giovedì 30 aprile 2015

RISOTTO NERO CON LE OLIVE AL PROFUMO DI MARE

Oggi la proposta è un bel risotto che profuma di mare e grazie al sapore deciso delle olive verdi e un tocco di piccante fornito dal peperoncino dona al piatto un insieme di aromi e fragranze che si fanno desiderare,ed anche l'appuntamento con la bocca è squisito.
Ci sono molti ingredienti in questo piatto,quasi tutti però in scatola o surgelati e ovviamente chi ha la fortuna di abitare vicino al mare oppure ha la possibilità di acquistare gli ingredienti in pescheria freschi potrà assaggiare un risotto molto più gustoso,ma anche con gli ingredienti utilizzati il risultato è buono.
Non conosco i nomi dei peperoncini usati e che arrivano direttamente dall'orto dei miei genitori,uno comunque è a forma di cornetto e non è particolarmente piccante mentre l'altro è più piccolo ed ha una forma tondeggiante e lo chiamo impazzito perché è di coloro rosso acceso e solo appoggiando la lingua al coltello che li taglia ti aumenta il battito.
Ingredienti:
-riso
-gamberetti
-surimi
-olive verdi
-sgombri
-acciughe sott'olio
-nero di seppia
-olio extravergine di oliva
-burro
-doppio concentrato di pomodoro
-brodo granulare pesce
-cipolla
-porro
-aglio
-scalogno
-peperoncino cornetto
-peperoncino impazzito
-vino bianco
Veniamo al procedimento:mentre in poco burro e in tanto olio soffriggiamo porro,cipolla,aglio e scalogno,in un padellino con poco più di un litro d'acqua sciogliamo il brodo granulare all'aroma di pesce con cui assieme al vino bianco bagneremo il sughetto.
Aggiunti tritati i due peperoncini si possono mettere dapprima gli sgombri e le olive verdi che necessitano di più cottura e poi le acciughe,quindi il riso e dopo aver alzato la fiamma facendolo quasi attaccare al fondo della pentola si fa cuocere a fuoco lento per una quindicina abbondante di minuti,unendo il surimi al sapore di granchio a liste verticali ed i gamberetti puliti in precedenza.
Verso fine cottura possiamo unire il doppio concentrato di pomodoro,giusto un cucchiaio,ed una bustina di nero di seppia che amalgameremo per qualche istante in modo da distribuire meglio il contenuto per tutto il risotto:non ci resta che servire e mangiare.

QUARANT'ANNI DI VIETNAM LIBERO


Cade oggi il quarantesimo anno della vittoria del popolo vietnamita contro l'invasione Usa che ha provocato una guerra lunga quindici anni di cui praticamente sappiamo tutto vista la saturazione di film e documentari dedicatagli.
Ma questa non è stata solo che l'ultimo tentativo di invasione della terra dell'estremo oriente che nel corso degli anni aveva subìto occupazioni cinesi,giapponesi e francesi,il Vietnam ha una storia culturale millenaria e fondamentalmente è una terra pacifica ma che,forse soprattutto per questo motivo,è sempre stata al giogo di altre potenze.
L'articolo di Contropiano(http://contropiano.org/cultura/item/30456-vietnam-quarant-anni-fa-la-liberazione-di-Saigon )parla di questo anniversario sottolineando il fatto di come quella liberazione non portò ad esiti poi tragici come spesso accade ma portò alla riunificazione di due Stati senza spargimento di sangue appena un anno dopo.

Vietnam:quarant'anni fa la liberazione di Saigon.

titolava a tutta pagina l'Unità del 1 Maggio 1975, il giorno successivo alla liberazione di Saigon da parte del FNL, quaranta anni fa. Sei anni dopo la scomparsa del padre del nord Viet Nam indipendente, il presidente Ho Chi Minh, il paese tornava unito e indipendente.

chiosava nei giorni scorsi Repubblica, nel proporre il ricordo dell'allora corrispondente dalla ex capitale sud vietnamita Bernardo Valli. Perché, si sa, i comunisti entrano sempre nelle città coi carri armati a “soffocare nel sangue la libertà e la democrazia”. Peccato per Repubblica che, quella volta, la vittoria sia stata conquistata in modo incruento, senza guerra civile, perché, come scriveva un anno dopo Nguyen Kach Vien, direttore della rivista Etudes Vietnamiennes, .

Con l'ingresso dei partigiani vietnamiti a Saigon – oggi Ho Chi Minh -, la fuga precipitosa dell'ambasciatore USA Graham Martin e degli esponenti vietnamiti più compromessi, con gli elicotteri che facevano la spola tra il tetto dell'ambasciata e le portaerei statunitensi, si celebrava una delle più importanti vittorie, se non la più importante, riportata da un popolo, guidato da un partito comunista, nei confronti della prima potenza imperialista mondiale. Gli Stati Uniti, sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, avevano dato man forte ai colonialisti francesi, insediatisi nella regione fin dalla metà del XIX secolo e nel 1954, dopo la sconfitta di questi a Dien Bien Phu, avevano preso il loro posto, intensificando poi via via la propria presenza economica e militare, soprattutto a partire dal 1962.

Una grande vittoria internazionalista, scriveva ancora l'Unità; .

Probabilmente non scriverebbe le stesse cose oggi l'Unità; non lo farebbe in ogni caso, anche se fosse ancora in edicola e la sua fede nel corso revisionista, prima e nella democristianizzazione europeista, dopo, non fosse stata ripagata con gli interessi. Ma la fine di quel giornale ha sicuramente molto a che vedere anche con la carenza, oggi, di quelle condizioni che avevano permesso di giungere alla data storica del 30 aprile 1975.

E le condizioni erano date dal fatto che, per dirla con quanto scritto nel 1966 da uno dei maggiori e diretti protagonisti di quella lotta, il generale Vo Nguyen Giap, .

Per quanto sia tuttora necessario e importante riflettere sulle vie di quello “sviluppo del sistema socialista mondiale”, di cui parlava Giap 50 anni fa, è un fatto che l'esistenza di quel sistema costituisse allora uno dei fattori principali della situazione mondiale, di cui l'imperialismo era costretto a tener conto. Questa era una delle condizioni che avrebbero permesso ai combattenti vietnamiti di giungere alla vittoria dell'aprile 1975 sulle , indicati da Giap quali alleati collusi, e al tempo stesso strumenti, della dominazione coniale francese, prima e neocoloniale americana, dopo, nel sud Viet Nam.

La dominazione americana nel sud del paese si distingueva sensibilmente dalla secolare oppressione francese sull'intero Viet Nam, terminata con la clamorosa vittoria vietnamita di Dien Bien Phu – tra i cui fattori principali, lo stesso Giap sottolineava la riforma agraria sostenuta dal Partito comunista, che aveva assicurato l'appoggio delle masse contadine - e la divisione della nazione lungo il 17° parallelo. Gli americani sostituivano i vecchi governatori e funzionari stranieri dell'epoca coloniale, con esponenti reazionari locali (il dittatore Diem, finché non fu assassinato con il beneplacito statunitense e rimpiazzato con Van Thieu) garantendo così la formale indipendenza nazionale, ma assicurandosi la supremazia economica e finanziaria e dettando le linee di politica estera e militare. “Se si confronta la strategia coloniale di vecchio tipo con quella neocoloniale della metà del XX secolo” scriveva nel 1982 la rivista Etudes Vietnamiennes, vediamo che “l'era della supremazia politica e ideologica assoluta del sistema imperialista-capitalista è tramontata. Esso si trova piuttosto in condizioni di inferiorità. Per contro, sul piano materiale, tecnico, finanziario, l'imperialismo attuale dispone di mezzi ben più consistenti che non 50 anni fa. Si può dire che il neocolonialismo sia una strategia che si è sviluppata in una posizione di inferiorità politica e ideologica, ma di potenza materiale accresciuta. I paesi dipendenti costituiscono per le potenze imperialiste una autentica “banlieue”, una periferia in cui sono concentrate le attività poco qualificate che esigono una mano d'opera numerosa e industrie inquinanti. Il centro fornisce l'impulso tecnologico, gli investimenti, la direzione finanziaria e raccoglie i principali benefici”.

Ma l'assalto americano al sudest asiatico, oltre gli aspetti neocoloniali, di penetrazione economica e invasione culturale, ha avuto soprattutto carattere di aperta guerra d'aggressione: il più cruento, il più massiccio, il più distruttivo e il più prolungato intervento bellico USA dopo la seconda guerra mondiale. Dalla “guerra speciale” - con l'urbanizzazione forzata di 10 milioni di contadini e la creazione dei cosiddetti “villaggi speciali” - fatta combattere dalle truppe fantoccio sudvietnamite contro i partigiani del Vietcong; alla “guerra locale”, che arrivò a impegnare quasi 700.000 militari statunitensi; al progressivo ritiro delle truppe USA e i sempre più forti e spietati bombardamenti dei B52 sulle campagne del sud e sulle città del nord Viet Nam e su Laos e Cambogia. A quella guerra d'aggressione, in cui le truppe di terra americane si abbandonavano quasi quotidianamente a pratiche degne delle più malvagie stragi naziste (prigionieri torturati a morte, affogati o gettati dagli elicotteri; civili feriti e finiti a colpi di baionetta; interi villaggi incendiati e rasi al suolo a colpi di mortaio, insieme ai loro abitanti, di cui restavano solo pezzi di carne; massacri in massa di bambini, donne e vecchi: valga per tutte, la strage di Son my) gli strati popolari e il partito comunista seppero contrapporre una resistenza che, sostenuta dalla stragrande maggioranza della popolazione, sfociò infine nella completa vittoria. “La resistenza popolare al regime americano-diemista ha seguito così il processo classico della guerra di popolo: è iniziata nei primi cinque anni come una lotta politica di massa multiforme e articolata; a poco a poco dalle masse popolari sono poi sorti gruppi armati di autodifesa che sono cresciuti fino a costituire i primi nuclei di un esercito autenticamente popolare” scriveva nel 1966 Nguyen Khac Vien a proposito della resistenza nel sud Viet Nam.
Una resistenza popolare in grado di assestare colpi sempre più duri all'esercito statunitense (in quel tempo ancora formato in gran parte di giovani di leva), tanto da far decidere Washington al graduale disimpegno terrestre e al corrispondente incremento dell'aggressione aeronavale. Le incursioni aeree americane – 15 milioni di tonnellate di bombe, tra la presidenza Kennedy e quella di Nixon – sull'intero territorio del Viet Nam, tra bombardamenti a tappeto e in picchiata, uso di napalm e defolianti furono quattro volte superiori a quelle della seconda guerra mondiale. Ma i combattenti vietnamiti impararono presto a rispondere ai piloti USA. Ne sa qualcosa uno degli attuali padrini dei golpisti di Kiev, il senatore John McCain, all'epoca aviatore di marina, abbattuto su Hanoi nel 1967 e rimasto prigioniero fino al 1973. A dispetto delle interessate biografie – il suo passo sicuro dei fotogrammi vietnamiti al momento della liberazione, ad Hanoi, lascia il posto a due solide stampelle nelle videoriprese USA, al suo arrivo nelle Filippine, a “dimostrazione” in Occidente della malvagità dei suoi carcerieri comunisti – lui e tanti altri piloti americani detenuti nel carcere di Hoa Lo venivano nutriti quotidianamente con pasti abbondanti, recapitati alla prigione di notte, affinché la popolazione vietnamita, che in quel periodo faceva la fame, non sapesse come se la passassero gli aviatori statunitensi nelle celle di quello che era chiamato lo “Hanoi Hilton”.

Ma, tra le condizioni che resero possibile la vittoria del 1975, insieme alla lotta di popolo, all'orientamento su una “guerra di lunga durata” - la sola tattica giusta nelle condizioni di enorme disparità di mezzi tra aggressore e aggredito – al sostegno politico, materiale e militare dei paesi socialisti, una parte significativa fu rappresentata anche dalle larghe mobilitazioni di massa internazionali (anche negli Stati Uniti) a sostegno della resistenza vietnamita e contro l'intervento nordamericano. In quegli anni, quando la solidarietà non semplicemente pacifista univa i popoli, anche al di là degli appelli, a volte solo formali, lanciati da una sinistra via via sempre più dimentica dell'internazionalismo, l'appoggio alla lotta del popolo vietnamita e al Viet Nam del nord socialista costituiva anche la manifestazione cosciente della necessità di contrastare sempre e ovunque l'imperialismo USA. In quegli anni, la lotta del Viet Nam era sentita come la punta di lancia della lotta generale dei popoli contro il capitalismo e l'imperialismo. La vittoria del Viet Nam fu sentita come la vittoria non solo del popolo vietnamita.

E in tale vittoria, un ruolo di primissimo piano fu rappresentato dal fattore “soggettivo”: dal Partito comunista del Viet Nam e dai suoi leader, a partire dal primo Presidente della Repubblica socialista del Viet Nam, Ho Chi Minh che, forti dell'esperienza e della preparazione della scuola dell'Internazionale comunista, erano riusciti a mobilitare concretamente su obiettivi locali e nazionali di massa, antireazionari e antiimperialisti, vasti strati di popolazione, avviandosi lungo l'indispensabile percorso della guerra di popolo,  in grado di opporsi e di sconfiggere l'aggressione di una tale potenza finanziaria, economica e militare. E lo strumento fondamentale era stato il Partito comunista che, come scriveva ancora Giap, aveva saputo .

E' così che, con buona pace di Repubblica, i “carri armati comunisti”, le batterie antiaeree, i fucili d'assalto, avevano già vinto prima ancora di liberare Saigon.


Fonti:
Nguyen Khac Vien “Sud-Vietnam au fil des années”. Éditions en langues Étrangères; Hanoi 1984

Vo Nguyen Giap “Écrits”. Hanoi 1977

“Il Vietnam vincerà” a cura di Enrica Collotti Pischel; Einaudi 1968

“Le néo-colonialisme américain au sud-Vietnam. Aspects socio-culturels” - Etudes Vietnamiennes, n.69 del 1982

mercoledì 29 aprile 2015

SFIDA ALLA DEMOCRAZIA

Breve commento alla richiesta di fiducia in Parlamento riguardo alla scelta della nuova legge elettorale che si basa sul sistema Italicum,già di per se uno scempio per la democrazia,aggravato dal fatto che si scavalchi tutto un iter burocratico che in Italia per motivi del genere si è visto solo in due casi:nel 1923 andato a buon fine,nel senso che si sono spalancate le porte al fascismo("legge Acerbo"),e nel 1953 su proposta di Scelba,(la"legge truffa")il Presidente della Repubblica Einaudi sciolse invece le camere.
E proprio il successore Mattarella tace e quindi nel sentito dire acconsente a questo obbrobrio legislativo contro la democrazia e degna di un regime dittatoriale instauratosi dal 2011 col governo Monti e susseguitosi con quello Letta per finire a questo di Renzi.

Un premier acerbo.


Se tutti, dentro un parlamento di soli “nominati”, gridano al fascismo allora è certo che ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso.
È più che evidente, da quando l'Italicum ha ricevuto la sua prima stesura per mano del prof. Roberto D'Alimonte, che si tratta di una legge elettorale fatta per eliminare le rappresentanze politiche “scomode” e i grumi di interessi particolari che hanno per decenni generato “cespugli” la cui unica funzione era quella di pesare marginalmente nella formazione di una maggioranza di governo. La sua incostituzionalità – in combinato disposto con l'abolizione del Senato elettivo - risiede nel rovesciare strutturalmente il rapporto tra Parlamento ed esecutivo, in violazione non solo della Carta del 1947, ma anche dei princìpi teorici del liberalismo borghese.
Basta questo per instaurare il fascismo? Solo se si vive con la testa voltata all'indietro e non si conoscono altre forme di autoritarismo capitalistico. Quanti ieri a Montecitorio evocavano Mussolini in realtà stavano protestando contro la propria espulsione dal novero dei papabili alle prossime legislature e ai futuri governi. Vale per i Brunetta come per i Bersani, o i più giovani – quindi più preoccupati - Fassina e Civati.
Ma è assolutamente vero che la decisione di imporre il voto di fiducia sulla legge elettorale è un atto costituente di un nuovo regime politico. Non a caso i due precedenti storici rappresentano altrettanti tentivi di instaurazione di un potere assoluto: quello, riuscito, con la legge Acerbo del 1923 (che dava al Partito Fascista una maggioranza parlamentare a prescindere) e qeullo – fallito – della “legge truffa” democristiana del 1953.
In entrambi i casi, bisogna però ricordare, a decidere del successo o del fallimento del progetto reazionario furono i rapporti politici tra le classi sociali, non i numeri in Parlamento. Nel '53 fu la fortissima opposizione popolare che impedì alla Dc (e i suoi alleati) di raccogliere nelle urne l'agognato 50% dei voti, decretando la morte preamatura di quella legge. Nel '23, invece, il movimento operaio era già stato spianato nelle strade e nelle sedi dalle squadracce fasciste, e nessuno riuscì a provocare mobilitazione popolare contro il regime nascente.
Oggi non ci sono, e non ci sono state, le squadracce del Pd renziano a svuotare sedi politiche e rappresentanza d'opposizione. Le istituzioni della rappresentanza politica – anche di quella “antagonista” - hanno smobilitato da sole, pur fingendo di darsi molto da fare per “rigenerarsi”.
Renzi arriva a tirare le fila di uno svuotamento già avvenuto nel corso degli ultimi 25 anni, durante tutto il percorso della cosiddetta “seconda Repubblica”. Mette in fila tutte le forzature contro la Costituzione (da quelle diessine sul Titolo V nel 2001 a quelle berlusconiane), utilizza nel più spregiudicato dei modi la demolizione culturale – ampiamente condivisa anche dai leader della cosiddetta “sinistra” - dei valori della società post-resistenziale e dei diritti, in nome del taglio della spesa pubblica e del “decisionismo” contrapposto alla “palude” generata dai compromessi.
Arriva quando è stato metabolizzato senza scandalo il fatto che il governo italiano potesse essere scelto dalla Troika – come avviene tranquillamente dal novembre 2011, con la miracolosa ascesa di Mario Monti – perché soltanto l'adesione completa alle indicazioni provenienti dalle “istituzioni sovranazionali” poteva garantire la sopravvivenza di un esecutivo. En passant, è quello che sta sperimentando la Grecia in questi mesi, con la Troika che esplicitamente parla della necessità che “Atene deve cambiare il governo”.
Come diceva Marchionne, rivendicandone il merito senza essere smentito, “Renzi è stato messo lì” da una cerchia non estesissima di poteri, tutti rigorosamente sovranazionali o addirittura “apolidi” (come il capitale finanziario), dopo una lunga e defatigante ricerca nel parco buoi della classe politica di questo paese, condotta con i criteri tipici della pubblicità teleisiva e dotandolo di una robusta squadra di manipolatori da social network.
Renzi, dunque, incarna un progetto politico chiaro, potente, indifferente agli spasmi del sistema passato che – anzi – è stato chiamato a distruggere. Le patetiche divisioni della minoranza bersaniana davanti al “voto di fiducia” ne sono l'ultima testimonianza prima della morte.
Tutti gli altri rappresentano grumi di interessi, non un progetto politico alternativo. Nel sistema dei trattati costitutivi dell'Unione Europea non ci possono essere progetti o programmi alternativi. E anche quando “disgraziatamente” emergono, come in Grecia, debbono essere ricondotti a forza entro i limiti dell'ordoliberalismo imperante in Europa. L'Unione Europea non è insomma “riformabile” perché non è stata costruita per rispondere a interessi popolari, ma unicamente al “funzionamento ottimale dei mercati”. Il solo evocare un referendum su cosa un governo nazionale dovrebbe fare – ancora una volta l'esecutivo Tsipras fa da esempio sperimentale – viene visto come “una minaccia” per l'ordine continentale.
Questo nuovo assetto istituzionale orientato dalla Troika e incarnato, in questo paese, da Renzi deve ancora venir battezzato con un nome approriato. Non è fascismo, ma probabilmente quancosa di peggio. Anche se ancora molto "acerbo".

martedì 28 aprile 2015

SALVINI MA VA A LAVORARE!

Non per dargli troppa visione e pubblicità,per questo bastano già pseudo programmi di pseudo giornalisti,ma essere contestato per tre volte in tre città differenti credo sia un record anche per un personaggio che attira fastidio come Salvini,che nel suo tour in giro per l'Italia viene accolto con slogan e manifestazioni di disgusto ovunque vada.
Ieri nelle Marche e precisamente ad Ancona,Porto Recanati e Macerata il leitmotiv è stato lo stesso con antirazzisti ma anche gente comune e con un filo di sale in zucca che hanno contestato colui che da difensore del popolo e del territorio padano ha ampliato le mire espansionistiche su tutto lo Stato italiano.
Perché anche il sud e Roma ladrona fanno comodo a questa merda che vuole sempre più elettorato non solo razzista ma anche nazifascista,perché al posto di starsene seduto all'Europarlamento a lavorare se ne va in giro scortato da guardie e celere a spese nostre.
E così sarà il suo accoglimento per i prossimi mesi in tutto il paese per questo politico che fa della provocazione e del razzismo il suo ideale di portare avanti un paese(vedi anche:http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2015/02/salvini-uomo-di-merda.html ),articolo preso da Infoaut.

#MaiConSalvini, 3 contestazioni in un giorno e cariche della polizia


Continua il tour pre-elettorale di Matteo Salvini che nella giornata di oggi ha raggiunto il record di contestazioni trovando presidi e manifestazioni di antirazzisti in tre città diverse delle Marche.
Abbiamo già raccontato le cariche della polizia di stamattina ad Ancona (vedi "Ad Ancona cariche contro gli antirazzisti") quindi riportiamo le cronache delle successive proteste a Porto Recanati e a Macerata.

A Porto Recanati il leader della Lega è arrivato con l'intenzione di "visitare" l'Hotel House, una struttura occupata da oltre 2000 persone, la maggior parte delle quali migranti, composta da 17 piani e 480 appartamenti.

L'opposizione delle realtà cittadine non si è fatta attendere e si è organizzata ad accoglierlo poiché già nella giornata di ieri il fascio-razzista Salvini aveva dichiarato che avrebbe voluto "radere al suolo" l'Hotel House, a suo dire ricettacolo di criminalità diffusa.

A sbarrargli la strada, nonostante la scorta della polizia, ha infatti trovato un cordone di migranti e antirazzisti che non si è fatto intimidire e gli ha materialmente impedito l'accesso alla struttura, costringendolo a lasciare la zona.
Sempre accompagnato e scortato da ingenti schieramenti di forze dell'ordine ha quindi proseguito verso Macerata dove ad attenderlo ha trovato alcune centinaia di antirazzisti che, con in testa gli striscioni "Mai con Salvini, Macerata non si Lega" e "Respingiamo Salvini e il razzismo", sono stati caricati dalla polizia dopo un lancio di uova.
Tra i manifestanti si contano almeno due feriti.
Non intimiditi da questo e cantando "Bella Ciao", la manifestazione è ripartita subendo altre cariche da parte della polizia, oramai guardia del corpo personale del leader della Lega e la contestazione è continuata fino al banchetto del partito, costringendolo anche in questo caso ad una rapida ripartenza.
Si conclude quindi in maniera poco dignitosa la campagna elettorale di Salvini nelle Marche, le cui realtà antirazziste sono riuscite a respingere le attenzioni non gradite di chi predica odio e cerca di strumentalizzare le difficoltà della gente.

lunedì 27 aprile 2015

GLI APPELLI INTERNAZIONALI PER LA LIBERAZIONE DI ARNALDO OTEGI

Sin dalla data dell'arresto del leader storico basco Arnaldo Otegi nel 2009(vedi:http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2009/10/ancora-arresti-in-euskal-herria.html )avvenuta per mano della magistratura speciale contro il terrorismo emanazione dei governi spagnoli susseguitesi nel corso degli anni(specificatamente il premier di allora era Zapatero),la campagna per la sua liberazione e quella di tutti i prigionieri politici baschi è stata sempre molto sentita e partecipata sia nei confini di Euskal Herria che in quelli dei paesi in solidarietà con loro.
Ultimamente gli appelli per la liberazione di Otegi,in passato portavoce di Batasuna,partito illegalizzato e sotto processo dell'Audiencia Nacional di Madrid e soprattutto del giudice Garzon,sono sempre più pressanti per poter venire fuori dalla situazione di stallo venuta a crearsi da quando l'organizzazione basca di Eta ha deciso di abbandonare le armi e perseguire i propri scopi col dialogo e con percorsi di pace.
Dialogo unilaterale in quanto il governo spagnolo non ha mai teso la mano verso questa apertura,che vede proprio in Arnaldo Otegi uno dei maggiori fautori:l'articolo preso dal"Fatto quotidiano"parla della situazione venuta a crearsi in Euskal Herria negli ultimi decenni fornendo links utili a chi vuole approfondire la materia(http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/22/arnaldo-otegi-liberazione-necessaria-per-la-soluzione-politica-del-conflitto-basco/1610914/#commenti-mobile ).




Paese basco: liberare Arnaldo Otegi per risolvere pacificamente i conflitti.


Ricordo che nel 1978 visitai per la prima volta la penisola iberica. Fu un viaggio bellissimo, in un Paese ancora per molti aspetti esotico, che si stava allora risvegliando alla democrazia e al rapporto con il resto d’Europa. Rimasi particolarmente colpito dal Paese Basco. Le fiestas che si svolgevano (era estate) erano ancora più affollate che altrove. A un certo punto la gente cantava una divertente filastrocca accompagnando il canto con il lancio di oggetti, in genere maglioncini o simili, per aria. Rievocavano in tal modo l’attentato a Carrero Blanco, l’ultimo dei governanti franchisti, fatto saltare in aria dall’Eta poco tempo prima con un’azione spettacolare raccontata in modo avvincente dal film Operazione Ogro di Gillo Pontecorvo.
I baschi sono un popolo di antica civiltà. Tra i pochi europei a non essere di origine indoeuropea. Probabilmente un popolo di insediamento ancora precedente che ha sempre avuto a cuore la sua autonomia, cultura e libertà. Tutte e tre vennero represse selvaggiamente dal franchismo, anche perché baschi erano stati fra i più fieri avversari di Franco durante la guerra civile, venendo puniti anche da bombardamenti genocidi, come quello attuato dalla Luftwaffe e dall’aviazione fascista italiana a Guernica, immortalato dal celebre quadro di Picasso.
Contro tale repressione venne organizzata una risposta anche armata con la formazione dell’Eta. Per una serie di motivi, molte delle promesse formulate al momento dell’instaurazione del regime democratico non vennero realizzate. Una parte dell’Eta decise la continuazione del conflitto. Più di recente, anche questa parte irriducibile ha ritenuto che non vi fossero più le condizioni per la continuazione della lotta armata. Questa decisione di abbandonare le armi e di concentrare le energie sullo scontro democratico costituisce un’occasione importante per l’insieme dello Stato spagnolo.
Al suo interno si agitano spinte all’autodeterminazione nazionale che non riguardano solo il Paese basco. In Catalogna, ad esempio, è in atto un dibattito analogo. A mio parere, finché la Spagna sarà governata da partiti in tutto e per tutto succubi delle richieste del capitale internazionale e delle oligarchie europee, come lo è il governo attuale, le spinte verso la secessione di comunità nazionali autonome e ben distinte sul piano storico, come appunto i baschi e i catalani ed anche altri, continueranno a moltiplicarsi. Ma questo fa parte di un dibattito estremamente complesso ed articolato rispetto al quale si vanno posizionando vecchie e nuove forze politiche statali e regionali.
Quello che è certo è che l’armamentario repressivo, fatto di tribunali speciali, come quello tuttora esistente, probabilmente la peggiore e più ingombrante scoria del franchismo, e di operazioni poliziesche nelle quali purtroppo non si disdegna l’uso della tortura, come pure l’arresto degli avvocati, quali da ultimo Jon Enparantza  ed Arantza Zulueta, in galera solo per aver esercitato la professione difendendo prigionieri politici, costituisce un anacronismo e una risposta sbagliata, specie di fronte alla menzionata decisione dell’Eta di abbandonare il terreno della lotta armata. Non sono mancati tentativi, per fortuna respinti, finora, dalla Corte suprema, di impedire la presentazione alle elezioni di forze politiche appartenenti alla sinistra nazionalista cosiddetta abertzale, che ricevono peraltro un consenso ampio e crescente in tutto il Paese basco.
Tale armamentario repressivo ed obsoleto andrebbe quindi definitivamente dismesso. In tutto il mondo, dalla Colombia alla Turchia, forze che si sono dedicate per molti decenni alla lotta armata, dalle Farc al Pkk, cercano oggi, mediante negoziati con i governi, di porre fine ai conflitti armati e profondere le loro molteplici energie sul piano della lotta democratica di massa. Sarebbe paradossale se ciò non potesse avvenire anche in Europa, che si considera all’avanguardia della democrazia.
In questo quadro va considerata particolarmente sbagliata la decisione del governo spagnolo di arrestare Arnaldo Otegi, leader storico dell’indipedentismo basco di sinistra, in carcere dal 2009 nonostante fosse il principale promotore del passaggio al dialogo e dell’abbandono delle armi e condannato a ben sei anni e mezzo di carcere per aver militato nel partito Batasuna, che era stato messo al bando in modo giuridicamente ben discutibile. La Dichiarazione che ne chiede la liberazione si conclude facendo riferimento ai valori della giustizia e della pace e a una soluzione senza vinti né vincitori. Valori e concetti importanti oggi più che mai per l’Europa nel suo complesso.

venerdì 24 aprile 2015

LA FESTA!

Domani ricorrerà la data più importante del mio calendario annuale perché la Festa della Liberazione dalla dittatura nazifascista è sempre attuale e mai retorica,come disse la signora Cervi"Nessuna conquista è per sempre:c’è sempre qualcuno che è interessato a toglierla.Per cui resistere è,non solo un dovere,ma è anche una necessità dei giovani d’oggi, altrimenti non si va avanti."
E'basilare far comprendere ai giovani che la lotta continua contro questi vermi sia si facciano chiamare fascisti o reazionari o leghisti che intanto è la stessa solfa di persone,le più squallide,le più infide.
Il 25 aprile dev'essere festa ma anche riflessione sulle migliaia di partigiani morti per la libertà,dev'essere momento di riaffermare che si onorano e glorificano soltanto le vittime di chi ha combattuto i fascisti ed i nazisti e non i repubblichini che hanno collaborato e ucciso in nome del nemico tedesco e tante volte anche per la loro sete di sangue.
L'altra sera guardando su Iris(Mediaset)la rassegna di una settimana con dei notevoli film sulla guerra e sulla Resistenza poco prima della proiezione del film"Il partigiano Johnny"ecco che spunta fuori  a presentare la pellicola Giampaolo Pansa,nemico dei comunisti e dei partigiani,che afferma che l'Italia è stata liberata solo dalle forze alleate e non dai combattenti ribelli che hanno patito freddo e fame sui monti del centro e nel nord Italia.
Ha aggiunto anche quello di cui accennavo sopra,che bisogna onorare anche i morti dei militari dell'esercito della Repubblica di Salò,che dopo l'otto settembre del 1943 hanno perseverato nel proseguire la strada verso il decadimento italiano che stiamo pagando ancora a distanza di settant'anni.
E non dimentichiamoci che il suo pensiero è anche quello di troppi appartenenti alla sinistra italiana,mi ricordo a Casa Cervi qualche anno fa il giornalista Rai Corradino Mineo dal palco della festa parificare le vittime partigiane e repubblichine,voleva paragonare il sangue versato dai liberatori dell'Italia con quello degli oppressori.
Per tutti quelli che la pensano così provo una gran pena,e per i fascisti che in questi giorni si rintanano nelle loro fogne ancor più che nel resto dell'anno non provo nessun sentimento e nessuna emozione,l'odio per loro magari si risveglierà più avanti perché domani è La Festa. 
L'articolo qui sotto è di Militant Blog(http://www.militant-blog.org/?p=11873 )e parla della festa a Roma cui ho preso spunto condividendo il loro articolo,poi vorrei aggiungere il sito di Casa Cervi riguardo la festa a Campegine(http://www.istitutocervi.it/2015/02/24/aspettando-il-25-aprile-a-casa-cervi/ )con ospiti come la presidente della Camera Laura Boldrini,il Presidente del Parlamento europeo Maritin Schulz,Graca Machel(la vedova di Nelson Mandela),l'europarlamentare ed ex ministo Cecile Kyenge,oltre ai gruppi dei Modena City Ramblers e i Blue Beaters.
Altro link riguarda la Festa a Praticello di Gattatico presso l'Arci locale dove nel pomeriggio suoneranno i Gang(http://www.the-gang.it/wordpress/2015/03/25-04-2015-canta-resistenza-praticello-di-gattatico-re/ ):comunque domani in ogni città ci sarà un ricordo e gesti e pranzi,anche piccoli,che riguarderanno il giorno della Liberazione.

Achtung Banditen 2015, zona infestata da partigiani.

Perché essere antifascisti? Oggi a 70 anni da quel lontano 25 aprile del ’45 la domanda sembrerebbe pertinente. Potremmo rispondere cavandocela con il richiamo ai partigiani, alla guerra di liberazione. Oppure potremmo parlare delle stragi degli anni 70, delle bombe nelle piazze e nelle stazioni, dei compagni assassinati sotto casa. Sicuramente è anche per questo che siamo antifascisti, ma la memoria non è la sola né può essere l’unica ragione per spiegare una scelta di campo netta e irreversibile. L’antifascismo però non è ricordo, liturgia o vuota retorica, è soprattutto lotta perché i fascisti, proprio come le guardie, i magistrati o gli altri apparati dello Stato non sono altro che uno strumento utilizzato dalla classe dominante che nei quartieri e nelle curve si atteggiano a ribelli, ma che nei momenti decisivi ritrovi sempre dalla parte del potere costituito. Dall’altra parte della barricata. In un momento storico come questo, in assenza di un movimento anticapitalista forte capace di sfidare la crisi e i diktat dell’Unione Europea, il fascismo e la sua demagogia in tutta Europa strisciano anche nei quartieri delle masse popolari arrivando a contendere apertamente quello che una volta sarebbe stato il nostro blocco sociale di riferimento. Diventa così necessario tornare ad essere presenti là dove sta la nostra classe e riprendersi agibilità, egemonia, spazio politico.
Perché un festival? L’idea dell’antifastival, ormai alla sua terza edizione, nasce da una duplice necessità. La prima è che, soprattutto all’interno di questa nuova fase repressiva, le spese legali si fanno sempre più ingenti sia per pagare il lavoro dei nostri avvocati sia per fare fronte alle continue ammende che ci vengono richieste nella nostra attività politica. Da buoni atei non abbiamo santi in paradiso, ce lo siamo scelto. I nostri, già bassi, salari a malapena riescono a farci arrivare alla fine del mese e continuando di questo passo la semplice militanza e attività politica rischia di diventare un privilegio di pochi. Ovviamente questo non ci ferma e continueremo a fare politica come l’abbiamo sempre fatta, ma se è vero che la lotta paga è altrettanto vero che la lotta si paga e bisogna attrezzarsi di conseguenza. La seconda necessità è quella di ricostruire un immaginario antifascista condiviso. Se il movimento di classe arranca e soffre tra le pieghe della società e delle sue trasformazioni, un’altra delle cose importanti da fare ci sembra essere quella di capire perché sia scomparso dal nostro orizzonte politico un immaginario capace di tenerci uniti nonostante le mille piccole differenze che contraddistinguono le formazioni politiche della sinistra rivoluzionaria. Come fare per ritrovarlo, per coltivare ancora una visione comune delle cose, dei nostri obiettivi. Come ridarci degli obiettivi di lungo periodo che ci consentano anche una più sensata interpretazione di tutto ciò che succede sotto il cielo della politica, e che evidentemente non abbiamo più gli strumenti per capire. In questo campo la musica ribelle, come la letteratura, l’immagine o l’approfondimento teorico, può dare un contributo fondamentale.
Roma, zona infestata da partigiani.
manifesto-25aprile-casacervi

giovedì 23 aprile 2015

PASTA CON CHIODINI E GAMBERETTI

Dopo mesi dovuti a problemi tecnici con le foto ecco una ricetta che unisce i sapori del mare con quello dei monti,un binomio sia nella cucina che nella vita perfetto,preferendo personalmente le medie ed alte vette ma apprezzando i doni che le acque salate ci offrono.
Protagonisti principali di questo sugo sono i funghi chiodini raccolti a volte con sofferenza dovuta a rovi,freddo,ortiche e cadute nei fossi(ma anche questo è il bello dell'andare a funghi)e i gamberetti procurati con più facilità al supermercato.
Piatto semplice da preparare,se non si ha la fortuna e la possibilità di raccogliere i funghi lungo le rive ed i terreni,anche se io dico di andare a caccia,si possono tranquillamente acquistarli e usarne anche di altri tipi.
Ingredienti:
-funghi chiodini freschi
-gamberetti
-olio extravergine d'oliva
-burro
-vino nero
-vino bianco
-brodo granulare pesce
-zenzero
-spezie miste(coriandoli,semi carvi,cannella,noce moscata,chiodi di garofano e anice stellato,tutti in polvere)
-curry
-dado ai funghi porcini
-cipolla
-scalogno
-aglio
Mentre cominciamo a rosolare le cipolle e lo scalogno tagliati a fette grosse e l'aglio sminuzzato finemente nell'olio e nel burro,a parte in un pentolino pieno d'acqua si possono sciogliere il dado ai funghi e il brodo granulare di pesce per poi sfumare assieme al vino nero e quello bianco ed aggiungere al sugo durante la cottura.
Consiglio di mettere fin da subito le spezie miste,lo zenzero ed il curry,e quando le cipolle e lo scalogno sono di una consistenza morbida si possono accorpare i funghi chiodini puliti in precedenza e sbollentati.
Continuando ad aggiungere il brodo misto di mare e monti e parallelamente avendo la premura di ricordarsi di cuocere la pasta,a metà cottura si possono unire i gamberetti che non devono rimanere molto sul fuoco prima che possano diventare stopposi,e direi quindi ancora massimo dieci minuti ed il sugo è pronto per sposare felicemente la pasta,senza pensare alla legge passata oggi dei sei mesi per poter divorziare,questa è un'unione per tutta la vita:-)

EXPO,LAVORO E VOLONTARIATO

Il contributo odierno parla,a pochi giorni dall'inizio di Milano Expo 2015,del lavoro che verrà prestato per l'evento e per la difficoltà di reperire giovani che non cadono fortunatamente per loro nei tranelli di quello che sembra più una richiesta di volontariato piuttosto che di una professionalità.
L'Italia è un paese che dal punto di vista del volontariato soprattutto nel sociale non ha nulla d'invidiare a nessuno al mondo,centinaia di migliaia di persone che offrono il loro tempo e le proprie qualifiche per i più svariati motivi,e che comunque sono gesti ed esperienze gratificanti e per l'appunto volontari.
Ma quando dietro a facili promesse di lavoro si celano contratti truffaldini,che sono tutti incentrati sulle regole del job act,non è più solo una scelta ma un obbligo,uno sfruttamento delle proprie capacità e del proprio tempo.
Le grandi menti e i padroni che sono nascosti dietro a Expo non devono comunque preoccuparsi,ci saranno sempre persone vicine alla canna del gas che per pochi Euro si sobbarcheranno l'onere ma non l'onore di poter prestare servizio all'esposizione milanese proprio per un pezzo di pane.
Il volontariato dev'essere una scelta,il lavoro dev'essere un diritto e vado oltre:sicuri di voler organizzare anche le Olimpiadi di Roma nel 2024 con tutto quello che abbiamo visto nel corso degli ultimi decenni?
Articolo preso da Infoaut.


Modello Expo: ci vogliono schiavi e dicono che siamo viziati.


Oggi il Corriere della Sera ha dato l'ennesima notizia sui problemi di Expo 2015, a soli 7 giorni dalla sua inaugurazione ufficiale. Questa volta non si tratta di corruzione, ritardi nelle costruzioni o morti sul lavoro. A vederla da certe angolazioni è addirittura una notizia che rincuora: per quanto la crisi morda i giovani di questo paese non sono ancora completamente disposti a fare da zerbini per gli organizzatori del grande evento.

Infatti il giornale lamenta la difficoltà avuta dagli organizzatori del grande evento a trovare giovani disposti a lavorare negli stand per 1300 euro al mese (addirittura!). Manco a dirlo, il messaggio (neanche troppo) implicito è che i giovani italiani sono troppo svogliati, viziati, schizzinosi, choosy. Non a caso lo stesso articolo contrappone l'esempio virtuoso dei giovani che hanno accettato di lavorare gratuitamente.

Dai commenti che si leggono sui social network la realtà pare essere diversa, un'idea è data da questo articolo apparso online. Insomma chi si occupa di reclutare i lavoratori per Expo naviga a vista, nella completa disorganizzazione, ma pretende che i giovani siano pronti e disponibili a lasciare tutto e partire al servizio del grande evento senza porre domande sul contratto e su quanto verranno pagati. Oltretutto si scopre che in molti casi non si tratta di 1300euro, ma 500, 190 e via dicendo... (e chi ci vive a Milano con queste cifre?)

Anche questa volta i portavoce della classe dirigente del paese hanno provato a scaricare la responsabilità di questo (ennesimo) fallimento di Expo 2015 sulle spalle dei giovani. Allo stesso tempo aggiungono un mattoncino alla narrazione tossica dei giovani disoccupati e precari perché choosy, cercando di delegittimare ogni tentativo di protesta, di rabbia o di sdegno che una generazione tremendamente impoverita e precarizzata potrebbe mettere in campo.

Ecco che cosa verrà esibito nei padiglioni di Expo: la logica del Jobs Act messa all'opera e il modello di paese e di relazioni lavorative che Renzi vuole per l'Italia. Zero questioni, zero domande, zero diritti: devi ringraziare se ti viene offerto un lavoro (quindi lo puoi fare anche gratis o a pagamento). Ovviamente chi non accetta queste condizioni sarà automaticamente lo svogliato capace solo di lamentarsi e causa dei mali del paese.

martedì 21 aprile 2015

LA GENESI DEL DISASTRO GRECO

Il post di oggi,preso dal sito http://storicamente.org/venturoli cui si può aggiungere quello di Wikipedia per avere altre informazioni(http://it.wikipedia.org/wiki/Dittatura_dei_colonnelli )parla del golpe dei colonnelli che trascinò la Grecia il 21 aprile del 1967 in sette anni di dittatura fascista.
I colonnelli dell'esercito Makarezos,Papadopoulos e Pattakos,assieme ad un manipolo di generali e con l'aiuto dei militari,poterono esercitare il potere sullo stato ellenico con decisioni di vita e di morte sugli oppositori comunisti e non,instaurando un regime neofascista appoggiato dal Re Costantino II che ebbe ruoli ambigui in quegli anni bui della storia greca.
Io vedo la situazione attuale della Grecia,che solo ieri con un decreto obbliga gli enti locali a trasferire le riserve di contanti alla banca centrale greca per poter pagare gli stipendi dei lavoratori statali e le pensioni,risultato di quel golpe che mise in ginocchio il popolo greco arricchendo solo poche persone.

Il colpo di stato in Grecia e la Giunta dei Colonnelli. Nodi e interpretazioni storiografiche.


Vicende molto recenti ci hanno portato a rivolgere lo sguardo verso la Grecia, la sua politica e la sua economia, e ci inducono, dopo molto tempo, ad analizzare quella che, parafrasando Palmiro Togliatti, può forse essere vista come una nuova «prospettiva greca» da cui tenersi lontani.
La storia contemporanea di questa nazione non è particolarmente conosciuta nel nostro paese, se si escludono alcune vicende quali la guerra civile e la dittatura dei colonnelli, periodo storico quest’ultimo rievocato di frequente nei servizi televisivi e su giornali greci di diverso orientamento politico, alla ricerca di ciò che potrebbe legare l’oggi ai sette anni della giunta. Ad esempio sul quotidiano «To vima», giornale di area progressista, il 21 aprile 2010 Antonis Karakousis scriveva un articolo intitolato Allora con i carri armati ora con il Fmi:
43 anni fa i colonnelli rovesciarono la democrazia e fecero piombare il paese in sette anni di buio. Per una coincidenza in questo triste anniversario per risolvere i gravi problemi del paese, sono iniziati con la comunità europea e con il Fondo monetario internazionale, i peggiori negoziati dal ritorno della democrazia. All’epoca, i colonnelli arrivarono con i carri armati come "i salvatori della nazione" ed ora sono gli uomini in grisaglia dell’istituto di Chicago che arrivano a imporre le loro condizioni, ad abolire la sovranità nazionale e l’autorità politica greca e, di conseguenza, quella di tutta la popolazione. Esagerazioni, si potrebbe dire, non ci sono analogie, ma quando passeranno gli anni ci si ricorderà di questo momento come un giorno di lutto nazionale.
Alla luce di ciò ci pare ancor più interessante prendere in esame, attraverso una ricognizione bibliografica, alcuni nodi rilevanti del colpo di Stato e dei 7 anni di dittatura analizzando anche il riflesso che si ebbe in Italia. Va subito detto che nel nostro Paese l’interesse non fu cospicuo e duraturo: immediatamente dopo il golpe uscirono volumi scritti da giornalisti italiani e da autori greci o di origine greca che vivevano all’estero in cui erano raccontati i prodromi, l’evento e le sue conseguenze, furono poi pubblicati testi di giornalisti italiani, basati su inchieste e su interviste, che seguivano e si affiancavano all’attenzione dedicata dalla stampa periodica alla perdita della democrazia in un paese così vicino all’Italia.
Questo interesse andò scemando per divenire quasi nullo dopo la fine della dittatura, se si escludono le traduzioni di alcuni romanzi di scrittori greci in cui vi sono cenni al periodo della Giunta dei colonnelli, quali ad esempio Si è suicidato il Che, un giallo di Petros Màrkaris uscito per Bompiani nel 2004 o il romanzo di Alki Zei, La fidanzata di Achille, pubblicato da Crocetti nel 1998. Per quello che riguarda invece la produzione storiografica si deve sottolineare come non siano certo molte le opere in italiano che si occupano della storia greca contemporanea e in particolare di queste vicende. Nella più rilevante la Storia della Grecia moderna dalla caduta dell’impero bizantino a oggi, di Richard Clogg, vengono dedicate 18 pagine (sulle 300 complessive del volume) al periodo 1960-1974. Non mancano accenni alla dittatura in vari testi sugli anni Settanta e sull’estrema destra, soprattutto per rilevare le possibili connessioni fra quei movimenti politici italiani ed il regime ellenico. È quindi interessante rivolgere lo sguardo alle pubblicazioni greche: se si va alla ricerca degli studi sulla Giunta dei colonnelli, si rileva la carenza di analisi approfondite e la prima riflessione che se ne trae è che bisognerà aspettare ancora qualche tempo per avere opere storiografiche rilevanti, visto che solo ora si stanno affrontando sistematicamente i temi legati alla Resistenza e alla guerra civile (1940-1949).
Sul nodo della dittatura sono stati pubblicati nel corso degli anni alcuni volumi scritti per lo più da giornalisti e sociologi. Ad esempio il giornalista Tasos Vournas (1913-1990) nella sua amplissima Storia della Grecia moderna e contemporanea ha dedicato il sesto volume, dal titolo 1967-1974 Giunta e dossier Cipro, a questi eventi sottolineando, fin dal titolo, lo stretto legame fra la storia della dittatura e le vicende cipriote, vicende che non è possibile trattare in questo contesto. Vournas fu anche un testimone, un protagonista della resistenza alla dittatura, come lo furono molti degli autori che si sono occupati di questi temi. Fra questi qualcuno si propone di ricostruire la propria esperienza allo scopo di «ristabilire la verità storica», Come scrive Vassilis Filia [2000] oppure raccontano le loro esperienze come Eleni Blaxou editrice del giornale «Kathimerini», anche alla luce di un produzione di volumi che hanno l’intento di giustificare ed esaltare la Giunta dei colonnelli.
Immediatamente dopo il 1974, nei primi anni dopo la caduta della Giunta dei colonnelli, si ebbe in Grecia una discreta produzione di volumi di testimonianze, scritti da protagonisti della resistenza e del movimento studentesco con una particolare attenzione alle vicende del politecnico del novembre 1973. Testi pubblicati per «non dimenticare», volumi che, in un certo senso, si possono affiancare a quelli usciti durante la dittatura in Italia: memorie e racconti di denuncia in entrambi i casi. Scritti per tenere desta, all’estero, l’attenzione durante la dittatura e per tenerla viva, in Grecia, al ritorno della democrazia.

Il golpe [inizio pagina]

Il 21 aprile 1967, a poco più di un mese dalla data delle elezioni politiche, la popolazione greca, accendendo la radio, si accorse che tutte le emittenti erano mute mentre dalla stazione dell’esercito venivano trasmesse marce militari. I telefoni erano stati isolati per molte ore e al centro della capitale si vedevano muovere i carri armati.
Già nella tarda serata precedente erano avvenuti strani movimenti, c’era la sensazione che qualcosa potesse accadere; lo ricorda in una intervista la cantante Marisa Koch raccontando come alla fine di una serata passata con amici Mikis Theodorakis avesse raccomandato di fare attenzione e di rincasare al più presto tenendosi pronti ad ogni evenienza.
Fino alle 2 di quel mattino Atene era ancora una città libera, ricorda Eleni Vlaxou editore del quotidiano «Kathimerini», alle tre la situazione era completamente cambiata: i carri armati avevano occupato il cuore della città ed erano davanti al parlamento e ai ministeri
Dalle 6:25 vennero messi in onda dal canale radiofonico dell’esercito secchi comunicati.
«Qui stazione radio delle forze armate greche. A causa della drammatica situazione che si è creata, da mezzanotte l’esercito ha assunto il governo del paese. Seguirà un comunicato del comandante dell’esercito». Poco tempo dopo un altro comunicato informava i greci che: «secondo l’articolo 91 della Costituzione e dopo suggerimento del governo sospendiamo gli articoli 6, 8, 10, 12, 14, 18, 20, 95 e 98 della Costituzione a causa della minaccia alla sicurezza dei cittadini e della nazione che proviene dall’estero. Firmato Costantino re dei greci. Il presidente e i membri del Consiglio dei ministri» [Vlaxou 2008, 18-32].
Iniziava così la dittatura.
Due giorni dopo Gheorghios Papadopoulos illustrava alla stampa e alle televisioni straniere la situazione:
Il Paese era caduto in una profonda crisi. Io cercavo una soluzione perché la politica era in un vicolo cieco. I greci per la loro storia non sono vicini al comunismo, perché il comunismo non ha nessuna cosa in comune con la tradizione cristiana che è sempre stata alla base dell’educazione dei greci. In questa situazione l’esercito nazionale e le forze armate del paese erano l’unica forza neutrale che poteva scendere in campo mentre i greci si stavano aspramente contrapponendo gli uni agli altri. Questa forza ha creduto opportuno intervenire sentendosi in dovere di fermare la corsa del Paese verso il precipizio 1.
Papadopoulos giustificò il golpe in nome del pericolo comunista in un paese in cui il partito comunista era fuorilegge: secondo le aberranti valutazioni dei colonnelli, così come ci illustra Mathiopulos [1968, 14], almeno il 90% della popolazione greca poteva essere definita comunista 2. La lacerante guerra civile terminata nel 1949 aveva lasciato profonde spaccature, erano state varate leggi speciali, divenute ordinarie e ancora negli anni Sessanta, prima del colpo di Stato, per poter avere un posto di lavoro si doveva essere in possesso di un certificato di affidabilità politica:
nel periodo che va dalla fine della guerra civile alla dittatura del 1967, i diritti politici furono garantiti. Tuttavia, una parte della popolazione ne era esclusa secondo leggi conosciute come para-costituzionali che furono aggiunte a integrazione della Costituzione. È in questo modo che i cittadini considerati appartenenti alla Sinistra furono arrestati, esiliati e fu impedito loro il libero esercizio dei diritti politici. La popolazione esclusa dai diritti politici venne considerata come esclusa tout court dalla comunità nazionale [Liakos, 2002, 68-69].
In questo contesto l’esercito aveva poteri molto larghi e controllava in modo stretto e rigoroso i paesi posti ai confini, le forze armate avevano una stazione radiofonica attraverso la quale facevano azione di propaganda.
Non si deve dimenticare che la democrazia in Grecia aveva avuto una storia travagliata, dopo la liberazione dal dominio turco si erano infatti alternate governi democratici, sovrani più o meno illuminati e dittature come quelle del generale Ioannis Metaxas nel 1936.
Negli anni Sessanta la Grecia viveva un periodo di mutamenti sociali, economici e politici: un partito come l’Eda (sinistra democratica greca), guidato da Grigoris Lambrakis ucciso da neofascisti nel 1963, e in cui militavano comunisti, socialisti e giovani di sinistra stava introducendo nuovi temi e nuovi modi di fare politica 3. Questo partito, che pur appoggiò un governo Papandreou, veniva tacciato di essere l’aspetto legale di un partito comunista illegale e di essere di estrema sinistra. Il partito comunista, in realtà, aveva la sua dirigenza all’estero e non si riconosceva nell’Eda, anche se suoi militanti erano presenti in questa organizzazione.
La vittoria elettorale dell’Unione di centro guidata da Gheorghios Papandreou, nel 1964, aveva portato ad alcune, seppur timide, riforme, quali quella della scuola pensata «per dare al popolo l’educazione che serve e che si merita» come sosteneva il ministro dell’istruzione Loukàs Akritas [Evaggelopoulos 1987, 28], una riduzione del potere dell’esercito, un allentamento delle misure repressive ed un atto di clemenza nei confronti degli uomini e delle donne ancora in carcere dopo la guerra civile: 430 i detenuti politici liberati e 120 i condannati a morte, all’ergastolo o a 20 anni di reclusione che ottennero una riduzione della pena [Ploritis 1970, 115]. La mancata adesione del governo Papandreou al piano statunitense per Cipro, poi, non fece altro che rendere sempre più inviso alla destra, al re e agli Stati Uniti il governo e il suo primo ministro.
Forze politiche e militari misero in atto numerosi tentativi di screditare il partito e il governo, accreditando al tempo stesso le presunte, e inesistenti, simpatie comuniste del liberale Papandreou. Ad esempio fu denunciata l’esistenza di un complotto «di sinistra» all’interno dell’esercito. Il piano, denominato Aspida (scudo), era attribuito al figlio di Papandreou, Andreas e, come accertò la magistratura, era stato ordito da «un potere parallelo per screditare i suoi avversari sia militari sia civili». Il 15 luglio 1965 il re esautorò, con un atto anticostituzionale, il primo ministro eletto Gheorghios Papandreou, provocando forti proteste popolari. Pare accertato che lo stesso Costantino stesse per organizzare un vero e proprio colpo di stato.
«Le Monde» nel 1967 sottolineava come in Grecia vi fosse una crisi delle istituzioni che erano simbolo del Paese stesso. La monarchia era accusata di falsare la vita politica, la Chiesa, da sempre considerata base spirituale e istituzione identitaria, era indebolita da lotte interne, la magistratura attaccata in parlamento. La vita sociale era segnata da una crisi economica, da proteste sindacali per la disoccupazione e per le difficili condizioni di vita della popolazione. A questo si affiancava un modo aggressivo di fare politica, un elevato tasso di corruzione e un re che aveva difficoltà a gestire la vita politico-istituzionale del paese.
La situazione politica greca alla vigilia del golpe non poteva quindi certamente essere definita stabile.
Le manovre del re, e in seguito la dittatura, interrompevano un tentativo di sviluppo e di modernizzazione, cominciato all’inizio del decennio, che si era scontrato con difficoltà causate dal sistema politico, dalle condizioni economiche e dalle forti resistenze dei militari e delle forze conservatrici. In questo contesto i colonnelli si ponevano come la soluzione ad una situazione di crisi e di confusione in nome della tradizione e dell’anticomunismo.

Grecia e Italia: una vicinanza solo geografica? [inizio pagina]

Sfogliando i giornali italiani dei giorni immediatamente successivi al colpo di stato, la prima cosa che salta agli occhi è l’accostamento, seppur a volte solo di impaginazione, dei titoli che riguardano la situazione greca con quelli che fanno riferimento allo scandalo dei fascicoli del Sifar e al "Piano Solo", eventi del 1964 che solo nel 1967 vennero alla luce grazie all’impegno del Senatore Parri e di giornalisti come Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari, entrambi de «L'Espresso», che per primi scoprirono e rivelarono all'opinione pubblica italiana i progetti golpisti del Generale De Lorenzo. Qualche anno dopo, nei testi relativi alle vicende greche scritti da De Jaco 4 e Minuzzo 5, usciti nel 1970, sono sottolineate ed analizzate le possibili similitudini fra il golpe greco e la situazione italiana, attraverso il confronto fra il piano che hanno portato alla dittatura al "Piano Solo". In effetti, come riportato in quasi tutti i testi consultati e come si poteva anche leggere sul «New York Times» il 3 maggio 1967 [De Jaco 1970, 23], i colonnelli presero il potere utilizzando il piano Prometeo, un piano comune ai paesi della Nato, ufficialmente difensivo, pronto a scattare in caso di invasione comunista. Come abbiamo visto, però, in Grecia il piano, ribattezzato per l’occasione Ierax (falco), scattò e il pericolo comunista era solo ed esclusivamente un pretesto per giustificare la presa del potere. Lo stesso piano Prometeo era alla base del "Piano Solo": ecco quindi uno dei legami forti con la situazione italiana [Ferraresi 1995, 151].
Il piano prevedeva l’istituzione di liste di persone "pericolose": in Grecia queste erano già pronte dal 1949 [Mathiopoulos 1968, 20-21] da quando erano schedati i sospetti comunisti e i cittadini con idee di sinistra; in Italia liste simili vennero scoperte quando, come si diceva, furono rese note le schedature illegali del Sifar.
Nel testo di De Jaco si pone poi molta attenzione sulla presenza in Italia di organizzazioni legate al regime e ai rapporti tra queste e i neofascisti italiani 6, così come si presentano le esperienze degli esuli e degli studenti greci. In quei momenti anche il Movimento Sociale Italiano, in contrasto con le prese di posizione dei partiti di sinistra, non solo riconosceva e condivideva le scelte golpiste dei colonnelli, ma arrivava ad auspicare un destino simile per l’Italia. Lo faceva in diretta televisiva Giorgio Almirante durante la Tribuna politica, il 25 maggio 1970 e lo facevano i militanti, così come ricorda Maurizio Gasparri in una sua intervista rilasciata a Luca Telese, e pubblicata su «Il Giornale», 16 maggio 2009. Nel testo Strage di stato uscito pochi mesi dopo la strage di piazza Fontana un capitolo è proprio dedicato ai legami fra neofascisti italiani e Grecia 7.
Stylianos Pattakos, protagonista del golpe e della giunta assieme a Papadopoulos e Nikolaos Makarezos, affermava in una intervista concessa e pubblicata da Minuzzo [1970, 59]. Nel suo testo: «mi auguro che anche voi, in Italia, riusciate presto a trovare la persona capace di riportare il paese verso l’ordine e la pacificazione interna».
In molti casi, sui giornali e su pubblicazioni venivano espressi timori per la situazione italiana, in un volume di Gian Giacomo Feltrinelli [1969] è la post fazione di Vassilis Vassilikos che sottolinea questo possibile legame fra la situazione italiana e quella greca.
Un altro tema presente in tutti i testi fin qui analizzati è quello delle responsabilità statunitensi nel golpe: si passa da una certezza di presenza della Cia alle spalle dei colonnelli esposta da Sarte [1970, 5-6] e, in momenti successivi, da Andreas Papandreou alle affermazioni di Mario Cervi che escludono categoricamente ogni coinvolgimento dei servizi segreti americani. Con giudizi meno tranchant si esprimono De Jaco e Minuzzo ed anche James Becket che pubblicò nel 1970 con Feltrinelli un testo intitolato Tortura in Grecia in cui scrive nell’introduzione che, nonostante la convinzione dei Greci, non è mai stata provata la partecipazione della Cia all’organizzazione del golpe, mentre, secondo l’autore, è ipotizzabile un impegno del Pentagono e un successivo sostegno economico e politico. Becket non manca di sottolineare il ruolo nel golpe dei servizi segreti greci (Kyp), di cui lo stesso Papadopoulos era stato membro, servizi strettamente legati alla Cia [Becket 1970, 44-50]. Le vicende greche ebbero grande eco in nazioni come l’Italia e la Francia e in tutta Europa, in particolar modo quando nel settembre 1967, su iniziativa dei governi danese, norvegese, svedese e olandese, vennero denunciate alla Commissione europea per i diritti dell’uomo le torture inflitte ai prigionieri politici. I lavori di questa commissione terminarono poi nel novembre 1969 e portarono alla sospensione della Grecia per violazione dei diritti umani durante una seduta dell’Assemblea del Consiglio d’Europa presieduta il 13 dicembre 1969 da Aldo Moro, come lui stesso ricorda nel suo memoriale.

Quale definizione per il regime dei colonnelli [inizio pagina]

Papadopoulos e la Giunta dei Colonnelli definivano il loro colpo di stato una rivoluzione, mentre su alcune pubblicazioni di movimenti di resistenza si leggeva che il golpe non era sostenuto da nessuna ideologia: diventa quindi interessante vedere, attraverso i testi pubblicati, quale definizione è stata data da chi ha, in vario modo, analizzato quei fatti.
Un paragrafo del testo di Aldo De Jaco viene dedicato proprio a questa ricerca e l’autore si domanda se fosse giusto definire fascismo la dittatura greca. De Jaco molto acutamente pone dapprima l’accento sulle modalità di uso che in quegli egli anni sessanta e settanta aveva assunto questo termine per poi affermare che i colonnelli potevano essere definiti fascisti visto che «per molte e pur valide ragioni il termine "fascista" è diventato con gli anni sinonimo generico di oppressore, violento, totalitario, sciovinista, ecc.». Tuttavia, continua l’autore, se ci riferiamo ad una concreta realtà storica come a quella del ventennio fascista in Italia non possiamo far altro se non rilevare numerose differenze, fra cui l’assenza di un consenso di massa, opinione questa condivisa da Jean Paul Sartre [Sartre 1970, 108]. Secondo Mario Cervi non si può parlare di fascismo visto che il regime non coinvolgeva i giovani se non con l’anticomunismo [Cervi 1968, 60]. Cervi sottovaluta per altro il forte condizionamento che il regime pose in atto nella scuola e la martellante propaganda che i mezzi di comunicazione di massa, radio e televisione in primis, misero in campo anche nelle trasmissioni per ragazzi, ne ho raccolto testimonianza diretta, si esaltava l’operato della giunta.
Stephen Rousseas nel suo testo Grecia contemporanea dalla crisi della democrazia a colpo di stato, alla fuga del re, dedicato ad Andreas Papandreou, afferma invece che si è trattato della «prima dittatura di tipo fascista che si fosse mai vista in Europa dai tempi di Mussolini e di Hitler» [Rousseas 1968, 7].
Minuzzo [1970] propone diverse definizioni: pseudofascismo paternalistico, nasserismo di destra, fascismo aggiornato di tipo militare privo di una ideologia corporativistica; per concludere che la dittatura greca era un fenomeno di sopraffazione estraneo a ogni categoria politica e ideologica e di cui era difficile dare una definizione attraverso esempi storici.
Di regime autoritario parla Gianfranco Pasquino per definire la dittatura dei colonnelli: un governo a netta prevalenza militare che, nonostante «tutte le solite bardature dei regimi autoritari (lotta alla pornografia, censura, manipolazione dei libri di testo, uso dei simboli dell’autorità e, da ultimo, imponenti costruzioni sovrastate dalla fenice, a gloria imperitura del regime) non era riuscito a plasmare una nuova mentalità» [Pasquino 1975, 218].
Nessun dubbio coglieva, invece, la maggior parte degli oppositori greci che, negli anni della dittatura, definivano fascismo, neofascismo e nuovo totalitarismo il regime [Papandreou 1970, 345-349; Stangos 1973, 36-48]. Nei numerosi scritti usciti in Italia fra il 1967 e il 1974 viene evidenziata, fra le caratteristiche principali della dittatura dei colonnelli, la repressione: l’arresto sistematico di chiunque risultasse sospettato, o sospettabile, di avere idee contrarie al regime, la riapertura dei campi di prigionia nelle isole già utilizzati durante e dopo la guerra civile, l’uso sistematico della tortura 8. Amalia Flemming, Kitti Arseni, Alexandros Panagoulis, Mikis Theodorakis e tantissimi altri in vari modi e maniere raccontavano quello che avevano subito o quello di cui erano a conoscenza, descrivendo fatti drammatici e strazianti, per tenere alta l’attenzione mondiale e per sollecitare l’Europa a prendere dei provvedimenti contro il regime. L’unico volume consultato che si discosta su questo tema è quello di Mario Cervi, leggendo questo testo, infatti, ci si può immaginare una dittatura non particolarmente dura, ammesso che possa esistere un ossimoro di questo tipo, grazie alle stesse parole dell’autore.
Detto questo aggiungerei che il terrorismo, la violenza fisica, non mi sembrano le note caratteristiche del nuovo regime greco. Ove si raffronti il suo comportamento a quello medio delle dittature, bisogna riconoscergli, complessivamente una certa morbidezza, che lascia ovviamente il posto ad aspre rappresaglie quando la resistenza si faccia viva con un gesto clamoroso [Cervi 1968, 240].
Su questi temi e sulle possibili definizioni della dittatura dei colonnelli si è riflettuto anche nei volumi usciti in Grecia, che hanno il vantaggio di essere stati elaborati e pubblicati a numerosi anni dalla fine della dittatura. Nel volume collettaneo, La dittatura 1967-1974 Pratiche politiche, ideologia, resistenza edito nel 1999, il giurista Aristovoulos Manesis cerca una possibile definizione della dittatura e sostiene che le differenze con il fascismo siano la mancanza di un diffuso consenso popolare e l’assenza di una vera e propria ideologia sostituita da slogan quali "Ellas Ellinon Christianon" (la Grecia dei greci cristiani) [Athanasatou, Rigos, Seferiadis 1999, 43], proponendo un interpretazione simile a quella già esposta da Sartre e De Jaco. La dittatura era quindi, secondo l’autore, un regime militare. Su una lunghezza d’onda simile Pierre Milza che, raffrontando la giunta greca al regime mussoliniano, trova analogie nel sistema repressivo e nel controllo culturale e mass mediatico ed identifica una differenza essenziale nel mancato coinvolgimento delle masse [Milza 2003 310-312].
Sulla ideologia che era alla base della dittatura ellenica si interrogano anche due testi estremamente differenti fra loro: La dittatura dei colonnelli, di Meletis Meletopoulos [2000] e L’ideologia del 21 aprile di Manos Xatzidakis [2008].
Il primo testo citato è il lavoro di un giovane sociologo uscito nel 1993, e ristampato nella terza edizione nel 2000, in cui l’autore cerca nella guerra civile le radici del colpo di Stato dei colonnelli e identifica nell’anticomunismo e nel nazionalismo a connotazione religiosa due elementi portanti della dittatura. A questo si dovevano aggiungere le indicazioni di uno degli ideologi del governo militare, ovvero Dimitris Tsakounas che teorizzava la sostituzione dei politici, inetti e inadeguati secondo la sua interpretazione, con i militari, proponendo una sorta di nasserismo di estrema destra, definizione questa riportata anche dai testi italiani analizzati, come visto. Secondo Meletopoulos, si può applicare la definizione di fascismo a questa dittatura, o meglio si può riconoscerle un carattere fascista per la presenza di un "capo carismatico", ovvero Papadopoulos che pur essendo affiancato nella gestione del potere da altri militari (Stillyanos Pattakos, Ioannis Ladas, Nicolaos Markezinis, Dimitris Ioannidis) era considerato la figura centrale su ci si incarnava il regime e inoltre per una forte "intromissione" nella vita privata con il tentativo di omologare i pensieri e i comportamenti, con la censura imposta in ogni campo dalla letteratura greca classica a quella moderna alle canzoni, con l’istituzione di cerimonie ed adunate e con l’utilizzo della propaganda. Infine era ben presente il ritorno alle radici di un passato mitizzato, caratteristica anche dei fascismi: ad esempio l’introduzione di katharevousa come lingua obbligatoria nelle scuole, ovvero il greco colto ottocentesco, in sostituzione di dimotkì, la lingua parlata, introdotta nelle scuole dalla riforma di Gheorghios Papandreou [Evaggelopoulos 1987, 30], significava obbligare gli studenti all’uso di un linguaggio desueto e legato ad un passato eroico, quello della liberazione dall’occupazione turca, su cui ricostruire una identità nazionale minata, a giudizio dei colonnelli, dal nemico interno, ovvero dai comunisti, e da una politica inerme e portatrice di caos e insicurezze.
Uno studio serio, documentato ed approfondito quello di Meletopoulos, assai diverso dal secondo testo citato, chiaramente schierato a difesa della dittatura, in cui le 643 pagine, suddivise da capitoli introdotti dall’immagine della fenice simbolo dei colonnelli, si riportano discorsi, scritti, proclami di Papadopulos. A sostegno della necessità del regime, ribadisce le accuse rivolte dai colonnelli ai politici e alla sinistra visti come unici responsabili della catastrofe in cui la Grecia era piombata prima dell’avvento "salvifico" dei militari. Le fotografie riportate nel testo, le stesse utilizzate da opuscoli di propaganda redatti dalla Giunta, hanno la funzione di "mostrare" questa situazione: senza altre informazioni e senza contestualizzazioni queste immagini possono essere definite appunto di "propaganda" come risulta evidente anche dalle foto di Papadopoulos che sono presenti nello spazio ampio che viene a lui dedicato.

La resistenza in Grecia e all’estero [inizio pagina]

Già nei primi testi pubblicati in Italia, uno dei temi centrali è la reazione e quindi la resistenza opposta al regime. Secondo Mario Cervi non vi fu alcuna resistenza al golpe per le caratteristiche connaturate nel popolo greco, ovvero un popolo dai «costumi arcaici», soprattutto nella periferia, un paese fondamentalmente turco, turchi e albanesi se non per «razza» almeno per cultura, un paese incapace di fare politica e di scegliersi governi democratici.
Di opinione diversa Mathiopoulos che nel suo volume del 1968 [45], sottolinea come «i sentimenti della popolazione andavano dall’aperto sdegno al sarcastico umorismo della disperazione. [I miei collaboratori tedeschi] espressero ripetutamente il loro stupore per il coraggio civico dei cittadini ateniesi, che sarebbe stato difficilmente immaginabile, con le stesse premesse, in una altro paese».
La rapidità del golpe, l’attuazione di un controllo sistematico e capillare del territorio, l’immediato fermo dei principali esponenti politici, l’arresto subitaneo di migliaia di persone e l’appoggio, seppur non entusiastico e tardivo del re, sono alla base della relativa facilità con cui i colonnelli presero il potere. Dopo questa prima fase iniziarono forme di resistenza organizzata, in Grecia e all’estero dove molti esponenti politici erano stati costretti a rifugiarsi per evitare l’arresto. Momenti come il funerale di Gheorghios Papandreou nel 1968, a cui partecipò un milione di persone, o il funerale del premio nobel Seferis, [Viola 2001] furono sfide aperte alla dittatura che portarono ad un inasprimento di controlli e repressione. Una resistenza, seppur a volte divisa al suo interno, formata da uomini e donne di varie idee politiche e diverse estrazioni sociali: operai, studenti e professori in vario modo cercavano di opporsi ad un regime estremamente repressivo.
La resistenza è al centro di numerosi volumi, usciti in Grecia anche e soprattutto negli anniversari della rivolta del Politecnico (17 novembre 1973) o della morte di membri della resistenza, come Alekos Panagoulis. Nel 30° anniversario della sua morte ad esempio, è stato tenuto un incontro gli atti del quale sono usciti nel volume: Alexandros Panagoulis protagonista e bardo della resistenza[Panos et al. 2008].
Molto lungo è l’elenco degli scritti che hanno come tema gli studenti e l’occupazione del politecnico usciti nel 1983, 1993, nel 2003. Fra tutti ricordiamo la raccolta di testimonianze Ek ton isteron (Col senno di poi) [Papachrestos D. 1993] uscita nel 1993 e Politecnico ’73 reportage con la storia, in cui ritroviamo oltre alle testimonianze le schede delle organizzazioni studentesche e alcuni documenti delle stesse. Infine giornali come «Elefterotipia», Quotidiano ateniese di centro sinistra, editano volumi su questi temi. Va ricordato che una data come quella del 17 novembre 1973 continua ad essere sentita e ricordata in Grecia.
I numerosi studenti Greci che affollavano le università europee sono stati attivi protagonisti di una resistenza ritenuta così pericolosa da giustificare in Italia la creazione di una falsa organizzazione studentesca, Esesi, emanazione diretta dei servizi segreti greci con il compito di controllare gli studenti. Questo non impedì l’attivazione di gruppi, partiti che, sovente in collaborazione con le organizzazioni italiane, tenevano viva l’attenzione sui temi greci con pubblicazioni, volantini, manifestazioni.
Qualche testo sta ora uscendo su questi temi: in italiano segnalo il lavoro di Costantinos Paputsis dedicato a Kostas Georgakis, uno studente di Corfù che decise, per protestare contro i colonnelli, di uccidersi con il fuoco in piazza a Genova. In greco, ma riferiti alla resistenza in Italia, vi sono i volumi di Nikos Klitsikas, studente a Napoli durante la dittatura, che si è occupato di raccontare alcuni momenti ed eventi legati al Pak (Panellinio apelefthrtotikò kinima - Movimento di liberazione panellenico). Infine, nel 40° anniversario dell’inizio della dittatura è uscito To imerologio tou Londino (Il diario di Londra) di Maria Karavia, un volume di memorie di una allora studentessa all’estero.