mercoledì 30 settembre 2015

SI ARRESTANO TRA DI LORO

La notizia dell'arresto a Pisa di un agente della Digos che aveva tentato il furto in un supermercato ha fatto il giro di parecchi notiziari e ha scatenato accesi dibattiti sui social network,per quel che contano:non è il primo e nemmeno l'ultimo rappresentante di chi dovrebbe tutelare l'ordine che viene ammanettato per episodi simili.
Ciò fa capire che nonostante l'aria di superiorità che certi professioni si danno sembrano molto più "terreni" rispetto a quel che si crede,con vizi(molti)e virtù(un poco meno)come tutte le persone con cui hanno a che fare,e quasi sempre per motivi non proprio belli.
L'articolo preso da Infoaut spiega il fatto di cronaca di questo agente cui evidentemente non basta un buon stipendio e che probabilmente ha vissuto al di sopra dei propri limiti senza capire che come tuti chi sbaglia paga(lo sarà davvero?).

Digos,neanche il fascino della rapina.

Da grande voleva fare il tenente Colombo ma ha fatto irruzione in un supermercato di Lucca armato di pistola, costringendo i commessi a consegnargli quasi 4000 euro di incasso, per poi finire arrestato poco dopo grazie anche all’intervento di alcuni clienti. Nel momento dell’arresto si è scoperto che il maldestro rapinatore non era altro che un agente della Digos di Pisa e che per il colpo aveva utilizzato la pistola d’ordinanza.
L’agente, soprannominato “Pasticca”, è un volto storico della Digos pisana, impresso nella memoria di molti per il risentimento e l’impegno con cui tentava di ostacolare le attività dei collettivi e le lotte sociali in città. La carriera in polizia doveva però stargli stretta. Si è così improvvisato dj nei bar più squallidi della città e negli ultimi anni ha dato poi alle stampe alcuni romanzi di infima qualità, di cui uno per l'appunto intitolato “Da grande voglio fare il tenente Colombo”. Qui la sua vicenda autobiografica di agente della squadra antiterrorismo si intreccia con quella romanzata di un gruppo di studenti pisani che decidono di intraprendere la lotta armata richiamandosi alle BR. Un vero topos letterario per le relazioni di polizia del genere “investigazione e teorema”. Ma si sa, alle vite mediocri non serve la finzione. Così, non vedendo premiato il suo estro da dattilografo della Questura, ha pensato bene di dedicarsi alle rapine a mano armata; per l'ennesima volta deve aver però sopravvalutato le proprie capacità, visto l’esito del colpaccio.
Nessun rammarico per il prelievo alle casse dei supermercati della grossa distribuzione, ma proprio non riusciamo a provare simpatia verso questo rapinatore improvvisato, ben lontano dall'acume sornione di Peter Falk e troppo sicuro della sua impunità di sbirro.

Per gli stomaci più forti, il suo blog: http://lamatibetano.wix.com/danielelama

martedì 29 settembre 2015

LA SECONDA VITA DI DISMALAND

 
Il parco di divertimento macabro e surreale del famoso artista di strada Banksy,Dismaland,avrà una seconda vita dall'altra parte della Manica presso Calais in Francia traghettando i suoi materiali dalla Gran Bretagna per permettere la costruzione di rifugi per i migranti.
Tutto era già stato previsto sin dall'inaugurazione dello strano parco,almeno il suo smantellamento dopo cinque settimane dall'apertura avvenuto ad agosto,ma la scelta di riciclare i materiali usati come il legno,degli infissi e tutto quello che risulterà utile,è avvenuta negli ultimi giorni.
Il doppio contributo odierno comincia da quello di Huffington Post(http://www.huffingtonpost.it/2015/09/27/dismaland-calais_n_8203198.html )che parla della scelta finale mentre quello di Contropiano(http://contropiano.org/cultura/item/32486-dismaland-banksy-inaugura-il-primo-parco-del-decadimento )parla dell'inaugurazione ed è più articolato visto che parla delle opere di Banksy e del rapporto tra arte e denaro.

Dismaland trasferito a Calais, ospiterà migranti. Il parco creato da Banksy sarà trasferito.

Il parco 'Dismaland' creato da Banksy nel Regno Unito sarà smantellato e trasferito a Calais, dove sarà trasformato in rifugio per i profughi. Lo ha annunciato lo stesso artista, nel giorno di chiusura del parco. I lavori inizieranno domani, quando le strutture saranno smantellate e il legno e gli infissi saranno portati a Calais, in Francia, dove migliaia di rifugiati sono accampati nel campo chiamato Jungle. Secondo le stime, sono circa 5mila i siriani, libici ed eritrei che si trovano accampati nella zona della cittadina portuale francese. Sul sito web di Dismaland, Banksy ha pubblicato un'immagine del campo dei migranti e ha sovrapposto il castello di Cerentola del suo parco, che ha rappresentato come fosse stato devastato da un incendio.

Una frase accompagna la fotografia: "Coming soon... Dismaland Calais. Tutto il legno e gli infissi di Dismaland saranno inviati al campo rifugiati Jungle vicino Calais, per costruire rifugi. Nessun biglietto sarà disponibile online". Il parco artistico aveva aperto il 22 agosto a Weston-super-Mare, nel Somerset, in una tetra allegoria dei parchi divertimenti Disneyland. Migliaia di persone lo hanno visitato, facendo registrare ogni giorno il tutto esaurito con circa 4mila ingresso al giorno. In totale, quindi, è stato visitato da circa 150mila persone.

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Dismaland: Banksy inaugura il primo parco del decadimento.

Statue disturbate, migranti affogati e personale scoglionato, non c’è niente di divertente nel parco giochi temporaneo creato dall’artista.
Erano incominciate a circolare delle voci quando su una spiaggia desolata del paesino inglese di Weston-super-mare è sorto un castello che ricordava quello delle favole ma con una piccola differenza: è sporco e diroccato, e sembra non fare parte di nessun lieto fine.
Nel giro di qualche giorno intorno al castello compaiono nuove strutture: una ruota panoramica, uno strano incastro di camion, poi una grande insegna sull’entrata del complesso con scritto Dismaland, la terra della decadenza.
È ufficiale, Banksy ha creato il primo parco dei divertimenti che divertimenti non ne ha, solo installazioni lugubri e giochi tristi.
Una nota sul creatore di questo luna park distopico è necessaria: Banksy nasce dalla street art, altrimenti detta: i graffiti. Si fa conoscere e riconoscere per le sue serie di stencil con cui «imbratta» illegalmente i muri delle città, che raffigurano scenette surreali o ribaltate, il suo graffito più famoso che avrete già visto è quello del black bloc che lancia non una molotov ma un mazzo di fiori. I suoi pezzi vengono riconosciuti molto in fretta come vere e proprie opere d’arte, i muri su cui sono disegnati acquistano rapidamente molto più valore dell’edificio in sé, incominciano le esposizioni nei musei e - si presume - un notevole flusso di entrate per l’artista che però rimane nell’ombra: non ne conosciamo né il nome né il volto, ancora troppe denunce per imbrattamento, o forse questa è una scusa che serve per preservare l’aurea dell’artista di strada quando ormai è entrato nel circolo dell’art-biz. Tutto quello che tocca però diventa oro, continua con gli stencil ma incomincia anche a fare statue e installazioni che già nell’uso dei materiali e degli strumenti sono più costosi e meno «street», rimangono i contenuti graffianti ma spesso la forma si imborghesisce, rincorre le esigenze delle sale dei musei o delle sale d’asta, a volte si fa ripetitiva.
I suoi primi grandi fan, writers e grafomani vari incominciano a dividersi nella domanda se sia un grande genio o solo un grande paraculo. Questa domanda se la pone lui stesso, lasciandola sospesa in un complessissimo gioco di specchi, in un film (a prescindere dalla sincerità del suo autore, un vero capolavoro) che forse è un documentario, forse no, e si intitola Exit through the gift shop, l’uscita è attraverso il negozio di souvenir, come in molti musei di arte contemporanea, in cui si interroga in una maniera assolutamente originale (nei contenuti ma soprattutto nella forma) tra il controverso rapporto fra arte e denaro.
Sia diventato anche uno scaltro imprenditore artistico, rimangono alcuni fatti. L’ultima «uscita» pubblica erano stati i murales sui muri superstiti di una Gaza devastata dalle bombe israeliane. Una torretta di guardia che si trasforma in calcinculo, un pensatore di Rodin su una porta rimasta in piedi tra le macerie, un gattino che gioca con (reale) groviglio di fili di rame. E una scritta: se ci laviamo le mani del conflitto tra potenti e impotenti ci mettiamo dalla parte dei potenti - non rimaniamo neutrali. Una dichiarazione molto più netta di quelle che avrebbero potuto fare molti artisti anime belle.
Di fronte a questa serie di contraddizioni, come valutare un museo-parco giochi in cui questo Banksy ha radunato altri artisti, sui quali il giudizio spesso tende maggiormente al paraculismo (Damien Hirsch per esempio, quello del teschio ricoperto di diamanti e degli animali in formaldeide)? Volontà artistico-politica o offerta di merce culturale «alternativa»?
Dismaland, che fa evidentemente riferimento al parco giochi per eccellenza (la Disney non ha voluto commentare in alcun modo) è una grande installazione temporanea, fra cinque settimane sarà smantellata, l’ingresso a tre pound è limitato a quattromila persone al giorno, che per i 36 giorni previsti arrivano alla somma di 400.000 sterline, e dato che non ci sono pubblicità all’interno è difficile stimare un qualche profitto.
Le installazioni all’interno si dividono in maniera relativamente equa tra colpi di genio, cose simpatiche e/o interessanti e alcuni strafalcioni. Nel primo gruppo rientra l’ingresso, un metal detector da fumetto in cui guardie dai cappelli di cartapesta di vietano di portare all’interno granate e unicorni. Poi c’è la sirenetta distorta come in un vecchio vhs mal funzionante, o il gioco delle barchette telecomandate in cui si deve guidare un gommone di profughi tra i cadaveri annegati. Tra le scene più banalotte, la carrozza ribaltata di Cenerentola che fra paparazzi e inviti a fare «foto ricordo» che richiama in maniera eccessivamente diretta la famose morte di Diana.
Ma probabilmente non sono le installazioni prese singolarmente da leggere e analizzare, ma l’esperienza in sé di un parco del decadimento e della tristezza, una grande messa in discussione di un fondamentale del sistema in cui viviamo, quello che ci vuole sempre felici e spensierati, che allontana o nasconde la miseria e i poveri, che pittura con i colori delle riviste patinate una realtà difficile, e che sarà sempre più difficile.
Dismaland è una grande banalità? Probabilmente no, in un mondo che accetta sempre di più le regole che gli vengono imposte, in cui la politica (o anche solo la società) è totalmente uscita dall’interesse della produzione artistica, anzi queste accuse hanno il sapore dei «gufi» renziani.
Fate così: kill your idols, abbandonate l’idea di dovere seguire degli eroi senza macchia. Banksy non è un rivoluzionario, è un artista con tutte le contraddizioni che questo ruolo comporta, e sono tante, ma ha qualcosa da dire che vale la pena ascoltare.
Anche pagando tre sterline.

lunedì 28 settembre 2015

LA MORTE DI INGRAO

Ieri è morto dopo cento anni di vita Pietro Ingrao,uno tra i padri fondatori della Repubblica italiana,giornalista,politico e partigiano che ha davvero segnato il comunismo nostrano per tutto il periodo della sua esistenza.
L'articolo preso da Senza Soste spiega in sintesi alcune tappe della sua storia che hanno coinciso con le svolte epocali del Pci passando dal periodo della Costituente a quello del compromesso storico alla scissione della Bolognina fino agli ultimi anni sempre passati con coscienza politica lucida come ha sempre contraddistinto la sua vita.

La morte serena di Piero Ingrao.

Ci piace immaginare serena la morte di Pietro Ingrao, come non può non esserlo quella di chi ha raggiunto il traguardo dei cento anni avendo scritto, in passato, libri di poesie. Un poeta di fronte al corso naturale della vita non può che rimanere sereno.
Poi c’è il bilancio politico, inevitabile. La storia che è trattenuta in questa testata che rimanda nel nome direttamente alle vicende livornesi del Pci, è molto vicina ed è molto lontana da quella di Pietro Ingrao. Non lo diciamo per malinteso senso dell’ecumenismo: è la storia del movimento comunista italiano che è fatta di percorsi che si intrecciano, che divergono, che si allontanano, che confliggono anche brutalmente, che tornano sulla traiettoria disegnata dal passato.
Sicuramente il conflitto più forte con la storia politica di Ingrao, tutto schiacciato sulla memoria storiografica, è legato alla vicenda dell’unità nazionale, figlia di una strategia di compromesso storico che ha spalancato le porte all’Italia che conosciamo. Oltretutto fu in quel periodo che la storiografia militante, a sinistra del Pci, fece scoprire in miriadi di pubblicazioni le numerose falle, aberrazioni, gli errori, l’ottusità, le compromissioni, le illusioni di un altro periodo cruciale del Partito Comunista Italiano. Quello che va dalla svolta di Salerno all’attentato a Togliatti. Periodo che, a rivederlo bene, contiene anche il compromesso storico di un quarto di secolo dopo (Il Manifesto denunciava la tendenza al compromesso storico già nel 1969). Proprio perchè si tratta di storia passata, e il lungo percorso esistenziale di Ingrao ci ricorda questo, possiamo però parlarne con profondità e serenità. Le facoltà che mancano a chi ricorda Ingrao per motivi di marketing, come Veltroni che non cessa di regalare banalità, o chi ha bisogno di tornare sul passato per abbaiare come il cane alla catena. Ci piacerebbe che una riflessione su quel periodo, su vicende come quella di Ingrao, costruisse categorie concettuali per l’oggi e per il futuro. Non è facile e non è scontato: perchè la storiografia spesso cerca di imporre le domande irrisolte del mondo morto che osserva anche al presente; perchè le generazioni presenti tendono, fatalmente, a ripercorre gli errori del passato senza capire molto di quello di cui stanno parlando; perchè il futuro parla sempre una lingua che ha zone d’ombra, intraducibili, per chi semplicemente appartiente al passato.
È un luogo comune quello che dice che senza memoria non c’è futuro. Il futuro c’è quando si assume la giusta distanza con il presente e con il passato, quando il salto verso il mondo che verrà, viene assunto con la consapevolezza di quel senso del vuoto, del pericolo, che altri hanno conosciuto prima di noi. Allora esperienze come quella di Ingrao è giusto e sensato rileggerle. Senza apologia, senza incanto, senza venerazione, senza condanne ma con curiosità e puntiglio. E anche senso di quella incredibile avventura esistenziale che è la politica.
Riproponiamo quindi l’articolo sui cento anni di Pietro Ingrao scritto questa primavera: Il peso del centenario di Pietro Ingrao.
Redazione, 28 settembre 2015

domenica 27 settembre 2015

COSI' FAN TUTTI

Senza aspettare una delle affermazioni prime dell'articolo preso da Senza Soste riguardo ai falsi dati forniti da Volkswagen sulle emissioni inquinanti dei propri veicoli diesel venduti in Usa ed ora a livello mondiale,lo scandalo che ha fatto dimettere i vertici della casa automobilistica e che ha fatto perdere diversi punti alle borse europee e che sta monopolizzando le notizie dei telegiornali,secondo me è stato gonfiato a dismisura.
Come anticipato sopra,in un periodo in cui nella pubblicità è stata sdoganata da anni la possibilità in poche parole di sputtanare un concorrente,perché ancora nessun'altra industria dell'auto non ha dichiarato ufficialmente con uno spot del tipo"comprate i nostri prodotti che non inquinano come quelli Vw"oppure"scegliete le nostre auto che non fanno male all'ambiente(almeno come le loro)"?
La risposta è semplice ed è quella che non solo tutte le automobili inquinano chi più chi meno,dal motore diesel a quello benzina passando per quelle elettriche a quelle ibride:in più il silenzio e quasi una nascosta solidarietà non scritta e detta nei confronti della Vw fa temere che i controlli siano standard per tutte le autovetture vendute.
Poi l'articolo ampia il discorso sul surplus delle automobili prodotte,delle logiche del mercato e del capitalismo,dei costi della produzione e del consumatore finale per avere un prodotto finale almeno rispettoso in parte verso l'ambiente.
 
L'auto sbatte contro i limiti fisici. Tutti fanno come Vw.  
Dante Barontini - tratto da http://contropiano.org
 
L'industria dell'auto è saltata su una mina, e nessuno sa dire quale sarà il conto finale dei danni. Una cosa, però, a cinque giorni dall'esplosione dello scandalo Volkswagen, si può dire con certezza, sono convolti tutti i costruttori, nessuno escluso.
Come facciamo a dirlo? Se dovessimo dar retta solo alle capacità induttive, potremmo dire: se qualcuno fosse stato “pulito”, già saremmo travolti da paginate di pubblicità che garantiscono “compra i nostro modelli, inquinano con certezza meno di Vw”.
E invece nulla, tutti abbottonati. Per stare solo all'Italia, ecco come John Philip Jacob Elkann, giovane ma già presidente di Fiat Chrysler Automobiles (oltre che di altre controllate dalla famiglia Agnelli) ha risposto a un “suo” giornalista de La Stampa: «Non commentiamo quello che accade ai concorrenti, vedremo di capire meglio dalle indagini», come se Vw non avesse già confessato di aver frodato il mercato con un software per mascherare la reale portata delle emissioni al momento dei test. Poi, temendo forse di passare per omertoso, aggiunge: «E’ un fatto molto grave. Ma attenzione, come ha precisato l’Acea (associazione dei costruttori europei dell'auto, ndr), è specifico di una società e non un problema dell’intero settore dell’auto». Notate bene: potrebbe affondare la lama nel burro, affermare che i modelli Fiat sono completamente a posto e rientrano senza sforzi nei parametri richiesti sia negli Usa che in Europa, che i clienti Vw possono correre alle concessionarie Fca, che i delinquenti devono essere azzerati dal mercato, che ora si aprono nuovi scenari di espansione a livello globale per i marchi sotto la sua gestione...
E invece nulla, risponde come un rapinatore dopo l'arresto di un complice, misurando le parole per non irritarlo a distanza e non provocare una chiamata di correo. Del resto il suo braccio operativo, Sergio Marchionne, a botta calda, aveva giustificato senza problemi il comportamento di Vw: se sarà costretto a rispettare gli standard Euro 7, che dovranno entrare in vigore nel 2020, aumenterebbe di «1.800-2.000 euro a vettura il costo delle norme sul CO2 fissate per il 2020: se si abbassa la soglia delle emissioni di CO2 cambia la natura industriale, i prezzi salirebbero e venderemmo meno macchine». Del resto, il quotidiano di Confindustria già ha cominciato a tratteggiare la “comunicazione” che giustificherà la rinuncia ad abbassare le emissioni nocive con il più classico “i limiti sono inutili se le industrie non possono raggiungerli”.
Perfetto. La domanda-bomba è appunto questa: perchéle industrie automobilistiche non possono abbattere le emissioni fino ai livelli prescritti, senza neanche esagerare in fermezza o controlli, per tentare di diminuire l'avvelenamento dell'ambiente in cui tutti noi viviamo?
La prima ragione, evidenziata da laboratori di ricerca indipendenti e da ambientalisti specializzati nel settore auto, è di tipo economico: per ottenere quei risultati bisognerebbe montare più filtri, e più efficienti, e soprattutti cambiarli molto spesso. Più costi per il costruttore, come ammette Marchionne, ma anche per l'utente finale, costretto a passare dal meccanico molto più spesso. Il risultato nel miglioramento ecologico è insomma chiarissimo: si venderebbero meno auto in un momento in cui già il settore soffre di sovracapacità produttiva (100 milioni di vetture costruibili, solo 60 vendibili).
La prima risposta appare però incompleta. Se agli automobilisti è stata fin qui evitata la seccatura di farsi pulire spesso i filtri, spendendo di più per la manutenzione, che fine fanno i materiali filtrati, dopo la combustione nel motore? Non è difficile da indovinare: se non devono esser tolti manualmente, vengono scaricati in aria o per terra.
Persino i filtri antiparticolato dei motori diesel – che in Italia sono prodotti e commercializzati in regime di monopolio da Pirelli e Iveco (chi ricorda più “Agnelli-Pirelli, ladri gemelli”?) - producono più inquinanti, invece che meno. Parola del Procuratore generale del Tribunale di Roma, Pignatone, che ha aperto un'inchiesta perché "oltre a immettere nell'aria altre sostanze nocive, determina la trasformazione del to, ossia polveri sottilissime non misurate dai dispositivi di monitoraggio in uso, ma ben più nocive per la salute umana". Insomma, raddoppia i danni.
Non fanno molto meglio i motori a benzina, appena un po' meglio quelli a gas. Ma neanche le ibride sono esenti da magagne, tanto che le case costruttrici conducono i loro test in condizioni davvero inusuali. Come testimonia Enrico De Vita, ex direttore di Quattroruote, "L’auto comincia la prova con la batteria carica e può fare anche tre quarti del ciclo in elettrico. Ma il dato di consumo sarà quello della poca benzina usata per finire il percorso. Il costo dell’elettricità viene conteggiato zero". Inutile dire che l'elettricità deve venir prodotta da qualche altra parte, con centrali a gas, carbone, nucleare, ben che vada idroelettriche; insomma, quel non viene inquinato qui. Viene inquinato da un'altra parte. E in ogni caso, i dati sono “abbelliti” di molto, anche grazie ad altri piccoli accorgimenti come “pneumatici a basso rotolamento allo spegnimento dell’alternatore, dai pannelli aerodinamici nel sottoscocca a vari alleggerimenti nel corpo vettura, dalla scelta di laboratori spagnoli localizzati ad alta quota (ove l’aria è più rarefatta) a oli extra fluidi”.
Di nuovo e per sempre: così fan tutti i produttori, per questo tacciono. Volkswagen potrenne annientarli tutti, svelando altri trucchi usati da ciascuno.
Ma se nessuno riesce ad abbattere le emissioni al di sotto di certi livelli, vuol dire che c'è un limite fisico, non solo economico o tecnologico. E i limiti fisici non si aggirano con la “comunicazione”, né col software intelligentissimo. In natura, si studiava quando si studiava, “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Ma se usi idrocarburi per la mobilità, in motori a combustione interna (efficienza massima intorno al 30%), semini residui di idrocarburi per ogni dove.
Il fatto stesso che, tra mille resistenze, si sia comunque affermata nel mondo una certa sensibilità alle tematiche ambientali, non può essere certamente ascritto né alla lungimiranza delle èlites economico-politiche (che avrebbero volentieri continuato a tenere tutti gli occhi ben chiusi), né alla particolare pressione dei movimenti ambientalisti, in fondo piuttosto “tenerelli” quanto a mobilitazione antagonista. È dunque piuttosto la reazione – lenta e cautelosa – a un montare di problemi ormai innegabili: dall'aumento della temperatura media in ogni angolo della Terra allo scioglimento dei ghiacciai, dall'aria irrespirabile nelle grandi metropoli (con un vasto parco auto perennemente in moto e circondate da centrali produttrici di energia) alle modificazioni climatiche con conseguenze catastrofiche.
Nel raggiungimento del limite fisico l'industria dell'auto ha dato un grande contributo. Il più “di massa”, se non il più pesante in assoluto. Con lo scandalo Volkswagen, diventa evidente che tutto un modo di vivere e produrre è incompatibile con la sopravvivenza dell'umanità. O, per lo meno, con la sopravvivenza di tutta questa umanità (sette miliardi e spiccioli, ormai).
Sul piano teorico non è certo una novità dire che il capitalismo è un modo di produzione folle, irrazionale e omicida-suicida perché, essendo trainato dall'accumulazione e orientato dalla ricerca del massimo profitto, punta a una crescita infinita in un mondo che al contrario è finito; ovvero limitato, una palla persa nello spazio. La novità sta nel fatto che ora questa follia si manifesta in “cose”, davanti ai nostri occhi che non vogliono ammettere l'enormità del fatto. L'industria dell'auto, pur punzecchiata dalla concorrenza più spietata e incentivata in ogni modo (con soldi pubblici) per ridurre al massimo le emissioni inquinanti, ad un certo punto ha sbattuto in prima persona contro il limite fisico (impossibile ridurle sotto una certa soglia) e si è arresa: inutile investire ancora in ricerca, tanto vale barare.
Un'anima bella potrà eccepire: “ma questo è un comportamento criminale, indegno di un'industria seria, viola la fiducia che noi consumatori e cittadini le abbiamo fin qui concesso!”.
È sempre stato così. La storia delle industrie è un seguito incalcolabile di truffe ai consumatori e ai cittadini. Potremmo citare i “grandi”, come Volkswagen o lo Schmideiny di Eternit, fino ai piccoli avvelenatori come Ciravegna (lo scandalo del vino al metanolo, con almeno 23 morti e un numero molto superiore di accecati o comunque intossicati). Ma potremmo anche citare tutti i grandi crack finanziari, con le banche impegnatissime nel vendere ai propri clienti ignari proprio quelle azioni che non si potevano più vendere sul mercato, ecc). E' sempre stato così e non smetteranno mai. Volontariamente, almeno.
Nessun capitalista, se non qualche piccolo imprenditore travolto dalla vergogna di aver fallito, ha mai rinunciato al tentativo di salvarsi ammazzando i clienti. Il che non è un problema morale, risolvibile a forza di regole e sanzioni. È la natura dell'impresa capitalistica, che cerca il profitto, non la “soddisfazione dei bisogni sociali” o “il progresso dell'umanità”. Se soddisfazione a volte c'è, e progresso anche, è per “incidente”, come sottoprodotto derivato, non come scopo.
Tenteranno di smorzare il più possibile, ma questa crisi, per l'industria che riempie da un secolo le strade e l'immaginario del mondo, può segnare l'inizio di molte fini. Allacciate le cinture.
25 settembre 2015

sabato 26 settembre 2015

SERIA PROPOSTA DI PACIFICAZIONE IN COLOMBIA


Cuba negli ultimi tempi non è solo sinonimo della visita papale o della possibile fine dell'embargo statunitense,ma anche grazie ad una conferenza per il dialogo della pace a l'Avana è stato siglato uno storico patto tra il governo colombiano e le Farc,dopo una guerriglia interna durata oltre cinquant'anni e che ha provocato migliaia d vittime.
Dopo un dialogo cominciato col piede sbagliato,con i militari colombiani che appena avviati i dialoghi di pace del 2012 uccisero l'amico del leader comandante Timoshenko e alto rappresentante dei guerriglieri delle forze armate rivoluzionarie Danilo Garcia in un'operazione di repressione del governo(vedi http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2012/10/dialogo-farc-e-governo-colombiano.html e links proposti),si è arrivati ad un accordo da portare avanti nei prossimi mesi.
La sensazione è quella che sia la volta buona per una cessazione delle ostilità e di un nuovo orientamento delle Farc che dovrebbero costituire un partito da presentare alle prossime elezioni:la volontà dell'ex pupillo del controverso Uribe,l'attuale Presidente Santos,pare volta proprio alla pace non come accade in Spagna come detto pochi giorni fa con la questione basca(vedi http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2015/09/la-lotta-basca-non-si-arresta.html ).
Articolo preso da Infoaut:http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/15498-colombia-storico-accordo-tra-farc-e-governo-verso-una-pace-degna .

Colombia: storico accordo tra FARC e governo verso una 'Pace Degna'.

Il governo di Bogotà e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, le Farc, attive dal maggio 1964 con la loro guerriglia rivoluzionaria sulle montagne del paese, hanno annunciato da Cuba di aver raggiunto un accordo sulla spinosa questione delle conseguenze giudiziarie del loro conflitto, che spiana la via per porre fine a un conflitto che dura ormai da oltre mezzo secolo.
L’accordo siglato prevede un’ampia amnistia per i delitti politici e la creazione di una “giurisdizione speciale per la pace” – integrata da magistrati colombiani, ma con l’assistenza di giuristi stranieri – che dovrà processare gli imputati per gli altri crimini, compresi quelli di lesa umanità.
L’accordo è stato annunciato in una cerimonia congiunta all’Avana, in presenza del presidente colombiano di centrodestra, Juan Manuel Santos, del comandante delle Farc Timoshenko (vero nome Rodrigo Londono Echeverri) e del presidente cubano Raul Castro. I rappresentanti dei due paesi mediatori del processo di pace lanciato nel 2012 – Cuba e Norvegia – hanno letto un comunicato comune preparato dalle due parti, nel quale si descrivono i meccanismi giuridici creati per garantire “la verità, la convivenza, la riparazione per le vittime, la giustizia e la non ripetizione” del conflitto.
Timoshenko da parte sua ha sottolineato che “il sistema giudiziario creato per garantire che non vi sia impunità al termine di un conflitto nato nel lontano 1964 dovrà occuparsi non solo delle attività della guerriglia”, ma anche degli altri protagonisti degli scontri violenti, come le forze di sicurezza e le organizzazioni paramilitari.
Il presidente colombiano, Juan Manuel Santos, ha poi aggiunto: “ora abbiamo massimo sei mesi per chiudere i negoziati”. In caso di definitivo accordo di pace le Farc dovranno deporre le armi 60 giorni dopo e diventare movimento politico.
Abbiamo realizzato una trasmissione con le interviste, ai nostri microfoni, di Geraldina Colotti, gioranlista de Il Manifesto e corrispondente dall’America Latina e Lucio Bilangione, Associazione “Nuova Colombia”
da radiondadurto

venerdì 25 settembre 2015

L'ADDIO DI CREMASCHI ALLA FIOM-CGIL:RESA O SCONFITTA?

L'ex Presidente Fiom-Cgil Giorgio Cremaschi dopo quarantaquattro anni di servizio da sindacalista nel più importante sindacato storico italiano da questo mese non è più tesserato e le motivazioni sono elencate nell'articolo qui sotto preso da Contropiano(http://contropiano.org/politica/item/32854-cremaschi-perche-lascio-la-cgil ).
La principale motivazione sta nel fatto che si sente talmente estraneo dal progetto attuale del sindacato che non ritiene più necessario ed importante il suo lavoro affinché qualcosa cambi,una resa più che una vera e propria sconfitta che gli ha lasciato tanto amaro in bocca.
Ora non è stato ancora reso noto ciò ce vorrà fare da"grande",se proseguire l'attività che lo ha sempre contraddistinto con altre sigle sindacali o entrare in politica con Ross@ di cui è stato uno dei primi organizzatori o se entrare con il segretario Fiom Landini nel progetto di sinistra della"coalizone sociale".

Cremaschi: "Perché lascio la Cgil".

Le ragioni per le quali ho restituito dopo 44 anni la tessera della Cgil sono semplici e brutali. Oramai mi sento totalmente estraneo a ciò che realmente è questa organizzazione e non sono in grado minimamente di fare sì che essa cambi.La mia è quindi la presa d'atto di una sconfitta personale: ci ho provato per tanto tempo e credo con rigore e coerenza personale, non ci sono riuscito. Anzi la Cgil è sempre più distante da come avrei voluto che fosse. Non parlo tanto dei proclami e
delle dichiarazioni ufficiali, ma della pratica reale, della vita quotidiana che per ogni organizzazione, in particolare per un sindacato, è l'essenza. Non è questo il sindacato che vorrei e di cui credo ci sia bisogno, e soprattutto non vedo in esso la volontà di diventarlo.
Naturalmente mi si può giustamente rispondere: chi ti credi di essere? Certo la mia è la storia di un militante come ce ne sono stati tanti, che ha speso tanto nell'organizzazione ma che non può pretendere di essere al centro del mondo. Giusto, tuttavia credo che la mia fuoriuscita possa almeno essere registrata come un pezzetto della più vasta e diffusa crisi sindacale di cui tanto si parla, e che come tale possa essere collocata e spiegata.
Nei primissimi anni 70 del secolo scorso a Bologna come lavoratore studente ho preso con orgoglio la mia prima tessera Cgil. Poi sono stato chiamato a Brescia per cominciare a lavorare a tempo pieno nella Fiom. Nella quale sono rimasto fino al 2012. Ho visto cambiare il mondo, ma se tornassi indietro con la consapevolezza di oggi rifarei tutte le scelte di fondo. Scherzando penso che io ed il mondo siamo pari, io non sono riuscito a cambiarlo come volevo, ma pure lui non ce l'ha fatta con me.
Quando ho cominciato a fare il "sindacalista" a tempo pieno questa parola suscitava rispetto. Io la maneggiavo con un pò di timore. Il sindacalista era una persona giusta e disinteressata che raddrizzava i torti, era il difensore del popolo. Oggi se dici che sei un sindacalista ti vedi una strana espressione intorno, molto simile a quella che viene rivolta ai politici di professione. Sindacalista eh? Allora sai farti gli affari tuoi...
Questo discredito del sindacato è sicuramente alimentato da una disegno del potere economico e delle sue propaggini politiche ed intellettuali. Ma è anche frutto della burocratizzazione e istituzionalizzazione delle grandi organizzazioni sindacali. Paradossalmente oggi è proprio il sindacalismo moderato della concertazione, che ho contrastato per quanto ho potuto, ad essere messo sotto accusa.
Negli anni 80 e 90 è stata la mutazione genetica del sindacato più forte d'Europa, la sua scelta di accettare tutti i vincoli e le compatibilità del mercato e del profitto, che ha permesso al potere economico di riorganizzarsi e riprendere a comandare. In cambio le grandi organizzazioni sindacali hanno chiesto compensazioni per se stesse.
Questo è stato il grande scambio politico che ha accompagnato trent'anni di politiche liberiste contro il lavoro. I grandi sindacati accettavano la riduzione dei diritti e del salario dei propri rappresentati e in cambio venivano riconosciuti ed istituzionalizzati. Partecipavano ai fondi pensione, a quelli sanitari, agli enti bilaterali, firmavano contratti che costruivano relazioni burocratiche con le imprese, stavano ai tavoli dei governi che tagliavano lo stato sociale, insomma crescevano mentre I lavoratori tornavano indietro su tutto.
Quando il mondo del lavoro è precipitato nella precarietà e nella disoccupazione, quando si è indebolito a sufficienza, il potere economico reso più famelico dalla crisi, ha deciso che poteva fare a meno dello scambio della concertazione. Ha dato il via Marchionne e tutti gli altri lo hanno seguito. Quelle concessioni sul ruolo e sul potere della burocrazia, che le stesse imprese ed il potere politico elargivano volentieri in cambio della "responsabilità" sindacale, son state messe sotto accusa. Coloro che più si sono avvantaggiati dei "privilegi" sindacali ora sono i primi a lanciare lo scandalo su di essi.
I vecchi compagni da cui ho imparato l'abc del sindacalista mi dicevano: se al padrone dai una mano poi si prende il braccio e tutto il resto. Ma nel mondo moderno certe massime sono considerate anticaglie, e quindi i gruppi dirigenti dei grandi sindacati son rimasti sconvolti e travolti dalla irriconoscenza di un potere a cui avevano fatto così ampie concessioni. Hanno così finito per fare propria la più grande delle falsificazioni sul loro operare. I sindacati hanno difeso troppo gli occupati e abbandonato i giovani ed i precari, questo è passato nei mass media. Mentre al contrario non si sono trasmessi diritti alle nuove generazioni proprio perché si è rinunciato a difendere coloro che quei diritti tutelavano ancora. I grandi sindacati han subito la catastrofe del precariato non perché troppo rigidi, ma perché troppo subalterni e disponibili verso le controparti. Questa è la realtà rovesciata rispetto all'immagine politica ufficiale, realtà che qualsiasi lavoratrice o lavoratore conosce perfettamente sulla base della proprie amare esperienze.
La condizione del lavoro in Italia oggi è intollerabile e dev'essere vissuta come un atto di accusa da ogni sindacalista che creda ancora nella propria funzione. Non è solo lo perdita di salari e diritti, il peggioramento delle condizioni di lavoro, lo sfruttamento brutale che riemerge dal passato di decenni. Sono la paura e la rassegnazione diffuse, il rancore, la rottura di solidarietà elementari, che mettono sotto accusa tutto l'operato sindacale di questi anni.
Di Vittorio rivendicò alla Cgil il merito di aver insegnato al bracciante che non ci si toglie il cappello quando passa il padrone. Di chi è la colpa se ora chi lavora deve piegarsi e sottomettersi come e peggio che nell'800? È chiaro che la colpa è del potere economico e di quello politico ad esso corrivo, oggi ben rappresentato da quella figura trasformista e reazionaria che è Matteo Renzi. È chiaro che c'è tutto un sistema culturale e mediatico che educa il lavoro alla rassegnazione e alla subordinazione all'impresa. Ma poi ci son le responsabilità da questo lato del campo, quelle di chi non organizza la contestazione e la resistenza.
Lascio la Cgil perché non vedo nei gruppi dirigenti alcuna volontà di cogliere il disastro in cui è precipitato il mondo del lavoro e le responsabilità sindacali in esso. Vedo una polemica di facciata contro le politiche di austerità e del grande padronato, a cui corrispondono la speranza e l'offerta del ritorno alla vecchia concertazione. E se le dichiarazioni ufficiali, come sempre accade, fanno fuoco e fiamme sui mass media, la pratica reale è di aggiustamento e piccolo cabotaggio, nell'infinita ricerca del minor danno. Il corpo burocratico della Cgil è più rassegnato dei lavoratori posti di fronte ai ricatti del mercato e delle imprese, come può comunicare coraggio se non ne possiede? Certo ci sono tante compagne e compagni che non si arrendono , che fanno il loro dovere, che rischiano, ma la struttura portante dell'organizzazione va da un'altra parte, è dominata dalla paura di perdere il residuo ruolo istituzionale e quando ci sono occasioni di rovesciare i giochi, volge lo sguardo da un'altra parte. Quando la FIOM nel 2011 si è opposta a Marchionne, quando Monti ha portato la pensione alla soglia dei 70 anni, quando si è tardivamente ripristinato lo sciopero generale contro il governo, in tutti quei momenti si è vista una forza disposta a non arrendersi. Quei momenti non sono lontani, eppure sembrano distare già decenni perché subito dopo di essi i gruppi dirigenti son tornati al tran tran quotidiano. E temo che lo stesso accada ora nel mondo della scuola ove un grande movimento di lotta non sta ricevendo un adeguato sostegno a continuare.
Non si può ripartire se l'obiettivo è sempre solo quello di trovare un accordo che permetta all'organizzazione di sopravvivere. Così alla fine si firma sempre lo stesso accordo in condizioni sempre peggiori. In fondo è una resa continua. Il 10 gennaio 2014 CGiL CISL UIL hanno firmato con la Confindustria un'intesa che scambia il riconoscimento del sindacato con la rinuncia alla lotta quotidiana nei luoghi di lavoro. Una volta che la maggioranza dei sindacati firma un contratto la minoranza deve obbedire e non può neppure scioperare. Se non accetti questa regola non puoi presentarti alle elezioni dei delegati. Se negli anni 50 del secolo scorso la Cgil, in minoranza nelle grandi fabbriche, avesse accettato un sistema simile non avremmo avuto l'autunno caldo e lo Statuto dei Lavoratori. Che non a caso oggi il governo cancella sicuro che le grida sindacali non siano vera opposizione.
Il movimento operaio nella sua storia ha incontrato spesso dure sconfitte, ma le ha superate solo quando le ha riconosciute come tali e quando ha cambiato la linea politica, la pratica e, a volte, i gruppi dirigenti. Invece nulla oggi viene davvero rimesso in discussione.
La Cgil ha sempre avuto una dialettica interna. Tra linee politiche, tra esperienze, tra luoghi di lavoro, territori e centro, tra categorie e confederazione. Dagli anni 90 il confronto tra maggioranza e minoranze si è intrecciato con quello tra la FIOM e la confederazione. In questi confronti e conflitti si aprivano spazi di esperienze ed iniziative controcorrente. Oggi tutto questo non c'è più. Una normalizzazione profonda percorre tutta l'organizzazione e l'ultimo congresso le ha conferito sanzione formale. Non facciamoci ingannare dalle polemiche televisive e dalle imboscate di qualche voto segreto. Fanno parte di scontri di potere tra cordate di gruppi dirigenti, mentre tutte le decisioni più importanti son state assunte all'unanimità, salvo il voto contrario della piccola minoranza di cui ho fatto parte e di cui non si è mai tenuto alcun conto.
Una piccola minoranza che al congresso ha raggiunto successi insperati là dove c'erano le persone in carne ed ossa, ma che nulla ha potuto contro i tanti risultati bulgari per partecipazione e consenso verso i vertici, costruiti a tavolino. Con l'ultimo congresso la struttura dirigente della Cgil ha deciso di ingannare se stessa. La partecipazione bassissima degli iscritti è stata innalzata artificialmente per mascherare una buona salute che non c'è. Ed il resto è venuto di conseguenza. A differenza che nel passato non ci son più problemi nella vita interna della Cgil, tutto è pacificato a parte i puri conflitti di potere. Ma forse anche per questo la Cgil non ha mai contato così poco nella vita sociale e politica del paese.
A questo punto non bastano rinnovamenti di facciata, sono necessarie rotture di fondo con la storia e la pratica degli ultimi trenta anni.
Bisogna rompere con un sistema Europa che è infame con i migranti mentre si genuflette di fronte all'euro. I diritti del lavoro sono incompatibili con una moneta unica i cui vincoli,come ha ricordato il ministro delle finanze tedesco, sono tutt'uno con le politiche di austerità.Bisogna rompere con il PD ed il suo sistema di potere se non se ne vuol venire assorbiti e travolti.
Bisogna rompere con le relazioni subalterne con le imprese e ripartire dalla condizione concreta dei lavoratori .
Questo rotture non sono facili, ma sono indispensabili per ripartire e sono impossibili nella Cgil di oggi.
Certo, fuori dalla Cgil non c'è una alternativa di massa pronta. Ci sono lotte, movimenti, sindacati conflittuali generosi e onesti, ma spesso distanti se non in contrasto tra loro. Ma questa situazione frantumata per me non giustifica il permanere in un'organizzazione che sento indisponibile anche solo a ragionare su queste rotture.
So bene che la svolta positiva per il mondo del lavoro ci sarà quando tutte le organizzazioni sindacali, anche le più moderate, saranno percorse da un vento nuovo. Ho vissuto da giovane quei momenti. Ma ho anche imparato che nell'Italia di oggi questo cambiamento sarà possibile solo se promosso da una spinta organizzata esterna a CGIL CISL UIL. A costruirla voglio dedicare il mio impegno.
Per questo lascio la Cgil da militante del movimento operaio così come ci sono entrato. Saluto con grande affetto le compagne e compagni di tante lotte che non condividono questo mio giudizio finale. Siccome li conosco e stimo, so che ci ritroveremo in tanti percorsi comuni. Saluto anche tutte e tutti gli altri compagni, perché ho fatto mio l'insegnamento di Engels di avere avversari, ma mai nemici personali.
Grazie soprattutto a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori che hanno insegnato a me, intellettuale piccolo borghese come si diceva una volta, cosa sono le durezze e le grandezze della classe operaia. Spero di poter apprendere ancora.

giovedì 24 settembre 2015

ALLO STATO SERVE LA CAMORRA


Il discorso imbastito nell'articolo preso da Senza Soste e che fa riferimento ad un centro sociale napoletano del Rione Traiano sito in un ex ospedale psichiatrico(Je so pazzo)parla esclusivamente di Napoli ma potrebbe essere stato scritto da siciliani o da calabresi,e facendo un discorso più ampio dal popolo del sud Italia.
Negli ultimi giorni a Napoli si spara e si uccide ancora come non accadeva da anni e qui sotto prendendo spunto dall'assassinio di Davide Bifolco ammazzato da un carabiniere(vedi http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/search?q=davide+bifolco )un anno fa e dal recente omicidio di un diciasettenne ammazzato da un camorrista,si dice ciò che si sa già da parecchio da queste parti.
Lo Stato ha convenienza a scendere a patti con la camorra per molti motivi,ed il principale è che la criminalità organizzata sostituisce lo Stato nel controllo sociale della popolazione e soprattutto dei giovani.
La camorra è la principale offerta di sostentamento di troppe zone di Napoli e ci si chiede che se lo Stato impiegasse la sua forza e la sua opera costante contro i traffici di stupefacenti,voce principale dei proventi malavitosi,centinaia di giovani sarebbero senza lavoro e chiederebbero giustizia sociale,domanderebbero una casa e un lavoro,vorrebbero i diritti spettanti.
Quindi è giocoforza delle forze dell'ordine ubbidire ai comandi dall'alto e lasciare che tutto scorra,ogni tanto arrestare qualche ladruncolo e qualche piccolo pusher e dar fastidio a immigrati e a rom in particolare,per far vedere che i soldi che guadagnano sono anche sudati.

Ecco perché non si combatte la Camorra
È passato giusto un anno e un altro ragazzino è stato ammazzato in un quartiere popolare. L’anno scorso un carabiniere assassinava Davide Bifolco, 16 anni, al Rione Traiano e oggi un camorrista ha ucciso Gennaro Cesarano, 17 anni,  al centro del quartiere Sanità. Al di là delle differenze dei due episodi, la sostanza non cambia. Due omicidi di innocenti, due figli di questa città trucidati senza un perché. Due ragazzi uccisi una seconda volta dalla stampa, dai commenti razzisti, da chi dice che “se la sono cercata”… 
 
 
Se vogliamo che questa strage di giovani vite finisca, non possiamo fermarci alla constatazione e al dolore, dobbiamo riflettere e cercare di fare un po’ di chiarezza fra le tante bugie che si dicono, che entrano nella testa di tanti napoletani e li rendono sempre più passivi e rassegnati. Qui vogliamo provare a spiegare qual è la reale situazione dei quartieri popolari e perché la camorra non viene affatto combattuta dallo Stato, dai politici e dalla borghesia, e anzi è parte integrante del governo dei nostri territori.
Come risulta dagli atti processuali, Davide Bifolco venne ucciso da un carabiniere che insieme ai suoi commilitoni stava cercando di acciuffare non un pericoloso latitante ma Arturo Equabile, un ladruncolo evaso dagli arresti domiciliari che li aveva beffati più di una volta facendo perdere le proprie tracce. Uno smacco che evidentemente i solerti militari avevano deciso di punire severamente, e di cui poco si sarebbe saputo se a beccarsi la pallottola fosse stato effettivamente Equabile e non Davide Bifolco, che quella notte stava semplicemente facendo un giro con gli amici in motorino. Una vicenda ancor più assurda se pensiamo che questa inutile quanto crudele operazione di polizia avveniva a manco 300 metri da una delle più importanti piazze di spaccio della città dove ogni giorno platealmente si vendono chili e chili di droga. Ma la priorità dei carabinieri quella sera, come del resto tutto l’anno, non era bloccare la vendita di stupefacenti, ma prendere vivo o morto un rubagalline qualsiasi tanto per far vedere di far qualcosa e non essere accusati di rubare lo stipendio ogni mese…
Noi i carabinieri del Rione Traiano li conosciamo bene perché in quel quartiere abbiamo occupato un centro sociale per 5 anni e vi possiamo dire che sono la rappresentazione plastica dell’ipocrisia dello Stato e di tutte le sue contraddizioni in tema di sicurezza. I carabinieri del Rione Traiano hanno la loro caserma in Piazza Vitale Ettore: anche in questo caso la distanza che intercorre tra loro e via Tertulliano e via Romolo e Remo, dove materialmente sono localizzati gli spacciatori, è di nemmeno 400 metri.
In pratica la camorra gli spaccia sotto casa. Loro però si guardano bene dal contrastare minimamente le attività delle organizzazioni criminali e così passano le loro giornate a tentare di arrestare qualche ragazzino sospettato di furto o scippo e a perseguitare gli immigrati in genere e in particolare i Rom. In 5 anni l’operazione più grossa che gli abbiamo visto fare è stata quella contro un gruppo di una settantina di Rom, quasi tutti donne e bambini, che scappati da un raid a Ponticelli si erano rifugiati in un campetto antistante il nostro centro sociale. In quell’occasione li vedemmo sbucare di notte in venti, vestiti in borghese con le pistole spianate, con il chiaro intento di terrorizzare i Rom e obbligarli a sloggiare. In quel caso fortunatamente gli andò male perché ci mettemmo in mezzo e i Rom prima si sistemarono da noi e poi a seguito di una vertenza vinta con il comune riuscimmo a fargli assegnare stabilmente i locali della ex-scuola Grazia Deledda. In un’altra occasione invece, senza alcun motivo, a seguito di un banale controllo in macchina, presero in “ostaggio” uno di noi per diverse ore semplicemente perché di nazionalità albanese.
Insomma tutto questo per dirvi che i carabinieri del Rione Traiano non fanno veramente nulla dalla mattina alla sera. Ma questo loro atteggiamento non è frutto di una scelta dei singoli appuntati o degli ufficiali  assegnati a quella caserma. Loro sono militari ed eseguono ordini. Ed è del tutto evidente che l’ordine che viene dall’alto è proprio quello di lasciare mano libera ai clan della camorra e di limitarsi a far vedere che esistono con l’arresto di qualche delinquentuccio.
Questo può scandalizzare ma, a pensarci bene, perché mai lo Stato avrebbe interesse a intervenire? Tecnicamente potrebbe bloccare senza alcuna difficoltà lo spaccio di stupefacenti da un giorno all’altro, così come fu fatto negli anni ’90 per il contrabbando di sigarette, che a Napoli era qualcosa di storico e che però fu sgominato in pochi mesi… Ma se lo facesse, lo Stato si troverebbe davanti non pochi problemi.
Nella nostra città lo Stato per decenni ha lasciato che una parte consistente della popolazione di  interi quartieri si mantenesse economicamente grazie alle attività criminali e in particolare alla vendita di stupefacenti. Nel momento in cui lo Stato dovesse decidere di mettere fine ai traffici, quelle persone, perdendo le proprie fonti di sostentamento, comincerebbero a pretendere giustamente lavoro, casa e diritti. Sarebbe una miscela esplosiva. Meglio invece farli vivere nel degrado e nella violenza nei loro ghetti.
Volete un altro esempio? La notte in cui fu ucciso Davide molti sui amici, giustamente incazzati, protestarono contro la polizia. Per una notte si innescò una dinamica molto simile alle rivolte viste nei ghetti neri americani o nelle banlieue francesi. Ma a Rione Traiano finì tutto subito. Eravamo in piazza il giorno dopo e abbiamo visto con i nostri occhi gli stessi emissari dei clan controllare la massa di giovani proletari del quartiere, intimandogli di calmarsi e parlando direttamente loro in piazza con le forze dell’ordine!
Insomma, dal punto di vista dei potenti c’è tutto l’interesse a mantenere l’attuale stato di cose. In questo modo:
- la camorra può tranquillamente arricchirsi vendendo droga e contribuire al controllo sociale di buona parte del popolo e in particolare dei giovani;
- lo Stato può completamente scaricarsi delle proprie responsabilità rispetto alle fasce più deboli e - grazie al controllo operato dai clan - essere sicuro che non ci saranno mai proteste sociali;
- i politici troveranno sempre pacchetti di voti belli e pronti preparati dai clan che in quanto unici datori di lavoro ed erogatori di welfare hanno la popolazione in pugno;
- infine le forze dell’ordine potranno tranquillamente prendere il proprio stipendio senza fare un cazzo.
Ecco perché, al di là dei proclami e degli spot elettorali, della vuota retorica antimafia delle istituzioni, la camorra non viene combattuta da nessuno di questi soggetti.
Gli unici che non ci guadagnano nulla da questa situazione, ma che ci perdono ogni giorno, sono le persone che vivono in quartieri come il Rione Traiano e la Sanità. Persone che oltre a vivere in contesti sempre più degradati e dimenticati dallo Stato, dove le prospettive di vita sono sempre peggiori e l’emigrazione sembra l’unica alternativa, spesso rischiano anche la vita semplicemente stando per strada cercando di viversi quel poco di socialità che gli è concessa. Quartieri dove in una sera di fine estate si rischia di essere ammazzati da un carabiniere frustrato o da un camorrista senza scrupoli come successo a Gennaro Cesarano.
Sono i proletari gli unici che ci rimettono, e sono loro gli unici che possono ribellarsi e che possono davvero combattere la camorra. La storia di questa città peraltro ce lo conferma: gli unici che negli ultimi decenni hanno fatto arretrare la camorra, messo in crisi il suo sistema di governo sul territorio, sono i lavoratori, i movimenti dei disoccupati organizzati, la rete di collettivi, associazioni, volontari che da Secondigliano al Centro Storico hanno riempito le strade di questa città.
È questo quello che bisogna fare se vogliamo davvero combattere la camorra, è questo lavoro che va ripreso e intensificato, è questa presenza – unita alla forte richiesta di lavoro, di diritti sociali, di sviluppo – che ci può fare uscire da questa barbarie che divora tanti nostri fratelli.
In questo momento di dolore in cui lo sconforto sembra prendere il sopravvento, mentre tutti i politicanti si riempiono la bocca, le uniche parole a cui sentiamo di associarci sono quelle pronunciate ieri da padre Alex Zanotelli: “Nessuno verrà a salvarci. Tocca a noi fare qualcosa per cambiare questa realtà”.
FACCIAMOLO! SALVIAMOCI!
8 settembre 2015

mercoledì 23 settembre 2015

LA LOTTA BASCA NON SI ARRESTA


Ieri mattina sono stati arrestati nel territorio basco francese David Pla e Iratxe Sorzabal,ritenuti due persone di elevata rilevanza nell'organizzazione dell'Eta,già arrestati,condannati e torturati nel corso degli ultimi anni,e tale notizia ha avuto molto risalto in Spagna.
Perché nello Stato spagnolo la caccia a chi lotta per l'autodetermiazione del popolo basco non è mai finita nonostante da anni Eta abbia cominciato un percorso unilaterale di pace e dallo scorso anno tramite un gruppo di esperti internazionali stia smantellando il proprio arsenale.
Madrid ha sempre guardato male,che sia il Pp o il Psoe al governo non cambia molto,questo processo di pace cui non ha mai avuto nemmeno la parvenza di un piccolo interesse,per motivi tra i più svariati come quello di continuare ad avere un nemico interno per deviare l'attenzione alle politiche di austerità che come nel sud Europa sta mettendo in ginocchio la popolazione.
Avere un diversivo da proporre costantemente(lo stesso accade in Italia con i No Tav per esempio)distoglie per l'appunto l'attenzione su problemi ben più gravi e pressanti:a mio avviso questo non porta altro ad aumentare la lotta e la legittima voglia del popolo basco di continuare nel processo d'indipendenza dalla Spagna.
 
Paesi Baschi, arrestati due presunti dirigenti di ETA.
 
Nella mattinata di oggi, martedì 22 settembre, un’operazione congiunta della polizia francese e spagnola in Iparralde (Paesi Baschi francesi) ha portato all’arresto di quattro persone, due delle quali accusate di fare parte del comitato politico dell’organizzazione indipendentista basca ETA.
Gli agenti della Guardia Civil e della DGSI (Direction générale de la sécurité intérieure) hanno fatto irruzione intorno alle 12,30 in un casolare situato tra i paesi di Baigorri e Banka all’interno del quale si trovavano Iratxe Sorzabal e David Pla, considerati dal Ministero degli Interni spagnolo come due dei più importanti dirigenti dell’organizzazione armata, insieme al proprietario della casa Pantxo Flores e una quarta persona della quale non è ancora conosciuta l’identità anche se alcune fonti riferiscono che potrebbe essere Josu Urrutikoetxea o suo figlio, Egoitz.

Secondo il ministro spagnolo Jorge Fernandez Diaz questa operazione rappresenterebbe la "decapitazione quasi totale" di Euskadi Ta Askatasuna, che sebbene abbia dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nel 2011 (secondo gli inquirenti Iratxe Sorzabal e David Pla sarebbero due dei tre etarra presenti nel video-comunicato) e cominciato lo smantellamento del proprio arsenale nel 2014 rimane oggetto di una repressione costante e smisurata da parte dei governi spagnoli e francesi. L'operazione denominata "Pardines", come il cognome del primo Guardia Civil ucciso da ETA (ancora in epoca franchista!), è infatti l'ennesimo tassello nella costruzione del piano che vedi i due paesi europei alleati nel tentare di colpire in profondità tutte le organizzazioni della sinistra abertzale basca, agiscano esse nella clandestinità o nel pieno rispetto delle norme “democratiche” dei due paesi.

Due dei detenuti di quest'oggi sono infatti già stati vittima dell'apparato repressivo costruito negli anni nel tentativo di neutralizzare l'azione politica degli indipendentisti, e da subito in rete sono circolate le foto delle torture subite da Iratxe Sorzabal durante una detenzione nel 2001. Anche per questo motivo per le 19 di oggi a Baigorri il partito Sortu, espressione della sinistra indipendentista e diretto erede delle istanze politiche di ETA, ha convocato una mobilitazione per denunciare gli arresti di questa mattina con lo slogan 'Errepresiorik ez! Konponbidea Orain!' ('No repressione! Soluzione ora!').

martedì 22 settembre 2015

COSA C'ENTRA L'ARABIA SAUDITA CON LA DIFESA DEI DIRITTI DELL'UOMO?


Apprendo con disgusto e anche con totale imbarazzo che l'Onu ha deciso che per il prossimo anno sia l'Arabia Saudita ad essere lo Stato a guida del Consiglio per i diritti dell'uomo.
Nella monarchia islamica assoluta dello stato saudita dove vige la sharia i diritti umani sono infatti pari a zero,soprattutto per le donne e per le minoranze,gli immigrati e gli omosessuali,un paese dove le femmine sono zerbini e non possono nemmeno guidare l'auto.
Ebbene la strana presidenza a rotazione prevista da questo consiglio ha voluto che per il 2016 toccasse all'Asia ed è stata scelta proprio una nazione che ha già condannato a morte ad agosto di quest'anno 102 persone quasi tutte per decapitazione ma anche per crocifissione come nel caso di un dissidente del regime arrestato a diciassette anni.
Altre libertà basilari come quelle religiose sono negate(sono tollerati i cristiani)e pure quella politica e la libertà di stampa sono praticamente nulle:va da se che sono grandi amici però degli Usa e alleati strategici nella penisola arabica e che la loro ricchezza basata sul petrolio possa permettere loro di regnare incontrastati nella regione e possano proseguire guerre nel silenzio come nello Yemen.

Capolavoro all’Onu. Da oggi a vigilare sui diritti umani ci sarà l’Arabia Saudita.

Nella monarchia islamica, dove vige un’applicazione rigida della sharia, vengono violati tutti i principali diritti umani. «Ha fatto decapitare più persone dell’Isis».

Le minoranze, i perseguitati, i discriminati e chiunque nel mondo soffre per il mancato riconoscimento dei suoi diritti umani può stare tranquillo: nel 2016 sarà difeso dall’Arabia Saudita. Purtroppo non è uno scherzo: l’ambasciatore saudita Faisal bin Hassan Trad è appena stato eletto a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu per l’anno 2016.
DIRITTI UMANI. Toccherà dunque a uno dei pochi paesi a non aver mai firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani, difendere per conto dell’Onu i diritti umani nel mondo. Quest’anno la presidenza, che viene ricoperta a rotazione da un paese di una diversa area continentale, toccava al gruppo asiatico e la monarchia assoluta islamica l’ha spuntata su paesi come Bangladesh, Cina, Emirati Arabi Uniti, India, Indonesia, Giappone, Kazakistan, Maldive, Pakistan, Repubblica di Corea, Qatar e Vietnam.
«PIÙ DECAPITAZIONI DELL’ISIS». L’annuncio, comprensibilmente, ha destato molta perplessità. Hillel Neuer, direttore di UN Watch, ong di Ginevra che monitora il lavoro in difesa dei diritti umani delle Nazioni Unite, ha commentato così la notizia: «È scandaloso che l’Onu abbia scelto un paese che ha giustiziato più persone dello Stato islamico quest’anno per presiedere il Consiglio dei diritti umani. Petrolio, dollari e politica nuocciono a questi diritti».
RECORD MONDIALE. Neuer non ha usato mezzi termini, ma ha le sue ragioni. L’Arabia Saudita è il quarto paese al mondo per numero di esecuzioni capitali, dietro Iraq, Iran e Cina, che detiene il record assoluto e irraggiungibile con migliaia di condanne a morte contro le centinaia degli altri paesi. Nel 2014 in Arabia Saudita sono state decapitate in tutto 88 persone. Ad agosto è stata decapitata la 102esima del 2015. E mancano ancora quattro mesi alla fine dell’anno.
CONDANNE ALLA CROCIFISSIONE. Pochi giorni fa, il 17 settembre per la precisione, nel Regno è stato condannato alla crocifissione Ali Mohammed Al-Nimr, figlio di un critico della monarchia islamica, arrestato nel 2012 quando aveva appena 17 anni. È stato accusato di aver protestato in modo illegale e di essere in possesso di armi da fuoco. Secondo molti giornali arabi, il ragazzo avrebbe confessato tutto sotto tortura. La sua richiesta di appello, appena respinta, è stata giudicata non pubblicamente, ma in segreto.
Solo per citare uno degli ultimi esempi di intolleranza radicale, l’Arabia Saudita ha proibito a National Geographic di vendere il suo numero di agosto in edicola e di spedirlo agli abbonati. La rivista ha citato «motivi culturali» alla base della censura. In copertina, sotto il titolo “La rivoluzione silenziosa”, c’era una foto di papa Francesco.
«ZERO DIRITTI». Al di là di questi ultimi casi, l’elenco delle violazioni dei diritti umani che avvengono in Arabia Saudita è lungo: dal trattamento delle donne a quello delle persone non islamiche, dalla violazione della libertà religiosa alla negazione della libertà di espressione, dallo sfruttamento disumano dei migranti per lavoro al trattamento riservato agli omosessuali, che possono incorrere anche nella pena di morte, per non parlare della rigidissima applicazione della sharia.
L’attivista laico Kacem El Ghazzali riassume così la vita nel Regno: «Questa è l’Arabia Saudita: l’unico membro dell’Onu a non aver firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani, uno Stato con zero diritti per le minoranze, zero diritti per le donne, zero diritti umani, zero libertà e un sacco di oppressione e barbarica soppressione per chi dissente».
CI PENSANO I SAUDITI. Il Consiglio Onu per i diritti umani è nato nel 2006 e al Palazzo di vetro avevano giurato che «gli Stati membri avranno i più alti standard nella promozione e protezione dei diritti umani». Il Consiglio ha come scopo quello di «rafforzare, promuovere e proteggere i diritti umani nel mondo», oltre che «denunciarne le violazioni». Da oggi, ci penserà l’Arabia Saudita.

Foto Ansa

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lunedì 21 settembre 2015

I PAPA, I CASTRO E IL DIO DENARO

Quello di ieri non è certo il primo incontro di un Papa con il popolo cubano,anzi ci si ricorda ancora gli ultimi due reazionari Giovanni Paolo II e Nazinger che però non hanno avuto lo stesso peso politico che ha avuto Francesco ieri e che sicuramente avrà in questi giorni.
Papa Francesco dopo la messa in Plaza de la Revoluciòn ha parlato privatamente con i fratelli Castro e da quel che è emerso si è trattato tanto di ecologia e del futuro dei paesi caraibici e sudamericani,che stanno riuscendo a vivere un gran percorso di libertà ma le forze destabilizzatrici e gli interessi del capitalismo sono sempre dietro l'angolo pronte a tarpare le ali della democrazia come accaduto nei decenni scorsi.
L'articolo preso da Contropiano(http://contropiano.org/internazionale/item/32936-cuba-papa-francesco-a-casa-di-fidel-castro )parla di questo e della scelta di una delle figlie del Che  Guevara che ha deciso di non presenziare alla messa in quanto non credente e quindi libera di scegliere(c'è libertà di culto a Cuba per chi non lo sapesse).
Grande rilevanza ha avuto anche la recente apertura di dialogo tra Cuba e Usa con Francesco che ha avuto un ruolo importante come intermediario tra Obama e Raul Castro,esempio globale di riappacificazione che pur se lenta è d'auspicio per la risoluzione dei conflitti mondiali.

Cuba.Papa Francesco a casa di Fidel Castro.

Dopo la messa celebrata in Piazza della Revoluciòn, Papa Francesco non ha rinunciato a quello che somiglia molto ad un appuntamento con la storia: l'incontro con Fidel Castro. Le due personalità si sono incontrate a casa del leader storico della Rivoluzione Cubana. Il colloquio tra i due è durato tra i 30 e i 40 minuti, poche le indiscrezioni trapelate, ma tra i temi affrontati particolare enfasi hanno avuto quelli ecologici, tema sul quale il Pontefice si era soffermato anche durante la sua omelia affermando la centralità dell'ecologia integrale come rimedio alle incapacità delle soluzioni fondate solo sulle scienze esatte e la biologia. Una visione questa che merita repliche pertinenti e in qualche modo marca le differenze. La critica allo scientismo e al vivente scollegato dalla dimensione metafisica di tipo religioso se da un lato segnala i fallimenti del modello di sviluppo dominante nel ridurre le devastazioni ambientali oggi evidenti a tutti, dall'altro introduce una idea di ecologia integrale fondata sulla "perfezione del creato" che obiettivamente mal si intende con il materialismo dialettico e la stessa dialettica della natura. Una ecologia senza scienza non ha un grande futuro.
Qualche avvisaglia che la visita a Cuba di un Pontefice molto popolare e circondato da una aura progressista potesse avere segni e reazioni diverse da quelle di pontefici reazionari come Woytila e Ratzinger, è venuta ad esempio dalla "diserzione" della messa papale da parte di Aleida Guevara, una delle figlie del Che.
Alla messa di Papa Francesco sulla Plaza della Revoluciòn infatti mancava Aleida Guevara March, la quale ha motivato pubblicamente la sua scelta. "Il Partito Comunista Cubano chiede ai militanti di andare a messa e di accogliere il Papa, quasi come fosse un dovere del partito. Non sono d'accordo. Lo accogliamo, certamente, come un visitatore, ma di sicuro non andrò alla messa. E lo trovo anche logico: abbiamo libertà di culto e non sono credente, e quindi non vado alla messa". "La chiesa cattolica - prosegue la figlia dell'icona cubana - è in gran parte la responsabile dei problemi che viviamo oggi, a causa dell'oscurantismo, dell'oppressione con la quale è arrivata al nostro popolo. Guardiamo alla storia della nostra America: la Chiesa cattolica è la più grande conquistatrice del nostro popolo".
In un passaggio del suo discorso all'arrivo a Cuba,  Papa Francesco ha affermato: "Geograficamente, Cuba è un arcipelago che si trova di fronte tutte le strade, con un coraggio straordinario come "chiave" tra nord e sud, tra est e ovest. La sua vocazione naturale è quello di essere un luogo di incontro per tutte le persone a venire insieme in amicizia, come José Martí sognato, "oltre il linguaggio dell'istmo e la barriera dei mari". Lo stesso era il desiderio di Giovanni Paolo II con il sua ardente appello che "Cuba si apra con tutte le sue magnifiche possibilità al mondo e il mondo si apra a Cuba". Ma è stato un altro passaggio a segnare il ruolo politico avuto dal Vaticano nella ripresa delle relazioni tra Cuba e Stati Uniti: "Da diversi mesi, stiamo assistendo a un evento che ci riempie di speranza: il processo di normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi (Cuba eStati Uniti, ndr), dopo anni di distacco". Ma c'è anche una nota di allarme nelle parole del Pontefice a fronte delle tensioni e conflitti che stanno crescendo nel mondo "Incoraggio i leader politici a proseguire su questa strada e sviluppare il loro pieno potenziale come prova dell'alto servizio che sono chiamati a rendere alla pace e il benessere dei loro popoli in America, e un esempio di riconciliazione al mondo intero. Il mondo ha bisogno di riconciliazione in questa atmosfera di terza guerra mondiale". Insomma non proprio un messaggio irrilevante ma un sintomo di serie preoccupazioni.

Dal canto suo il Presidente Cubano Raul Castro accogliendo il pontefice ha riaffermato il segno dei percorsi che Cuba ha prodotto in America Latina e lanciato un allarme : "I popoli dell’America Latina e dei Caraibi si sono proposti avanzare verso la loro integrazione, in difesa dell’indipendenza, della sovranità sulle risorse naturali e la giustizia sociale. Tuttavia, la nostra regione continua ad essere la più disuguale nella distribuzione della ricchezza. Nel continente, governi legittimamente costituiti che lavorano per un futuro migliore, affrontano numerosi tentativi di destabilizzazione". Ed ancora "Il sistema internazionale attuale è ingiusto ed immorale. Il capitale è stato globalizzato ed ha convertito il denaro nel suo idolo. Rende i cittadini come semplici consumatori. Invece di diffondere la conoscenza e la cultura, li aliena con riflessi e modelli di condotta promossi da mezzi che servono solo agli interessi dei loro padroni, le corporazioni multinazionali dell’informazione"...... "Preservare il socialismo è garantire l’indipendenza, sovranità, sviluppo e benessere della nazione".

sabato 19 settembre 2015

IL DIRITTO DI SCIOPERARE

Il tweet qui sopra del Presidente del Consiglio Renzi dimostra in poche parole tutto l'odio verso i lavoratori e verso i sindacati che il premier prova e continua a sottolineare il fatto che chi lavora lo deve fare a testa bassa,senza diritti ma solo doveri,e naturalmente senza la certezza,se trova un'occupazione,di poterla compiere il giorno successivo.
L'articolo preso da"Il fatto quotidiano"(http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/18/colosseo-l-assemblea-sindacale-era-stata-chiesta-e-autorizzata-per-tempo-ecco-cosa-non-ha-funzionato/2047121/ )parla dei proclami a vanvera prima del Ministro della cultura Franceschini e poi della rappresaglia immediata del sempre più destronzo Renzi che già oggi delibererà un decreto legge che affosserà i lavoratori dei musei ed i loro diritti allo sciopero.
Infatti questa riunione sindacale della discordia che ha interessato non solo il Colosseo ma anche altri siti archeologici romani era preannunciata da una settimana e non si è trattato di uno sciopero selvaggio al contrario di quello detto dai rappresentati governativi.
Fatto ribadito anche dalla segretaria della Cgil Camusso che dopo aver svenduto il culo suo e quello degli iscritti al governo Renzi si è accorta,troppo tardi,di avere fatto un patto col diavolo.

Colosseo, l’assemblea era stata chiesta per tempo e autorizzata. Ecco la prova.

La politica inveisce contro l'ennesimo "sciopero selvaggio". Un documento dimostra che in realtà l'assemblea era stata comunicata da una settimana e poi regolarmente autorizzata. Ma l'equivoco alimenta l'attacco frontale alla rappresentanza sindacale, anche se è la soprintendenza stessa a rivendicare la piena regolarità della riunione. Forse i fax e le affissioni in loco non bastano più.

E' un copione che si ripete. La manifestazione che oggi al Colosseo ha lasciato una fila di turisti allibiti davanti a un cartello di chiusura era stata notificata per tempo e regolarmente autorizzata. Eppure i turisti sono rimasti spiazzati. E tanto è bastato alla politica per lanciare l’attacco frontale alla rappresentanza sindacale. Si ripete così la vicenda di Pompei che a luglio tenne banco per giorni, con l’assemblea spacciata per “selvaggia” quando non lo era affatto. A rivelare come sono andate le cose è la convocazione dell’assemblea (leggi il testo delle Rsu) che è stata diffusa e trasmessa all’amministrazione il 16 settembre scorso, due giorni prima che si svolgesse (come vuole la legge). In calce anche l’indicazione dell’avvenuta comunicazione, a termine di legge, già l’11 settembre, e cioé una settimana prima che l’assemblea si svolgesse. Ma bastano l’equivoco e le foto dei turisti in coda per prestare il fianco al “licenziamoli tutti” (pronunciato dalle fila di un partito che di nome fa Scelta Civica) al “la misura è colma”, detto dal ministro Franceschini che è poi il primo destinatario della protesta dei suoi dipendenti, cui non viene versato il salario accessorio da gennaio. Fino a Renzi, che ha sferrato un attacco frontale ai “sindacalisti contro l’Italia”. Resta allora la domanda, cosa non ha funzionato?
1) L’assemblea improvvisa e selvaggia? Era autorizzata e il Ministero sapeva (da una settimana)
“Le Rappresentanze Sindacali Unitarie della SS-COL comunicano che in data 18 settembre p.v. dalle ore 8.30 alle 11, nella sala conferenze di Palazzo Massimo è stata indetta (secondo le norme contrattuali e regolarmente comunicata all’Amministrazione in data 11/09 u.s.)”. Questa la comunicazione che taglia la testa al toro sulla bufala della “protesta selvaggia”. Il ministero sapeva e da una settimana, non lo ha scoperto all’ultimo. “Si certamente”, spiega il coordinatore nazionale della Uil Beni Culturali Enzo Feliciani, sigla che appoggia la giornata assembleare che non si è svolta solo al Colosseo. Ad autorizzare quella romana è stato proprio il funzionario della Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area Archeologica, che non poteva fare altrimenti. Non a caso egli stesso ha poi tentato di ridimensionare la polemica, ormai fuori controllo: “Non si è trattato di chiusure ma di aperture ritardate”, precisano dagli uffici romani, “come previsto alle 11.30 hanno riaperto”. Di più. Lo stesso soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, precisa che “tutto si è svolto regolarmente l’assemblea non aveva come oggetto il Colosseo, il problema è nazionale e riguarda il mancato rinnovo del contratto e il mancato pagamento del salario accessorio: non ci sono rivendicazioni nei confronti della soprintendenza, ma del datore di lavoro generale che è Mibact”.
2) Perché farla proprio oggi e non in un’altra data?
“Ci era stato chiesto – spiega ancora Feliciani – di non fare assemblee nel periodo di luglio e agosto perché a maggior afflusso di turisti e così abbiamo fatto. Una volta terminato questo periodo e non ricevendo risposte ai problemi che abbiamo rappresentato in ogni sede l’abbiamo convocata, rispettando tutti i termini di legge”. Insomma, le due parti in causa concordano: nulla di illecito o di improvvisato. E’ solo la politica a parlare di “protesta scandalo” e di “danno irreparabile”.
3)  Non si poteva svolgere in un orario extralavorativo
“No – risponde Feliciani – le norme stabiliscono che si possano fare massimo 12 ore di assemblea ma sempre in orario di lavoro. Al mattino o al pomeriggio, quindi a inizio o fine turno. Abbiamo optato per l’inizio perché era la soluzione più indolore, altrimenti avremmo dovuto far entrare i visitatori e farli uscire e sarebbe stato molto peggio”. Lo conferma il soprintendente: “Tutto si è svolto regolarmente”.
4) Chi ha l’obbligo di dar comunicazione della chisura?
“Sempre i funzionari della Soprintendenza. Non le rappresentanze sindacali che comunque lo fanno, coi loro mezzi e cioè cartelli e affissioni. Ma se i canali di comunicazione istituzionale delle Soprintendenze non sono efficaci nel raggiungere turisti e cittadini non è certo da imputare ai lavoratori che non possono farsi carico anche di questo”.
5) E allora, cosa non ha funzionato? Cosa bisognerebbe cambiare?Tocca capire perché ci si stupisce. Perché quei turisti stavano in coda apprendendo solo da un cartello, ormai giunti ai piedi dell’anfiteatro, della chiusura in corso. Il soprintendente dice di aver diffuso la comunicazione, come prevede la legge, 24 ore prima che l’assemblea si svolgesse, perché l’informazione viaggiasse sugli organi di stampa. Farlo prima del resto non si può, perché l’assemblea comunicata con largo anticipo potrebbe essere anche sconvocata, innescando un falso allarme che manda deserti i musei. Nello specifico, su Repubblica Roma e altri quotidiani la notizia è stata riportata. E tuttavia si vede che non basta, perché va da sé che un turista tedesco non legga le pagine locali di un quotidiano. I cartelli non sono stati posizionati con giorni di anticipo, non sono stati attrezzati info-point, non c’è stato alcun avvertimento sui siti ufficiali, se non a ridosso dell’assemblea. Tutto affidato a un servizio di informazione in loco il giorno prima dell’assemblea.