti (Roma/Rebecchini, Napoli/Gava, Palermo/Ciancimino e giù giù per varie plaghe d’Italia) e quelli che si illudevano di poter beneficiare di qualche contropartita di utilità pubblica, moderandone le tendenze, pur senza una visione di pianificazione pubblica preventiva.

Oggi i Comuni, indipendentemente dall’orientamento politico, spesso pensano solo a facilitare le aspettative di investimento finanziario degli operatori, offrendosi di comparteciparvi con le aree di proprietà comunale (è accaduto a Milano con 100.000 mq comunali venduti a Hines/Catella, a Porta Nuova, e rischia di accadere di nuovo con quelle indotte dal nuovo stadio a S. Siro).

Solo così si spiega come possa essere accaduto che a Milano, su ex Fiera/Citylife e Porta Nuova, si sia arrivati da parte degli operatori finanziari a offrire alla rendita fondiaria proprietaria il doppio di quella corrente in operazioni immobiliari tradizionali e di più limitata estensione (1.800 €/mq slp pari – con quegli indici edificatori – a circa 2.000 €/mq di suolo contro gli 800-900 €/mq slp correnti in operazioni immobiliari tradizionali).

Qui a investire non sono più operatori immobiliari classici, che devono reperire i finanziamenti in banca e rientrare in tempi brevi per non fallire, ma direttamente le banche, le assicurazioni, i fondi pensione americani, i fondi sovrani mediorientali, ecc. che possono permettersi scommesse speculative di lunghissimo periodo e rischiare persino di perderle senza con ciò fallire.

Per quanto li si voglia “innovativamente” denominare con termini accattivanti, si tratta di fatto di “convenzioni non urbanistiche” del tutto analoghe a quelle pre-Legge Ponte/DM 1444.68 ma, appunto, in versione ed estensione 2.0 consentita da investimenti finanziari globalizzati.

Ve lo immaginate oggi vedere il Parlamento discutere e i governi cadere per quella quisquilia che sono vieppiù divenute, in epoca di finanza globalizzata, il governo del territorio e la rendita fondiaria che ne consegue?

Le modifiche legislative continuamente susseguitesi, che consentono ai Comuni di derogare sempre più ampiamente ai dettati minimi del DM 1444/68, che li dichiarava “inderogabili”, hanno continuato ad apparire qua e là in vari decreti omnibus e “milleproroghe”, prima con Berlusconi, poi con i vari Governi “tecnici” o di “emergenza”, e da ultimo persino il recentissimo Decreto Semplificazioni del Governo “alternativo” Conte-M5S-PD, senza che nessun parlamentare non dico lo mettesse in discussione, ma neppure se ne accorgesse.

E le sentenze dei TAR che prendono atto di ciò dichiarandolo perfettamente legittimo ne sono l’inevitabile conseguenza.

La questione urbanistica (e le sue conseguenze in termini di vivibilità e salubrità delle città e del territorio), ahimé, è totalmente scomparsa dall’orizzonte sia della politica che della società!

lunedì 20 luglio 2020

SE QUESTA E' UNIONE...


Stati Disuniti d'Europa | IntermarketAndMore
I continui litigi che fin dallo scorso fine settimana hanno contraddistinto i colloqui a Bruxelles sul recovery fund e trovare una quadra per potere avere accesso ai miliardi di Euro dapprima promessi e poi sempre più nascosti e calati di numero fanno vedere che l'Europa è tutt'altro che unita.
Anzi,c'è una sempre più netta divisione tra gli Stati del nord e quelli mitteleuropei con il sud che diciamolo anche fannullone e sempre col cappello in mano per chiedere elemosina che non si meriterebbe per principio visto le enormi inadempienze della vita comunitaria.
Poi lo scontro bilaterale tra noi e gli olandesi(madn tasse-italiane-allestero )con un Conte versione pugile è l'immagine simbolo dei paesi che si sorridono e che si mandano a quel paese quando volti le spalle,un quadro che mica si apre sul mondo del vivere assieme questa forzatura che non nasce certamente oggi ma che con l'emergenza pandemia si è montato per bene come descritto nell'articolo di Contropiano:internazionale-news .

Comunque vada, il “sogno europeo” è a pezzi…

di  Dante Barontini 
Comunque vada… Lo spettacolo dato a Bruxelles distrugge molti miti sull’Unione Europea. Ad uscirne a pezzi sono dunque soprattutto gli “europeisti senza se e senza ma”, che hanno dipinto quel corral neonazista dove si discute solo di soldi e chissenefrega dei popoli come un “ideale mondo migliore”…

Si può naturalmente discettare a lungo, e con molte buone ragioni, se i “frugali”, e specificamente l’Olanda, abbiano giocato la parte del “poliziotto cattivo” per tirare la volata al “poliziotto buono” Angela Merkel, ovvero la Germania che ha fiutato il sangue dei Paesi mediterranei e cerca ora di ridisegnare la Ue ancora di più a propria immagine, somiglianza e filiere produttive.

Ma è indubbio che due giorni di rissa continua, con leader attempati che si presentano descamisados alle telecamere e altri più giovani che mostrano i denti senza volerlo, rivelando una natura feroce che intendevano nascondere sotto il velo del bon ton, seppelliscono anche l’immagine di una comunità pacificata dai tecnocrati e dai funzionari.

I resoconti – in alcuni casi palesemente imbarazzati – narrano di una feroce lotta nazionalista nelle stanze che dovevano certificare la fine del nazionalismo.

Qualsiasi accordo uscirà nella notte di domenica il famoso e sempiterno “compromesso”, che chiude di solito questi vertici, dovrà forzatamente segnare la sconfitta di alcuni e la vittoria di altri. Senza mezzi termini che consentono ad ognuno di dichiararsi vincitore. Dopo, a casa propria e a beneficio di telecamere amiche.

Stavolta no. Giuseppe Conte che ad un certo punto deve rinunciare a tutto e si limita a pretendere un accordo che non suoni esplicitamente punitivo, un trionfo “olandese”, è l’immagine anticipata del risultato finale. Un Salvini al suo posto, non avrebbe fatto meglio. E ne sarebbe stato sepolto definitivamente…

Che un leaderino come Mark Rutte, alla testa di un piccolo paese che è un paradiso fiscale anti-partner (e solo adesso viene scritto anche sui media di casa nostra, che strano!), alla guida di una maggioranza governativa risicata e insidiata da destra da un nazista dichiarato come Wilders, possa chiedere di “decidere lui come l’Italia spenderà i fondi eventualmente messi a disposizione dalla Ue” (dunque, pro quota, anche dall’Italia), e che tutto questo riesca ad inchiodare un continente, è il segno di una crisi che magari non sarà irreversibile. Ma non lascia certo speranze che quello “europeo” un mondo migliore…

Passeranno forse il pomeriggio a decidere dove passare più mani di stucco pesante per nascondere le crepe. Ma la “solidarietà europea” è già morta. Agli occhi di molti, se non di tutti. Riscrivere una “narrazione edificante” e “antipopulista” sarà un compito davvero improbo…

Si saprà insomma chi comanda, ossia chi è il sovrano, con nome, cognome e nazionalità. Ma non potrà più nascondersi sotto un’immaginaria – e ormai uccisa – “entità comunitaria democratica”.

Vedremo i termini generali più precisi quando i 27 capi di Stato e di governo apporranno – se l’apporranno – le proprie auguste firme. Ma già adesso dovremmo capire in quale luogo risieda oggi il “potere politico” e quale tipo di conflitto sarà necessario per rovesciarlo.

Di certo, dovreste averlo capito tutti, non sta a Palazzo Chigi. Chiunque ci abiti…

venerdì 17 luglio 2020

LA GRANDE TRUFFA SULLE CONCESSIONI AUTOSTRADALI


Ljestve teme #autostrade na Twitteru
La tanto sbandierata vittoria del governo sulla questione delle concessioni autostradali non è di per se tanto da declamare ai quattro venti in quanto le fandonie che i telegiornali ci propinano sono facilmente smascherabili.
Punto primo i Benetton non vanno in soffitta anzi prenderanno anche dei bei soldi per parte della loro falsa fuoriuscita in quanto rimarranno con percentuali diverse con la differenza minore della loro presenza pagata direttamente dai contribuenti,alcune cifre si possono vedere in questo articolo:contropiano autostrade-la-bastonata-benetton-conti-fatti-poco-festeggiare .
Non c'è nessuna nazionalizazzione,lo Stato non sarà padrone delle autostrade se non come prima per pagare i danni dei privati,quello detto da Conte & co. è falso perché lo Stato non si riprende nulla(vedi:contropiano cassa-depositi-e-prestiti-e-aspi-questa-non-e-una-nazionalizzazione ),anzi come detto prima paga i Benetton,che tanto hanno foraggiato i politici tutti,compresi i leghisti che anni prima li avevano salvati e aiutati.
Per concludere rimando all'articolo proposto in calce sempre tratto da Contropiano(limmondo-pasticcio-su-autostrade-per-evitare-la-revoca )e che manda a quel paese i buoni propositi che in un paese come il nostro,dove la corruzione e lo status quo nel peggiorare quello che è difficile diventi peggio ancora,regnano incontrastati tra politici venduti e una società che in fondo non interessa molto questo ennesimo affronto vergognoso alle vittime del ponte Morandi.
Con le scuse di perdite di posti di lavoro che non trovano riscontri nella realtà e per tenersi buoni i Benetton,come già affermato ottimi finanziatori nella loro criminosità definirei illuminati visto che dando denaro a tutti i partiti tengono in pugno l'intero Parlamento,su di un caso che all'inizio era molto grande ma che si è svuotato come un palloncino sotto al sole(madn il-paese-dallindignazione-di-cinque.minuti ).

L’immondo pasticcio su Autostrade, per evitare la revoca.

di  Dante Barontini 
I compromessi possono essere a volte necessari, e comunque si dividono sempre I buoni, pessimi o innumerevoli vie di mezzo.

Quello trovato dal governo su e con Atlantia per il futuro di Autostrade per l’Italia – Aspi, la società privata concessionaria di gran parte della rete autostradale di proprietà pubblica è un pasticcio immondo escogitato per salvare capra e cavoli: ossia la faccia della maggioranza di governo e i soldi dei Benetton.

Stando a quel che ha reso noto lo stesso governo, dopo una seduta fiume finita alla 5 di mattina, la concessione non viene revocata e resta ad Aspi. “In compenso” la quota azionaria in mano ai Benetton dovrà rapidamente scendere dall’88% attuale al 10% (che non dà diritto a un posto nel cda), al cui posto subentrerà prendendo il 51% Cassa Depositi e Prestiti, una società per azioni, controllata per circa l’83% da parte Ministero dell’economia e delle finanze e per circa il 16% da diverse fondazioni bancarie.

Sembra una semi-nazionalizzazione, ma non lo è affatto.

Il piano messo a punto dal ministro piddino Gualtieri prevede infatti la quotazione in Borsa della nuova Aspi senza più i Benetton (sganciata dalla holding Atlantia), sotto forma di public company ad azionariato diffuso esposta – come tutte le società per azioni di questo tipo – a scalate messe in atto da qualsiasi investitore finanziario (anche dagli stessi Benetton, ovviamente sotto altra “ragione sociale”).

L’operazione dovrebbe concludersi nell’arco di un anno, con una serie di corollari da realizzare nel frattempo.Autostrade per esempio dovrà intanto dovrà tagliare le tariffe più di quanto fino ad ora proposto (il 5%) e accettare di ridurre ulteriormente l’indennizzo previsto in caso di revoca delle concessioni.

Più generica e indeterminata, invece, la possibilità di rivedere prima o poi le clausole riguardanti le ipotesi di revoca per inadempimenti gravi.

Suona quindi come una battuta inoffensiva la “minaccia” del governo, secondo cui se Aspi non ottempererà a queste condizioni – concordate con la società – scatterà la revoca della concessione. Anche perché, da qui a qualche mese, chissà quale governo ci sarà e come la penserà in materia di concessioni pubbliche.

Il pessimo compromesso, dunque, salva la faccia solo a chiacchiere ai partiti della maggioranza. Qui lo scontro tra Pd e renziani da un lato e grillini dall’altro è stato sicuramente acceso, con i primi impegnati a difendere gli interessi dei Benetton e secondi nel cercare di portare a casa qualcosa che somigliasse a una “punizione” per la famiglia del “golfino”, al solo scopo di non peerdere un altro pezzo rilevante della propria credibilità.

A rimetterci pochissimo sono proprio i Benetton, primi responsabili della strategia “industriale” basata su risparmio nella manutenzione, aumento continuo dei pedaggi e massimizzazione dei profitti che ha prodotto il crollo di Ponte Morandi e un’infinità di problemi su tutta la rete autostradale.


Le loro azioni verranno comprate da Cdp, probabilmente al valore di mercato al momento del passaggio di proprietà. E dunque senza quella svalutazione drastica che sarebbe derivata da una scelta più radicale da parte del governo. “I mercati” l’hanno capito così bene che il titolo Atlantia, stamattina in Borsa, è schizzato in alto del 29,4%.


Soprattutto, questo imbroglio consente di mantenere inalterata la “privatizzazione” della gestione di infrastrutture pubbliche, costruite con fondi statali e affidate a privati rapaci perché ne ricavino un ingiusto profitto.

Una revoca sarebbe suonata come una vera nazionalizzazione, come una minaccia agli altri gestori di concessioni pubbliche (da Gavio a Toto, ecc) e in definitiva in una radicale correzione di rotta rispetto alle politiche neoliberiste degli ultimi 30 anni, unitariamente perseguite da centrosinistra e centrodestra.

In definitiva, si tratta di un altro insulto alle 43 vittime della strage di Ponte Morandi, ai loro familiari, alle famiglie che hanno perso la casa a causa di crollo-demolizione-ricostruzione.

Il che dà effettivamente la misura delle “qualità morali” di questo governo e dei partiti che lo compongono, così come della cosiddetta “opposizione” di centrodestra (che voleva, senza nasconderlo neanche troppo, il mantenimento dello statu quo in mano ai Benetton, munifici finanziatori di tutti i partiti presenti in Parlamento).

P.s. L’argomento tirato fuori dai giornali padronali, per cui non si poteva revocare la concessione perché questo avrebbe comportato la perdita del posto di lavoro per migliaia di dipendenti di Aspi è semplicemente falso. Un falso per cui si sono spesi i migliori ideologi degli interessi privati – pensiamo per esempio a Ferruccio De Bortoli, venerato opinionista di via Solferino e dei “salotti buonissimi” – contando sull’ignoranza diffusa e il silenzio complice dei sindacati concertativi (CgilCislUil).

Persino nei passaggi di proprietà tra società private, infatti, è previsto il mantenimento dei posti di lavoro e dei contratti in essere (“clausola sociale”). Impegni che naturalmente quasi tutte le neo-aziende poi disattendono, ma che comunque sono obbligatori per legge.

Il concetto semplice da capire è infatti: se anche la concessione viene revocata, non è che tutto il lavoro intorno alle autostrade (caselli, incasso pedaggi, manutenzione ordinaria, gestione delle emergenze di traffico, funzioni amministrative, ecc) improvvisamente si ferma.

I dipendenti, nel passaggio societario, restano al loro posto e con i loro stipendi. Specie se a subentrare è lo Stato, anziché uno squalo privato.

E infatti, in tutto il pasticciare notturno, dei dipendenti non si è preoccupato nessuno. Dovranno preoccuparsi loro, come sempre, quando alla fine della temporanea presa di controllo pubblica, torneranno sotto il comando di uno squalo più furbo.

giovedì 16 luglio 2020

VOGLIONO IMPORCI LA SCHIAVITU'


Finanziamento illecito ai partiti, indagati la forzista Lara Comi ...
Non finisce di stupire in maniera decisamente negativa e reazionaria Marco Bonometti,ma da un nostalgico di Mvssolini che nel periodo repubblichino ha avuto molti seguaci nel bresciano,non ci si può aspettate null'altro.
Infatti il presidente di Confindustria Lombardia(madn marco-bonometti )vuole in poche parole la schiavitù sui posti di lavoro,con l'abolizione dei contratti nazionali e una flessibilità ancora maggiore sul posto di lavoro,che non si sa bene ancora cosa significhi visto che quella attuale è già schiavismo.
E già qui è un disastro,aggiungici poi la storia dei finanziamenti illeciti con la forzista Comi(ancora sotto indagine),le dichiarazioni sulle zone rosse lombarde e la ferrea volontà di fare quello che fece il dvce negli anni venti con i sindacati(abolirli,vedi anche:madn la-democrazia-negoziale-e-il.corporativismo )il quadro verso questo profittatore è completo.
E quello scritto nell'articolo di Contropiano(bonometti-il-nostalgico-del-duce-vuole-abolire-i-contratti )pone la questione sul come fermare questi idioti padroni e allo stesso tempo servitori del padronato che tagliano,col plauso dei politici,non solo i diritti dei lavoratori ma parallelamente le loro vite.

Bonometti, il nostalgico del duce, vuole abolire i contratti.

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo) 
Se si percorre l’account Facebook di Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, non si trova solo le pubblicità delle sue case di cura e della sua azienda metalmeccanica, inframmezzate ad eventi sportivi.

Non si incontrano solo le condivisioni dei post di Lara Comi, la parlamentare di Forza Italia, per la quale Bonometti è indagato dalla magistratura per finanziamento illecito.

Se si arriva al 26 aprile 2019 si vede come l’industriale bresciano abbia celebrato la Liberazione: ricordando “le vittime dei partigiani rossi”. Perché Marco Bonometti, a Brescia, era notoriamente conosciuto come fascista, con i busti di Mussolini negli uffici e con le messe del 28 aprile in suffragio del dittatore, alle quali gli organizzatori accreditavano la presenza assidua di “importanti imprenditori”.

Del resto a Brescia c’è stato un bel gruppo di padroni fascisti, che avevano le loro radici negli affari imprenditoriali con i nazisti e la repubblica di Salò e che negli anni Settanta furono finanziatori e sostenitori di organizzazioni neofasciste, anche implicate nella strage di piazza Loggia.

Successivamente le cose sono in parte cambiate, ma evidentemente qualcosa è rimasto. D’altra parte l’AIB, l’associazione degli industriali bresciani, non ha mai espresso pregiudiziali antifasciste, solo lo Statuto dei diritti dei lavoratori le ha sempre fatto orrore.

Così non c’è da stupirsi se Marco Bonometti sia diventato presidente di quell’associazione e poi da lì sia salito al vertice della Confindustria Lombardia. Da quella posizione è poi divenuto grande elettore di Bonomi, che peraltro non ha certo sentito problemi politici nel sostegno di Bonometti. Il quale però, o per consigli o per propria scelta, ora pare si proclami renziano, evidentemente considerando questa la collocazione meno faticosa per un padrone fascista.

Il presidente di Confindustria Lombardia ha dato prova di sé quando, durante il dilagare della pandemia, si è vantato di aver impedito le zone rosse a Bergamo e a Brescia e ha definito come irresponsabili gli scioperi dei lavoratori per la salute e la vita propria e delle proprie famiglie.

Oggi egli esprime quella “energia creativa degli imprenditori”, che secondo Bonomi dovrebbe ricevere dal governo tutti i soldi pubblici. Quegli imprenditori che più sono barbari, più sono esaltati da Salvini e che secondo il piddino Del Rio sarebbero i veri eroi della ripresa, altro che medici ed infermieri.

Ora questo “eroe creativo” ha chiesto di abolire i contratti nazionali e il decreto dignità e poi vorrebbe un’altra valanga di flessibilità, fermandosi, per ora, solo sulla soglia del ritorno ufficiale alla schiavitù; ma nessun commentatore ufficiale ha ricordato le sue simpatie fasciste. Del resto il bocconiano Bonomi, manager colto e senza fabbrica, aveva già proclamato le stesse rivendicazioni, ricevendo gli elogi bipartisan del palazzo e della grande stampa.

Come si sa, da più di trent’anni ogni distruzione di diritti dei lavoratori viene concordemente presentata come modernità e progresso. E guai a criticare quei padroni e quelle leggi che hanno trasformato il rapporto di lavoro in un sistema oppressivo, lesivo della libertà e della dignità. Chi oggi osi esprimere questi giudizi, viene subito tacciato di propagandare vecchie ideologie superate.

E invece è proprio il nostalgico Bonometti che propone di tornare al 1925, quando il suo idolo Mussolini sciolse i sindacati e le commissioni interne, vietò la libera contrattazione sindacale, impose ai lavoratori l’obbligo di iscriversi ai sindacati fascisti, dei quali facevano parte anche i padroni. E infatti il padrone bresciano chiede al governo di intervenire contro i contratti, esattamente come fece il duce.

Altro che uscire migliori dal Covid, Bonometti è un fascista che fa il padrone e oggi interpreta perfettamente una padronato fallimentare, che si prepara ai licenziamenti di massa e spera di recuperare affari e profitti facendo tornare il fascismo nelle fabbriche.

martedì 14 luglio 2020

LE PREVENZIONI POSTUME IN LOMBARDIA E I GUAI DI CHI DOVEVA DECIDERE

Non si è ancora placata la scandalosa notizia sui favori alla ditta del cognato di Fontana per la fornitura di camici poi"regalati"tardivamente(madn i-camici-del-clan-fontanauna-donazione tardiva? )dalla stessa società del marito della moglie del presidente della regione Lombardia,anzi le indagini vanno avanti spedite anche su altre partite di materiali vendute senza bando in regione.
Così come tardive sono state le premure,direi le prevenzioni postume adottate dalla regione e che da domani cambieranno nuovamente visti i relativi numeri abbassati di contagi e di vittime,col virus comunque ancora presente quando nel primo mese e non solo il duo della morte Fontana e Gallera provocarono migliaia di vittime solo in Lombardia(madn fontana-e-galleradai-tamponi-ai.tamponati(nel cervello e nell'anima) ).
E le indagini proseguono pure da questo lato visto che sono decine al giorno le denunce da parte dei familiari che hanno visto almeno un loro caro perire durante questa pandemia sia in ospedali che in casa che nelle case di riposo,sono ormai centinaia le richieste per quello che si profila essere un reato ascrivibile a crimine dell'umanità viste le omissioni e i numeri.
Nell'articolo di Contropiano(lombardia-fontana-e-gallera-ormai-annaspano )quindi un riassunto della vicenda della ditta Dama,quella dei camici,le nuove ipotesi di reato e tutte le testimonianze sulle morti nelle rsa(qui si parla del Trivulzio)che erano evitabili e lo si evince man mano che il tempo passa e le bocche parlano.

Lombardia: “crimini contro l’umanità” per Fontana e Gallera.

di  M. D. 
Ulteriori sviluppi, in Lombardia, della vicenda legata alla fornitura alla Regione di una grossa partita di camici, calzari e cuffie da parte della Dama, ditta di proprietà del cognato (e in parte della moglie) del presidente regionale Fontana.

Infatti, mentre il presidente Fontana continua a rifiutarsi di riferire sulla questione al Consiglio regionale, sono sempre più insistenti le voci che sostengono ci sia stato un “suggerimento” di Fontana al cognato nella trasformazione della fornitura da vendita a “donazione”, dopo che il Fatto Quotidiano e Report avevano cominciato a occuparsi del caso.

Inoltre, la Magistratura vuole capire perché, dopo che avvenne tale singolare trasformazione nella causale della fornitura, la ditta Dama interruppe le consegne. Tra l’altro, negli archivi della Regione si trova lo storico della proposta di vendita da parte di Andrea Dini, amministratore della Dama e cognato di Fontana e del successivo ordine da parte di Aria, agenzia regionale per gli acquisti, ma non risulta nemmeno iniziata una procedura di donazione. Infatti, fare una donazione a un ente pubblico come la Regione implica una serie di passaggi burocratici e amministrativi precisi di cui, al momento, non si trova alcuna traccia.

Nel frattempo, è giunta notizia che il Direttore Generale di Aria, Filippo Bongiovanni, indagato insieme a Dini, ha chiesto alla Regione di essere destinato ad altro incarico. In pratica, delle dimissioni, seppure formulate in modo inusuale, che sembrano annunciare una presa di distanza dell’alto funzionario dalla gestione della sanità lombarda.

Bongiovanni potrebbe essere interrogato dai magistrati milanesi anche sulla trasparenza di altri acquisti fatti da Aria, che durante l’emergenza Covid furono effettuati per un montante di miliardi e quasi tutti, data l’urgenza, senza bando di concorso. La Guardia di Finanza ha già acquisito un’ampia documentazione su tali acquisti durante la perquisizione effettuata presso la sede della regione Lombardia.

Acque sempre più agitate anche per l’assessore Gallera, ormai in palese difficoltà, vengono dalla tragica vicenda dei pazienti Covid positivi ricoverati nelle RSA. Infatti gli investigatori del nucleo di polizia economico finanziaria, durante una perquisizione al Pio Albergo Trivulzio, su ordine della Magistratura milanese, hanno raccolto documenti secondo cui tali pazienti non sarebbero stati 147, come sostiene Gallera, ma molti di più.

Il Pio Albergo Trivulzio, durante i mesi più duri della pandemia, operava da centro di smistamento dei pazienti che venivano dimessi dagli ospedali, perché ormai senza sintomi, ma ancora con carica virale, quindi potenzialmente contagiosi. Tali pazienti sarebbero stati almeno 7500, di cui 4700 positivi a bassa intensità e 2800 negativi (ma senza essere stati sottoposti alla prova del doppio tampone).

Resta da accertare quanti di questi pazienti siano stati effettivamente dirottati nelle RSA e in altre strutture sanitarie, ma è evidente che la cifra di soli 147 non è assolutamente credibile. Questo trasferimento, deciso con un’ordinanza regionale dell’8 marzo ha provocato la strage di anziani nelle RSA lombarde, poiché pazienti ancora contagiosi sono stati posti in strutture in cui si trovavano persone a rischio, evidentemente senza le tutele sanitarie opportune.

E’ normale che di fronte a tutto ciò aumenti l’inquietudine e l’insoddisfazione dei pazienti della vittime, che temono che tutto possa finire con inchieste addomesticate, come quella della Commissione Regionale sul Pio Albergo Trivulzio, sulla quale le famiglie dei deceduti hanno espresso il loro totale dissenso, precisando la loro solidarietà ai lavoratori e la critica alla gestione sanitaria regionale.

Anche per questo il Comitato “Noi denunceremo”, che raggruppa famiglie di deceduti della bergamasca, ha deciso di inoltrare una lettera alla Presidente della UE Von der Leyen e al Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, Robert Ragnar Spanò perché, sostengono, nella vicenda bergamasca e lombarda si potrebbero configurare reati ascrivibili a “crimini contro l’umanità”.

lunedì 13 luglio 2020

LA CRISI DEL LAVORO E LE DONNE

Questo periodo dove nonostante leggi facilmente aggirabili i licenziamenti proseguono e ritmo vertiginoso e i diritti dei lavoratori vengono slavati ed affossati dai padroni,i due articoli proposti entrambi da Infoaut(l-urlo-delle-donne-delle-pulizie e cameriere-in-rivolta-a-cala-gonone-sardegna )due brutte storie che riguardano la precarietà e la perdita del lavoro.
Con la crisi che c'era già sommata a quella derivante del coronavirus ecco che le donne hanno avuto a avranno le ripercussioni più serie,in perenne equilibrio tra il conciliare la vita familiare con quella operativa e discriminate sugli orari e sulle retribuzioni.
Il primo articolo parla delle lavoratrici delle pulizie,diventate indispensabili in questi mesi per via dell'igienizzazione e la sanificazione degli ambienti lavorativi e non,che lavorano con stipendi da fame e orari impossibili(per fare magari 5 ore sono impegnate fin prima dell'alba e ben dopo il tramonto nell'arco delle 24 ore),con un potere contrattuale pressoché nullo e non difeso dai sindacati confederali.
Il secondo parla di un singolo episodio che però ne riguarda molti simili in tutta Italia,si parla di un villaggio sardo dopo il cambio di gestione del resort sessanta donne tra cameriere e addette alle pulizie si sono ritrovate con un aumento di ore lavorative con meno salario,senza possibilità di replicare a questa vergognosa ingiustizia.
Queste situazioni sono all'ordine del giorno e condividerle e commentarle fa si che abbiano più visione e più possibilità di esserci un dibattito ed una lotta per poter far sì di cambiare la situazione in meglio,perché peggiorarla è davvero difficile.

“Non facciamoci più mettere i piedi in testa”. L'urlo delle donne delle pulizie.

Esce il quarto contributo della rubrica “il virus e la riproduzione sociale”. Qui di seguito condividiamo la trascrizione di uno degli interventi tenuti durante l'iniziativa telematica Jam the system, organizzata a giugno dalla rete Non una di Meno transterritoriale marche. Qui, come del resto in molti altri contributi, si fa leva sull'insopportabilità del lavoro multiservizi così com'è pensato, strutturato e vissuto dalle donne effettive. Si tracciano obiettivi e si raccontano esempi di lotte quotidiane contro la fatica di sentirsi “l'ultima ruota del carro”. Ma qui, nell'uso eccezionale della sanificazione nella gestione del coronavirus, si ribalta il concetto stesso di lavoro essenziale. Su chi vengono scaricati i costi di questa pulizia? Qual è il “nuovo valore” dei pulitori? Come guadagnano le multinazionali? Come si può spezzare il perverso ricatto che compromette salute, tempo, dignità in cambio di un misero stipendio?

Mi chiamo G., e sono un'operaia, ho sempre lavorato nel settore delle pulizie, ma l'ultimo lavoro che ho fatto fino a marzo era da badante, quando sono stata licenziata in piena pandemia in attesa di tampone.
Da anni con la rete Non Una di Meno Pisa abbiamo costruito un percorso di lotta contro le violenze anche nei posti di lavoro. Perchè la violenza è sistematica qui, per le donne. Se ti alzi alle 5 e sgobbi tutto il giorno, e nonostante questa degradazione e alla fatica del troppo lavoro, dei troppi problemi sul lavoro, non ce la fai mai a pagare le cose che ti servono.. come si chiama questa? In particolare questa violenza la combattiamo insieme alle lavoratrici delle pulizie delle grandi multinazionali che hanno in appalto il servizio di sanificazione e pulizia dell'ospedale di Cisanello di Pisa.

Da questo percorso abbiamo aggregato altre donne attorno ai temi della difesa dallo sfruttamento e dalla povertà, altre donne che subiscono la stessa condizione in altri settori sempre del multiservizi o affini. Ci siamo conosciute costruendo gli scioperi dell'8 marzo e stringendo relazioni che durano grazie agli spazi di lotta che abbiamo aperto.
Infatti, pur utilizzando lo strumento sindacale, non siamo un sindacato, ma un movimento che affronta i tanti aspetti della crisi della riproduzione sociale. Dalla lotta vittoriosa contro 80 licenziamenti di donne delle pulizie, abbiamo aperto diversi luoghi di confronto e d'inchiesta nell'ospedale. Abbiamo aperto spazi nei quartieri dove queste donne vivono e si “riproducono”, lottando contro la rapina degli affitti e la mancanza dei servizi. Cerchiamo di contaminarci con tutte le lotte contro la violenza della discriminazione.
Vogliamo fare i conti con i nostri limiti e con la grande esigenza di cambiare tutto per noi donne. E sappiamo che solo collegandoci tra di noi, solo studiando in profondità come ci sfrutta il sistema, ma studiando anche in profondità come già le persone lottano contro questo sistema, possiamo ribaltare il pregiudizio che ci opprime -che siamo deboli, che siamo sole, che siamo “poverine”, che siamo puttane, che abbiamo bisogno di un uomo e di un padrone – in una nuova forza capace di darci la libertà.

Il lavoro multiservizi nel covid.

Per entrare nel merito di questa discussione - il lavoro multiservizi al tempo della pandemia – quello che ho vissuto è che la gestione di questo virus è stata tutta scaricata sulle spalle e sulle teste delle lavoratrici. In particolare dentro il cosiddetto lavoro multiservizi c'è il lavoro di cura e riproduttivo, e le pulizie che sono state sempre denigrate e penalizzate, affidate a quelle che sono l'ultima ruota del carro, si sono ritrovate ad essere essenziali. In ogni attività sia lavorativa che sociale, il lavoro delle pulizie e di sanificazione è diventato indispensabile. Lo possiamo rinominare un “metalavoro”.
Questo per me vuol dire che tutti i disagi e i conflitti che c'erano prima del coronavirus adesso stanno esplodendo. Per questo mi sento in dovere di riportare questa testimonianza di una lavoratrice delle pulizie che con le sue parole di qualche tempo fa racconta al meglio quelle che sono le grandi problematiche che da adesso in poi non vogliamo più sopportare.

“Ciao sono una donna che lavora nelle pulizie dell’ospedale di cisanello con la multinazionale prima Sodexo ed ora Dussman. Oggi, la maggior parte delle donne si spacca la schiena nel lavoro di cura e nelle pulizie. In questa azienda dove lavoro siamo tantissime donne. Un gruppo di noi donne delle pulizie ha deciso di scioperare l’8 marzo perché subiamo tutti i giorni una doppia violenza. Una violenza data dal fatto che tante donne siamo sole, con figli a carico, percepiamo stipendi da fame, ci manca la libertà di poter fare tutto, ci mancano i soldi perché i redditi sono bassi e le spese da affrontare sono alte, ci manca la possibilità di poter vivere. L’altra è la violenza del lavoro e delle istituzioni che ci sfruttano per questa nostra presunta debolezza.
Noi donne siamo quelle che si svegliano la mattina al buio mentre tutti ancora dormono per andare a lavorare, siamo quelle che devono organizzare la vita dei propri figli subendo il fatto di lasciarli anche da soli o pregare amiche, parenti (se ci sono) perché nella maggior parte dei casi siamo sole. Siamo quelle che di volata facciamo un boccone da mangiare per la famiglia, si sistema la casa e si riparte su un altro turno (se abbiamo gli spezzati) oppure si corre al doppio lavoro perché prendiamo 6 euro l’ora e non riusciamo a coprire le spese. Tante di noi accarezzano i loro figli di notte, e vivono con i sensi di colpa per non riuscire a starci dietro...ecco ma di chi è la colpa di tutto ciò.
Di certo non la nostra. Abbiamo deciso di dire basta, di farci carico di tutte queste violenze... i responsabili ci sono. Per questo abbiamo deciso di far parte della rete non una di meno e organizzare lo sciopero dell’8 marzo. Da ottobre abbiamo aperto uno sportello, facendo compilare dei questionari, dove tantissime nostre colleghe sono venute ad esporre le loro problematiche e ci siamo resi conto che le problematiche sono le stesse. Nella costruzione di questo sciopero tante donne iniziano a prendere coraggio e iniziamo a non avere più paura...però si sa quando una donna decide di alzare la testa l’abitudine è quella di bastonarla, minacciarla, offenderla e farla sentire una nullità.
Il 16 febbraio un gruppo di noi donne lavoratrici, ha deciso di mettersi insieme e abbiamo chiamato un assemblea sindacale all’interno del nostro posto di lavoro. Quest’assemblea già dall’inizio è stata boicottata dai sindacati confederali: cgil, cisl, uil... seminando paura e terrore sulle donne che già subiscono sul posto di lavoro: sovraccarichi di lavoro, ritorsioni per chi non sta a testa bassa, cioè se una di noi pretende i propri diritti ti minacciano con le lettere disciplinari, o mandati a fare un lavoro più pesante, cambi turni dati solo ai privilegiati, e siccome tante di noi hanno contratti par time 3, 4, 5 ore, l’unica maniera per arrotondare è fare qualche ora di straordinario. Su queste ore si gioca il ricatto nei nostri confronti e creano la guerra e divisione fra operaie. Ma nonostante ciò l’assemblea è andata bene e siamo uscite lanciando lo stato di agitazione verso lo sciopero dell’ 8 marzo. Noi abbiamo il coraggio di dire la verità, la verità di chi ha deciso come me, di lottare perché prendo 800 euro di stipendio compreso gli assegni familiari ed ho da fare fronte a 600 euro di affitto. La maggior parte di noi è abbandonata, senza nessun ammortizzatore sociale, senza tutela sul posto di lavoro.
Queste aziende sono ricche e si stanno arricchendo ancora di più sulle nostre spalle, noi sappiamo che questo mal di lavoro compromette non solo i nostri stipendi e la nostra salute: è la pulizia dei reparti che è messa in grave pericolo. Chi ci rimette sono anche i pazienti.
Il nostro stato di agitazione prevede che dal giorno dopo dell’assemblea abbiamo iniziato a dire di no ed ha trovare la forza per migliorare le nostre vite rifiutandoci di accettare carichi di lavoro, minacce, ritorsioni, perché vogliamo lavorare con il sorriso, vogliamo il rispetto delle procedure giuste. Vogliamo i controlli e le verifiche dei lavori svolti come da capitolato.”

E' il nostro momento.

Se il covid ha esasperato le condizioni di vita e lavoro precedenti, oggi è necessario fare i conti con delle potenzialità e delle possibilità che la pandemia ci ha mostrato. Voglio fare due brevi esempi per ragionare su alcune proposte. Il primo riguarda una lavoratrice della Dussman delle pulizie dell'ospedale gli era stato ordinato dalla capoturno di andare a sanificare una stanza che risultava infetta dal covid. Questa lavoratrice era sprovvista di mascherina e dispositivi adeguati e si è rifiutata di svolgere quella mansione. Dopodichè il capo impianto della multinazionale gli ha detto “sei una buona a nulla” minacciandola di ritorsioni. Solo per aver preteso di lavorare in sicurezza. Sono seguite lettere disciplinari e cambi turno senza avviso, da orario fisso continuato a spezzato. Cioè vuol dire lavorare tutto il giorno e vivere in macchina. La lavoratrice insieme ad altre stanno reagendo e si stanno organizzando per avere la giusta formazione e far cancellare queste ritorsioni che oramai sono la regola dell'organizzazione di questo lavoro. Questo ci fa dire che il lavoro multiservizi, sottopagato, sfruttato, e usurante non deve più esistere in questo modo. Bisogna ribellarci alla stessa esistenza di questo lavoro per così com'è fatto e pensato. In particolare la discriminazione che subiamo essendo in appalto. Questa discriminazione è violenza e si attua grazie al risparmio su tutto quello di cui chi lavora e vive ha bisogno, mascherine, tamponi, scarpe giuste, stipendi, prodotti giusti, formazione, indennità, panni, guanti, tempi e ritmi di lavoro, contratti part time. E' questo risparmio che fa arricchire le multinazionali in combutta con le committenti. E' questo risparmio che rende il lavoro una nocività per noi.
Perchè il contratto multiservizi è scaduto e non lo rinnovano? Perchè c'è uno scontro sulle “malattie”. Perchè le donne hanno bisogno di riposo, di malattie professionali riconosciute, di non ammalarsi più per via di queste procedure lavorative usuranti.

Il secondo esempio riguarda un'altra lavoratrice delle pulizie, mamma di due figli che si è ribellata al marito dopo anni di violenze. Questa donna appena prima del lockdown è scappata di casa per salvarsi dalle botte del marito, con tanto di codice rosa e denunce e inserimento nei percorsi antiviolenza. Il lavoro usurante del multiservizi non gli ha permesso di liberarsi dalla costrizione del marito, di andare a vivere da sola in affitto. 1000 euro di stipendio non bastano per essere indipendenti per una donna di 50 anni. È scappata di casa rifugiandosi da amiche, compagne, sorelle e colleghe. Non poteva riprendersi le sue cose, e durante la quarantena è rimasta sprovvista dei suoi effetti personali perchè il marito non gli permetteva di riprendersele, continuando a minacciarla. Per questo si è creata una rete di donne che l'hanno sostenuta e accompagnata, a fine quarantena, sotto la sua casa, e noncurante delle provocazioni del marito violento, l'obiettivo è stato raggiunto.

Tutto questo per dire che quando parliamo di doppia violenza del lavoro riproduttivo parliamo ora più che mai di un legame fortissimo soprattutto nelle resistenze e nelle lotte tra i diversi ambiti di sfruttamento. La liberazione è quindi da pensare complessivamente in tutto il territorio dove viviamo e lavoriamo.

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Cameriere in rivolta a Cala Gonone, Sardegna.

Cala Gonone, mare cristallino, uno dei centri del turismo della Sardegna. La pandemia ha fatto diminuire gli incassi del turismo isolano, per colmare le perdite l’opzione conclamata è rifarsi sulle lavoratrici: più lavoro, meno salario. 

Sono queste le condizioni del ricatto rifiutato da sessanta cameriere del resort Villaggio Palmasera di Cala Gonone. “Si sa che il lavoro alle camere non è una passeggiata, è un lavoro di fatica fisica, ma noi entravamo col sorriso e ne uscivamo stanche, ma sempre col sorriso”: dopo aver lavorato vent’anni con professionalità vedersi sbattere in faccia questa umiliazione è troppo: rifiutano il contratto. 

Vengono assunte altre donne, il mercato cannibalistico del lavoro turistico non tollera tempi morti. Le donne hanno allora deciso di rompere il silenzio e raccontare tutto tramite i social media: 

“A ottobre dell'anno scorso veniamo a sapere che il "nostro" villaggio avrebbe cambiato gestione e pur con tanti dubbi abbiamo provato ad essere ottimiste, mille domande e poche certezze.... Riconferma del gruppo dei piani e poco dopo l'arrivo del covid... Mesi di attesa e speranze, fino ai primi di giugno. La bella notizia è che il villaggio riapre, la brutta notizia è che le condizioni contrattuali sono cambiate. Più ore meno paga, orario full time per tutte, senza possibilità di controbattere... Prendere o lasciare!! Molte di noi davanti a questo muro, dove è chiaro che il lavoratore è considerato alla stregua di una macchina, hanno subito rifiutato. A Queste Condizioni No!! C'è stato però un gruppo capitanato dalla nostra governante che con le più tenaci e più temerarie di noi, hanno voluto provare forti della loro professionalità. Dopo circa 12 giorni di lavoro svolto con la giusta dedizione e cura di sempre, hanno deciso di dare tutte insieme le dimissioni perché le condizioni contrattuali non venivano rispettate”. 

La lotta e la denuncia delle donne dorgalesi è sostenuta da tutta la comunità. Di seguito riportiamo in lingua e in traduzione la poesia Liberas, di Vincenzo Pira, dedicata alla lotta di queste donne.

Lìberas de Vincenzo Pira

Sa maleitta mala!

Ite cheris dae nois?

A nos imbrenucare

po suzicare unu mere?

O si nono a linghere isterzos anzenos

ispettande una carche a culu

po podere narrere ca amus vintu?

Nossinnore.

Non cherimus tropeas.

Cherimus dromire liberas

cantare grobes in ue brullas e inzurzas

non pedint permissu a nessunu.

Travallare, iscriere e cantare

chene promintas de premios

tattandenos solu de libertade

e de ganas de 'olare.


Libere

Maledetta sorte!

Che cosa volete da noi?

Che ci inginocchiamo

per ingraziarci un padrone?

O altrimenti che lecchiamo le ciotole altrui

aspettando un calcio in culo

per poter dire che abbiamo vinto?

Nossignore.

Non vogliamo catene.

Vogliamo dormire libere

cantare canzoni nelle quali scherzi e ingiurie

non chiedono permesso a nessuno.

Lavorare, scrivere e cantare

senza promesse di premi

trattando solo di libertà

e voglia di volare.