giovedì 30 dicembre 2021

CONFUSIONE TOTALE

E' chiaro ormai a tutti che il governo nel caso della prevista quarta ondata e sicuramente non ultima stia lavorando in maniera confusa e casuale,e nemmeno in questo caso la comunità scientifica se la stia cavandosela all'altezza con scelte fatte a spanne che seppur dettate da modifiche del coronavirus ormai giornaliere non riesce ad azzeccarne due di fila.
Tra quarantene azzerate per l'ordine di Confindustria(madn coronavirus-colpa-nostra(?) ),tracciamenti ormai impossibili da fare,prolungamento delle vacanze scolastiche e caos amplificato dai mass media che fanno terrorismo mediatico con conseguente code agli hub e alle farmacie per i tamponi,l'esecutivo si è dimostrato ulteriormente più preoccupato per l'economia che per la salute dei cittadini quando basterebbe rendere obbligatoria la vaccinazione.
I telegiornali solamente ad inizio mese parlavano con la bocca dei politici di quando siamo belli e bravi in quanto in Italia i casi erano poche migliaia mentre Germania,Francia e Uk erano decine di migliaia,e a meno di un mese ci ritroviamo dall'altra parte in una situazione più caotica degli altri Stati membri europei.
L'articolo di Contropiano(il-governo-nel-pallone-abolisce-di-fatto-la-quarantena )sancisce il totale fallimento a poco meno di due anni dall'emergenza Covid-19 di tutta una politica che fa del profitto l'unico faro cui rivolgersi,con la salute privata che si sta facendo le palle d'oro sulla pelle dei malati e con i comitati scientifici che pure loro hanno colpe sulle varie fasce d'età che vengono via via colpite e con una campagna vaccinale che pur se ha raggiunto un'alta percentuale è ancora ostaggio di tamponi ad ogni variante che salta fuori,e ce ne saranno altre che periodicamente si svilupperanno,e ciò dovuto soprattutto a quelli che non hanno mai accettato il vaccino,che seppur zoppicante rimane l'unico baluardo contro la malattia,in un paese come detto in soqquadro e qui in Lombardia veramente ancora molto peggio.

Il governo nel pallone: abolisce di fatto la quarantena.

di  Dante Barontini   

Allora, diciamola in modo semplice: i governi occidentali, compreso quello italiano, di fronte al moltiplicarsi incontrollabile dei contagi scelgono di diminuire i periodi di quarantena in caso di contatto con portatori accertati del Covid, in qualsiasi variante si presenti.

Lo fanno – e lo dicono apertamente – per impedire che il contagio generalizzato della popolazione porti al sostanziale blocco dell’economia. Visto che, come sta accadendo in molti settori, la necessità di mettersi in isolamento impedisce a un numero crescente di persone di andare a lavorare.

Per di più, un incapace cronico messo a guidare la pubblica amministrazione pretende che i dipendenti pubblici in smart working – quindi a minore rischio di esposizione e di contagio attivo – tornino immediatamente al lavoro “in presenza”. Evidentemente il virus gli piace…

Il ministro dell’istruzione, appoggiato dal super presidente del consiglio, esclude che alla scadenza delle vacanze natalizie gli studenti possano evitare di ammassarsi nuovamente dentro edifici scolastici che dopo due anni non hanno ricevuto alcuna manutenzione adattativa al Covid.

Questo nonostante che i dati riferiscano che ormai il contagio passa soprattutto attraverso le fasce giovanili semi-risparmiate dalla prima variante originale (“Wuhan”).

Qualsiasi virologo o epidemiologo, da due anni a questa parte, ci spiega che per impedire i contagi – e lo sviluppo delle “varianti” – bisogna fare l’esatto opposto. Ma il Pil è sacro e molti scienziati fanno poi come il prof. Mindy in Don’t look up: si adeguano, ammorbidiscono, “conciliano”, trovano compromessi…

Quel che è venuto fuori da un Consiglio dei ministri particolarmente complicato, dopo uno scontro altrettanto duro con e dentro il Cts, è un elenco di misure più cervellotiche non si può. Vediamole: 

“Nuove misure in merito all’estensione del Green Pass Rafforzato (che si può ottenere con il completamento del ciclo vaccinale e la guarigione) e le quarantene per i vaccinati.

Dal 10 gennaio 2022 fino alla cessazione dello stato di emergenza, si amplia l’uso del Green Pass Rafforzato alle seguenti attività:

◦alberghi e strutture ricettive;

◦feste conseguenti alle cerimonie civili o religiose;

◦sagre e fiere

◦centri congressi

◦servizi di ristorazione all’aperto

◦impianti di risalita con finalità turistico-commerciale anche se ubicati in comprensori sciistici

◦piscine, centri natatori, sport di squadra e centri benessere anche all’aperto

◦centri culturali, centri sociali e ricreativi per le attività all’aperto.

Inoltre il Green Pass Rafforzato è necessario per l’accesso e l’utilizzo dei mezzi di trasporto compreso il trasporto pubblico locale o regionale.”

Ognuno di voi può agevolmente trovare altre decine di occasioni altrettanto favorevoli per la circolazione del virus – a cominciare dai luoghi di lavoro – che non sono menzionate.

Ma non è neanche questo l’aspetto più eclatante. La gestione delle quarantene, infatti, sfida contemporaneamente le leggi della logica, quelle della comunicazione e – ovviamente – quelle della salute pubblica.

“Il decreto prevede che la quarantena precauzionale non si applica a coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al COVID-19 nei 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale primario o dalla guarigione nonché dopo la somministrazione della dose di richiamo.

Fino al decimo giorno successivo all’ultima esposizione al caso, ai suddetti soggetti è fatto obbligo di indossare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2 e di effettuare – solo qualora sintomatici – un test antigenico rapido o molecolare al quinto giorno successivo all’ultima esposizione al caso.

Infine, si prevede che la cessazione della quarantena o dell’auto-sorveglianza sopradescritta consegua all’esito negativo di un test antigenico rapido o molecolare, effettuato anche presso centri privati; in tale ultimo caso la trasmissione all’Asl del referto a esito negativo, con modalità anche elettroniche, determina la cessazione di quarantena o del periodo di auto-sorveglianza.”

Vedete un po’ voi se è possibile lasciare una materia del genere al caso (alla freddezza e responsabilità dei singoli, magari pressati da datori di lavoro che non vogliono perdere neanche una frazione di prodotto, necessità o menefreghismo vari, ecc). 

Tanto più che vengono considerati “buoni” per uscire dalla quarantena test antigenici rapidi – diventati nel frattempo quasi introvabili, come anche quelli molecolari – che sono valutati “inaffidabili” per la verifica certa, o no, del contagio. E quindi per entrarci. 

Di fatto, e come sempre, si cerca di andare avanti addebitando gli insuccessi inevitabili di una strategia demenziale ad una minoranza altrettanto demenziale che rifiuta il vaccino in nome delle teorie più strane, oltre che per paura. 

I “no vax” sono da questo punto di vista utilissimi, e nessuno si cura di far notare che con l’obbligatorietà vaccinale verrebbe a crollare anche questo diversivo del governo.

Si è tentati di descrivere questo esecutivo come un branco di sciamannati qualsiasi, ma sappiamo bene che questa sciatteria e confusione sono il risultato di scelte sciagurate fatte nel corso degli ultimi due anni. E che ora vengono non solo confermate, ma addirittura aggravate.

Frutto maturo, insomma, di una strategia suicida: “convivere con il virus”.

Abbiamo spesso contrapposto a questa emerita cazzata la strategia molto diversa adottata dalla Cina, ma anche da altri paesi, non necessariamente socialisti (o diversamente socialisti): isolare i focolai al primo manifestarsi, testare tutta la popolazione in quella determinata area, individuazione e tracciamento dei contagiati, isolamento reale – non “fiduciario” – fino a guarigione. Poi, una volta prodotti i vaccini, anche vaccinazione di massa.

All’inizio si poteva fare anche qui, e con i primi focolai era anche stato fatto (Codogno, Vò Euganeo, ecc). Ma immediatamente si alzarono i vampiri di Confindustria, preoccupati di perdere qualche briciola di profitto per qualche mese; impedirono perciò  la dichiarazione di “zona rossa” per Bergamo e la Val Seriana, condannando a morte un numero ancora imprecisato di persone in quella zona e permettendo così al virus di dilagare in tutta Italia.

Non che gli altri paesi occidentali abbiano fatto qualcosa di diverso. Ognuno ha proseguito con il suo personale “io speriamo che me la cavo”, rassegnandosi ad adottare misure di contenimento solo quando gli ospedali arrivavano al limite dell’esplosione.

Oggi le strategie iniziali non sono più possibili. Il virus è ovunque, e muta continuamente. Anche il fatto che la “variante omicron” sia dipinta come “più contagiosa, ma meno letale” – pur in assenza, per il momento, di studi che lo confermino con qualche precisione – viene utilizzato per “allentare” ancora di più le misure di sicurezza.

A conti fatti, per quanto spannometrici (in assenza, ripetiamo, di studi definitivi), se il numero dei contagi si moltiplica per cinque – come detto da autorevoli virologi, per quanto “morbidi” con i rispettivi governi – anche quei “pochi morti in percentuale” che questa variante provoca sono da moltiplicare per cinque. 

Insomma, alla fine, in numeri assoluti – che sono quelli che contano – ospedalizzati e morti saranno più o meno gli stessi: una marea.

Persino l‘Organizzazione mondiale della sanità, che certo non brilla per rigore scientifico, ha dichiarato che la riduzione del periodo di quarantena decisa in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, è “un compromesso” tra il controllo dei contagi e la necessità di far andare avanti le economie. 

Se il virus fosse un nemico “ragionevole”, sarebbe anche una scelta logica. Purtroppo non ragiona; si replica all’infinito, finché può. Bisogna combatterlo, non “conviverci”. Altrimenti non ne usciremo mai.

Questo è quel che accade dove “la politica” – con o senza “i migliori” – è un cameriere al servizio delle imprese private, in cui dunque sono le loro esigenze immediate a determinare scelte altrettanto di breve respiro, che producono catene di problemi che si aggrovigliano nel tempo e diventano irrisolvibili con criteri “normali”.

Inutile far notare che dove è invece la politica – e la ricerca scientifica – a dettare l’agenda e le strategia, non stranamente l’economia va molto meglio, nonostante la pandemia, i lockdown e le eccezionali misure di prevenzione adottate anche in casi numericamente minimi.

Un esempio di questi giorni. A Xi’an, a dicembre, sono stati registrati 330 casi di contagio. Per questo i 13 milioni di abitanti della città sono stati messi in lockdown, chiusi in casa, con un esercito di volontari che porta loro da mangiare e un esercito di medici-infermieri che fa il tampone a tutti. 

Con questo metodo, adottato ormai da due anni, si isolano rapidamente i pochi casi, si curano a seconda della gravità in ospedale o a casa, e in meno di un mese quella città torna in genere alla piena – e vera – normalità.

Un metodo che funziona dal punto di vista della salute pubblica (solo 5.000 morti in due anni, in una popolazione di 1,4 miliardi di persone). 

Ma che funziona anche dal punto di vista dell’economia: la crescita cinese ha rallentato nel 2020, anno peggiore per Pechino, ma non è in nessun momento diventata recessione (due trimestri consecutivi negativi). E la ripresa è stata molto forte, molto più anche di quella “miracolosa” fatta segnare – ma solo per quest’anno – dall’Italia (+6,8%).

Ma che strano… Se la popolazione è in salute si produce di più e meglio….

Qualcuno lo spieghi a Confindustria e Draghi. E a tutti i neoliberisti che appestano questo mondo…

venerdì 17 dicembre 2021

LA NATO CONTRO LA CINA E LA RUSSIA

 


L'incontro bilaterale tenutosi negli corsi giorni tra Russia e Cina,rappresentati dai due presidenti Putin e Xi Jinping,ha mostrato agli Usa ed al mondo occidentale atlantista in generale che i due Stati non stanno certo a guardare all'arroganza ed alla presunzione sfociate giornalmente in pure minacce soprattutto dagli Stati Uniti,e che la loro alleanza è sempre più stretta e su vari campi.
Le sanzioni promesse se non un vero e proprio intervento militare contro le due potenze alternative all'influenza della Nato per via di Ucraina e Taiwan,solamente per citare i due ultimi pretesti,non piacciono molto ai due leader che stanchi delle continue vessazioni intensificano la loro collaborazione economica,logistica e sociale,lasciando trapelare il fatto che se ci fossero ingerenze militari dirette sarebbero pronti a rispondere.
L'articolo di Contropiano(vertice-putin-xi-jinping )analizza le strategie proposte e decise nel vertice che penso abbia impressionato le potenze occidentali,che da anni con manovre militari ed alleanze(vedi l'ultima nata Aukus tra Australia,Gran Bretagna e Stati Uniti per cercare di intimorire la Cina),anche se all'interno della stesa Russia e Cina i dubbi e le incertezze esistono e si è cercato di renderle meno pressanti.

Vertice Putin-Xi Jinping. Russia e Cina delineano il loro campo strategico.

di  Alessandro Avvisato   

I leader di Cina e Russia, nel vertice bilaterale di ieri si sono pubblicamente impegnati a rafforzare i loro legami nel contesto di relazioni sempre più tese con il blocco euroatlantico.

Il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo cinese Xi Jinping si sono incontrati mentre entrambi i paesi sono coinvolti nel peggioramento dei rapporti con gli Stati Uniti e i loro alleati. La Russia è accusata di pianificare un attacco totale alla vicina Ucraina, cosa che Mosca ha sempre negato. Si è anche speculato sul fatto che la Cina potrebbe ordinare un’operazione militare per prendere Taiwan, che Pechino insiste a ritenere suo territorio sovrano, nonostante sia stato fuori dal suo controllo negli ultimi sette decenni.

Xi Jin Ping ha descritto Putin come il suo “migliore amico” e uno dei più stretti alleati della Cina sulla scena mondiale, riaffermando che i due paesi sono uniti di fronte alle sanzioni e alla pressione politica occidentale.  Tuttavia, fa notare Russia Today, nonostante la crescente cooperazione militare ed economica, un certo numero di analisti ha sottolineato che le due potenze sono molto meno integrate di blocchi come la NATO.

“La Cina e la Russia devono alzare la voce sulla governance globale e fornire soluzioni pratiche e praticabili per le sfide globali come la lotta contro la pandemia e il cambiamento climatico” ha affermato Xi Jinping osservando che entrambe le parti dovrebbero salvaguardare fermamente l’equità e la giustizia internazionali. “Dovremmo opporci fermamente agli atti egemonici e alla mentalità della Guerra Fredda con il pretesto di ‘multilateralismo e regole'”, ha ribadito Putin.

Putin ha affermato che la Russia è disposta a continuare a rafforzare la cooperazione con la Cina nei settori del commercio, del petrolio e del gas, della finanza, dell’aviazione e dell’industria aerospaziale. collegare l’Unione economica eurasiatica con la Belt and Road Iniziative proposta dalla Cina e rafforzare la cooperazione per combattere la devastante pandemia.

Secondo il ministro degli esteri cinese  i due paesi “sono sempre stati i pilastri della pace e della stabilità nel mondo” e “più il mondo è instabile e turbolento, più la cooperazione tra Cina e Russia sarà decisiva”.

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha detto ai giornalisti ha descritto come ora “molto teso”  lo scenario europeo, scenario  che richiede “una discussione tra alleati, tra Mosca e Pechino”. La Russia ha accusato gli Stati occidentali di destabilizzare la regione verso i suoi confini, mentre i politici americani hanno sostenuto che Mosca rappresenta una minaccia esistenziale per l’Europa orientale.

Il funzionario russo ha aggiunto che i due capi di stato percepiscono  una “retorica molto aggressiva sia della NATO che degli USA”. A  ottobre, le navi da guerra russe e cinesi hanno unito le forze per la prima volta per organizzare una missione di pattugliamento nell’Oceano Pacifico. Le esercitazioni sono arrivate poco dopo la rivelazione del patto militare sostenuto da Washington con la Gran Bretagna e l’Australia, noto come ‘AUKUS’, che è stato ampiamente pubblicizzato come progettato per contrastare l’influenza della Cina nella regione.

Cui Heng, un esperto del Centro di studi russi della East China Normal University di Shanghai, ha dichiarato mercoledì al Global Times che “La Cina svilupperà i suoi legami con la Russia in modo pragmatico, soprattutto perché sia ​​Cina che Russia hanno legami difficili con gli Stati Uniti e alcuni altri paesi occidentali”.

Sia la Russia che la Cina stanno cercando sempre più di allontanarsi dall’uso del dollaro USA come valuta principale del commercio internazionale, usando le loro denominazioni per sostenere il crescente volume di scambi tra i due paesi. In questo modo, secondo il ministro degli Esteri russo Lavrov,  i due paesi potrebbero mettersi al riparo dal rischio di sanzioni e rivalità politiche “passando a regolamenti in valute nazionali e in valute mondiali, alternative al dollaro”, aggiungendo che “dobbiamo allontanarci dall’uso di sistemi di pagamento internazionali controllati dall’Occidente”.

Ma l’abbraccio strategico tra Russia e Cina, con motivazioni piuttosto diverse, suscita ancora qualche perplessità, sia in Russia che in Cina.

Secondo Russia Today alcuni analisti sostengono che Mosca rischia di essere “nanizzata” dalle dimensioni dell’economia di Pechino, mentre altri insistono che la crescente influenza della Cina in Asia centrale, anche nelle ex repubbliche sovietiche come il Kazakistan e l’Uzbekistan, potrebbe entrare in collisione con la sfera di interessi della Russia.  Andrey Denisov, ambasciatore russo in Cina, ha scritto a giugno che “credo che un’alleanza formale, specialmente militare-politica, non sia lo schema più ottimale per le relazioni tra due potenze come Russia e Cina”, ma ha anche insistito sul fatto che le due nazioni possono avere relazioni produttive senza intrecciarsi profondamente per combattere un nemico comune.

mercoledì 15 dicembre 2021

TUTTI A PARLARE DELLE DISUGUAGLIANZE

Sulla bocca dei politici,e solo su quella,la parola disuguaglianza troneggia negli ultimi periodi,partendo dai vari esponenti politici di tutte le solfe arrivando al premier Draghi e al Presidente Mattarella,e nessuno escluso parla di questo termine in maniera positiva.
Ma da qui ad agire per allentare la forbice tra i ricchi ed i poveri,tra i potenti e chi non ha nulla,non si è visto ancora niente,nella lunghissima ed eterna campagna elettorale che comprende in queste settimane anche la carica del nuovo Presidente della Repubblica.
L'articolo di Contropiano(la-disuguaglianza-e-una-scelta-politica con relativi schemi)parla dapprima delle disuguaglianze a livello mondiale con il nord e sud del globo che hanno differenze molto forti,e nel proseguo del contributo relativo all'Italia tali divergenze sono allo stesso modo elevate con il potere patrimoniale racchiuso nelle mani di pochi.
L'accozzaglia parlamentare,minoranza compresa,guai a parlare di redistribuzione della ricchezza e di tassazione patrimoniale,anzi si vedono manfrine inaccettabili tra i vari politicanti che si annusano e si leccano come mai capitato prima:vedere i democristiani(più che democratici)lisciarsi il pelo con i fascisti è vomitevole e irriguardoso verso la recente storia italiana.
La logica del profitto,del vogliamoci bene,del portare avanti scelte per il bene comune hanno stancato se non inorridito milioni di italiani che aumenteranno ancor più il numero degli scontenti e dei non votanti alle prossime elezioni vista l'inettitudine e la malafede di chi è stato mandato a decidere le sorti del paese.

La disuguaglianza è una scelta politica.

di  Coniare Rivolta *   

Il 7 dicembre scorso è stato rilasciato il World Inequality Report per il 2022, un rapporto che traccia il quadro della disuguaglianza di reddito e ricchezza a livello internazionale. La situazione che emerge è quella di un mondo caratterizzato da diseguaglianze feroci, sia tra Paesi che all’interno dei Paesi. 

In altre parole, le disparità di reddito e ricchezza sono forti e persistenti sia tra Nord e Sud del mondo, sia tra individui all’interno di ciascuna economia nazionale. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo.

Partiamo da una prima fotografia globale, facendo tuttavia una preliminare distinzione. Con il termine ‘ricchezza’ intendiamo l’ammontare di risorse che, in un determinato momento, un soggetto possiede. 

Con il termine ‘reddito’ intendiamo invece l’ammontare di risorse che, in un preciso intervallo di tempo (generalmente, un anno), giunge nelle mani di un soggetto per effetto del proprio apporto al processo produttivo: un lavoratore, ad esempio, riceverà come reddito il salario derivante dal proprio lavoro; un capitalista riceverà il profitto derivante dalla propria attività d’impresa; il proprietario di un immobile locato percepirà come reddito i canoni di affitto dell’inquilino. 

Certo, seppur stiamo parlando di due concetti differenti, è facile immaginare che le due grandezze si parlino: un basso livello reddito non contribuirà ad accrescere in misura rilevante la ricchezza di un individuo (perché questi non potrà permettersi di risparmiare risorse in ammontare considerevole), e soprattutto non gli permetterà di godere nel presente di un buon tenore di vita, in quanto potrà permettersi un ammontare più basso di beni e servizi.

Bene, il report in questione analizza la disuguaglianza attraverso le lenti di entrambe le dimensioni appena introdotte: reddito e ricchezza. Se, tornando al rapporto (Figura 1), consideriamo la distribuzione dei redditi e della ricchezza su scala mondiale, scopriamo che la metà più povera dei cittadini del mondo (bottom 50% nella figura, in blu) arriva a raggranellare solo l’8% del reddito totale, e a possedere appena il 2% della ricchezza complessiva. 

Dalla parte opposta, il 10% più ricco (top 10% nella figura, in rosso) è oggi in grado di accaparrarsi il 52% del reddito mondiale, e addirittura possiede il 76% della ricchezza. Dati che fotografano una situazione di fortissima disuguaglianza.

A un livello di analisi più specifico, il documento indica che i livelli di disuguaglianza non sono gli stessi nelle diverse aree del mondo. L’Europa, per esempio, mostra ancora una distribuzione del reddito meno diseguale rispetto agli Stati Uniti e, soprattutto, rispetto alle aree più povere del pianeta, come il Medio Oriente (MENA), il Nord Africa e l’Africa Sub Sahariana.

Nonostante la crisi che stiamo vivendo sulla nostra pelle, la situazione è molto peggiore in altre parti del mondo, e parte di questa tendenza è attribuibile alla sopravvivenza di qualche residuo di stato sociale e di tutela del lavoro che in altre parti del globo non sono mai esistite o sono completamente scomparse..

Tuttavia, la vicenda si fa ancora più interessante una volta che si sposta il focus sul livello nazionale delle disuguaglianze, e soprattutto sulle macrotendenze storiche che hanno caratterizzato la dinamica delle disuguaglianze di reddito e ricchezza in Italia.

Partiamo dal primo punto. Anche in questo campo, il Belpaese primeggia. Per quanto concerne la distribuzione del reddito, la metà più povera degli italiani riesce a racimolare appena il 20% del reddito prodotto, mentre il 10% più alto ne raccatta un cospicuo 32%. 

Passando alla distribuzione della ricchezza, la metà che sta in basso detiene una quota che non supera il 10%, mentre al top 10% è riconducibile il 48% della ricchezza complessiva. Quasi la metà! Senza contare che il top 1% (l’uno percento più ricco della popolazione) detiene il 18% della ricchezza nazionale.

Come è stato possibile? Questo è l’aspetto più interessante del rapporto, che consente di cogliere in una singola immagine la storia che ci ha condotto verso questa situazione drammatica. 

Nella Figura 3 è riportato l’andamento, in Italia, della quota di reddito riconducibile al 10% più ricco e al 50% più basso della distribuzione nel corso del secolo scorso e fino al 2020. 

Come si può osservare, fino agli anni ’70, l’andamento è decrescente per i redditi più alti e crescente per la metà più bassa della distribuzione, tanto che in questo decennio avviene un sorpasso, comunque non entusiasmante, con la quota riconducibile al 50% più basso dei redditi che supera quella del top 10%. 

Viceversa, dai primi anni ’80 questa tendenza convergente si inverte in maniera permanente e, dopo il controsorpasso, la distanza continua ad aumentare fino ai giorni nostri. In altri termini, fino agli anni ’70 la parte meno agiata della popolazione era riuscita ad accaparrarsi fette sempre più ampie del prodotto sociale, mentre dagli anni ’80 in poi i più ricchi hanno visto sempre più aumentare i loro redditi.

L’andamento della distribuzione della ricchezza va ancora peggio e questo è bene sottolinearlo, anche in considerazione del fatto che l’Italia è uno dei primissimi Paesi al mondo per rapporto tra ricchezza privata e reddito nazionale. 

Tale indice è esploso dal 250% del 1970 al 650% del 2010 (oggi siamo intorno al 700%) e sta ad indicare che la distribuzione della ricchezza è particolarmente importante per valutare la distribuzione complessiva e dunque le disuguaglianze nel nostro Paese.

Come si spiega questo andamento? Quali politiche si sono consolidate e rafforzate in particolare a partire dagli anni ’80? Il documento esaminato afferma che la disuguaglianza – e la sua crescita – è una precisa scelta politica e non è inevitabile. 

Non a caso, in Italia (e in molti altri Paesi a dire il vero) prende il via da quegli anni un preciso percorso di deregolamentazione del mercato del lavoro e di libera circolazione su scala mondiale di merci e capitali, un copioso processo di finanziarizzazione, un progressivo smantellamento dello stato sociale e una sostanziale riduzione dei diritti dei lavoratori. 

Tali strumenti hanno rappresentato un formidabile dispositivo per le classi dominanti per invertire la tendenza di convergenza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, instaurando una nuova fase caratterizzata dalla crescente precarizzazione del lavoro e dall’indebolimento delle organizzazioni sindacali. 

Si tratta di deliberate scelte politiche che hanno contribuito a ridurre la quota del prodotto che va al lavoro, ossia la porzione di reddito che i salariati riescono a portare a casa nel conflitto distributivo, e, in tal modo, ad aumentare anche le disuguaglianze di reddito e di ricchezza: esiste infatti una precisa correlazione tra la quota di reddito che va ai percettori di profitto e quella che va alle fasce più agiate della popolazione (in altri termini, non lo scopriamo oggi che i capitalisti sono di norma più benestanti dei lavoratori). 

Risultato: alla riduzione della quota salari si è accompagnata la parallela crescita della quota profitti, che è stata il motore vero e proprio dell’esplosione delle disuguaglianze a livello internazionale. Questo ragionamento vale specialmente per l’Italia, unico paese tra quelli dell’OCSE, dove dal 1990 al 2020 dove si è registrata una diminuzione (-2,9%) dei salari reali.

Davanti a questo quadro a tinte fosche, che fare? Politiche di redistribuzione (come, ad esempio, aumentare la tassazione su redditi alti e grandi ricchezze per finanziare la fornitura di servizi pubblici ai meno benestanti) sono senz’altro necessarie, ma potrebbero rivelarsi non sufficienti alla luce delle mostruose disuguaglianze esistenti. 

Occorre, pertanto, intervenire sulla la distribuzione primaria dei redditi, ossia garantire ai lavoratori un salario reale più elevato. Solo in questo modo verrebbero sostanzialmente intaccati gli enormi margini di profitto e le rendite che hanno contribuito, negli ultimi 40 anni, a polarizzare la ricchezza nelle mani di pochi. 

Per concludere, il miglioramento delle condizioni di vita per le classi subalterne passa in primo luogo per un aumento dei salari, e, in secondo luogo per forme di redistribuzione ex-post (da sole però non sufficienti), ma soprattutto, specie in un’ottica di lungo periodo, per una trasformazione del sistema economico nella direzione di una pianificazione e di una trasformazione in senso collettivo della proprietà. 

L’esatto contrario di quanto sta accadendo sotto la gestione Draghi, alfiere di un Governo di impronta liberista che mira a privatizzare quel poco che resta dei servizi pubblici, a tagliare la spesa sociale e a promuovere una riforma fiscale i cui frutti più prelibati saranno raccolti dalle classi medio-alte.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

lunedì 6 dicembre 2021

DA MONTI A DRAGHI CON IL COLLE SULLO SFONDO

La discussione sempre più serrata sulla successione di Mattarella in seno alla Presidenza della Repubblica italiana vede il nome di Draghi,attuale premier,come possibile nuovo inquilino del Quirinale con una platea di possibili elettori sempre più ampia.
E vista la principale alternativa,Berlusconi,dopo che lalista degli altri possibili presidenti viene depennata giorno dopo giorno(ieri Prodi),Draghi appare al Pd un male minore,certo sempre un uomo di destra al potere che con un successivo governo potrebbe determinare un probabile cambiamento nel ruolo delle proprie funzioni.
Una virata verso una Repubblica presidenziale con un Presidente con ampi poteri in mano è sempre più sulla bocca di tutti,caldeggiata fortemente dalle destre che da decenni sentono più crescente la voglia di un uomo forte e potente al comando di una nazione,uno che se scelto male può fare solo danni.
E non è nemmeno questione di idee e decisioni,la sola immagine di un leader con in mano tanto potere fa paura qualunque nome possa saltare fuori,è una questione di decenza in uno Stato che storicamente è andato in malora quando un uomo solo ha deciso per tutti.
Nell'articolo di Contropiano(la-troika-vuole-il-quirinale )si parla di questo e di altre storie della politica recente,nel susseguirsi catastrofico dei premier da Monti a Draghi,non che quelli in mezzo che se pur votati siano stati dei fenomeni,in una crisi prolungata di cui non si riesce a vedere nemmeno lontanamente la fine.
Da capire anche i cavilli che e se porteranno alla carica di Presidente Draghi riguardo la successione al governo con marchette politiche disgustose e cambi di poltrone cui siamo abituati e che ne vedremo di ancora peggio.

La Troika vuole il Quirinale.

di  Dante Barontini   

Una crisi costituzionale è il momento in cui le molte differenze – o aperte contraddizioni – tra la “costituzione reale” e quella “formale” di un Paese non sono più mediabili dal normale gioco politico.

In primo luogo perché poteri neanche previsti dall’impianto costituzionale originario sono diventati così forti e pervasivi da non tollerare più il vecchio abito “formale”, e premono senza più molti limiti per farsene cucire addosso uno nuovo, adatto alle proprie esigenze.

In secondo (e di conseguenza) perché i partiti politici non esistono di fatto più, liquefatti – nella propria funzione e ruolo – proprio da quei poteri che hanno scavato gallerie destabilizzanti nel vecchio edificio costituzionale, a forza di “ritocchi” che ne hanno compromesso la struttura.

Molti ricordano la “riforma del Titolo V” – responsabilità assoluta del Pd, o come si chiamava allora quella banda criminale – che ha “regionalizzato” molte competenze dello Stato centrale, a cominciare dalla sanità pubblica. 

L’effetto promesso era una “maggiore vicinanza agli interessi dei cittadini”, il risultato concreto è stato l’opposto (con intere aree del territorio ormai prive di strutture ambulatoriali, ospedaliere, di medicina territoriale).

Un deserto voluto, in cui ha potuto svilupparsi la privatizzazione della sanità e della stessa “politica”, ridotta a complicità con interessi aziendali espliciti o anche innominabili.

Ma neanche quella riforma è stata fatale per la “Costituzione nata dalla resistenza”, per quanto privasse tutti noi di un diritto certo esigibile in egual misura in qualsiasi angolo del territorio nazionale.

Fatali sono state invece due altre “riforme” passate con l’approvazione pressoché unanime di tutte le bande presenti in Parlamento (464 sì, 0 no e 11 astenuti alla Camera, 255 sì, 0 no e 14 astenuti al Senato, in prima lettura).

Quella dell’articolo 81, che ora prevede: «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte».

Si tratta dell’obbligo al pareggio di bilancio, che implica l’impossibilità di spendere in deficit per far fronte a situazioni di crisi e dunque vincola ogni possibile scelta politica – con qualsiasi maggioranza di governo – a rispettare un equilibrio ideale che nella realtà non esiste mai.

Ma ancor più decisiva e “distorcente” è la nuova versione dell’art. 119: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.”

L’”autonomia” di ogni istituzione della Repubblica italiana, ad ogni livello, è quindi subordinata per Costituzione alle decisioni “superiori” della UE. Una subordinazione che fissa – come si vede con le 528 “condizionalità” del recovery Fund – non soltanto i limiti di bilancio entro cui si possono prendere decisioni diverse, ma anche le priorità nelle decisioni di spesa e di entrate fiscali.

Con queste due norme “costituzionalizzate” l’autonomia del Paese è stata di fatto annullata. Possiamo mettere insieme una squadra per vincere i campionati europei in qualsiasi sport, ma non si può più scegliere quale destino, quali obiettivi, quali priorità sociali vogliamo soddisfare.

Sono vincoli politici imposti per via economica e con la forza dei trattati internazionali (non sottoponibili a referendum!), che inchiodano per sempre le scelte di qualsiasi governo futuro (anche “socialista”, in astratto) al ricettario classico del neoliberismo senza .sfreni adottato come marchio di fabbrica nella UE.

Ma se la politica è vincolata, è chiaro che la presenza di partiti tra loro diversi è un lusso che non ci si può più permettere. Ognuno dovrà e potrà promettere in campagna elettorale solo quello che effettivamente può fare (nulla o quasi, sulle questioni economiche essenziali, decise preventivamente dalla UE) o qualcosa di abbastanza shoccante sulle questioni che costano poco (diritti civili sì o no, trattamento dei migranti, sia regolari che non, politiche securitarie… robetta così, insomma). 

Poi, certo, si può promettere la luna in qualsiasi campo. Ma dopo dieci anni – tanti ne sono passati da quest’ultima riforma costituzionale, fatta su ordinazione durate il governo di Mario Monti – è chiaro anche per un terrapiattista che si tratta solo di chiacchiere.

Ma una classe politica che non ha più la possibilità di decidere nulla sulle questioni strategiche  – politiche economiche e industriali, alleanze militari o diplomatiche, ecc – inevitabilmente decade al livello dell’amministrazione di condominio. Con le “qualità”, la “lungimiranza”, l’”autonomia decisionale” e persino lo stile linguistico di un’assemblea di condominio.

E’ a questo punto che arriva l’investitura di Mario Draghi come monarca pro tempore del vicereame d’Italia. E’ stato un componente fondamentale della Troika che ha distrutto la Grecia con un “esperimento” che doveva valere come monito per tutti i 27 paesi della Ue. A lui non c’è necessità di spiegare pazientemente cosa va fatto e cosa va distrutto….

L’arco temporale da assicurare sono i sei anni di durata del Recovery Fund (con le misure racchiuse nel Pnrr), con impegni che richiedono grande “stabilità” nella governance, altrimenti la “rivoluzione reazionaria neoliberista” prevista da quelle norme fissate in Trattati verrebbe messa a rischio.

Casualmente, questo arco temporale coincide quasi completamente con il nuovo settennato della Presidenza della Repubblica. Ed è meglio, molto meglio, per i poteri multinazionali ed “europeisti”, che il loro esponente Mario Draghi continui a guidare “la transizione” da quello scranno.

Non si può infatti rischiarlo in una normale competizione elettorale (nel 2023, a fine legislatura), perché la società spaventata e incazzosa potrebbe facilmente rovesciare anche su di lui il livore per un impoverimento crescente di cui non si vede il fondo né la fine. Potrebbe insomma fare la fine di Mario Monti, alle elezioni del 2013.

Dal Quirinale, invece, potrebbe continuare a formare governi – con chiunque e/o tutti dentro – per assicurare la continuità di una politica subordinata alle decisioni europee, ovvero del capitale multinazionale qui basato.

L’istituto della Presidenza ha del resto perso, nel corso degli anni, molte delle sue caratteristiche “notarili”, di puro rispetto formale delle decisioni politiche del Parlamento. Le antiche “esternazioni” di Francesco Cossiga furono probabilmente la prima manifestazione di questo mutamento di ruolo che è venuto consolidandosi negli anni. Ma sono nulla rispetto a quello che hanno poi fatto i suoi successori (Ciampi, Scalfaro, Napolitano, Mattarella), che hanno deciso quali governi potevano esser composti e quali invece stoppati, quali sostenuti e quali logorati.

Mario Draghi avrebbe insomma una lunga serie di precedenti cui appoggiarsi per mascherare quella che in ogni caso è una forzatura costituzionale verso il presidenzialismo di fatto.

Con due differenze importanti. 

Draghi al Quirinale significa mettere in pratica un trasferimento palese di poteri e prerogative dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica. Rinviando alla prossima legislatura il compito di “formalizzare” questa trasformazione del Presidente in “super-capo del governo”, con una specifica “riforma costituzionale”.

I “precedenti” di protagonismo presidenziale sono stati in fondo tutti “necessitati” dall’impossibilità politica – in determinati momenti – di trovare soluzioni efficaci per tenere insieme interessi sociali in parte di dimensioni “nazionali” e vincoli europei.

L’insediamento di Re Draghi dovrà invece segnare una svolta decisa in direzione della prevalenza dell’”Europa”, come da art. 119.

Per far questo, però, bisognerà fare un’altra piccola serie di forzature costituzionali, alcune delle quali raccolte in un articolo dell’ultra-draghiana Repubblica, che vi riproponiamo. Ma, come detto all’inizio, se tra Costituzione Reale e Costituzione Formale si viene a creare una discrasia violenta, è sempre il potere della realtà a prevalere, scrivendo un “nuovo testamento” che gli stia a pennello.

E’ un golpe dei Palazzi, naturalmente. Una Restaurazione, contro ogni possibile – e necessaria – Rivoluzione. Che mette fuorilegge non tanto Keynes, quanto la Resistenza.

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Quirinale, se Draghi va al colle chi incarica il successore?

L’ipotesi doppia reggenza.

Tommaso Ciriaco – La Repubblica

Allo studio degli uffici tecnici dei vertici istituzionali i complicati incastri in caso di elezione del premier come presidente della Repubblica

ROMA – È una specie di rebus costituzionale. E ruota attorno ad un gigantesco dilemma: che succede se il Parlamento sceglie Mario Draghi come Presidente della Repubblica, creando l’inedita condizione di un premier che deve dimettersi nelle mani del Capo dello Stato a cui deve succedere? E che, nello stesso tempo, ha tra le sue principali prerogative quella di gestire la partita del suo successore a Palazzo Chigi? Un rompicapo difficile anche solo a pronunciarsi. Non a caso, nelle ultime settimane anche gli uffici tecnici dei vertici istituzionali si sono consultati, in modo informale e ufficioso. Scambiandosi opinioni, in linea puramente teorica. E scandagliando le possibili tappe di un percorso ordinato.

È un affascinante garbuglio che non può che richiamare l’attenzione degli esperti del Quirinale e della Camera dei deputati, il ramo del Parlamento chiamato a gestire l’iter dell’elezione del nuovo Presidente. A conoscenza delle possibili soluzioni tecniche sono ovviamente anche gli uffici di Palazzo Chigi. Qualcosa sembra ormai pacifico. Qualcos’altro resta in sospeso, per il momento.

Tre, in particolare, i quesiti a cui provare a dare risposta. Il primo: fino a oggi il presidente del Consiglio dimissionario è sempre rimasto in carica in attesa del giuramento del successore, stavolta le dimissioni di un premier eletto Capo dello Stato diventerebbero immediatamente esecutive? Se così è – e così sembra essere – sarebbe allora il ministro più anziano a succedere immediatamente al premier dimissionario? E soprattutto: chi gestirebbe le consultazioni per il nuovo esecutivo?

Alcuni punti fermi sembrano emergere. E vanno esplorati, partendo da un possibile percorso. Primo passo: il Parlamento elegge Draghi Presidente della Repubblica. Secondo: l’ex banchiere si reca al Quirinale per formalizzare dimissioni immediate. La sua elezione al Colle, infatti, dovrebbe essere considerata tra i casi di “impedimento temporaneo” di un premier, previsto dall’articolo 8 della legge 400 del 1988. Se così fosse, dovrebbe subentrare il ministro più anziano. Si tratta di Renato Brunetta, che guiderebbe il governo come fosse un “reggente”.

A quel punto, si aprirebbe una fase del tutto nuova per individuare il nuovo capo dell’esecutivo. E siamo al secondo bivio: chi guiderà le consultazioni, Mattarella o Draghi? Il percorso più lineare – ma anche tecnicamente articolato – dice: l’ex banchiere. Per farlo, serve una condizione prevista dall’articolo 91 della Costituzione: che abbia prestato giuramento da Presidente della Repubblica. Questo passaggio non potrà però avvenire, stavolta, contestualmente alla sua elezione, perché prima c’è da completare la transizione con Brunetta.

Se inoltre l’elezione di Draghi avvenisse prima del 3 febbraio 2022 – data di scadenza del settenato di Mattarella – occorrerebbero le dimissioni del Presidente per accelerare l’insediamento del nuovo Capo dello Stato. Dimissioni a cui seguirebbe la convocazione delle Camere e il giuramento in Aula. Anche facendo molto in fretta, ci sarebbe probabilmente la necessità di una seconda “reggenza”, quella al Colle. Magari anche solo di poche ore, affidata alla presidente del Senato Casellati.

Un incastro complicatissimo, come detto. A meno che l’elezione di Draghi al Colle non avvenga dopo il 3 febbraio. L’attuale Presidente, infatti – come ha ricordato il costituzionalista Michele Ainis su Repubblica – resta in carica anche oltre la scadenza, fino al giuramento del suo successore. Questo scenario dovrebbe evitare almeno il passaggio delle dimissioni anticipate. Non è escluso, tra l’altro, che Roberto Fico decida di convocare le Camere attorno al 26 gennaio, favorendo questo schema. L’alternativa, già circolata, è che si parta molto prima, tra il 18 e il 20 gennaio. In questo caso, è possibile che si proceda con un solo scrutinio al giorno, anche in chiave anti-Covid. Esiste teoricamente anche un’altra possibilità. Non è però priva di problemi, secondo alcune fonti addirittura insormontabili. Parte da una precondizione: l’accordo politico per eleggere Draghi dovrebbe essere accompagnato da un patto altrettanto solido attorno al nuovo premier.

La maggioranza di unità nazionale, insomma, oltre a votare Draghi assumerebbe contestualmente un impegno politico sul nuovo presidente del Consiglio. Se così fosse, Draghi potrebbe salire al Quirinale per dimettersi. E potrebbe essere il Presidente della Repubblica uscente a convocare immediatamente dopo la personalità a cui conferire l’incarico per Palazzo Chigi. In poche ore, giurerebbe con i suoi ministri. Si eviterebbe la reggenza, che sulla carta potrebbe anche durare mesi. Con il governo in sicurezza, inoltre, si potrebbe attendere anche la scadenza naturale del settennato. Questa strada, però, presenta un ostacolo. Sarebbe il Capo dello Stato uscente – e non quello appena eletto – ad assumere la decisione più rilevante fra quelle che gli spettano: la scelta del premier.

martedì 23 novembre 2021

I POVERI NON HANNO VOCE

Il discorso del Presidente Mattarella di qualche giorno fa incentrato sul lavoro e sulle disuguaglianze che ricchezza,sete di potere ed avidità comportano,non è stato minimamente preso in considerazione dalla politica visto che pure ai sindacati e entrato in un orecchio per essere uscito dall'altro.
Nel contributo di Contropiano(troppo-avidi-e-troppi-poveri )l'analisi dell'editoriale di un giornale che fa parte della borghesia storica italiana anche se ciclicamente ha avuto la pretesa di sporcarsi le mani(Corriere della sera)che commenta le parole di Mattarella che come ogni Presidente della Repubblica tace per quasi un settennato per poi svegliarsi al tramonto del mandato.
Già recentemente si era parlato di salari vergognosi(madn basta-agli-stipendi-ingiusti )cui vanno aggiunti i disoccupati,i ricattati ed il tragico e sempre attuale discorso sulla sicurezza lavorativa,dove non passa un giorno senza una vittima.

Troppo avidi e troppi poveri.

di  Pasquale Cicalese   

Sul Corriere della Sera, ieri, in prima pagina, c’è un’editoriale di Carlo Verdelli: Lavoro e povertà, il disagio che troppi non vedono. 

Verdelli riporta le parole durissime dell’altro giorno del Presidente Mattarella sul tema del lavoro che, dice Verdelli, non hanno avuto eco sindacale, politico o confindustriale, come se dovesse essere nascosto da tutti.

Verdelli riporta il dato per cui la maggior parte dei nuovi lavori è a tempo determinato, sottolineando, secondo le parole di Mattarella, che precarietà e frammentarietà aumentano le disuguaglianze. 

Inoltre riporta il dato che l’Italia negli ultimi 30 anni è stato l’unico paese europeo i cui salari sono diminuiti del 2,9%, con un ulteriore discesa nel 2020 del 6% dovuta alla pandemia. 

Cita il Commissario europeo al lavoro, Nicolas Schmitt, secondo il quale i salari annui italiani sono “molto bassi”. Ancora, riporta il discorso di Mattarella: “è un dovere inderogabile delle istituzioni, a ogni livello, combattere la marginalità dovuta al non lavoro, al lavoro mal retribuito, al lavoro nero, alle forme illegali di reclutamento che sfociano in sfruttamento, quando non in schiavitù inammissibili“. 

Infine Verdelli ricorda uno degli effetti più criminali di tutto questo: i tre morti sul lavoro ogni giorno. 

Di emergenza povertà parlava ieri, su Repubblica, anche Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa SanPaolo, 1350 miliardi di masse gestite, secondo il quale la prima sfida da affrontare, il problema numero 1, è la povertà. 

Ieri ho scritto dell’immane ricchezza e liquidità derivante dalla posizione finanziaria netta estera positiva per 90 miliardi. Una ragazza così ha commentato: “ci tengono a stecchetto.” 

Già, è proprio questo il problema. Ma ormai il panorama di lavoro schiavistico, di lavoro nero, di bassissimi salari, cozza – oltre che con la “sensibilità” generale – con gli interessi economici di una parte della borghesia italiana, che vorrebbe una modernizzazione socioeconomica all’altezza dei numeri del Paese. 

Mattarella ha un’enorme responsabilità per ciò che è accaduto negli ultimi 7 anni; ossia l’aver lasciato correre “gli spiriti animali” del capitalismo nostrano oltre il dovuto, fino a forme di schiavitù. E questo è ora il bilancio della classe dirigente che lui stesso rappresenta. Non è inutile ricordare che a questo processo regressivo non hanno posto alcun freno neanche i sindacati “complici”. 

Siamo immersi nella liquidità, c’è fin troppa ricchezza concentrata in troppe poche mani. Prendere coscienza di tutto ciò, rifiutare lo stato di cose presenti – quando oltretutto editoriali mainstream sono costretti a rilevare l’assurdità e le disfunzioni di questa situazione – è la prima cosa da fare.

venerdì 19 novembre 2021

L'USO POLITICO DEL MIGRANTE

La discussione sempre con toni molto minacciosi come mai accaduto nel passato recente riguardo la questione dei migranti ammassati ai confini europei sta assumendo connotati sempre più politici e sempre meno sociali giocando sulla pelle dei soliti disperati trattati sia come merce di scambio che carne da macello.
E' da ottusi non vedere e capire che dietro il braccio di ferro tra la Polonia e la Bielorussia ci siano interessi che con i flussi migratori non c'entrano nulla,con l'Ue che ha il fiato sul collo degli Usa che combattono la loro guerra contro la Russia cercando di accerchiarla lungo la linea che passa dal Mar Baltico al Mar Nero,gettando benzina sul fuoco ai confine tra la suddetta Polonia e gli Stati baltici,che negli ultimi anni sono le nazioni più avverse ai russi e per questo aiutate maggiormente per trarne benefici.
Che la situazione presso il confine bielorusso e polacco sia drammatica non è messa in dubbio,ma una reazione così velenosa e minacciosa dell'Europa non c'è mai stata per esempio nei confronti della Turchia o della Serbia e della Bosnia,dove sia come numeri che come trattamento dei migranti se ne sono viste di peggio(vedi:madn che-ci-sia-memoria-per-i-lager-di-ieri e di oggi e madn persone-usate-come-arma-di-ricatto ).
L'articolo di Contropiano(la-crisi-al-confine-europeo-mostra-il-vero-volto-della-ue )non parla direttamente dei fatti di cronaca,del gioco al rimpiattino tra le parti,delle minacce e della segregazione dei migranti e neppure dell'uso della violenza da parte delle polizie,ma fornisce per l'appunto uno punto politico che non sempre viene spiegato dai mass media nazionali che incentrano l'attenzione soprattutto sulla spietata Bielorussia ma anche sull'incapacità europea di trovare soluzione adeguate ad un problema che nei prossimi anni sarà sempre più pressante e potenzialmente tragico.

La crisi al confine europeo mostra il vero volto della UE.

di  Rete dei Comunisti   

La crisi apertasi al confine tra Bielorussia, Polonia e Lituania deve essere compresa all’interno delle dinamiche di accelerazione delle frizioni tra i diversi attori di differente taglia che ne sono coinvolti.

È un tassello di un quadro di più ampio respiro in cui si intrecciano differenti aspetti: la volontà della Russia di rispondere al suo accerchiamento da parte della NATO spalleggiando un proprio alleato, una risposta della Bielorussia ai tentativi dell’Unione Europea di delegittimarne il corso politico – a suon di sanzioni – dopo le elezioni dello scorso anno,  la spinta di parte anglo-americana di forzare l’UE ad un atteggiamento più risoluto nei confronti della Federazione Russa e non da ultimo i vari contenziosi che riguardano la Polonia e l’Unione Europea su un’ampia gamma di questioni su cui Varsavia e Bruxelles non sembrano giungere ad un accordo.

Giova ricordare infatti che la Polonia, insieme agli Stati Baltici, sono i più ostili a Mosca e quelli su cui gli anglo-americani puntano di più per minare la coesione all’interno della UE.

In questo rebus, la competizione rispetto alle risorse energetiche che transitano dalla Bielorussia non è affatto secondaria, ma quello che va colto in sé non è il casus belli particolare ma il contesto di accesa competizione che lo genera,  le dinamiche che sviluppa e le conseguenze nei rapporti di forza in un sistema di relazioni in cui è sempre più difficile, per gli attori in campo, governare le contraddizioni scatenate dalla crisi del modo di produzione capitalista.

In generale possiamo affermare che vi è una linea di faglia sempre più marcata che va dal Mar Baltico al Mar Nero che sarà sempre più teatro di sommovimenti, provocazioni, forzature e crisi diplomatiche per mutare gli equilibri dati, ma che per ora non sembrano cambiare radicalmente, anche se non sono da escludere precipitazioni belliche localizzate. 

L’ipotesi di un conflitto armato in questa linea di faglia che si prolunga in un arco di instabilità che arriva fino all’Asia Centrale e che comprende altri attori, in primis la Turchia, è sempre latente come ci dimostrano la guerra civile ucraina e la più recente escalation bellica tra Armenia ed Azerbaijan.

Naturalmente, come in altre occasioni, in questo caso tale contesa si gioca sulla pelle di una parte di quelle popolazioni che hanno subito la guerra guerreggiata o quella economica portata avanti dall’Occidente e dal suo modello di sviluppo: Iraq, Siria, Libano in primis.

L’unica colpa di queste persone “intrappolate” nei boschi che costituiscono i confini naturali tra i tre paesi coinvolti hanno è quella di avere perseguito un progetto di fuga da quei contesti resi sempre più invivibili anche da quegli Stati occidentali che hanno partecipato all’invasione militare, o alla destabilizzazione, dei paesi di provenienza degli immigrati. 

L’Occidente non si vuole accollare alcuna responsabilità rispetto alla gestione delle sue fallimentari campagne militari, in primis riguardo ai flussi di profughi che vengono ospitati per la maggior parte dai paesi confinanti: si tratti dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Siria…

Naturalmente questo “effetto boomerang” li tange in maniera molto minore, ma ha comunque fornito una arma diplomatica importante a coloro che la usano come strumento di pressione in più sulle cancellerie europee.

Vogliamo concentrare l’attenzione su un aspetto che riguarda l’ulteriore sconfitta “ideologica” dell’edificio politico dell’Unione che non può più nascondere la sua propensione bellicista ed il suo processo di militarizzazione.

Innanzitutto i media nostrani faticano a relativizzare il cortocircuito, innescato dalla spregiudicata tattica bielorussa, tra la narrazione che l’UE da di sé e la realtà fattuale.

L’editoriale dell’“Avvenire” di questo martedì, a firma di Nello Scavo, coglie in pieno il profilo della fortezza Europa dove si pianta filo spinato e si alzano muri.

L’UE ha costruito un quarto dei muri eretti negli ultimi anni a livello mondiale per ciò che concerne il contenimento delle migrazioni forzate, e negli ultimi 30 anni si è dotata di oltre mille km di recinzioni in via di ampliamento. A questi si devono aggiungere i circa 500 chilometri che la Lituania ha deciso di puntellare con pali d’acciaio e filo spinato, mentre la Polonia ha preso la decisione di erigere un muro al confine bielorusso.

L’agenzia della UE Frontex, che però la Polonia ha deciso di non far intervenire con i suoi effettivi ai propri confini orientali, vedrà incrementati i suoi uomini dai 1.500 attuali a 10mila nel 2027, di cui 7mila distaccati dalle forze dell’ordine nazionali, e avrà nel bilancio un budget superiore alla maggior parte delle agenzie dell’Unione Europea: circa 5,6 miliardi di euro fino al 2027.

Tra i principali beneficiari saranno proprio le aziende dell’apparato militare industriale europeo e consociate, che diverranno organicamente la realizzazione di quegli auspicati campioni europei nella produzioni di beni e servizi.

Che la denuncia venga dalla prima pagina di un quotidiano cattolico, è un segnale di come oramai la pistola fumante dell’imperialismo della UE abbia sempre più difficoltà a nascondersi dietro alla retorica della pace e dell’accoglienza, e della supposta superiorità valoriale.

Ma i progetti di sicurezza ai propri confini e la proiezione della propria potenza all’esterno sembrano viaggiare a braccetto.

Infatti nel 2023 la UE darà vita alle sue prime manovre militari, come è stato rivelato dal quotidiano spagnolo “El Pais” questo lunedì,  acquisendo in via confidenziale il documento che è servito da base di discussione per il confronto tra i Ministri della Difesa e dell’Estero della UE per l’orientamento geostrategico dell’Unione nel prossimo decennio.

Nel documento di 28 pagine si può leggere espressamente che: “a partire dal 2023 organizzeremo in maniera regolare manovre, comprese manovre navali”. Questo è uno dei tanti obiettivi che – se il prossimo marzo verrà adottato questo documento dal Consiglio Europeo – guiderà la politica estera e la difesa della UE.

Sempre secondo questo testo, nel 2025 l’UE potrà contare su una forza d’intervento realmente operativa di 5000 militari, che potrà svolgere missioni di combattimento, e non solo di addestramento, e dal prossimo anno svolgerà manovre anche nel campo cibernetico.

In sintesi sono state messe “nero su bianco” le indicazioni emerse con forza dopo la sconfitta in Afghanistan accelerando il processo della difesa europea e di un ruolo più marcato della sua politica estera nella competizioni globale.

Come Rete dei Comunisti ciò che sta avvenendo ed un ulteriore conferma della necessità di una battaglia a tutto campo contro il polo imperialista europeo e la NATO, e la necessità di prefigurare l’uscita del nostro Paese dalla gabbia dell’Unione e dall’Alleanza Atlantica.

mercoledì 17 novembre 2021

SI TORNA AL VECCHIUME POLITICO

 


Sono anni che in parecchi vedono nella nascita del Pd e soprattutto nella sua "evoluzione" un marchio fortemente connotato da un cattolicesimo proprio della Democrazia Cristiana andata in pensione con l'ormai passato scandalo di tangentolpoli,ma che almeno aveva nel logo e nel programma un dichiarato connubio con la chiesa e con tutto quello che ci va dietro(di brutto soprattutto).
Nella succinta analisi presa da Contropiano(il-pd-e-una-dc-scadente )riguardo un intervento televisivo volto a prendere le difese dell'epurato Renzi dal Partito Democratico,la terminologia"il Pd è una Dc scadente"calza proprio a pennello.
Commenti di politici e di sostenitori del Pd che parlano di chiesa,di papi e di materie sempre state capisaldi dei democristiani(da non confondere con i democratici)sono sempre più numerosi e svilenti nei confronti di chi vede accostato il nome Pd alla sinistra,e da questo non fugge nemmeno la città di Crema che ormai ha imboccato la lunga via della campagna elettorale per il prossimo sindaco.
Senza dubbio lo smantellamento della Dc che contava milioni di elettori ha dovuto ingrassare le fila di partiti che sono nati dal cataclisma di Mani pulite,e certamente chi non si è schierato verso i rottami della democristianietà è andato a destra o a meno destra proprio in questi contenitori politici sempre più vuoti e sempre più simili al vecchiume cui eravamo abituati ma vedo non assuefatti.

Il Pd è una Dc scadente.

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)   

Il filosofo Umberto Galimberti è un liberal conservatore, firma di prestigio del quotidiano di John Elkann, che solo nell’Italia squilibrata a destra di oggi può apparire di sinistra. 

Per questo difficilmente persone come noi che, tenacemente e controcorrente, si considerano comunisti possono concordare con lui. Tuttavia bisogna sempre tenere conto della massima del generale DeGaulle: anche un orologio fermo due volte al giorno segna l’ora giusta. 

In una trasmissione di La7 Galimberti ha affermato: Il PD è una DC scadente. 

Definizione davvero perfetta, anche se il suo autore l’ha espressa per difendere Matteo Renzi contro Enrico Letta, cioè nella speranza di avere una DC per noi ancora peggiore. 

Al di là delle motivazioni, comunque resta la validità del giudizio su un partito che ha scelto Renzi e poi lo ha scartato non per contenuti politici, ma per pure ragioni di potere. Da democristiano tra democristiani. Un partito di centrodestra scadente che occupa però il campo della sinistra e che le impedisce di esistere. 

Questo è il problema vero che dobbiamo cogliere dalla definizione di Galimberti, giusta suo malgrado: in Italia c’é un grande bisogno di ricostruire ed affermare la sinistra, ma questo lo si potrà fare solo contro il PD, scadente o efficiente che sia.

martedì 9 novembre 2021

BASTA AGLI STIPENDI INGIUSTI

Non se ne parlerà mai abbastanza delle scarse retribuzioni che la maggior dei lavoratori italiani porta a casa a fine mese,con i politici seduti a Roma che non fanno nulla per questo problema essenziale ed esistenziale che riguarda milioni di cittadini.
E mentre ingrassano le loro tasche e prendono accordi con imprenditori e le dirigenze dei sindacati confederali,l'economia stagna e il potere d'acquisto è sempre più misero,con una povertà diffusa sempre più estesa ed un salario medio tra i più bassi e meno ritoccati al rialzo di tutta Europa.
Nell'articolo di Left(lavorare-sempre-di-piu-pagati-sempre-meno )degli stralci del comunicato di un'organizzazione che lavora per un salario minimo e dignitoso(Up-su la testa)che esula da qualsiasi reddito di cittadinanza e che parla di lavoratori che dati gli ultimi aumenti ed un'inflazione sempre più pesante hanno visto il loro potere di acquisto venire sempre meno.
Gli spunti sono molteplici partendo dal dato di fatto che le aziende(riunifico per esemplificare dalla piccola officina artigiana alla grande industria)vogliono che il dipendente lavori sempre più venendo pagato sempre meno.
Pagato meno in certi casi lavorativi dove il ricatto e la minaccia fa parte della quotidianità e dove il datore di lavoro-padrone gioca al ribasso perché in giro c'è sempre qualche disperato che se la passa peggio di te,oppure pagato sempre lo stesso senza nessun aumento(sia in sede privata che contrattuale)e come detto prima però con il caro paniere sempre più alto.
Da qui alla guerra tra poveri,alla concorrenza e la competizione tra lavoratori il passo è breve,e gongola solamente il padrone che paga sempre meno,offre sempre meno diritti come ferie,malattie e permessi perché questi conflitti giovano al suo gioco,e le regole per fare cambiare le cose non ci sono ancora.
Per non parlare delle delocalizzazioni sia in Italia che all'estero dove costringono chi lavora a emigrare non solo di una manciata di chilometri ma anche di provincia o regione:se non vuoi sei licenziato e vai ad allungare la già lunga lista dei disoccupati.

Lavorare sempre di più, pagati sempre meno.

di Giulio Cavalli

In Italia moltissime persone guadagnano appena quel che basta per dormire, mangiare e spostarsi. Salari da fame significa crescita della povertà assoluta. E pensioni da fame. Ecco quello che certa narrazione non prende in considerazione

“Up su la testa!”, un’organizzazione politica di studenti, lavoratori e cittadini che è nata con l’intenzione di lavorare insieme ad altri gruppi, fare rete, costruire coalizioni e percorsi comuni ed essere uno spazio di discussione e approfondimento (gente che cerca di unire nel disgregato e disgregante mare della sinistra italiana) ha lanciato una campagna per il salario minimo (“Sotto dieci è sfruttamento”) che fotografa perfettamente un pezzo di Paese che trova (furbescamente) poco spazio nel dibattito politico.

«Tantissime e tantissimi di noi – scrivono nel loro manifesto – nonostante anni di esperienza, studi, sforzi, fatica, non sono indipendenti e soddisfatti della propria condizione di vita. C’è chi è costretto a rimanere a lungo in casa con i genitori, chi ci torna dopo anni di tentativi, c’è chi condivide la casa con amici e sconosciuti nonostante siano passati molti anni dalla fine degli studi. C’è chi lavora tante ore con una paga oraria ridicola e c’è chi è costretto a un part-time dietro il quale si nascondono straordinari non pagati, sfruttamento e ricatti, c’è chi non trova lavoro e chi emigra per averne uno, chi lavora per un decennio nella stessa azienda con una partita Iva senza mai avere ferie e contributi, chi passa da uno stage non retribuito a un finto tirocinio sottopagato, chi prende la metà del suo collega di scrivania pur svolgendo le stesse mansioni, chi ha visto aumentare le proprie bollette a dismisura per lo smartworking e chi viene licenziato perché l’azienda delocalizza all’estero».

Si prende atto che moltissime persone guadagnano appena quel che basta per dormire, mangiare e spostarsi. E se è vero che il denaro non dà la felicità è pur vero che la serenità di non vivere aggrappati sempre per un pelo al fine mese dovrebbe essere un diritto dei lavoratori, al di là della retorica sulla nobiltà della fatica. Il salario medio italiano oggi è di 12.400 euro in meno rispetto a quello di un tedesco, l’Italia insieme a pochi altri Paesi ha nel 2019 salari che sono più bassi rispetto a quelli del 2007 e in Italia più di 5 milioni di lavoratrici e lavoratori guadagnano meno di 10.000 euro all’anno.

Come scrivono giustamente quelli di Up «il lavoro povero non è un problema solo della singola persona, ma è una piaga che si abbatte su tutto il Paese. Salari più bassi significa meno consumi, meno investimenti, meno crescita economica. Salari più bassi significa crescita della povertà assoluta. Il lavoro povero non è un problema che riguarda solo l’Italia di oggi, ma anche quella del futuro. Salari da fame oggi significa pensioni da fame domani. Lavorare sotto i dieci euro l’ora facilita la concorrenza al ribasso, la guerra tra poveri, la competizione tra chi lavora, meccanismi tossici che danneggiano le persone comuni a vantaggio di chi trae profitto dalla nostra fatica. Lavorare in condizioni precarie senza adeguati ammortizzatori sociali e  senza una forma realmente inclusiva di  reddito di cittadinanza vuol dire essere tutte e tutti costantemente sotto ricatto. La vittima di questo ricatto è l’intero Paese».

Tutto questo ovviamente viene disarticolato da una certa narrazione che dipinge gli italiani come un popolo di sfaticati intenti al proprio divano (nonostante i 142.000 stagionali di questa estate siano la cifra più alta degli ultimi anni, anche quando non esisteva il reddito di cittadinanza). L’articolo 36 della nostra Costituzione dice che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Mi pare un punto centrale per qualsiasi per qualsiasi Piano nazionale di ripresa e resilienza. C’è qualcuno lì fuori che vuole farsene carico per uscire dalla narrazione di governo? Sarebbe utile saperlo in tempi brevi.

Buon lunedì.

venerdì 5 novembre 2021

RIBELLIONI PER IL PANE?

 

Desta preoccupazione l'aumento vertiginoso che alcuni prodotti agroalimentari hanno avuto nel recente periodo,e quello riguardante il grano è uno dei più incisivi e pericolosi in un paese dove il pane e la pasta la fanno da padrone sulle tavole.
Nell'articolo di Contropiano(boom-dei-prezzi-del-grano-aumenti-per-pane-e-pasta )le percentuali dell'aumento del prezzo dei prodotti finiti sono pazzesche,ai supermercati i rincari riguardano sia quelli derivati da grano tenero per il pane ma in maggior modo da quello duro per le paste.
Al dettaglio in solo un anno il prezzo del frumento tenero è schizzato del 24% e quello duro dell'81% e i motivi vanno dai crolli produttivi di certe zone ritenute granai del mondo come il Canada all'aumento dei prezzo del carburante e del noleggio dei container per la distribuzione del prodotto.
L'aumento del prezzo del pane più volte è stato la causa di rivolte popolari e di rivoluzioni epocali,chissà se anche questa volta ci sarà un sommossa popolare per un motivo per cui valga la pena di lottare o se i pretesti siano quelli cui siamo abituati nelle ultime settimane.

Boom dei prezzi del grano. Aumenti per pane e pasta.

di  Stefano Porcari  

Possiamo dire che per un bene-rifugio essenziale per i settori popolari come quello della pasta e del pane sono tempi pericolosi. I prezzi del grano stanno aumentando vertiginosamente e le conseguenze cominciano ad essere visibili nel carrello della spesa alimentare delle famiglie.

Occorre sapere che il grano 100% prodotto in Italia soddisfa appena il 36% della domanda. Per il resto arriva dall’estero. Quanto al grano duro, che serve per ottenere farina da pasta, oltre all’aumento vertiginoso dei noli dei container iniziato già nel 2020, ci sono altri motivi che hanno spinto i prezzi verso l’alto (+71% tra il settembre 2020 e il settembre 2021): la siccità in Canada, che ha ridotto molto i raccolti e quindi le esportazioni, il calo dei raccolti in Ucraina (nel 2020 il -12,9% sull’annata precedente) e il fatto che la Russia abbia ridotto le esportazioni per contenere il prezzo all’interno dei propri confini.

“Continuiamo a registrare forti aumenti dei prezzi delle farine e dei prodotti energetici: un trend preoccupante, che non aiuta la ripresa dei consumi” spiega Davide Trombini, Presidente nazionale di Fiesa Assopanificatori della Confesercenti. “La saldatura di queste due dinamiche  rischia di bloccare la ripartenza dell’economia e del nostro settore.

Il prezzo delle farine di frumento tenero a settembre 2021 ha avuto un incremento del 20% rispetto a settembre 2020; il prezzo delle semole di frumento duro cresce in un anno del 66%. Se mettiamo a confronto il prezzo della prima settimana di ottobre 2021 con quello di ottobre 2020, le farine di frumento tenero arrivano a 511,50 euro a tonnellata ossia +24% mentre le semole di frumento duro sono schizzate a 731,70 euro a tonnellata ossia +81%.

A contribuire a questa inquietante dinamica al rialzo hanno contribuito l’aumento del prezzo di gasolio e benzina che, rispetto al mese di ottobre del 2020, hanno avuto un incremento del 24% medio con ripercussioni su tutta la catena distributiva, dal momento che le merci viaggiano per quasi il 90% su gomma e i costi della logistica coprono un terzo del prezzo finale dei prodotti agro-alimentari. Non va meglio per altri carburanti come Gpl e Metano che hanno avuto autentiche impennate dei prezzi.

L’Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha confrontato i prezzi di alcuni prodotti alimentari tra marzo di quest’anno (periodo in cui già si registravano alcune tensioni sui costi delle materie prime) e oggi (con ulteriori aumenti dei costi delle materie prime agricole: +22% per il frumento e +79% per l’avena).

I rincari che ne emergono sul versante dei prezzi al consumo sono notevoli (mediamente del +15%) e sforano la soglia del 30% nel caso della farina, del pane in cassetta e della pasta integrale.

L’aumento dei prodotti energetici e di conseguenza delle bollette di luce e a gas e dei generi alimentari di prima necessità, sta riportando in primo piano sia il carovita e il suo perverso rapporto con i salari e pensioni al palo da anni, sia l’inflazione.

Una spirale che anche il mondo capitalista ha conosciuto in passato e che si va ripresentando in forme più acute e feroci, soprattutto per la totale deresponsabilizzazione dei governi e delle istituzioni che continuano a ritenere di dover lasciare fare “al mercato”.

venerdì 22 ottobre 2021

BERLUSCONI VUOL DIRE ANCORA LA SUA

Il berlusconismo ce lo potevamo togliere di mezzo già da più di cinque anni,da quando l'ex premier colluso con la mafia e il pieno di sé Renzi stipularono il primo di una serie di tanti inciuci(vedi:madn il-patto-tra-un-non-eletto-e-un.incandidabile ),ma nelle ultime settimane complice una destra sempre più populista e la recente batosta elettorale il nome di Berlusconi torna a fare marchetta come possibile leader del centrodestra sovrastando Meloni e Salvini che fanno spallucce e per ora incassano.
Le distanze all'interno di questa coalizione,che è tutto a parte unita viste le spaccature a livello nazionale e ancor più in Europa,sono ampie e non convincono nessuno a partire dagli stessi liberal  reazionari.
L'articolo di Left(alla-fine-tutti-a-scodinzolare-da-berlusconi )parla di queste incongruenza venute fuori dall'ennesimo incontro a tre tenutosi nella residenza romana dell'ex premier puttaniere,e nonostante l'ostentata serenità le incomprensioni e le sparlate alle spalle sono imponenti e importanti,con il sogno dell'omuncolo di Arcore,nemmeno tanto tenuto nascosto,sarebbe quello d'insediarsi al Quirinale.
Vado oltre la tematica del contributo ponendo l'attenzione al fatto che comunque Berlusconi detenga ancora in mano una buona fetta dell'informazione italiana,ed i telegiornali Merdiaset ne danno conferma con servizi tagliati su misura per il cavaliere criminale.
Immaginatevi un Berlusconi contrario ai vaccini,al green pass e non così pronto a sostenere il governo Draghi come non fa Salvini,con la Meloni fuori solamente per mero opportunismo politico:tutti i servizi informativi avrebbero un'altra piega dettata dalla volubilità di un personaggio politico che rappresenta il vecchiume corrotto e corruttibile cui siamo da decenni abituati.

Alla fine tutti a scodinzolare da Berlusconi.

di Giulio Cavalli

L’immagine più potente del disastroso momento del centrodestra è la finta serenità sputata ai giornali ieri di Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni mentre passeggiano, sorridono, si abbracciano, si baciano e fanno comunella a Villa Grande, la ex dimora del regista Zeffirelli sull’Appia oggi residenza romana di Berlusconi. È un incredibile salto indietro nel tempo, negli anni 90, quando la politica che si era fatta marketing era convinta di potersi raccontare sulle pagine patinate senza il bisogno di raccontare i contenuti.

L’incontro di ieri (fortemente voluto da Berlusconi che è convinto di poter tenere a bada i suoi giovani, inesperti e troppo focosi alleati) porta con sé la nostalgia dei tempi andati, come quelle cene di classe molti anni dopo quando tutti si ritrovano un po’ ammaccati dalla vita, piuttosto imbolsiti e pateticamente incagliati sugli amori e le simpatie che erano allora perché vuoti di emozioni presenti. La linea politica che esce dall’incontro dei tre leader è un comunicato bulgaro che non vale nemmeno la pena leggere, ripete quel “volemose bene” che è la strategia di uscita più banale per le situazioni complesse. Berlusconi dice che sono tutti “uniti” e che ha intenzione di “sostenere Draghi e di tenere unito il centrodestra” come se non fosse un fatto su cui riflettere che due partiti su tre sostengano il governo mentre Fratelli d’Italia sta bellamente a sollazzarsi all’opposizione.

L’idea della federazione lanciata da Salvini è finita nel cassetto delle sparate buone per un paio di articoli di giornale mentre quello che esce è per l’ennesima volta un commissariamento del Cavaliere che vuole riproporsi come leader. Anche la recita di Salvini e Meloni che sono amici per la pelle è qualcosa a cui non crede più nessuno.

Ma c’è un punto sostanziale che racconta bene il degrado: Silvio Berlusconi ieri pare che abbia raccontato ai suoi discoli di Lega e FdI che mancherebbero solo una trentina di voti per coronare il suo sogno di diventare presidente della Repubblica. E questo è il punto cruciale che racconta la sensazione: il centrodestra che si lamenta di avere perso male le elezioni amministrative per mancanza di proposte di spessore sta davvero brigando convinto di poter eleggere presidente della Repubblica un uomo che si è seduto al tavolo con Cosa Nostra e che ne ha finanziato le attività con le sue società.

Basta questo, solo questo, per rappresentare il momento.

Buon giovedì

martedì 19 ottobre 2021

MORTE DI UN'IMPOSTORE

Uno dei personaggi più potenti ed allo stesso tempo malleabili da chi di potere ne aveva ancora in ulteriore misura,è morto lasciandosi dietro se una carriera sia militare che politica di primo livello:infatti parliamo di Colin Powell,che fu capo di stato maggiore dell'esercito e primo segretario Usa e per di più come primo uomo di colore ad avere avuto questi incarichi.
Una delle sue più grandi fandonie che ha provocato anni di guerra e migliaia di vittime,fu quando portò come prova una boccetta piena di antrace all'assemblea generale dell'Onu dichiarando falsa testimonianza al mondo intero per quanto riguardava la fabbricazione,lo stoccaggio e l'uso di armi chimiche da parte dell'Iraq di Saddam Hussein nel secondo conflitto scatenato contro lui e la sua nazione nel giro di pochi anni(era il 2003,vedi:madn blair-bliar ).
Il redazionale di Contropiano(e-morto-quel-gran-bugiardo-di-coli-powell )parla di un complice di presidenti guerrafondai che con il prestigio della sua posizione ha fatto cominciare conflitti tragici per le persone attaccate e invase dalle forze straniere occidentali con pretesti mai approfonditi che anni dopo si sono rivelati frutto di menzogne.

E’ morto quel gran bugiardo di Colin Powell.

di  Redazione   

E’ morto per complicazioni da Covid l’ex segretario di Stato Usa, Colin Powell. Aveva 84 anni.

Powell è stato il primo segretario di Stato Usa afroamericano. Ha ricoperto questo incarico nell’amministrazione di George W.Bush. Powell è stato anche il primo capo di stato maggiore dell’esercito Usa afroamericano. 

Fin qui le “novità” rappresentate nella sua biografia. Ma questi “primati” – che fanno di solito ululare all’”inclusività” dell’establishment statunitense – non sarebbero stati possibile se Powell non fosse stato più che plasmabile come criminale di guerra e tra i più grandi bugiardi della storia recente.

Resterà negli annali e nei libri, infatti, la sua spudorata esibizione all’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2003. Con in mano una boccetta piena di polvere bianca accusò l’Iraq, allora ancora governato da Saddam Hussein, di avere negli arsenali armi chimiche di distruzione di massa.

«Non posso dirvi tutto ciò che sappiamo», affermò. «Ma posso dirvi che l’insieme delle cose venute alla luce nel corso degli anni è molto preoccupante. I fatti e i comportamenti dimostrano come Saddam Hussein e il suo regime nascondano i loro tentativi di produrre più armi di distruzione di massa».

Con questa clamorosa menzogna – possibile solo per la forza militare degli Usa e il quasi totale controllo dei principali media – fu giustificata e in qualche misura “autorizzata” la seconda guerra contro l’Iraq, che portò all’occupazione permanente di quel paese… e delle sue risorse petrolifere.

Un discorso smentito poi proprio dalla guerra di conquista, visto che nulla del genere fu trovato in nessun arsenale.

Ma in ogni caso era stati affermata una “strategia della comunicazione” che aveva origini certamente più lontane – nella “propagandi di guerra”, in primo luogo – ma che da allora si è imposta come la “nuova normalità” per tutti i governi occidentali e neoliberisti. Basta guardare alle retoriche di Renzi, Salvini, Letta, Draghi o Macron.

Quella smentita fu però così clamorosa da bruciargli la carriera che gli veniva costruita nel frattempo. Invece di diventare “il primo presidente nero” – prima ancora che esplodesse l’astro Obama – fu ridicolizzato nel mondo, nonostante la sua solida carriera diplomatica.

Una menzogna, insomma, che mise fine alla sua quasi leggendaria fortuna: inviato per due volte in Vietnam negli anni Sessanta, era rimasto ferito in entrambe le occasioni e persino sopravvissuto a un incidente in elicottero.

lunedì 18 ottobre 2021

LO STATO SI RIPRENDE ALITALIA COL NUOVO NOME ITA

L'operazione che ha portato al riacquisto da parte dello Stato della compagnia aerea nazionale che da Alitalia si chiamerà Ita ha avuto anni di confronti e di lotte che volendo vedere alla fine non hanno portato ad un risultato buono,con in parole povere l'Italia che ha privatizzato(svendendola)Alitalia con Berlusconi per poi riprendersela con Draghi(vedi:madn lalitalia-deve-tornare-pubblica ).
Nei due articoli seguenti di Contropiano(alitalia-ita-quando-lo-stato-si-fa-pescecane e politica-industriale-il-test-di-alitalia )il forte disappunto sindacale in una questione aperta da anni dove tutti ci hanno speculato e guadagnato alle spalle dei lavoratori e degli utenti,con i politici che non sono stati all'altezza di un nodo fondamentale per il lavoro e per il turismo,due argomenti spesso tirati in ballo ma che poi tragicamente vengono maltrattati.

Alitalia-ITA: quando lo Stato si fa pescecane.

di  Unione Sindacale di Base   

Muore Alitalia, subentra la neonata ITA in ossequio al diktat dell’Unione Europea di totale discontinuità con l’azienda dichiarata morta dall’Europa e sepolta da Draghi.

Giovedì sera ITA ha acquistato all’ultimo minuto per una cifra irrisoria, 90 milioni di euro, quel marchio Alitalia che solo due settimane fa era stato messo all’asta per 260 milioni di euro, cifra assolutamente congrua e che avrebbe potuto dare un po’ di ossigeno al ripianamento dei debiti Alitalia che ricadranno invece ovviamente sui cittadini italiani.

Ieri mattina, così, il primo volo della neonata compagnia ITA è partito con aerei con livrea Alitalia, con biglietti Alitalia, con personale che indossa divise Alitalia, con numero di volo AZ, cioè Alitalia.

E la discontinuità? Il solo fronte in cui è stata rigidamente applicata è quello dei lavoratori: da oltre 10.000 a 2.500, che sono stati riassunti con il jobs act e quindi senza tutela dal licenziamento; senza applicare l’articolo 2112 che garantisce, in caso di passaggio di mano da un’impresa all’altra, la garanzia del posto di lavoro a chi c’era prima; senza un contratto ma con un regolamento, visto che ITA come primo atto ha deciso di uscire dal contratto nazionale di lavoro di Assoaereo, con salari non negoziati che abbattono di oltre il 40 per cento quelli precedenti.

Un’operazione da pescecani che si sono gettati sulla preda fiutando l’odore del sangue, che se solo fosse stata compiuta da qualche padrone avrebbe fatto insorgere tutti, sindacati, politica, sinceri democratici. E invece l’operazione è stata condotta in toto da un rappresentante dello Stato italiano, perché ITA è una società ad intero capitale pubblico.

Quindi questa vera e propria truffa, questo attacco al contratto nazionale di lavoro, questo taglio drastico del personale, questo infischiarsene della legge, questa totale svendita di una compagnia di bandiera che aveva tutte le possibilità, se ben gestita e rilanciata, di tornare ad avere un ruolo importante nel trasporto aereo europeo e fare da traino anche a quella risorsa turismo con cui tanti con voce roboante si sciacquano la bocca, è stata pensata, voluta, realizzata in nome e per conto dello Stato italiano che è l’azionista unico della nuova azienda.

Non è dato sapere ancora quanto durerà ITA, nella feroce competizione internazionale, con una manciata di aerei e di personale prima di essere regalata a qualche compagnia europea. 

La lotta dei lavoratori e delle lavoratrici Alitalia certamente non si fermerà, ci sono 8000 lavoratori che da oggi in avanti hanno bisogno non solo di tutta la nostra solidarietà ma di essere difesi e accompagnati in una vera e propria battaglia per l’occupazione, i diritti, la dignità del lavoro.

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Politica industriale? Il test di Alitalia.

di  Marta Collot * - Portavoce nazionale di Potere al Popolo   

Cos’è una buona politica industriale? E che cosa vuol dire avere in mente quali sono i settori strategici di un’economia? Qualcuno penserà che questo Governo, e l’operazione ITA che ha rilevato Alitalia, dia una risposta.

La verità però sembra un’altra: ITA vola con i velivoli e con il marchio Alitalia, ed ha promesso acquisto di nuovi velivoli nei prossimi mesi. E allora cosa c’è che non va, se addirittura ITA riutilizza le risorse esistenti di Alitalia, e il marchio? Quello che non va è che gli unici a pagare per questo passaggio sono stati i lavoratori. Da 12000 a 2500, assunti con il Jobs act e quindi con meno tutele che in passato, con salari minori.

Ci si dirà, ma se era l’unico modo per salvare la compagnia di bandiera allora era un sacrificio necessario! E allora ci viene da rispondere: ma perché a fare sacrifici in questo paese devono sempre essere i lavoratori? 

Perché a pagare della cattiva gestione delle imprese sia di Stato che private (Alitalia era stata già privatizzata da Berlusconi e oggi se la deve riprendere secondo regole dettate dall’Unione Europea) devono essere i dipendenti, che per definizione non ne hanno responsabilità?

Ecco quale sarebbe un buon approccio di politica industriale: quello che mettesse almeno sullo stesso piano la sostenibilità economica e la vita delle persone.

lunedì 11 ottobre 2021

IL VACCINO ANTIMALARICO

La notizia recente della diffusione del vaccino antimalarico in Africa che in un programma iniziale ha convolto quasi un milione di bambini è complessivamente una buona notizia,in un continente dove la malaria miete la maggior parte delle vittime l'anno,circa 400 mila,di cui ben 260 bambini e dove sempre annualmente vengono colpite 230 milioni di persone.
Nel redazionale di Contropiano(vaccino-antimalarico-un-successo-con-molti-punti-di-domanda )si da molto risalto all'importanza di questo primo progetto pilota ma si guarda anche al fatto che la protezione del vaccino della Glaxo,che promette un costo sociale e calmierato del medicinale,sia solamente del 39% con la percentuale innalzata al 70 se coadiuvata da farmaci antimalarici.
Numeri relativamente bassi che solitamente non permettono la diffusione dei vaccini da parte dell'Oms,ma la concomitanza mondiale della corsa alle risorse per il vaccino anti Covid-19 ha fatto sì che ci si sia mossi con qualche incognita in più,nonostante che il vaccino antimalarico sia ormai da due decenni allo studio effettivo.
Comunque sia la complessità oggettiva di logistica e di distribuzione che quella di somministrazione che prevede quattro richiami nel giro dei primi 18 mesi di vita sono punti seri su cui pensare,e che la carenza di livelli igienici e sanitari nella gran parte dell'Africa sono ostacoli che devono essere superati per potere fare una campagna vaccinale totale che possa abbassare notevolmente se non azzerare i numeri dei malati e delle vittime.

Vaccino antimalarico: un successo con molti punti di domanda.

di  Redazione Contropiano   

Mentre nel nord del mondo ci si preoccupa esclusivamente dei vaccini contro il Covid-19, un’indicazione molto importante è stata emanata dall’OMS. Si tratta della raccomandazione all’uso diffuso del vaccino contro la malaria, dopo che un programma pilota che ha coinvolto 800.000 bambini tra Ghana, Kenya e Malawy ha dato dei risultati incoraggianti. 

Si tratta evidentemente di un evento storico d’importanza epocale, se si pensa che le ricerche di un vaccino contro la malaria erano in corso da decenni, per combattere un’infezione che colpisce ogni anno 230 milioni di persone, provocandone la morte in 400.000 casi, di cui 260.000 di bambini. 

Come è noto, il continente più colpito è l’Africa dove appunto l’OMS indica di avviare la vaccinazione di massa sui bambini. 

A fronte del logico entusiasmo che questa notizia ha provocato, è anche il caso di porsi qualche domanda sull’efficacia e sul futuro di questa campagna vaccinale. 

Il vaccino antimalarico, prodotto dalla multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline garantisce una protezione assai bassa, che raggiunge il 39% per i contagi (aumentabile al 70% se associato a farmaci antimalarici) e il 29% per la malattia grave. 

E’ la prima volta che l’OMS approva un vaccino di efficacia così bassa, probabilmente perché la pandemia Covid-19 ha dirottato le risorse dei donatori verso la ricerca su quest’ultima malattia, diminuendo l’impegno sulla malaria. Come ha affermato Andrea Crisanti, noto studioso della malaria, molte risorse che sarebbero state destinate alla ricerca su tale malattia, sono mancate a causa del Covid. 

Non è casuale che si sia arrivati a disporre di più vaccini contro il Covid in appena un anno circa, mentre le ricerche su quello antimalarico datano una ventina d’anni. 

La mancanza di risorse, negli ultimi due anni, per il controllo della diffusione della malaria in Africa, attraverso la distruzione dell’habitat delle zanzare e l’uso di farmaci adeguati, ha provocato un aumento delle infezioni e da questo nasce una decisione dell’OMS che in altri tempi non sarebbe stata presa. 

Inoltre, il vaccino antimalarico prevede ben quattro somministrazioni da effettuarsi nei primi 18 mesi di vita. Una cosa non facile nelle condizioni dell’Africa sub sahariana, in cui sarà senz’altro necessaria una forte sensibilizzazione all’importanza della vaccinazione per ottenere il rispetto di tali scadenze che in molti casi troveranno difficoltà per le difficoltà logistiche, lavorative e abitative delle famiglie. 

Infine, non è ancora chiaro quali saranno i costi del vaccino. Sembra che la società produttrice sia disposta a garantire alcune forniture a prezzo “sociale”, ma non si sa di quante dosi né è noto quale compenso sarà richiesto. 

La bella notizia della partenza di una campagna vaccinale di massa contro la malaria è quindi da sottoporre a una verifica di realtà che vada oltre l’esultanza che ha suscitato. 

Soprattutto, pensiamo che la campagna vaccinale potrà avere successo solo se sarà accompagnata da un rafforzamento parallelo dei sistemi sanitari pubblici dei paesi africani, oggi troppo carenti. Ancora una volta, a fare la differenza, saranno i quattrini.

P.s. Sarà un caso, ma in questo caso e in quel continente non si ha notizie di “proteste no vax”…

domenica 10 ottobre 2021

ARIA DI VENTENNIO

Ieri ci sono state le prove tecniche per l'anno prossimo quando ad ottobre cadrà l'anniversario della marcia su Roma che portò al ventennio fascista in Italia con le conseguenze disastrose che tutti(o meglio in molti)sappiamo.
Non c'è molto da aggiungere a quello che si è visto e sentito alla televisione ieri sera,con l'assalto squadrista alla sede nazionale delle Cgil(cent'anni fa cominciarono proprio così)di un gruppo di neofascisti comandati da Fiore e Castellino,leader nazionale e romano di Fogna Uova,con un curriculum delinquenziale di un certo peso e nonostante questo a piede libero e liberi pure di perpetrare quella stessa violenza fascista cui siamo abituati.
Scortati addirittura dalla polizia presso la sede del sindacato quest'ultima ha opposto resistenza solamente per onor di firma,complici della marmaglia che ha devastato alcune sale,con tanto di video e cronaca in diretta.
Il tutto a margine del corteo No green pass che sta dando corda a quello No vax(vedi anche:madn le-dittature-per-cui-vale-la-pena-di combattere ),che già aveva visto scontri nella capitale ed in altri cortei in Italia,sempre con le forze del disordine pronte ad agevolare al massimo il buon esito della manifestazione.
L'articolo preso(no-green-pass-roma-lassalto-alla-cgil )parla del coinvolgimento dei leader del movimento di quattro gatti che hanno però agibilità e visibilità massima,e non è tanto il problema di fare dei Fiorellino(tanto per non ripetere i due beceri cognomi)dei martiri,quanto la facilità che hanno avuto nel compiere atti di violenza premeditata e comandata.
Ci sono stati scontri anche nei pressi di palazzo Chigi e nella notte c'è stato un assalto presso il pronto soccorso dell'Umberto I° dove uno dei manifestanti fermati era stato accompagnato per delle lievi ferite con tanto di botte a medici e infermieri.

No green pass Roma, l’assalto alla Cgil guidato da Roberto Fiore e Giuliano Castellino di Forza Nuova.

Alla guida dei manifestanti “no green pass” che questa sera hanno assaltato la sede della Cgil nazionale a Roma c’erano Roberto Fiore e Giuliano Castellino, entrambi leader del movimento neofascista Forza Nuova. “Abbiamo resistito allora, resisteremo ora e ancora. A tutti ricordiamo che organizzazioni che si richiamano al fascismo vanno sciolte”, ha scritto la Cgil su Twitter.

 Sono Roberto Fiore e Giuliano Castellino, entrambi leader del movimento di estrema destra Forza Nuova, ad aver guidato questa sera l'assalto di alcuni manifestanti "No green pass" alla sede nazionale della Cgil a Roma, in corso d'Italia. Li si vede perfettamente in alcune foto e video relativi a quella che i manifestanti hanno definito una "occupazione" ma che la stessa Cgil, con un tweet, ha definito "un assalto intollerabile". "La nostra sede nazionale, la sede delle lavoratrici e dei lavoratori, è stata attaccata da Forza Nuova e dal movimento no vax – ha scritto la Confederazione generale del lavoro sul social network -. Abbiamo resistito allora, resisteremo ora e ancora. A tutti ricordiamo che organizzazioni che si richiamano al fascismo vanno sciolte".

Castellino aveva minacciato: Stasera ci prendiamo Roma.

 Castellino, sottoposto a sorveglianza speciale, già da settimane è uno degli animatori delle manifestazioni "no green pass" a Roma. Già prima dell'assalto alla sede della Cgil aveva arringato parte della folla pronunciando anche minacce del tipo: "Stasera ci prendiamo Roma". Sono stati diversi gli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine che si sono susseguiti nel corso della manifestazione di questo pomeriggio nella Capitale: tensioni e scontri si registrano ancora nei pressi di Palazzo Chigi. Dal governo è arrivata la solidarietà alla Cgil: "È un atto di squadrismo fascista", ha invece detto il segretario della Cgil Maurizio Landini. "Manifestazioni squadriste inaccettabili", ha detto il Presidente della Camera Roberto Fico. Per la giornata di domani in tutta Italia la Cgil ha annunciato presidi di solidarietà di tutte le forze democratiche ed antifasciste in risposta all'atto squadristico. 

 https://www.fanpage.it/roma/no-green-pass-roma-lassalto-alla-cgil-guidato-da-roberto-fiore-e-giuliano-castellino-di-forza-nuova/