martedì 31 gennaio 2017

LA PRIMA SENTENZA PER LA STRAGE DI VIAREGGIO


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Già il fatto che in Italia per arrivare ad un giudizio di primo grado per un processo,dopo sette anni e sette mesi dall'evento scatenante,potrebbe essere una notizia degna di vergogna e di riflessione,che il dimezzamento delle pene richieste agli imputati sia una constatazione e che queste condanne inflitte vengano veramente scontate è un'utopia.
Anche perché col rischio della prescrizione,il secondo grado e la cassazione ne passeranno altrettanti di anni,soprattutto in vicende legate a stragi causate per errori umani e per la non osservanza dei minimi requisiti di sicurezza,
Così come accadde per la Thyssen e per i processi sull'amianto solo per citare due casi di grandi aziende e potenti dirigenti,questo della strage di Viareggio dove morirono 33 persone con le enormi responsabilità di Rfi e di Trenitalia soprattutto nelle figure dell'ex ad Mauro Moretti e di Mauro Michele Elia,ha visto chiuso il primo capitolo.
Che vede per l'appunto la responsabilità degli imputati anche se con pene ridotte,in un annuncio atteso fine dal 29 giugno del 2009 data del disastro che ha visto oltre alle vittime centinaia di persone colpite in maniera diretta o meno per la perdita di familiari o amici o della casa.
Il principale indagato Moretti,ex sindacalista che come in molti ha fatto carriera aziendale e collezione di poltrone e che prendeva solamente da dirigente pubblico delle ferrovie più di 800mila Euro(vedi:madn morettiil-suo-stipendio ),è oggi ad e direttore di Leonardo Spa(la nuova Finmeccanica):come si vede in Italia non solo si cade sempre in piedi ma fai carriera dopo aver sulla coscienza decine di morti.
Il primo articolo parla della cronaca delle ultime ore(ilfattoquotidiano.it strage-di-viareggio )mentre il secondo è l'intervista ad un consulente sulla sicurezza nel settore ferroviario che ha lavorato gratuitamente al caso(www.senzasoste.it ),in una nazione che in questo settore presenta carenze allucinanti(vedi:l'annunciata-strage-ferroviaria-pugliese ).

Strage di Viareggio, condannati tutti i manager di Ferrovie. Sette anni all’ex ad Mauro Moretti.

L’ex amministratore delegato Mauro Moretti, attuale ad di Leonardo-Finmeccanica, è stato condannato a 7 anni nel processo sulla strage di Viareggio. Sono stati condannati tutti i dirigenti di Ferrovie e delle altre partecipate che erano finiti imputati. Tra questi anche gli ex dirigenti di Rfi e Trenitalia Mauro Michele Elia (attualmente country manager al Tap per l’Italia) e Vincenzo Soprano. L’accusa aveva chiesto 16 anni per Moretti e 15 per Elia. I giudici hanno fatto cadere alcune imputazioni contestate ai manager delle partecipate statali perché “il fatto non sussiste”. Moretti, secondo quanto spiegano i suoi avvocati, è stato assolto come amministratore delegato di Ferrovie, ma i giudici hanno disposto la sua condanna come ex amministratore delegato di Rfi. Tra le società imputate assolti anche Ferrovie dello Stato e Fs Logistica, mentre vengono condannate Rfi e Trenitalia.
In tutto gli imputati erano 33 più nove società. Per loro i pm Giuseppe Amodeo e Salvatore Giannino avevano chiesto pene dai 5 ai 16 anni per un ammontare di oltre 250 anni.
Per tutti gli imputati per il disastro che il 29 giugno 2009 causò 32 morti, le accuse andavano, a vario titolo, da disastro ferroviario, omicidio colposo plurimo, incendio colposo e lesioni colpose. Un breve applauso ha salutato, dopo qualche minuto dalla lettura, la sentenza, dove tutti i familiari hanno ascoltato le parole del giudice in religioso silenzio. “Non siamo in grado di fare un ragionamento complessivo – ha detto Marco Piagentini, presidente del “Mondo che vorrei”, associazione dei familiari – Sono molti imputati, il dispositivo è stato molto lungo. Però possiamo dire che c’è una condanna e quindi un sistema della sicurezza che non funziona, come diciamo da 7 anni”.
Moretti è attualmente alla guida di Leonardo-Finmeccanica, azienda statale attiva nei settori della difesa e della sicurezza. Il titolo in Borsa di Leonardo, dopo la lettura della sentenza, ha avuto un crollo verticale.

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Un’intervista della redazione di Radio città aperta

Riccardo Antonini è stato un ferroviere per tutta la vita, sempre impegnato sul fronte sicurezza, come sindacalista della Filt-Cgil. Per la sua competenza ha prestato gratuitamente la sua consulenza tecnica a favore delle famiglie delle vittime della strage di Viareggio (29 giugno 2009) nell’incidente probatorio iniziato nel marzo 2011. Rete Ferroviaria Italiana – Rfi, una delle quattro società in cui è stata scorporata Ferrovie dello Stato sotto la direzione di Mauro Moretti (ex segretario della Filt Cgil!) – ha considerato quella consulenza gratuita un “conflitto di interesse”, equiparando di fatto il rapporto di lavoro a un legame tra complici in un reato. Quindi lo ha licenziato, a un anno dalla pensione, e il processo per il reintegro è ancora in corso.
Ci sembra dunque che sia una delle persone più titolate a parlare del processo per la strage, che oggi arriverà alla sentenza di primo grado. Intervista realizzata da Radio Città Aperta.
Buongiorno Riccardo
Buongiorno a voi.
Grazie per essere con noi, prima di tutto. Domani, dopo sette anni e sette mesi, arriva finalmente questa sentenza tanto attesa sulla strage del 2009. Che giornata può essere?
E’ una giornata clou rispetto a tutta la vicenda processuale, perché questa vicenda ha visto circa 140 udienze. Vi è stato l’incidente probatorio, poi l’udienza preliminare e dal 13 novembre 2013, quindi oltre tre anni fa, è iniziato il processo vero e proprio. Quindi diciamo che per i familiari, ma anche per i cittadini, i lavoratori, i ferrovieri che hanno seguito costantemente questa vicenda, è stato un impegno enorme, di grandi mobilitazioni, di iniziative quotidiane. In questi giorni stiamo facendo un lavoro ora per ora. Questa mattina (ieri, ndr) eravamo in stazione a volantinare ai pendolari; il giorno prima eravamo a Pisa, e quello precedente a Lucca. Stiamo facendo un lavoro enorme perché ci auguriamo che ci sia una buona partecipazione domani (oggi, ndr) al tribunale, e quindi diciamo che è la giornata un po’ decisiva per quanto riguarda il processo. Verrà celebrato il 1° grado, dopo sette anni e sette mesi, esattamente, e siamo fiduciosi che ci sia una sentenza che rispecchia la mobilitazione, la partecipazione, l’impegno, come forma di deterrenza nei confronti del responsabili di questa immane tragedia.
Responsabilità che devono assolutamente essere accertate, perché qui ci sono le famiglia di 33 vittime; 33 famiglie che aspettano di sapere perché i loro cari sono scomparsi nel 2009…
Sì. Noi abbiamo ovviamente impostato questi anni di attività innanzitutto perché questo disastro ferroviario, che si è trasformato in una strage, non sia dimenticato, come purtroppo avviene in tante stragi di questo paese. Perché non rimanga impunita. A pochi chilometri da qui abbiamo avuto anche la vicenda della nave Moby Prince, 25 anni fa: 140 vittime, 0 colpevoli. E poi ovviamente per creare le condizioni perché non si ripetano tragedie come queste. Quindi bisogna togliere gli ostacoli che hanno permesso tutto questo. Noi abbiamo sempre detto che si è trattato di una strage annunciata; un disastro ferroviario che ha provocato così tante vittime, feriti gravissimi – non dimentichiamolo mai, alcuni ne porteranno le conseguenze per tutta la vita – e famiglie distrutte. Quindi questo è un appuntamento importante. Abbiamo fatto appello alla mobilitazione, saremo come sempre numerosi lì fuori del processo; è la prima volta che vengono ammesse le telecamere in aula, e anche questo è un fatto molto singolare, e vengono ammesse solo al momento della lettura della sentenza. Diciamo che è il processo più importante che si celebra da anni in questo paese ed è un processo che è stato costantemente oscurato dai mass media perché sul banco degli imputati vi sono figure eccellenti di aziende di stato. Mi riferisco alla figura apicale, quella del cav. Moretti, che è stato amministratore delegato della holding dal 2006 al 2014, rinominato più volte nonostante fosse stato indagato e rinviato a giudizio nel processo di Viareggio; fin quando, ovviamente dal governo Renzi, è stato promosso a Finmeccanica dal 2014 e ha preteso che a sostituirlo fosse Elia, allora amministratore delegato di Rfi. Quell’Elia che era come lui imputato in questo processo. Sono tra l’altro i due imputati per i quali sono state fatte le richieste più alte. Per Moretti sono stati chiesti 16 anni e per Elia 15 anni.
E’ incredibile che un manager su cui pende un procedimento penale con una possibile condanna a 16 anni venga promosso, come hai detto giustamente tu, ad un incarico se possibile ancor più importante e, addirittura, gli venga data la possibilità di scegliere il proprio successore… Parliamo con te di questa vicenda perché tu l’hai seguita molto da vicino, ed anche perché è una vicenda che poi è finita per riguardarti anche personalmente…
Sì. Personalmente come vicenda privata però, nel senso del licenziamento che ho subito per l’impegno sulla strage ferroviaria di Viareggio. Ma in ferrovia ci sono stati altri casi di licenziamento di lavoratori, addirittura delegati Rls, impegnati sul fronte della sicurezza e della salute nel nostro ambiente di lavoro. Il problema è che il mio licenziamento – come hanno detto più volte i familiari, l’associazione Il Mondo che Vorrei, anche in un recente documento che è stato approvato da numerosi consigli comunali della zona – è legato strettamente e indissolubilmente alla tragica vicenda di Viareggio, perché senza quella notte, quel 29 giugno 2009, non ci sarebbe stato motivo per il mio licenziamento. Hanno tentato di impormi – ovviamente non vi sono riusciti, quando io ero impegnato in questa battaglia – di cessare immediatamente l’attività per essermi posto addirittura in un “evidente conflitto di interessi”. Io ho respinto al mittente questa provocazione, sono stato prima sospeso 10 giorni e infine licenziato. E la cosa altrettanto grave è che il giudizio di primo grado, nel tentativo di conciliazione che non vi fu, perché pretendevano che facessi abiura del mio impegno e della mia attività con i familiari, addirittura è stato detto che avevo “violato il dovere di fedeltà all’azienda”. Cioè: il dovere di esser fedele a personaggi che dirigevano la holding come amministratori delegati di Rfi o Trenitalia, imputati con gravi responsabilità – e questo mi sento di affermarlo, perché la magistratura ha chiesto numerosi anni di condanna – e capi di imputazione pesanti in una vicenda come la strage di Viareggio, che ha visto decine e decine di vittime e numerosi feriti. Il paradosso è questo: loro sono stati rinominati e promossi da imputati, ed io, per essermi messo al servizio dei familiari nella ricerca di verità e sicurezza, sono stato ricattato, minacciato e poi licenziato. Ovviamente non ho subìto queste minacce perché ho sempre detto quello che pensavo e ho sempre risposto fino in fondo alla mia dignità di persona nel sostenere i familiari in questa battaglia dolorosa, ma estremamente importante, perché riguarda la sicurezza, la verità e la giustizia.
Volevo ricordare agli ascoltatori che hai messo a disposizione le tue conoscenze per una consulenza tecnica per l’incidente probatorio per la famiglia di una delle vittime e questo è stato l’elemento che ha scatenato, secondo Rfi, un conflitto di interessi che poi ha portato, appunto, al tuo licenziamento. Interessante il paradosso che evidenziavi: tu vieni licenziato per aver contribuito alla ricerca della verità e invece chi è alla guida dell’azienda ed ha un processo in corso, anche molto importante, viene promosso. Ed è veramente incredibile…
La realtà è questa, quindi dobbiamo prenderne atto e ovviamente – come noi sosteniamo – l’errore umano sarebbe non ribellarsi a questo stato di cose. Di fronte a una politica di abbandono sulla sicurezza, quello è il vero errore. disumano nei confronti dei lavoratori e purtroppo, dopo Viareggio, anche nei confronti dei cittadini che a causa di un incidente ferroviario hanno perso la vita mentre stavano riposando nelle proprie abitazioni in una calda serata d’estate. Questo è quanto è avvenuto a Viareggio. Per quanto riguarda l’incidente probatorio, ovviamente, è un pretesto che hanno utilizzato. Io mi sono messo a disposizione gratuitamente, tra l‘altro, dei familiari e del sindacato per concorrere alla ricerca di verità rispetto alle responsabilità per quanto è accaduto il 29 giugno, nei confronti dei 33 imputati e delle nove società coinvolte che questi stessi dirigevano come proprietari, amministratori delegati o dirigenti.
Chiaro, chiarissimo. Bene Riccardo, ti ringraziamo per il tuo contributo e magari torneremo a sentirci nei prossimi giorni per commentare la sentenza, se avrai voglia.
Va bene. Io ringrazio voi, buon lavoro e un saluto a tutti.
30 gennaio 2017

lunedì 30 gennaio 2017

BENOIT HAMON ALLE PRESIDENZIALI PER I SOCIALISTI


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Sarà Benoît Hamon a rappresentare i socialisti francesi alle prossime elezioni presidenziali che si terranno in aprile,ma non sarà l'unico rappresentante della sinistra a concorrere per l'Eliseo:assieme a lui ci saranno Emmanuel Macron e Jean Luc Mélenchon oltre che il rappresentante dei verdi Yannick Jadot.
Dall'altra parte ci saranno Marine Le Pen e François Fillon per l'estrema destra e i repubblicani dopo che l'ultimo citato al ballottaggio aveva sbaragliato Alain Juppè,più un'altra manciata di candidati minori ma che potrebbero essere decisivi per il secondo turno(vedi anche:madn presidenziali-francesi-e-marine-le-pen )
Hamon ha vinto le primarie socialiste battendo l'ex premier Manuel Valls(un pò il Renzi d'oltralpe)e sarà quindi in prima linea per succedere a Françoise Holland con il contributo forte dei giovani e degli studenti che apprezzano il reddito universale che è uno dei punti fermi dell'ex ministro francese(benoit-hamon-la-sinistra-riparte-solo-con-chi-si-dice-di-sinistra )
Articolo preso da Left:ballottaggio-socialisti-presidenziali-vittoria-hamon .

Hamon vince e parla ai giovani: «Sta a voi decidere in che Francia vivere».

di Francesco Maselli.
Parigi. Alle 18.50, dieci minuti prima della chiusura dei seggi, la Maison de la Mutualité è già quasi piena. È qui che Benoît Hamon ha dato appuntamento ai suoi sostenitori e alla stampa per attendere i risultati del ballottaggio da grande favorito. L’ambiente è disteso, gli strateghi della campagna elettorale si prestano volentieri alle domande dei giornalisti, la maggior parte arrivata di corsa dal comizio di François Fillon, che ha parlato poco prima a nord della capitale francese, a Porte de la Villette. Nella vasta sala allestita al primo piano si respira aria di vittoria, in molti brindano; si riconoscono subito i cronisti, tutti con taccuino e penna in mano – gli smartphone sono riservati ai social – e i militanti, tutti sorridenti e festanti, come se Hamon avesse già vinto. Persino Alexis Bachelay, suo portavoce, si rivolge ai reporter che lo circondano dando per scontata la vittoria, ragionando sui prossimi passi da compiere: “La dinamica di Benoît viene da lontano, abbiamo cominciato la campagna in autunno e non ci credeva nessuno, vedrete che sarà lo stesso per le presidenziali”, afferma.
Alla domanda, scontata, su come farà il suo candidato a superare le divisioni della sinistra – che al momento vede in campo – che al momento vede in campo Emmanuel Macron e Jean Luc Mélenchon, oltre al candidato socialista –,risponde che sono gli altri a dover rivolgersi ad Hamon, e non il contrario: “Non parlerei di sintesi, quanto di unione. E l’unione si fa intorno alle idee, non solo intorno alle persone: noi abbiamo una base solida, un progetto serio e approfondito. Possiamo arricchirlo ma non rinunceremo alla nostra identità e alle nostre proposte distintive”. Poi la bordata all’ex compagno di governo, il leader di En Marche!, che riempie i palazzetti e rischia di attrarre la parte dell’elettorato socialista meno entusiasta del progetto di Benoît Hamon: “Se Macron si ritiene di sinistra può parlare con noi, non abbiamo pregiudizi. Ma finora non abbiamo capito da che parte sta”.
Mentre Bachelay risponde alle nostre domande la sala continua a riempirsi di simpatizzanti, reagendo con fischi e ululati al passaggio sui maxischermi del servizio di France Info sul grande evento organizzato da François Fillon. L’età media nella sala è molto bassa, la maggior parte dei sostenitori che arrivano sono studenti o poco più e le motivazioni della loro scelta sono piuttosto simili. Melanie, vent’anni, studentessa, ci spiega che uno dei punti di forza di Hamon è stato mettere al centro il tema dell’istruzione: “Hamon ha capito il malessere degli studenti, la loro difficoltà a sostenersi durante gli studi e a trovare lavoro subito dopo. Il reddito universale serve anche a questo, a consentirci di studiare senza pressioni”. Poco più in là due ragazzi e una ragazza, tra i venticinque e i trent’anni, bevono un bicchiere di vino e raccontano entusiasti della loro prima campagna elettorale da protagonisti: “Abbiamo sempre seguito la politica, ma non c’eravamo mai messi in gioco. Quello che ci ha colpito in Hamon è stata la sua capacità di mettere in primo piano le sue idee e il suo progetto, piuttosto che la sua personalità”.
Ciò che ha attirato così tanti giovani è stata la sensazione che Hamon avesse un movimento molto radicato dietro di sé, che fosse alla testa di un progetto partecipato: “No, non scrivere dietro” mi corregge Jean, il più “politico” dei tre, “scrivi intorno. Il movimento di Hamon è orizzontale, partecipativo: è stato costruito insieme a noi, grazie a noi. Lui è solo la punta dell’iceberg”. Provo ad avanzare dubbi sulla realizzabilità della più controversa delle proposte, un reddito universale di esistenza di 750 euro al mese a tutti i cittadini, che costerebbe più di 350 miliardi di euro, ma i ragazzi non vogliono sentire ragioni: “Bisogna finirla con questo mantra della crescita a tutti i costi. Ça marche pas, non funziona. Il punto non è se il reddito universale sia realizzabile o meno, il punto è che questa proposta ci consegna finalmente un orizzonte, una speranza”, afferma Lisa. Questa frase è ricorrente, quasi tutte le persone con cui parlo delle fatidiche “coperture” mi rispondono allo stesso modo: “In questi cinque anni abbiamo smesso di sognare, Hamon rappresenta la riconciliazione con le nostre idee. Il punto non è se le sue proposte sono realizzabili o meno: sinistra vuol dire anche utopia, avere il coraggio di proporre un cambiamento radicale”, argomenta Clotilde.
Intanto alle 20.45 vengono annunciati i risultati, con più della metà dei seggi scrutinati Hamon è in testa con il 58%: una vittoria chiara, netta. La sala esplode, parte la musica, in molti si abbracciano, qualcuno balla. Nella baraonda generale riesco a scambiare due parole con Richard, uno dei ragazzi dell’organizzazione: “Molti analisti hanno scritto che questo è stato un voto contro la presidenza di Hollande, ma è un’analisi incompleta. Se è vero che in giro c’è tanta voglia di voltare pagina, di “tornare ai fondamentali”, è per il nostro futuro che abbiamo sostenuto e votato Benoît. Abbiamo sposato il progetto, la sua sensibilità ai temi dell’ecologia, di cui non parla nessuno. Così come abbiamo imposto il tema del reddito universale, imporremo anche quello della transizione ecologica”.
Mentre parliamo arriva, finalmente, Benoît Hamon che, visibilmente emozionato, si fa strada tra le telecamere e raggiunge il palco. Parla sette minuti, ringrazia Valls e si dice onorato di rappresentare il suo partito alle presidenziali dopo François Mitterrand, Lionel Jospin, Ségolène Royal e François Hollande. Parla di unità, dei grandi sforzi che farà per dialogare con i membri del suo partito e con chi si riconosce nella sinistra, specialmente Jean Luc Mélenchon, leader della sinistra radicale e Yannick Jadot, leader dei verdi; nessun pensiero per Emmanuel Macron, mai citato. 

Infine, un messaggio ai giovani, alla generazione nata tra gli anni ’80 e ’90 che ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione del suo progetto e della sua vittoria: “Ogni generazione, diceva Tocqueville, è un popolo nuovo. Voglio dirlo a voi che vi siete impegnati in queste primarie al di là di tutti i pronostici: sta a voi decidere che popolo volete essere e in quale Francia volete vivere e crescere, fare dei figli. Sono convinto che la vostra energia, la vostra creatività e la vostra solidarietà mostreranno la strada a tutti i francesi”. Poi, assediato dai microfoni riesce a lasciare la Mutualité per raggiungere rue Solférino, sede del Partito socialista, dove stringerà la mano al suo avversario, Manuel Valls. Ha inizio la prima delle tante sfide che lo attenderanno nei prossimi mesi: riunire la gauche. Vaste programme.

domenica 29 gennaio 2017

CHI LA FA L'ASPETTI


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Bene,a distanza di sette anni dalla morte di Stefano Cucchi c'è ancora qualcuno che si sorprende e che sostiene ancora gli aguzzini che lo portarono alla sua dipartita e che ancora parano il culo agli assassini del giovane romano(madn ci-sara-la-verita? ).
Dai ministri di allora ai medici,agli sbirri ai carcerieri,la vicenda legata alla sua morte ancora è ben lontana dall'avere una parola fine e soprattutto avere una giustizia nonostante le ultime notizie di pochi giorni addietro che vogliono il caso Cucchi ancora aperto.
L'articolo di Infoaut(www.infoaut.org )parla delle"vicissitudini"ultime capitate ad uno dei responsabili principali della via crucis capitata a Stefano,il carabiniere Roberto Mandolini che tanto si vantava dell'arresto e della fine di un ragazzo,indagato assieme ad altri quattro colleghi per omicidio preterintenzionale cui negli ultimi giorni ha ricevuto dispetti che non sono nemmeno una piccola parte di quello che gli spetterebbe.

Furto e danni nell'abitazione di uno dei carabinieri coinvolti nel caso Cucchi.

E’ notizia di ieri che l’abitazione di Roberto Mandolini, comandante dei carabinieri coinvolto nel caso Cucchi, è stata danneggiata e derubata.
Il nome di Mandolini figura tra quelli dei 5 carabinieri coinvolti nell’inchiesta bis sull’omicidio di Stefano Cucchi, per la quale la Procura romana ha recentemente chiuso le indagini accusando formalmente 3 di loro per omicidio preterintenzionale. Mandolini è accusato di falso e calunnia per aver falsato i verbali, prima, e aver mentito ai pm della prima inchiesta dopo, il tutto per coprire il pestaggio perpetrato dai tre colleghi dell’arma.
A quanto si apprende dai giornali, nei giorni scorsi il comandante avrebbe ricevuto presso il proprio commando alcune buste contenenti carta igienica sporca, mentre è di giovedì sera l’irruzione in casa sua.
All’episodio è seguita la prevedibile sequela di messaggi di condanna del fatto e di solidarietà al carabiniere. Fa sorridere (amaramente) che - dopo 7 anni durante i quali l’instancabile battaglia per la verità portata avanti da Ilaria Cucchi si è continuamente scontrata con insulti, diffamazioni, umiliazioni, muri di menzogne e sentenze farsa - ora qualcuno parli di “campagna d’odio” scatenata contro i carabinieri dopo la decisione della Procura dello scorso 17 gennaio.
Tra i primi a sperticarsi in parole di solidarietà al carabiniere, ad esempio, c’è stato Giovanardi, quello che di fronte a una foto di Federico Aldrovandi ammazzato di botte dichiarò che quello sotto la testa di Aldro non era sangue bensì “un cuscino”, difendendo a spada tratta i suoi assassini.
E lo stesso Mandolini ha sempre respinto qualsiasi responsabilità sua e dei colleghi nella morte di Cucchi e a gennaio del 2016 aveva commentato sotto un post della sorella Ilaria scrivendo: “I carabinieri hanno fatto il loro dovere, arrestarono un grande spacciatore”. Alla sua posizione rispetto al caso Cucchi ha sempre dato grande visibilità pubblica anche sui social network e negli ultimi giorni figura tra i sostenitori della pagina “Io non li condanno”, nata per difendere e sostenere proprio lui e gli altri carabinieri coinvolti nel caso Cucchi, già chiusa una volta da Facebook e sponsorizzata – tra gli altri – dal sindacato di polizia Coisp (sì, quelli che manifestarono sotto l’ufficio di Patrizia Moretti per solidarizzare con i colleghi che uccisero Federico Aldrovandi).

Insomma, per quanto ci riguarda c’è ben poco da stupirsi per quanto accaduto al comandante Mandolini nelle ultime settimane…e tantomeno da dispiacersi.

sabato 28 gennaio 2017

COSA SUCCEDE IN UNICOOP TIRRENO?

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A Livorno nelle ultime settimane fa banco la questione che vuole il licenziamento di centinaia di persone previste dai nuovi vertici aziendali di Unicoop Tirreno in quanto i conti,complice una gestione fallimentare dei dirigenti,sono in rosso e naturalmente i primi a pagarne le conseguenze saranno la base della piramide lavorativa della cooperativa.
Si parla di 481 lavoratori equivalenti a tempo pieno corrispondenti tra le seicento e le settecento unità lavorative,una cifra tremenda per una zona che ultimamente non se la vede molto bene e che è tra quelle che paga di più la crisi che l'anno prossimo compirà dieci anni.
In tutti e tre i contributi presi da Senza Soste di mette in chiaro il forte legame tra Coop con il Pd,la Legacoop,Unipol e il sindacato Cgil,un connubio stile Emilia Romagna,in parte anche in altre zone Crema compresa,che nel corso degli anni ha indebolito fortemente la capacità dei lavoratori di avere diritti che sono stato prosciugati in un batter d'occhio mentre le richieste aziendali sono sempre state accolte con i sindacati confederali complici(bl-livorno-coopland-un-matrimonio-crisi ).
Gli altri due sono invece comunicati Usb(crisi-unicoop-tirreno-usb-scrive-al-ministro-poletti e crisi-unicoop-tirreno-usb-invece-colpire-lavoratori-azzerare-la-dirigenza )col primo che include una lettera al ministro del lavoro Poletti(colui che non ha mai fatto un giorno lavorativo in vita sua:polettila-storia-di-un-paraculo )ex presidente di Legacoop cui si chiede l'intervento statale così come fatto per Fiat,banche e prossimamente in maniera massiccia Alitalia.
Il secondo invece chiede l'azzeramento della dirigenza che ha creato questo disastro visto gli stipendi d'oro e tutti i privilegi cui godono tipo auto,premi,benefit,assicurazioni sanitarie,etc.,in un sistema malato che ricalca le scelte ultime dei governi non eletti in ambito lavorativo.

BL: “Livorno e CoopLand, un matrimonio in crisi?”.

Da tempo sappiamo che i conti dell’Unicoop Tirreno non tornano e il piano di razionalizzazione dei nuovi vertici aziendali prevedono tagli rilevanti del personale nei punti vendita diffusi in Italia. Non entriamo nel merito delle indiscrezioni legate ai numeri: certo che il numero prospettato – si parla di 480 esuberi a tempo pieno che per i sindacati si tradurrebbero in 600 dipendenti part time – merita grande attenzione e inevitabile preoccupazione. In particolare ci preoccupa la ricaduta negativa che ci sarebbe per la città di Livorno, già duramente colpita, da tempo, dalla precarietà occupazionale e dalle perdite dei posti di lavoro in vari settori.
L’economia livornese e le trasformazioni urbanistiche per molto tempo si sono legate a doppio filo con l’ex grande proletaria che ha goduto di rispetto, credibilità e di ampia attenzione, tanto da renderla egemonica nel tessuto livornese. Anche a Livorno è stato praticato il “modello Emilia Romagna”, territori dove l’intreccio fra il mondo Coop e il governo del territorio in generale è così forte da arrivare a condizionare e determinare scelte rilevanti per la gestione complessiva delle città. Un mondo che si è rinnovato nel tempo, cambiando la propria natura fino ad assumere il ruolo di modello di “neocapitalismo di sinistra” costruito sul blocco monolitico Legacoop-Unipol-CGIL e PCI/PDS/DS/PD con qualche sfumatura nel tempo e a seconda dei territori.
Non a caso le Coop di consumo in tutta Italia si sono intrecciate con la finanza (nel 2014 dalla vendita delle merci esposte sugli scaffali hanno ricavato 47,1 milioni di euro mentre dalla finanza 210 milioni!), che spesso permette di risanare i bilanci delle attività industriali in negativo. Un business fondato su 3 concetti base: principi mutualistici, fiscalità di favore e azioni in borsa.
Dopo aver condizionato e caratterizzato l’economia livornese e le trasformazioni urbanistiche di Livorno (si prendano tutte le grandi operazioni Porta a Terra, Porta a Mare, Levante) con importanti ricadute positive in termini di occupazione (pur contribuendo in modo pesante a rendere ancora più precario l’equilibrio e la sopravvivenza dei piccoli negozi di quartiere e di prossimità), da anni a Livorno Unicoop Tirreno non assume più nessuno e nei nuovi punti vendita realizzati nell’ultimo decennio si è sempre fatto ricorso al personale interno già esistente.
Adesso ci troviamo davanti a questa minaccia di esuberi che non può lasciare indifferente una città che ha appunto favorito, in lungo e largo, la presenza di questa azienda. Ogni posto di lavoro perso merita attenzione, rispetto, preoccupazione e impegno per recuperarlo. E BuongiornoLivorno sarà, come sempre, dalla parte dei lavoratori. Ma i posti persi dal mondo Coop a Livorno – sebbene inseriti in un contesto più ampio, strutturale e legato alla scelte e alle dinamiche dell’azienda sul piano nazionale – sarebbero accompagnati da processi politici molto severi e non ci troveremmo davanti solo a affaristi e imprenditori che decidono di chiudere un’attività in nome del profitto: qui sarebbero chiamati in causa una classe politica e amministrazioni che anche su questo avrebbero fallito e che non possono in alcun modo pensare di governare nuovamente un territorio come questo.
Direttivo Buongiorno Livorno
17 gennaio 2017

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"Il Governo non può, in un periodo di grandi crisi occupazionali, non intervenire".

L'Unione Sindacale di Base invia una richiesta d'incontro al Ministro Poletti: si faccia garante della salvaguardia occupazionale degli otre 600 lavoratori Coop che rischiano idi perdere il lavoro:
Oggetto: richiesta incontro
Ci rivolgiamo a Lei in qualità di attuale Ministro del Lavoro ma anche di ex Presidente Nazionale di LegaCoop nonché dal 2013 dell'Alleanza delle Cooperative Italiane, in relazione al piano di risanamento annunciato e comunicato ai sindacati da Unicoop Tirreno, che ad oggi parla di 481 equivalenti full-time in esubero pari a 6-700 lavoratori.
Unicoop Tirreno è una delle grandi cooperative del sistema della Grande Distribuzione Organizzata  Coop in Italia. Conta più di quattromila dipendenti e se da alcuni anni la gestione dei suoi punti vendita, supermercati, ipermercati,ecc oltre che della sede amministrativa centrale, sta provocando ingenti perdite di bilancio, non è accettabile che a pagarne il prezzo siano lavoratrici e lavoratori che, perdendo il lavoro, si troverebbero insieme alle loro famiglie a vivere un dramma devastante.
La gestione è stata talmente fallimentare che, come Lei sicuramente sa, ha portato l'azienda a dover chiedere un prestito alle altre grandi cooperative per rientrare nei parametri fissati dalla Banca d'Italia sul rapporto tra patrimonio netto e prestito sociale.
Il Governo non può, in un periodo di grandi crisi occupazionali, non intervenire.
Per questo motivo Le chiediamo un  incontro per affrontare con maggior precisione tutti i dettagli di questa vertenza  e cercare una soluzione che salvi i livelli occupazionali.
In attesa di una sollecita e positiva risposta alla presente, distinti saluti.
Unione Sindacale di Base
Esecutivo Nazionale
Francesco Iacovone

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Crisi Unicoop Tirreno, Usb: “Invece di colpire i lavoratori, azzerare la dirigenza”.

Quanti sono e quanto guadagnano i dirigenti Unicoop Tirreno (compreso il Presidente)? Come Unione Sindacale di Base ci poniamo questa domanda perché riteniamo inaccettabile che, mentre viene presentato ai dipendenti un piano con 600 posti di lavoro a rischio, nessuno di coloro che era in plancia di comando negli anni in cui è maturata questa crisi, ha ancora proferito parola. Ha parlato solo il Presidente Marco Lami, in una intervista in cui sostanzialmente non ha detto niente di concreto.
In Italia purtroppo funziona sempre così: quando le cose vanno bene, i manager guadagnano soldi a palate, quando invece vanno male, a pagare sono solo i lavoratori, e i dirigenti cadono sempre in piedi mantenendo i loro posti (al massimo li spostano in società amiche) e i loro lauti stipendi. Noi non ci stiamo. È un sistema ingiusto e malato, e se pensiamo che in questo caso l’azienda si chiama Cooperativa, è ancora più grave.
Invece di andare a colpire i lavoratori, la dirigenza Unicoop Tirreno va AZZERATA. Premi, benefit, lussuose auto aziendali anche per chi vive a pochi chilometri dalla sede. Prima di parlare di qualsiasi altra cosa, è necessario un segnale in questa direzione. Ci rivolgiamo al Consiglio di Amministrazione, chiedendogli di porre la Dirigenza di fronte alle proprie responsabilità.
Il prezzo delle crisi è pagato sempre dagli ultimi, ora basta.
Unione Sindacale di Base
24 gennaio 2017

venerdì 27 gennaio 2017

IL MURO DI TRUMP


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Il muro che il neo eletto presidente Usa Trump ha tanto insistito volere nel suo programma elettorale sembra essere sempre più reale ma sempre più difficile da realizzare in quanto il Messico giustamente non lo vuole e non vorrebbe nemmeno pagarlo.
Il muro che dovrebbe dividere gli oltre tremila chilometri di confine,alcuni già predisposti di muri e barriere(circa 600)con una legge di Clinton voluta con l'opera iniziata nel 1994 e votata anche dagli altri democratici Hillary e Obama,sono dal punto di vista giuridico un regresso al progetto Nafta,il trattato di libero scambio tra Canada,Usa e Messico.
Che entrò in vigore il primo gennaio 1994 e che trovò fin da subito degli enormi detrattori,in primis il subcomandante Marcos che proprio in quella data si fece conoscere al mondo con l'insurrezione dell'Ezln come riportato dall'articolo preso da Contropiano(trump-evoca-lo-spettro ).
Che oltre alla storia del muro parla dei lavoratori sia statunitensi che messicani,e degli affari d'oro che le aziende multinazionali e non Usa fecero con questo trattato che permise l'azzeramento progressivo di tutte le imposte tariffarie fra i tre paesi membri.
Ora Trump minaccia il Messico di imporre dazi doganali del 20% ai prodotti messicani destinati al mercato Usa,con conseguenze che potrebbero aumentare ulteriormente l'emigrazione clandestina verso gli Stati Uniti,e che a medio e lungo termine potrebbero incidere e non poco con altri partner economici quali la Cina e l'Ue.

Trump evoca lo spettro della guerra commerciale con il Messico.

di Sergio Cararo 
La possibilità che il Messico paghi per il muro anti-migranti voluto dal neopresidente Usa Donald Trump "non è negoziabile". E' quanto ha ribadito oggi il ministro degli Esteri messicano Luis Videgaray, dopo che ieri Trump ha ventilato l'imposizione di dazi al 20% sull'import messicano per finanziare la barriera. Videgaray ha tenuto una conferenza stampa presso l'Ambasciata messicana a Washington, dove a breve era prevista una visita di stato del presidente messicano Pena Nieto che è stata sospesa dopo le dichiarazioni di Trump. “Se il Messico non vuole pagare per il tanto necessario muro, sarebbe meglio allora cancellare l'imminente incontro" aveva scritto su Twitter il neopresidente statunitense Trump aprendo una crisi senza precedenti con uno dei paesi vicini e dei partner commerciali più importanti.
Non è irrilevante rammentare che Messico e Stati Uniti hanno sottoscritto venticinque anni fa il Nafta (North American Free Trade Agreement) insieme al Canada. Il Nafta stabiliva l'immediata eliminazione dei dazi doganali su metà dei prodotti statunitensi diretti verso Messico e Canada e la graduale eliminazione di altri diritti doganali durante un periodo di circa 15 anni. Prevedeva inoltre la rimozione delle restrizioni fino ad allora vigenti su molte categorie di prodotti, inclusi motoveicoli, componenti di auto, computer, prodotti tessili e prodotti agricoli. Il Nafta entrò in vigore ufficialmente il 1 gennaio 1994, e in quell'occasione il mondo conobbe l'insurrezione dell'Ezln (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) e il subcomandante Marcos che si opponeva all'entrata in vigore del trattato. L'Accordo fu inizialmente osteggiato, sia negli Stati Uniti che in Canada, dai governi conservatori in materia di libero commercio, ma negli Stati Uniti riuscì ad essere approvato dopo che il Presidente Clinton fece della sua approvazione il suo cavallo di battaglia legislativa nel 1993 che portò al varo il 1 gennaio 1994.
Da allora l'interscambio commerciale e l'integrazione economica tra i due paesi è cresciuta enormemente (ovviamente in modo disuguale). Il Messico e' il terzo partner commerciale degli Stati Uniti ($531,1 mld) ed il secondo mercato di sbocco per le merci USA ($236,4 mld).
A partire dal gennaio 2000, le tariffe messicane per l'importazione di beni dagli Stati Uniti sono cadute dal 10 all'1,3%, mentre le tariffe per i prodotti messicani esportati negli USA sono state ridotte dal 4% allo 0,4%. Un'importante concessione fatta al Messico riguardava l'uso del meccanismo "duty drawback", in base al quale ai produttori messicani è stato concesso di esportare il bene finale senza pagare le tasse sugli input importati da paesi terzi. Questo ha favorito la crescita delle esportazioni degli impianti di assemblaggio denominati "maquiladoras" e che hanno visto centinaia di grandi e medie società statunitensi aprire stabilimenti oltre il confine messicano per poter usufruire di manodopera a basso costo, scarsi diritti sindacali e spesso un regime di terrore per le rivendicazioni dei lavoratori. Per sostenere l'industria maquiladora, dislocata nella fascia di confine con gli USA, nel novembre 2000 il Messico, che imponeva alte tasse sulle importazioni degli inputs provenienti da stati terzi, ha concesso riduzioni tariffarie applicando la clausola della nazione più favorita sulle importazioni di beni capitali per dare la possibilità agli imprenditori messicani di accedere agli input importati a prezzi competitivi.
La delocalizzazione produttiva impetuosa dagli Usa oltre il confine messicano, ha contribuito a destrutturare le imprese industriali statunitensi con anni di ricatti e azioni spregiudicate da parte dei padroni negli Usa. Per anni la working class statunitense ha visto il Nafta come la causa dei propri guai. Trump ha vinto le elezioni proprio solleticando e sollecitando questo risentimento pregresso, e adesso sta dando coerenza alle sue promesse fatte in campagna elettorale, anche a rischio di una guerra commerciale con un vicino più debole (il Messico) ma con l'ambizione di creare un precedente con altri partner di peso globale come Cina ed Unione Europea. E' evidente come si sia passando dall'imperialismo della globalizzazione all'imperialismo regressivo. Il mondo sta cambiando e sarà bene cominciare ad averne piena contezza.

CHIESA E POLITICA A CREMA


Crema No ai fascisti ed a Povia nell’oratorio di San Bernardino  di Tarcisio Zaffardi
Dovrebbe tenersi stasera presso l'oratorio di San Bernardino il tanto discusso incontro voluto dal "partito politico" del Popolo della famiglia con la presenza del segretario nazionale Gianfranco Amato ed il cantautore Povia.
Perché di per se questi predicatori alla Dio,patria e famiglia di fascista memoria non avrebbero avuto tanta pubblicità,mentre il nocciolo della questione che ha fatto mugugnare non pochi,ed a ragione,è che la chiesa permetta un incontro politico presso una sua sede,proprio l'oratorio della parrocchia di S.Bernardino a Crema.
La lettera pubblicata sotto dal signor Tarcisio Zaffardi dice tutto e senza usare toni offensivi e dando spiegazioni ed argomenti che non solo non fanno una piega che che dovrebbero ristabilire la giusta distanza ed equilibrio tra Stato e chiesa.
Il cantautore tanto in voga tra cagapovndisti e simili ha accusato il cremasco di essere stato maleducato,risultando esserlo lui che"se ne frega"che il partito fondato da dall'emerito e grosso coglione di Adinolfi e Amato possa trarre visibilità raccontando storie,storielle e farneticazioni varie su suolo ecclesiastico.
Articoli presi da Crema oggi(no-ai-partiti-in-parrocchia )e Crema online(polverone+sull'evento ).

'No ai partiti in parrocchia.La Chiesa non è la bottega di nessun partito'.

lettera scritta da Tarcisio Zaffardi.
a locandina sul settimanale cattolico “Il Nuovo Torrazzo” (14 gennaio 2017 pag.9) riporta quanto segue: “Il circolo territoriale del Popolo della Famiglia …” in data 27 gennaio 2017 terrà un incontro nel teatro dell’oratorio di San Bernardino a Crema con Gianfranco Amato,” segretario nazionale del Popolo della Famiglia” e il cantante Giuseppe Povia dal titolo “Invertiamo la rotta. Contro la dittatura del pensiero unico” e prosegue “vedrà la presenza del candidato sindaco del PdF alle prossime amministrative cittadine”.
Incuriosito mi sono documentato in internet e ho scoperto che il Popolo della Famiglia è un movimento che è diventato partito politico (con una sua sigla PdF e un suo logo) fondato nel marzo 2016 da Mario Adinolfi e Gianfranco Amato, che con 300 candidati si è presentato alle recenti elezioni amministrative del giugno 2016 a Roma con risultati scarsissimi: 0,6%.
Il cantante Giuseppe Povia è apparso in un video per sostenere il NO al referendum sulla costituzione con alle spalle la foto di Benito Mussolini e ne ha giustificato la scelta col fatto che egli sarebbe stato un vero statista, mentre “#Renzi è un politicante ecc.”.
Due considerazioni.
Non ci sono dubbi, in una parrocchia di Crema si presenta un partito, con il suo segretario e il suo candidato sindaco ( evidentemente non per fare la bella statuina).Come credente cattolico sono scandalizzato perché la chiesa con il Concilio aveva deciso di cambiare rotta e staccarsi dai partiti, dando piena autonomia al laicato cattolico in politica. L’identità politica dei cattolici si esprimerà in pluralità di scelte politiche e partitiche e in piena libertà.
La Chiesa non è la bottega di nessun partito, basta al collateralismo. “La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito”, affermava San Giovanni Paolo II al convegno ecclesiale di Palermo del 1995. La conseguenza è ovvia. L’accesso ai locali della parrocchia non è consentito ai partiti. Molte sono le disposizioni delle diocesi in merito. Eccone una dei vescovi dell’Emilia Romagna,( diocesi del nostro nuovo vescovo Daniele),in data 3 maggio 2014 dal titolo “Locali parrocchiali ed elezioni “al punto 2 e 3 così recita: “E’ proibito dare in uso locali di proprietà della parrocchia o di altri enti ecclesiastici a rappresentanti di qualsiasi partito o raggruppamento politico, anche per incontri/dibattiti in cui siano parimenti rappresentati tutte le parti politiche. E’ ugualmente proibito dare in uso locali di proprietà della parrocchia o di altri enti ecclesiastici a persone aventi incarichi istituzionali, ma che ne facciano richiesta per sostenere la campagna elettorale di una precisa parte politica”. I partiti hanno altrove i loro spazi pubblici e le loro sedi.
Invitare poi un partito in parrocchia è discriminare i fedeli che la pensano diversamente. Libero il signor Povia di votare NO al referendum, libero di ammirare Mussolini, ma il signor Povia sappia che non è gradita la sua presenza in parrocchia proprio il 27 gennaio giorno della memoria, della Shoà, dello sterminio di ebrei, zingari, omosessuali, religiosi, politici, perpetrato dai nazisti di Hitler alleati con il duce. Ho chiesto al mio parroco e alla chiesa che è in Crema di annullare la manifestazione. Chiediamo di annullare questa manifestazione inviando una email di dissenso alla curia di Crema curia@diocesidicrema.it o quanto altro sia necessario.
Un’ultima considerazione: ma noi genitori, educatori, manderemmo i nostri figli ad un incontro con il cantante Povia, estimatore di Benito Mussolini, “vero statista” che è stato il mandante dell’uccisione di Matteotti, che ha imbavagliato l’opposizione politica (chiudendo anche le sedi delle associazioni cattoliche) che ha mandato al confino dissidenti, che ha fatto le leggi razziali, che ha coinvolto gli italiani in una avventura di guerra tremenda producendo migliaia di morti, arrivando ad una guerra fratricida, che ha aperto campi di smistamento per i lager in Germania e con la Risiera di Santa Sabba, unico campo nazista in Italia, zona che faceva parte formalmente della Repubblica sociale italiana?
P.S.: Tanti politici bussavano o bussano ancora alle canoniche, d’altronde anche loro, i politici, hanno un’anima da salvare … Come non ricordare Don Camillo e Peppone, ma questa è un’altra storia…

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Invertiamo la rotta. Polverone sull’evento del Popolo della famiglia. Zaffardi replica a Povia: “peccatore sì, fascista mai”.

di Gianni Carrolli.
A Povia di epiteti non ne ho dati, tanto meno .del fascista. Ho trasmesso questa informazione a chi di dovere ma al video che tutt’oggi gira sui media non ho visto nessuna rettifica né è stato tolto. Non accetto che mi sia buttato addosso del fango gratuitamente con l’accusa infamante di fascista sarà lei”. Così Tarcisio Zaffardi, che settimana scorsa ha chiesto la cancellazione dell’evento Invertiamo la rotta organizzato a Crema dal Popolo della famiglia, replica al cantante Giuseppe Povia a seguito di un video apparso in rete nei giorni scorsi.

La risposta di Povia
“Fascista sarà lei che vuole annullarmi la data del 27 gennaio – afferma il cantante nella video-risposta alla lettera di Zaffardi – e se c’è una cosa che mi fa arrabbiare è quando mi fa passare per ciò che non sono, attingendo dalla miriade di stupidate che ha letto su internet”. Rispetto all’evento cremasco, assicura Povia: “faremo uno spettacolo-concerto. Io e l’avvocato Amato verremo a Crema in qualità di relatore e di cantautore. E spiegheremo ciò che lei stesso denuncia, signor Tarcisio: la dittatura del pensiero unico. Che poi il 27 gennaio ci sia il segretario di un partito, a lei che gliene frega?”.

Peccatore sì, fascista mai
“A me interessava e interessa solo un discorso di Chiesa – spiega Zaffardi nella replica – libera per l’annuncio del Regno di Dio, lontana dalle pastoie della politica e non legata a partiti o quant’altro. È quella chiarezza, povertà e gratuità del Vangelo, dei tanti maestri incontrati nella mia vita o attraverso i loro scritti o anche personalmente, ciarlatani mai, evangelici sì, testimoni, maestri e profeti, due dei quali della nostra terra cremonese: don Primo Mazzolari e don Luisito Bianchi. La mia vita, ormai giunta a una veneranda età, è stata vissuta in un impegno umano, sociale. Povero cristiano e peccatore sì, fascista mai”.

giovedì 26 gennaio 2017

I MANIFESTI DI TORINO


I manifesti ritoccati che da qualche tempo fanno sorridere i torinesi,almeno quelli con il senso dell'umorismo,sono diventati una sorta di firma per un misterioso artista che con dispositivi per ritoccare immagini e con una buona dose di fantasia colloca le sue opere in diverse zone del capoluogo piemontese.
Le"vittime"sono stati fin'ora Salvini,Obama,Trump,Gasparri,i marò,Adinolfi e per ultima Alessandra Mussolini,cui calza veramente a pennello l'immagine della falsa pubblicità(Duxlex al posto di Durex)il cui slogan non fa una piega(se pensi di essere razzista mettitelo in testa).
Per evitare che i fascisti e i razzisti prolifichino ce ne vorrebbero tante di scorte di profilattici,sempre che i ratti neri avvezzi a riunioni virili e dediti a cinghie mattanze possano avere una progenie limitandosi ad incontrare persone dell'altrui sesso solo in condizioni occasionali.
Articolo preso da La Stampa(l'artista-misterioso-torna-a-colpire ).

Torino, l’artista misterioso torna a colpire: stavolta nel mirino c’è la Mussolini.

Manifesto alle spalle di piazzale Valdo Fusi: dopo Salvini e Trump, tocca all’europarlamentare.

Riparte la caccia al misterioso “Bansky” torinese. L’artista dei manifesti fake che a colpi di photoshop ha messo alla berlina i politici protagonisti delle cronache. Ieri, alle spalle di piazzale Valdo Fusi, la sua creatività irriverente ha messo alla gogna Alessandra Mussolini. L’europarlamentare, che nei salotti tv si è costruita la fama di essere una paladina del pugno duro sul tema dell’accoglienza, è diventata la testimonial della reclame di un’azienda di contraccettivi anti-razzisti che scimmiotta la Durex, trasformata in “Duxlex” (la legge del duce).
Il copione è sempre lo stesso. Come la curiosità di scoprire chi ci sia dietro a queste opere che attirano l’attenzione dei passanti tra simpatia e qualche muso lungo. A metà dicembre, era stata la volta di Barack Obama. L’ex presidente degli Stati Uniti è finito nella bacheca di uno spazio pubblicitario di piazza Cavour come nuovo volto della campagna promozione dell’Apple. Anche il quel caso era tarocca. E il suo volto triste era diventato un’icona di un desktop di un Mac molto particolare. Afferrato dalla mano di una donna, in primo piano il “Bansky” aveva aggiunto una finestra del sistema operativo con un messaggio preciso “Salvare prima di uscire?”. Era i giorni della campagna elettorale di Trump. Cambio di rotta della politica degli Usa che, ovviamente, non è passato inosservato al misterioso artista delle pubblicità false. Qualche tempo prima, l’appena proclamato Presidente degli Usa era diventato il volto di una locandina dei rasoi Gillette. Ma il miliardario americano è in bella compagnia: negli ultimi mesi sono finiti sui manifesti anche Adinolfi, i marò e Gasparri, protagonista di una reclame di Tiffany&Co che recitava lo slogan: «Ricchi si nasce eleganti si diventa». Imperdibile, ovviamente. Ma sempre tarocca.
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mercoledì 25 gennaio 2017

LO SGARRO DELLO SMOM AL PAPA(SUBITO RICAMBIATO)

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Per chi appassionato di francobolli il Sovrano militare ordine di Malta(Smom)è famoso soprattutto per l'emissione di stampe anche piuttosto carine ma l'organizzazione che opera nel campo cattolico è un misto di retaggi medievali e di massoneria e conta molto in termini di potere anche se meno rispetto ai decenni ed ai secoli passati.
Passata alla cronaca nel periodo natalizio per lo scandalo dei profilattici in paesi africani con gravi problemi di trasmissione soprattutto dell'Aids,distribuiti da associazioni dell'ordine religioso cavalleresco senza che il Gran Cavaliere abbia mosso ciglio,sono arrivate ieri le dimissioni"imposte"
da Papa Bergoglio per il Gran Maestro.
Termini come maestri,commendatori,cerimonieri,cavalieri e dame sono abituali in un mondo di iscritti che comprendono nomi di nobili più o meno decaduti(e se lo sono in piedi),politici e banchieri,imprenditori e diplomatici(vedi:www.lettera43.it ordine-di-malta ).
Nell'articolo preso dal Corriere Roma(papa-ottiene-dimissioni )la cronaca e una breve storia dello Smom sui fatti di questi giorni e la grande e stretta collaborazione che i cavalieri hanno sempre avuto con la Santa Sede.

Il Papa impone le dimissioni al Gran maestro dell’Ordine di Malta.

A determinare le tensioni degli ultimi mesi il «commissariamento» dell’organismo. Fra Matthew Festing ha rimesso il suo incarico al Sovrano consiglio interno.

di Ester Palma
Dopo le tensioni delle ultime settimane, il Papa chiude la questione con il Gran maestro dell’Ordine di Malta, l’inglese Fra Matthew Festing, imponendogli le dimissioni. Francesco gli ha dato udienza martedì pomeriggio e il Sovrano Consiglio dell’Ordine cui Festing presenterà la sua rinuncia si riunirà in tempi brevi, probabilmente entro la settimana.
«Fuori dalle nostre questioni interne»
Il Gran Maestro, che una volta eletto resta in carica a vita come il Papa, nelle scorse settimane aveva dichiarato pubblicamente che il Pontefice doveva «restare fuori dalle nostre questioni interne»: una presa di posizione del tutto «inedita» nella quasi millenaria storia dell’Ordine. Il motivo di tanto sdegno era la decisione di Francesco di istituire una commissione di inchiesta composta da cinque fra prelati e esperti laici per indagare sui più recenti atti di governo dello stesso Gran Maestro.

Il Gran Cancelliere destituito
In particolare il richiamo di Francesco era legato alla recente e clamorosa destituzione del Gran Cancelliere dell’Ordine, il tedesco Albrecht Freiherr von Boeselager che nei giorni scorsi aveva rifiutato di dimettersi dai suoi incarichi come richiesto dal Gran Maestro fra’ Matthew Festing «in presenza - come informa una nota ufficiale dell’Ordine - del cardinale Raymond Leo Burke, rappresentante del Santo Padre presso l’Ordine di Malta: «Dopo il rifiuto di Boeselager, il Gran Maestro non ha avuto altra scelta che ordinargli, alla presenza del Gran Commendatore e del Cardinale Patrono, in base alla promessa di obbedienza, di dimettersi. Boeselager ha rifiutato nuovamente. A quel punto, il Gran Commendatore, con l’appoggio del Gran Maestro, del Sovrano Consiglio e della maggior parte dei membri dell’Ordine in tutto il mondo, ha avviato un procedimento disciplinare attraverso il quale un membro viene sospeso dall’appartenenza all’Ordine, e quindi da tutte le cariche all’interno dell’Ordine stesso».
Il «pretesto» dei profilattici in Africa
Prosegue la nota dello Smom: «La ragione della sospensione da Gran Cancelliere è dovuta a gravi problemi accaduti durante il mandato di Boeselager come Grande Ospedaliere dell’Ordine di Malta, e il successivo occultamento di questi problemi al Gran Magistero, come dimostrato in un rapporto commissionato dal Gran Maestro l’anno scorso». Ovvero, a quanto pare, il Gran Cancelliere avrebbe appoggiato la distribuzione di profilattici in alcune zone dell’Africa più povera, in cui l’Aids è particolarmente diffuso: cosa che sarebbe in contrasto con i principi della Chiesa, ma non quelli, evidentemente di Papa Francesco. Ma la questione dei preservativi potrebbe essere solo un pretesto. Il Santo Padre a quanto pare, non è convinto dell’approccio di Festing nell’affrontare le questioni interne all’Ordine: la sua rudezza e i suoi modo sbrigativi avrebbero già causato contestazioni interne che rischiavano addirittura di arrivare a una spaccatura. Per questo il Papa è intervenuto.

La storia e le finalità dell’Ordine di Malta
Il «Sovrano militare ordine ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta» comunemente abbreviato in Sovrano militare ordine di Malta (ovvero Smom) , o semplicemente in Ordine di Malta, è un ordine religioso cavalleresco canonicamente dipendente dalla Santa Sede, con finalità assistenziali e riconosciuto da gran parte della comunità internazionale come soggetto di diritto internazionale. «Nell’undicesimo secolo i Cavalieri di Malta, all’epoca conosciuti come «Cavalieri Ospitalieri» (ordine istituito nel 1048), fondarono un ospedale a Gerusalemme per assistere i pellegrini di qualsiasi religione o razza - spiega il sito dello Smom - L’opera degli Ospitalieri diventò sempre più importante quando nel 1113 Papa Pasquale II riconobbe ufficialmente la comunità monastica come ordine religioso laicale. Il Papa indica nel Beato Gerardo il fondatore dell’Ordine, assistito da un gruppo di monaci – i “Professi” – che costituiscono ancora oggi il cuore dell’Ordine di Malta. Nel corso dei secoli il numero di membri provenienti da tutta Europa aumentò, contribuendo a rafforzare la presenza dell’Ordine nel periodo di permanenza a Rodi (1310-1522) e a Malta (1530-1798). In passato i membri dell’Ordine di Malta appartenevano tradizionalmente all’aristocrazia, mentre oggi l’accento è sulla nobiltà di spirito e di comportamento. I 13.500 Cavalieri e Dame dell’Ordine di Malta rimangono fedeli ai suoi principi ispiratori, riassunti nel motto “Tuitio Fidei et Obsequium Pauperum”, alimentare, difendere e testimoniare la fede e servire i poveri e gli ammalati. Un impegno che si traduce in realtà in 120 paesi del mondo attraverso i suoi progetti umanitari e di assistenza sociale. I membri devono dimostrare dedizione a questi principi e vengono ammessi nei rispettivi paesi nei Priorati e nelle Associazioni nazionali dell’Ordine di Malta. I tre ceti Secondo la Carta Costituzionale, i membri dell’Ordine di Malta vengono divisi in tre ceti. I membri devono avere una condotta esemplare seguendo gli insegnamenti e i precetti della Chiesa cattolica e devono dedicarsi alle attività di assistenza dell’Ordine». 

martedì 24 gennaio 2017

SULL'AGGRESSIONE SQUADRISTA DELLO SCORSO OTTOBRE A ROMA

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Facendo un piccolo passo indietro temporalmente l'aggressione squadrista dell'ottobre scorso avvenuta in Piazza Cavour a Roma come al solito dalla maggioranza dei mass media è passata come un episodio tra balordi scaturita per futili motivi,come avvenne nel caso della morte di Renato Biagetti(vedi:madn ne-ragazzate-ne-balordi ).
Invece come detto nell'articolo riportato sotto preso da Dinamo Press(non-era-roma-nord-contro-roma-sud )emergono inquietanti presupposti che questo sia stato un assalto in piena regola e scattato con un intento di premeditazione da poter anche uccidere visto che il sedicenne assalito da sette neofascisti è rimasto per giorni in fin di vita.
Il successivo pezzo(www.ecn.org/antifa roma-odio-e-violenza )parla invece dell'universo neofascista che ruota attorno alle formazioni di Fogna Nuova e Caga Povnd con racconti di ragazzi,relazioni con la polizia e la zona di Via Ottaviano da dove proveniva il gruppo di merde nere protagoniste del vigliacco pestaggio(come è proprio del loro modo di agire)sette contro uno.

Non era 'Roma Nord' contro 'Roma Sud' ma una banda di neofascisti armati di coltello.

A piazza Cavour in sette contro un sedicenne. Squadrismo fascista e presidio del territorio nel centro della città.

In via Ottaviano 9, quartiere Prati, c'è una storica sezione del Movimento sociale italiano, conosciuta semplicemente come “via Ottaviano”. Un luogo quasi sacro per l'estrema destra romana: qui venne assassinato il giovane militante greco Mikis “Miki” Mantakas, colpito da due colpi di pistola esplosi durante un assalto alla sede, al termine di un corteo il 28 febbraio 1975.
Qui erano di casa i giovanissimi arrestati ieri mattina, e accusati di aver massacrato di botte e a coltellate riducendo in fin di vita un 16enne la sera dello scorso 14 ottobre in piazza Cavour. Una lite scoppiata per “futili motivi”, da quanto si apprende: l'intemperanza di un gruppo di 'forestieri', venuti ad attaccar briga nella piazza all'ombra della Corte di Cassazione, spruzzando della panna in faccia a delle coetanee. Un comportamento a cui la banda di giovanissimi neofascisti, ha risposto prendendo la testa di un violentissimo pestaggio finito con un tentato omicidio. La vittima era a terra quando veniva colpita a cascate, calci e coltellate.
“La politica non c'entra niente”, abbiamo sentito dire e sentiremo dire. Lo raccontarono anche dopo l'omicidio di Renato Biagetti. E sarebbe davvero così se chi ha picchiato e accoltellato non fosse un militante politico. Giovanissimi neofascisti che hanno agito nel territorio dove quotidianamente volantinano nelle scuole e attacchinano, un fatto avvenuto proprio nella piazza dove spesso e volentieri promuovono manifestazioni.
Certo, la violenza non ha avuto come obiettivo l'avversario politico, non è stata una spedizione punitiva, ma la politica c'entra eccome: la violenza sproporzionata, i coltelli, la difesa del territorio, il senso d'impunità. Per un mese alcuni quotidiani hanno ricamato sull'episodio parlando di una guerra tra bande tra giovani di “Roma Sud” (povery e un po' coatti) contro i giovani di "Roma Nord" (riccanza che veste con le marche giuste). Abbiamo scoperto che le cose non sono andate proprio così. Tra l'altro subito dopo l'episodio i ragazzi sono andati a conferire con Nicola Colosimo (lo riportano le carte dell'inchiesta), responsabile del Fronte della Gioventù, la sigla che richiama l'organizzazione giovanile dell'Msi con sede in via Ottaviano, la stessa di cui era responsabile Daniele De Santis, l'ultras neofascista responsabile della morte del tifoso napoletano Ciro Esposito.

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Da CasaPound a Forza Nuova, viaggio nella galassia neofascista tra riti e rivalità
21 gennaio 2017

"La destra mi aiuta a liberare la mia rabbia. E poi mi proteggono quelli di destra: se qualcuno mi fa angherie loro gli fanno del male". "Della destra mi piace la violenza e la guerra agli immigrati". C'è un esercito di giovanissimi, dal centro alla periferia romana, attratto dalla "destra", identificata in una galassia di simboli e aree. Le idee storico culturali non sono ben delineate "ma basta che andiamo a menare qualcuno", dice Matteo, 16 enne di Torbellamonaca. Di "ideali" o di progetti neanche a parlarne. Perché in molti dei ritrovi della frastagliata destra extraparlamentare, ad eccezione del Fronte della Gioventù, si ascolta solo musica e si pianificano raid.

"Ti ha preso in giro? Ora la pagherà", tanto basta a far leva sugli adolescenti, nell'assenza di punti di riferimento di un epoca vuota.

Il viaggio
Il viaggio nel mondo dei giovani vicini a movimenti come Forza Nuova, CasaPound o Fronte della Gioventù comincia nelle ore in cui 7 ragazzini del Fdg vengono arrestati per tentato omicidio nel corso di una rissa in piazza Cavour dello scorso ottobre. Malgrado il motivo che ha originato il pestaggio non abbia una matrice politica, il dibattito sui social dei ragazzini diventa un'arena in cui i commenti oscillano tra "dovevano ammazzare quella zecca" (riferito al 16enne finito in ospedale, ndr) a "certo se era negro era meglio ".

La sezione a Ottaviano
Il paradosso è che proprio dalla sezione del Fronte della Gioventù di via Ottaviano sono arrivate le critiche più aspre per l'accaduto. "Noi condanniamo l'uso delle violenza ma soprattutto l'uso di coltelli - spiega Federico Cocco, responsabile della sezione storica - Non sono questi i valori che insegniamo ai giovani che frequentano la nostra sezione anche se molti hanno strumentalizzato politicamente questo episodio. Qui vengono 300 ragazzi e i dibattiti che facciamo sono sulla politica, reading sulle notizie di giornale e letture di libri come l'Odissea".

Il racconto
Quello che invece accade in altre sezioni, ad esempio di CasaPound, è decisamente diverso. A raccontarlo è un ragazzo di 17 anni che dopo l'iniziale infatuazione si è allontanato dal circolo di Roma ovest.
"Mi sono avvicinato a loro perché dei miei compagni di classe facevano parte di Casa-Pound, erano in quel giro insomma. Avevo litigato con ragazzi della scuola, un gruppo di sinistra e loro sono stati gli unici che mi hanno difeso subito. Non solo sui social ma anche fuori da scuola con la loro presenza, facevano capire che non ero solo e che non si dovevano più permettere di attaccarmi". Quindi l'adolescente ha cominciato a frequentare la sezione di Cp del suo quartiere. "Lì c'erano degli addetti a reclutare persone e a mettere i volantini di notte e se lo facevi eri visto bravo e ti sentivi importante, perché avevi un compito ". Poi l'allontanamento. "Non si facevano mai discorsi politici seri, il motto è: "Ora riconquistiamo tutto; ci riprendiamo il potere a cominciare dalle scuole; se c'è la mafia è colpa dei comunisti", ma poi quando ho sentito che ridevano perché uno di loro aveva aggredito un pizzaiolo egiziano senza motivo ed erano tutti esaltati da questa cosa, ho deciso che non sarei più andato ". Cosa attrae della destra? "La rabbia. Ti capiscono e ti fanno sentire grande e forte insieme a loro", a rispondere ora è una quindicenne di Centocelle.

Le relazioni delle forze di polizia
A dare la misura dell'espansione del fenomeno destra a Roma sono le relazioni delle forze di polizia che monitorano i gruppi sul territorio. "In generale, l'estrema destra continua ad essere caratterizzata da una perdurante polverizzazione in formazioni alquanto eterogenee, frutto della carenza di strategie politiche condivise e di un efficace coordinamento delle attività nei territori". In questo scenario, si distinguono le due formazioni numericamente più consistenti e "maggiormente strutturate come CasaPound Italia e Forza Nuova", raccontano le relazioni ministeriali. Mentre però le progettualità di CP, si caratterizzano per la ricerca di partnership con formazioni di spessore istituzionale (il referente è la Lega Nord) la proposta di Forza Nuova mira ad aggregare in un fronte unitario le sigle d'area nazional-popolare. "In tale quadro, ove Forza Nuova cerca di attrarre, nella propria sfera di influenza, la base militante del disciolto Msi-Dn, si colloca la creazione del Fronte dei Nazionalisti che nel 2015 ha riunito Fiamma Tricolore, Forza Nuova e il Movimento Sociale Europeo". E sull'onda di una rabbia generazionale le destre, seppur spacchettate, continuano a fare proseliti.

lunedì 23 gennaio 2017

LE EURO DESTRE


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A Coblenza è andato in scena un incontro tra i maggiori leaders dei partiti euroscettici che hanno parlato soprattutto di Europa e di Euro,ammirando il modello statunitense di Trump ed allo stesso tempo omettendo che i soldi che arrivano loro da Bruxelles e Strasburgo fanno comodo,ma questo ovviamente non si dice.
Un Salvini degno rappresentante del popolo della Lega intento più a fare foto e farsele fare,quello che oggettivamente detiene un livello intellettivo che fa abbassare già la media dei quozienti di tutti i partecipanti che non è elevata di per se.
Tutto questo per creare ad arte proprio sullo scenario di Brexit e la vittoria di Trump un nuovo trampolino di lancio per le idee nazionaliste e razziste anti migranti e con economie che guardano all'individualismo e non alla collettività come espresso dall'articolo di Contropiano(destre-europee-marcia ).

Destre europee in marcia. Come si combattono?

di Dante Barontini
Immancabilmente, la destra europea più rognosa ha festeggiato a Coblenza la vittoria di Donald Trump, nella convinzione che il vento sia girato dalla sua parte.
L'olandese Geert Wilders (atteso vincitore delle elezioni politiche in marzo), Marine Le Pen, Matteo Salvini, e Frauke Petry – più gruppuscoli minori – si sono visti alla Rhein-Mosel-Halle e lanciato proclami baldanzosi. Con qualche solida chance soltanto i primi due, mentre la leader tedesca dell'Afd e il leghista “Mi metto i doposci per andare in video” possono solo accarezzare il sogno di una prestazione migliore del solito.
Tutti comunque convinti dell'effetto domino che dovrebbe derivare a loro favore dall'accoppiata Brexit-Trump. Naturalmente omettono – tutti – di ricordare l'Oxi al memorandum della Troika in Grecia (che ha aperto la stagione dei rifiuti di massa ai diktat dell'establishment multinazionale, confermando al tempo stesso l'inconsistenza del “riformismo”), così come anche il referendum italiano (che ha avuto una fortissima componente di sinistra, in difesa della Costituzione antifascista oltre che per affossare il ducetto di Rignano).
Le loro parole d'ordine sono state ovviamente contro l'euro e la stessa Unione Europea (quest'ultima con toni molto più sfumati, comunque). Ma ovviamente nessuna traccia di critica al terzo pilastro del dominio imperialista: la Nato.
Il calcolo della destra è evidente, così come il rischio: che si formi davvero un movimento di massa di estrema destra per la prima volta in Europa dalla caduta del nazifascismo.
Che vada combattuto è ovvio. Il problema è come si fa? La domanda cui va data risposta, per agire di conseguenza, è semplice: come si è formato questo pericolo? Non c'è alcun dubbio – lo riconoscono ormai persino i leader europei, quando parlano in casa propria, mentre cambiano linguaggio nei vertici continentali – che l'intreccio tra crisi economica, globalizzazione-delocalizzazione produttiva e austerità abbia alimentato un malessere sociale interclassista, che ha saputo in parte riconoscere il nemico (Unione Europea) e uno degli strumenti (la moneta unica).
In questo “fronte sociale” altamente composito la leadership culturale-ideologica è stata inizialmente esercitata soprattutto dalle destre, che hanno usato i migranti come “nemico fisico”, quello debole e facilmente raggiungibile. Se si ragiona in termini di classi, questa leadership è rappresentata – non dappertutto e in ogni caso non totalmente – dalla piccola e media imprenditoria, quella che sopravvive grazie al mercato interno e non può né esportare, né tantomeno delocalizzare. La saldatura con settori del lavoro dipendente privo di rappresentanza sia sindacale che politica (complice l'asservimento dei “grandi sindacati confederali” e lo spappolamento delle sinistre socialdemocratiche e/o presunte “radicali”) è stata abbastanza semplice. Del resto, in gradi aree dei paesi europei (ma anche degli Stati Uniti), il grosso della “piccola impresa” è fatta di commercianti, esercenti, semiartigiani (officine di riparazione e manutenzione, ecc). Figure sociali insomma immerse nel “popolo” e abituate ad orientarne gli umori con la semplice, economicamente fisiologica, presenza quotidiana.
Figure sociali senza visione, nostalgiche del buon tempo andato, quando potevano guadagnare relativamente molto “mettendo il dito sulla bilancia”. Ora, invece, sono costrette allo sconto, incalzate dalla grande distribuzione multinazionale. Figure sociali dalla visione angusta, individualiste (quindi “anticomuniste” viscerali) e invidiose del grande capitale che le annienta.
Tutto molto vecchio e conosciuto… Ma come si sottrae il nostro blocco sociale – lavoratori dipendenti con qualsiasi tipo di contratto (voucher compresi), partite iva monocommittenti, disoccupati, pensionati, senza casa, ecc – a questa egemonia di destra?
La via facile, offerta immediatamente dai grandi media mainstream del grande capitale, è quella di chiamare a raccolta tutti e chiunque per arrestare “i populismi”, senza più nemmeno distinguere tra quelli di destra, quelli di sinistra (non necessariamente “radicalissimi”) e quelli social-confusi (i grillini, per restare in Italia). E' la via sempre accettata dalle sinistre mosce e senza più idee (da Bertinotti a Sel, agli epigoni di Toni Negri), ed è una via senza uscita. Il traguardo finale è quello di ritrovarsi a difendere l'ordine messo in crisi, e quindi – nel quadro geopolitico attuale, dominato da Usa, Cina e Russa – a sostenere un'integrazione più stretta dell'Unione Europea, la difesa dell'euro, delle politiche di austerità (magari appena un po' addolcite) e della Nato (magari sotto forma di “esercito comune europeo”, per cui del resto stanno già lavorando). Ci si ritrova insomma a mettersi contro il proprio blocco sociale (massacrato dall'integrazione europea ordoliberista, dall'austerità e dal differenziale di produttività che rende l'euro un vantaggio per l'industria tedesca e una maledizione per tutti gli altri) facendo da spalla al capitale multinazionale neoliberista, ricco di plusvalenze ma povero di “truppe sociali”.
Volete un esempio più chiaro? Volete un'immagine? Eccola: Bertinotti seduto sulla poltrona di presidente della Camera, conteso da tutti i salotti della Roma bene, mentre i suoi elettori venivano maciullati dal “pacchetto Treu”, prima falla legislativa nella diga dei diritti dei lavoratori in questo paese.
La destra estrema si combatte a livello sociale, costruendo un movimento di massa esplicitamente contro i nemici veri: Unione Europea, euro e Nato. E' una via faticosa e difficile? Certamente. Ma storicamente si è dimostrata l'unica in grado di contrastare e sconfiggere i fascismi storici.
Soprattutto è l'unico modo di organizzare i nostri in modo indipendente e razionale, con una visione internazionalista e non “da piccolo cortile”. E' l'unico modo di non ritrovarsi ancora una volta con il nemico che marcia alla nostra testa.
E' l'esperienza positiva che abbiamo fatto con il no sociale alla controriforma costituzionale. E' la strada che cerchiamo di percorrere partecipando alla Piattaforma sociale Eurostop. C'è bisogno della partecipazione di tutti, ma si parte dalla chiarezza. Le scorciatoie, in territori impervi, portano quasi sempre nel baratro…

sabato 21 gennaio 2017

TRUMP NUOVO PRESIDENTE DEL MONDO(UFFICIALE)


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Dopo quasi tre mesi Donald Trump si è insediato ufficialmente alla Casa Bianca come quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d'America con una cerimonia milionaria e lo scambio di convenevoli con l'ex "presidente del mondo" Barack Obama.
L'articolo di Left(sei-cose-da-sapere-su-trump )parla del magnate newyorkese e del suo entourage miliardario e a detta di Trump quello col maggior quoziente intellettivo di sempre,con evidenti conflitti d'interesse che rimangono nonostante la cessione delle varie cariche aziendali ma in mano a sudditi che eseguiranno gli ordini degli eletti.
L'amministrazione intera sarà di bianchi a larghissima maggioranza e composta anch'essa in schiacciante percentuale da uomini,ma successivamente si analizzeranno più dettagliatamente incarichi e provenienze dei nomi che saranno a corollario di chi ha vinto forse a sorpresa le ultime elezioni in Usa.

Sei cose da sapere su Trump e la amministrazione che entra in carica.

di Martino Mazzonis.
Ci siamo, oggi il circo di casa Barnum si trasferisce da midtown Manhattan, dove svetta la Trump Tower e dove dall’8 novembre in poi il presidente eletto ha riunito il suo staff, a Washington. Giuramento, parata, discorso, ballo inaugurale, un po’ di folla, ma niente a che vedere con quella di otto anni fa.
L’era composta di Obama volge al termine e comincia la, speriamo breve, scoppiettante era Trump. Il 71enne del Bronx, rampollo di una famiglia di costruttori, plurimaritato, immobiliarista senza scrupoli, padrone di Miss Universo e Miss Mondo per anni, l’amico delle celebrities più trash che sembra uscito da un film dei fratelli Vanzina degli anni ’80 e conduttore televisivo di reality ce l’ha fatta. Ci aveva pensato già più di una volta a diventare presidente, e ogni volta aveva fatto un passo indietro prima di cominciare. Era sempre stato una voce critica nei confronti della politica – con la quale ha però sempre intrattenuto ottimi rapporti – e negli anni di Obama ha accentuato i toni. Ad esempio alimentando le voci secondo le quali il presidente non sia americano. E grazie a una campagna aggressiva, populista, a toni esagerati e promesse roboanti è riuscito nell’impresa. Ora gli americani, che hanno votato più Hillary Clinton, ma che in alcuni Stati chiave e in crisi, grazie al voto bianco e disilluso di molti lavoratori gli hanno regalato la vittoria, se lo terranno per quattro anni. E noi con loro. Oggi intanto a Washington saranno più quelli che protestano che non i sostenitori. E ieri ci sono state manifestazione a New York e persino a Manila (di tutto quanto c’è in preparazione parliamo qui)
Con Trump e famiglia – che avrà un ruolo cruciale nella sua presidenza – sbarca a Washington un’amministrazione di destra, a tratti imbarazzante e piena di conflitti di interesse. Cosa ci sia da aspettarsi, quasi non lo sappiamo. Proviamo però a mettere in fila un po’ di cose capitate in questi mesi per farci un’idea.
Un’amministrazione di bianchi
Poche donne, pochi giovani, poche minoranze. E nessun ispanico. L’amministrazione Trump sembra uscita dagli anni ’70, quando a guidare il Paese c’erano ancora loro, i bianchi da soli. La figura qui sotto è una rappresentazione della composizione del Paese, degli incarichi assegnati da Trump e del suo elettorato: più dell’80% dei voti del presidente eletto sono bianchi e così i membri del suo gabinetto. Trentuno nomine, 5 donne, 3 membri di minoranze. Due delle donne sono anche membri di minoranze: l’indiana Nikki Halley, ex governatrice della South Carolina e Ellen Chao, che è moglie del capo della maggioranza in Senato, McConnell. L’unico afroamericano è Ben Carson, a cui Trump ha restituito il favore del sostegno. E c’è Sheena Verma, che non sarà un Segretario, ma gestira le assicurazioni mediche pubbliche.
Una amministrazione di miliardari in conflitto di interesse
Mai un governo mondiale ha contato tanti miliardari e milionari: almeno 5 i primi, molti di più i secondi. Non male per uno che prometteva di combattere i poteri forti e di “ripulire la palude”. I primi ad avere conflitti sono TheDonald e suo genero: non hanno intenzione di cedere i business di famiglia e quando lasceranno l’incarico, se quelle compagnie saranno cresciute, loro saranno più ricchi. Inutile dire che, specie in Paesi piccoli e corrotti, far costruire grattacieli può essere un buon modo per avere buoni rapporti con gli Stati Uniti. Esempio: il socio di affari di Trump nelle Filippine potrebbe essere nominato ambasciatore negli Usa dal presidente Duterte. Poi c’è, per fare un solo esempio, il Segretario di alla Salute, Tom Price, membro della camera dei rappresentanti che è stato beccato a comprare azioni di compagnie farmaceutiche favorite da leggi che si apprestava a far votare. Price comprava, proponeva la legge, le azioni salivano. Unico buon esempio, il Segretario di Stato Rex Tillerson, che ha ceduto ogni quota in Exxon.
Un’amministrazione di incompetenti
L’esempio clamoroso è Betsy DeVos, miliardari, moglie del fondatore della Amway, una multinazionale dei servizi e sorella del fondatore di Blackwater ( i famigerati contractors dell’Iraq di George W. Bush), la nominata al posto di Segretario all’educazione, non crede alla separazione tra chiesa è stato ed è un clamoroso esempio di inettitudine e ha mentito durante le audizioni di conferma in Senato. La fondazione della madre, di cui lei è stata vicepresidente per anni, ha donato milioni a campagna anti-gay, ma lei ha negato di essere mai stata nel consiglio di amministrazione. Incalzata dal senatore Al Franken sui metodi di valutazione degli studenti – non entriamo in particolari – non sapeva di cosa si stesse parlando. Richiesta se le armi dovessero essere bandite dalle scuole, risponde: «Magari in Montana ne hanno bisogno per difendersi dagli orsi». Che vuol dire no. Poi ci sono il Segretario all’energia Rick Perry, che quando si è candidato alle primarie aveva promesso di chiudere l’agenzia che guiderà e il direttore dell’agenzia dell’ambiente che da Procuratore dell’Oklahoma ha fatto causa all’amministrazione Obama per aver imposto limiti alle emissioni di gas serra.
Un’amministrazione in conflitto con le promesse del presidente
Tre esempi rapidi: il futuro capo della Cia, Mike Pompeo, ha detto che non si deve tornare alla tortura e al waterboarding (al contrario del presidente) e che si, i russi hanno cercato di influenzare le elezioni. Il capo del Pentagono, James “mad dog” Mattis, ha detto che la Russia è un nemico. Il Segretario al Tesoro ha detto che le sanzioni alla Russia vanno confermate. Il Segretario alla Sicurezza nazionale (il ministro degli Interni), Kelly, ha detto che il muro con il Messico non servirà a fermare gli ingressi di irregolari e confermato che la tortura non serve e non si deve usare. Sugli accordi internazionali: il Segretario di Stato Tillerson ha detto che quelli sul clima di Parigi non vanno gettati via e Mattis, parlando dell’accordo con l’Iran ha spiegato: «Gli Usa mantengono la parola data».
Un presidente poco presidenziale
Donald Trump ci ha abituati ad usare twitter per sparare ad alzo zero contro chi lo critica. Cnn e Washington Post sono produttori di fake news, le celebrities che non saranno all’inaugurazione non sono mai state invitate, Meryl Streep è un’attrice mediocre, Hillary Clinton una corrotta. Era così in campagna elettorale ed ha continuato dopo. Che succede da domani? Vedremo, ma i modi istitntivi di Trump rischiano di creare danni enormi. In un’intervista a FoxNews ha speigato che non smetterà di usare il suo account.
Un presidente che non conosce l’arte della diplomazia
A proposito di account twitter e reazioni non riflettute: nelle scorse settimane Trump ha chiamato il presidente di Taiwan, minacciato di superare la politica di “Una Cina” (quella popolare, con Taiwan che è amica, ma non riconosciuta ufficialmente come Paese), parlato a sproposito delle isole del Mar della Cina che Pechino rivendica. Un diplomatico di carriera ha spiegato: «La politica della “Una Cina” non è una delle politiche, è la politica». Come dire: se salta quella i rapporti con Pechino vanno gambe all’aria. Anche le promesse di rivedere gli accordi commerciali hanno lo stesso sapore. Ci sono cose che non si fanno. Se Washington deciderà di aprire un conflitto con Pechino potenzialmente epocale, deve farlo per delle ragioni, non perché al presidente correva l’uggio di parlare al telefono con la sua omologa a Taiwan.  Stessa cosa si dica per la promessa di spostare l’ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme. Una provocazione inutile che getterebbe benzina sul fuoco in una regione già in fiamme.
A questo elenco potremmo aggiungere: la nomina di Steve Bannon, campione dell’estrema destra e dialogatore con la destra populista europea, a stratega in capo e i rapporti pessimi con molte figure importanti del suo partito – determinante per far avanzare le idee di Trump in Congresso. Tanto per scegliere altri due argomenti di cui preoccuparsi. Ma forse, per il primo giorno basta così.