venerdì 25 febbraio 2022

LE LACRIME DI COCCODRILLO DEI BUONISTI

Una visione interessante sulla genesi del conflitto ucraino dove le colpe sono quasi esclusivamente affibbiate alla Russia ed in minor parte alla Nato(l'Ucraina è solo l'agnello sacrificale da quello che ci propinano alla televisione e nella maggior parte dei siti d'informazione on line)ce la da questo articolo di Comune Info a firma di Ascanio Celestini(chi-e-il-colpevole? )dove si fa notare giustamente chi fa la politica con le armi.
E noi siamo dei campioni in questo senso e i due principali indiziati di colpevolezza sono il premier Draghi("ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora")ed il ministro della guerra più che della difesa Guerini,ex sindaco di Lodi e punta di diamante del Pd che ha posto al Parlamento ben diciotto programmi di riarmo di cui tredici assolute novità.
Questi personaggi,assieme ad altri e riferendomi soprattutto al partito di Guerini che al tempo della guerra nei Balcani erano al potere con altro nome,sono quelli che difendono i nazisti ucraini e che attaccano senza mezzi termini Putin,non ricordandosi delle nefandezze promosse e sostenute ampiamente negli anni novanta ancora con la Nato che ne fece anche allora di atti orribili(madn settantanni-dinfamia )invitata ad operare nelle basi italiane direttamente da Prodi con il benestare di D'Alema e Fassino.
I numeri parlano chiaro,infatti quest'anno sono ben 26 i miliardi di Euro destinati al ministero della difesa con un aumento di 1,35 miliardi annui,calcolando che il 64% circa di tale somma è destinata a missioni collegate al controllo della difesa dell'approvvigionamento dell'energia proveniente da fonti fossili.

Chi è il colpevole?

di Ascanio Celestini 

Negli ultimi due anni il ministero della difesa (governo Conte II e Draghi) ha chiesto l’approvazione in parlamento di un numero senza precedenti di programmi di riarmo (diciotto). Il 64 per cento della spesa italiana per le missioni militari è destinato a operazioni collegate alla difesa di fonti fossili. Naturalmente il micromondo italiano non è l’unico a fare politica con le armi. La guerra non è un’improvvisa parentesi 

Chi è il colpevole di questa guerra? È la Nato che sta allargando i propri confini? È Vladimir Putin che ha scommesso sulla propria forza e ha tirato la corda puntando sulla debolezza statunitense e sulle divisioni dell’Europa? Io penso che la colpa è prima di tutto di chi fa politica con le armi. E mi pare una disquisizione da salotto decidere chi sia più o meno responsabile.

«La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari all’anno» (dall’appello di cinquanta premi Nobel e scienziati). E se guardiamo in tasca al nostro paese ci accorgiamo che il bilancio del ministero della difesa per il 2022 sfiora i 26 miliardi di euro con un aumento di 1,35 miliardi. «Ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora» ha detto Mario Draghi. Ed ecco che un colpevole ce lo abbiamo dentro casa. Fa il presidente del consiglio in Italia.

Un altro si chiama Lorenzo Guerini. Giorgio Beretta, analista della Rete Italiana Pace e Disarmo ci fa sapere che il nostro ministro della guerra «ha sottoposto all’approvazione del Parlamento un numero senza precedenti di programmi di riarmo: diciotto, di cui ben tredici di nuovo avvio». 

Greenpeace International ci dice che «circa il 64 per cento della spesa italiana per le missioni militari è destinato a operazioni collegate alla difesa di fonti fossili». Negli ultimi quattro anni abbiamo speso 2,4 miliardi di euro nelle missioni militari collegate a piattaforme estrattive, oleodotti e gasdotti che riguardano l’Eni.

Per me è un piccolo capolavoro di indecenza l’articolo che Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul Corriere della Sera il 12 luglio 2020 a proposito dell’Egitto. «Abbiamo bisogno del ben volere di Al Sisi perché l’Eni possa continuare non solo ad estrarre dal suo Paese l’ingentissima quantità d’idrocarburi e di gas che estrae ogni anno» e dunque possiamo evitare di chiedere #veritàperGiulioRegeni. Il bravo giornalista ritiene che sia più significativo «intitolare sempre al nome di Giulio Regeni un certo numero di borse di studio (magari chiamando l’Eni a contribuire al loro finanziamento)…».

Allora? Chi è il colpevole di questa guerra?

mercoledì 23 febbraio 2022

NUOVA TAPPA DEL WAR WORLD TOUR STATUNITENSE?

Sono passati ufficialmente più di otto anni dai fatti di Maidan che culminarono nelle proteste di piazza a Kiev e che ebbero nel rogo di Odessa del maggio 2014(vedi:madn il-massacro-di-odessa )la sveglia per la maggior parte del mondo che in Ucraina c'è stata una sommossa che ha portato i neonazisti al potere con Svoboda e con nel cuore la figura di Stepan Bandera il padre del nazionalismo ucraino(vedi:madn il-regime-voluto-dal-golpe-filo occidentale in ucraina ).
La situazione del Donbass,della Crimea e delle Repubbliche di Lugansk e Donetsk va avanti quindi da quasi un decennio,intervallate da periodi di guerra e di sostanziale tregua che sono state raccontate al resto del mondo con clamore o in sordina.
Nelle ultime settimane questa cronaca viene urlata principalmente dagli Usa e dalla Nato con l'Ue spettatrice impotente e soggiogata alle prime due,lo yesman dei guerrafondai e dell'organizzazione che è promotrice del guerrafondaismo degli Stati Uniti e che dovremmo mettercela alle spalle per avere spiragli di pace(madn sempre-piu-necessaria-luscita-dalla-nato ).
L'articolo di Contropiano(mosca-riconosce-le-repubbliche-popolari-del-donbass )parla della decisione russa di riconoscere ufficialmente tramite il consiglio di sicurezza le repubbliche popolari del Donbass e quindi di poter intervenire lecitamente in ottemperanza del decisioni raggiunte con l'accordo di Minsk venute meno.
Poi lo sappiamo tutti che questa guerra è fortemente voluta dai democratici statunitensi che hanno sempre avuto un immenso piacere a dichiarare conflitti e a infliggere"lezioni di democrazia"a tutto il mondo:gli interessi di una nazione basati sul capitalismo non devono coinvolgere tutto il pianeta anche perché è risaputo che a patire veramente gli effetti della guerra sono sempre i soliti poveri innocenti.

Mosca riconosce le Repubbliche popolari del Donbass.

di  Fabrizio Poggi   

Nella tarda serata di lunedì 21 febbraio, Vladimir Putin ha firmato il decreto di riconoscimento delle Repubbliche popolari di Lugansk e di Donetsk quali stati «indipendenti, democratici, sociali e di diritto», da parte della Federazione Russa. Insieme ai leader delle due Repubbliche, Leonid Pasečnik e Denis Pušilin, Putin ha sottoscritto anche un accordo di amicizia, collaborazione e aiuto tra L-DNR e FR, come era stato chiesto dai due leader del Donbass. 

La firma di Putin è arrivata pochissime ore dopo il termine della riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza russo (organo consultivo), svoltasi nel pomeriggio, nel corso della quale praticamente tutti gli intervenuti – Ministri della difesa e degli esteri Sergej Šojgu e Sergej Lavrov, Primo ministro Mikhail Mišustin, Segretario del Consiglio di sicurezza Nikolaj Patrušev, ex Primo ministro e attuale vice presidente del Consiglio di sicurezza Dmitrij Medvedev, ecc.) – si erano pronunciati per il riconoscimento delle Repubbliche popolari.

Di fatto, subito dopo la seduta del Consiglio di sicurezza, al telefono con Emmanuel Macron e Olaf Scholz, Putin aveva loro già annunciato che, a momenti, avrebbe messo la firma in calce al decreto. Ora la cosa è fatta. 

In Donbass si esulta e si parla di data storica. 

Dalle cancellerie europee, invece, come da copione, lamentazioni di «delusione» e annunci di sanzioni europeiste contro Mosca. «Condanna», anche questa scontata, da parte del Segretario generale NATO, Jens Stoltenberg e riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza ONU. 

Alla riunione del Consiglio di sicurezza russo, Lavrov aveva messo alla berlina tutte le uscite occidentali e ucraine in aperto dispregio di ogni accordo e aveva dichiarato che il loro atteggiamento nei confronti del Donbass non lascia a Mosca altra scelta se non quella del riconoscimento delle Repubbliche. 

Mišustin aveva dichiarato che, in effetti, il Governo russo già da mesi stava adottando misure che sottintendessero il prossimo riconoscimento di L-DNR. Medvedev ha tra l’altro ricordato come nel 2008, lui stesso Presidente russo, il riconoscimento di Abkhazija e Ossetija meridionale avesse impedito i massacri di popolazione civile nel corso dell’aggressione portata dall’allora presidente georgiano Mikhail Saakašvili, con l’aperto beneplacito di George Bush. 

Il paragone non sembri così peregrino: i civili in Donbass continuano a morire anche in queste ore sotto i colpi delle artiglierie ucraine, mentre vengono alla luce ancora nuove fosse comuni coi resti di uomini e donne, spesso decapitati, massacrati all’inizio dell’attacco ucraino nel 2014 dalle spedizioni terroristiche dei battaglioni nazisti, così cari ai demo-liturgici di casa nostra.

La riunione del Consiglio di sicurezza russo si è svolta dopo che nei giorni scorsi la Duma aveva approvato pressoché all’unanimità la proposta di riconoscimento di L-DNR. 

Ma, soprattutto, dopo che nella mattinata di lunedì i leader di DNR e LNR, Denis Pušilin e Leonid Pasečnik si erano rivolti ufficialmente a Mosca chiedendo il riconoscimento delle repubbliche anti-naziste (rifiutiamo di definirle “separatiste”, alla maniera dei giornalacci euroatlantici nostrani; ma di questo, più espressamente in altra sede), quale unica via rimasta per porre fine o, quantomeno, dare l’altolà ai nazisti ucraini, che in queste ore stanno attuando l’ennesima sanguinosa offensiva contro il Donbass, con nuove vittime tra la popolazione civile; vittime che vanno aumentando ogni ora che passa.

Nel corso della riunione, Putin aveva comunque tenuto a sottolineare che la decisione avrebbe in ogni caso riguardato il riconoscimento dell’indipendenza delle due Repubbliche popolari, ma non il loro ingresso nella compagine russa.

Ora, la decisione di Vladimir Putin sul riconoscimento delle Repubbliche popolari, che si aggiunge alla concessione – ormai effettiva da alcuni anni e che interessa già oltre 800.000 cittadini di L-DNR – della cittadinanza russa a qualsiasi abitante delle due Repubbliche che lo desideri, non può non portare con sé significative conseguenze, non solo nei rapporti tra Mosca e Kiev, ma soprattutto nelle relazioni tra la Russia e gli sponsor euroatlantici dei nazigolpisti ucraini. 

Ma, a questo punto, già da settimane la scelta appariva quasi obbligata per Mosca, sia per salvaguardare la vita e l’incolumità di propri cittadini e connazionali a ogni effetto, sia per porre un argine alla sfacciataggine di Washington e di Bruxelles, una volta praticamente esaurita la strada della trattativa. 

Nell’intermezzo tra la fine del Consiglio di sicurezza e la firma del decreto, Putin si è rivolto alla nazione, con un discorso di quasi un’ora, per illustrare la situazione e annunciare i passi del Cremlino. Ha messo in guardia Kiev, esigendo «l’immediata cessazione delle azioni di guerra. In caso contrario, ogni responsabilità per la possibile continuazione dello spargimento di sangue ricadrà interamente sulla coscienza del regime al governo sul territorio dell’Ucraina», ha detto. 

Allargando il discorso alla situazione internazionale, ha ricordato come lo scorso dicembre, Mosca avesse proposto a Washington e Bruxelles di concordare garanzie di sicurezza, che escludano un’ulteriore espansione a est della NATO e il dispiegamento di armi da attacco anche in Ucraina. Rimaste senza risposta quelle proposte, ha detto Putin, Mosca «ha tutto il diritto di adottare misure di risposta per garantire la propria sicurezza» e questo è «proprio ciò che faremo».

Da sfondo a tali dichiarazioni, ancora una volta si sono però sprecate anche le imprecazioni di Putin contro i bolscevichi, Lenin, la “dittatura stalinista”, la fondazione dell’URSS come confederazione che, a detta di Vladimir Vladimirovič, sarebbero la causa anche dell’attuale situazione in un Donbass, “regalato” da Lenin all’Ucraina, «a spese di territori storici russi», del vecchio impero russo così caro alla nuova Russia.

Tant’è. Prendiamo atto anche di queste ennesime esternazioni putiniane. Ne parleremo. Ma non ora. 

Sul momento, la questione principale e quasi esclusiva sul tappeto è un’altra. Era chiaro che il «ci hanno fregato», pronunciato da Putin all’indirizzo della NATO, non sembrava ormai più sufficiente. Sembrava arrivato il tempo di porre la domanda: «e allora?». Un primo passo, tutt’altro che da poco, è stato fatto. 

Ora, parafrasando il Lenin così inviso ai nuovi russi, si può dire che la presenza di truppe e mezzi militari russi in Donbass, «di cui a lungo hanno parlato» i media cialtroni euroatlantici, si attua per davvero e mette fine alla pulizia etnica nazigolpista ai danni della popolazione russa e russofona del Bacino del Don, iniziata (come minimo) nel 2014.