venerdì 26 marzo 2021

NUMERI SU PROFITTI E VACCINI

L'overdose di numeri che quotidianamente ci colpisce riguardo il coronavirus ci assilla da un anno a questa parte,dalle cifre sui contagi e sulle vittime a quelle dei tamponi alle percentuali che salgono e scendono fino aad arrivare a quelle che riguardano l'economia,quanti hanno perso il posto di lavoro e quanti ci hanno guadagnato,e sono tanti.
Nell'articolo proposto(comune-info il-profitto-non-e-la-giusta-cura )un riassunto di questo anno e poco più di statistiche molte delle quali superflue e ambigue se non decisamente false e fuorvianti,con un'attenzione particolare al mondo dell'economia che per forza poi ricade nel sociale,con ospedali che ancora faticano nonostante i milioni di Euro promessi,con i trasporti che non se la passano granché meglio mentre le percentuali di perdita delle imprese non hanno subito poi una caporetto come si poteva presumere.
Per forza,sono pochissime le industrie che hanno smesso di lavorare durante tutto il periodo delle cicliche chiusure,fortemente incentivate da Confindustria che ha sulla coscienza decine di migliaia di vittime di quelle che ormai hanno abbondantemente sorpassato la quota delle centomila.
La scuola,criminalizzata anch'essa a periodi,il disagio che i bambini e gli adolescenti soprattutto ma che colpisce anche gli adulti e gli anziani si misura con un rapido aumento percentuale così come è stato puntato il dito sui comportamenti individuali(i runner o chi portava a spasso il cane nei primi periodi che venivano additati come gli appestatori)mentre milioni di persone si trovavano gomito a gomito nelle aziende e nei supermercati come tutt'ora accade.
Capitolo a parte i numeri dei vaccinati,di quelli che hanno completato l'iter,di quelli che devono ricevere la seconda dose(dipende dalla marca),le reali quantità di vaccini presenti in Italia(vedi il secondo articolo:contropiano vaccini-il-tesoretto-di-anagni )e quelle dosi che devono ancora arrivare,le fandonie reiterate su di una possibile e realistica data in cui chi si vorrebbe e dovrebbe vaccinare lo potrà aver fatto che si allunga sempre di più nel tempo.

Il profitto non è la giusta cura.

di Marco Bersani 

Di numeri e statistiche inutili, durante la pandemia, ne continuano a circolare a bizzeffe. Se però si prova a mettere insieme qualche cifra che abbia un senso, la realtà di un anno di pandemia mostra una realtà abbastanza leggibile che ha elementi piuttosto precisi quanto drammatici. La produzione industriale, ad esempio, non se la cava affatto male, ben altra realtà raccontano il quasi mezzo milione di persone che hanno perso il lavoro e il milione intero di nuovi poveri. Pagano prezzi pesantissimi, che vanno dalla strage al profondo disagio psico-sociale: anziani, donne, adolescenti e bambini. Si continua ad alimentare, poi, una narrazione che colpevolizza i comportamenti individuali che, al netto di casi deprecabili ma quantitativamente insignificanti, sono stati additati come la ragione principale (o perfino unica) della diffusione del virus e della moltiplicazione delle sue varianti, indicando ogni volta l’untore di turno. Un anno dopo, possiamo prenderne atto e gridare che non sono i profitti delle imprese a determinare il benessere della società?

Dall’inizio della pandemia, e senza soluzione di continuità fra governo Conte e governo Draghi, le misure messe in atto per fronteggiarla hanno seguito sei precise traiettorie:

a) ridurre al minimo le restrizioni all’attività delle imprese, che, quasi ovunque, hanno continuato a produrre senza vincoli;

b) intervenire con sussidi, il 70% dei quali per sostenere le imprese stesse e il restante 30% per tamponare in qualche modo la disperazione sociale;

c) nessun intervento sul sistema sanitario, che ha continuato ad essere privo di ogni intervento territoriale e ad essere focalizzato sull’ospedalizzazione come risposta al bisogno di cura, determinandone la saturazione ad ogni nuova ondata di contagi;

d) nessun intervento sul sistema dei trasporti pubblici locali, che hanno continuato ad essere veicoli di contagio per le persone costrette ad utilizzarli;

e) focalizzazione delle scuole come problema, con la sostanziale chiusura per due anni scolastici di scuole superiori e università, e chiusure continue, in alcune regioni continuative, anche delle scuole dell’obbligo;

f) narrazione colpevolizzante dei comportamenti individuali, raccontati come la causa primaria di ogni aumento dei contagi.

La narrazione che sottende l’insieme di queste traiettorie si basa sull’idea che il benessere delle imprese determina il benessere della società e che, di conseguenza, quest’ultima deve adattarsi alle necessità delle stesse. 

E’ una narrazione che, al di là di tatticismi politici contingenti, ha visto l’adesione di tutte le forze politiche, non a caso approdate al governo di unità nazionale.

Una domanda tuttavia sorge spontanea: c’è qualcuno che, a un anno distanza dall’arrivo dell’epidemia, ha l’onestà intellettuale di fare un bilancio serio sull’efficacia delle misure prese, a partire dal disastroso bilancio di oltre 105.000 morti (ad oggi) e da un trend di decessi giornalieri di 3-4 centinaia?

Non si direbbe. E, mentre l’eccellenza lombarda raggiunge quotidianamente nuovi traguardi di cinismo e ferocia, un commissario vestito da alpino annuncia fantasmagorici dati sui futuri vaccini e il ministro della salute cerca invano di corrispondere al suo cognome.

Se questo è il quadro, alcune parole di verità sulle misure finora prese vanno dette, a partire da dati inequivocabili.

Partiamo dai dati sulle imprese che dimostrano, ancora una volta, come l’unica strategia che alberga in Confindustria sia il “chiagn’e fotte”. Secondo i dati di Eurostat (marzo 2021), la produzione industriale da dicembre scorso è in continua crescita, mentre il dato di gennaio 2021 è inferiore a quello di gennaio 2020 solo del 2,4%, un dato che assomiglia molto più a una normale oscillazione congiunturale che non all’esito di un anno di pandemia. E che spiega molto più di mille analisi perché nei distretti più industrializzati d’Europa -Bergamo e Brescia- la pandemia si sia trasformata in una carneficina.

Dunque l’industria, se non proprio bene, male non sta. Vale lo stesso per la società?

Non si direbbe proprio, a partire dal mercato del lavoro che, nonostante il blocco dei licenziamenti, nel 2020 ha registrato il record di 456mila posti di lavoro persi.

Un anno di pandemia porta con se un disastroso bilancio delle politiche 

Nel frattempo la povertà ha fatto un balzo in avanti senza precedenti e, secondo i dati dell’Istat sul 2020, ha registrato un milione di nuovi poveri, che porta il totale delle persone in stato di profondo disagio a 5,6 milioni (una su dieci). Tra questi, 1 milione e 346mila sono bambini (209mila in più).

Facile intuire come la gran parte di questi effetti sia stata scaricata sulle donne, che sono le prime a perdere il posto di lavoro e a doversi far carico del lavoro di cura familiare in condizioni di isolamento e di fortissimo disagio economico, sociale, relazionale (come dimostra l’aumentato numero di violenze subite all’interno delle mura domestiche).

Nel frattempo, per poter permettere alle imprese di continuare indisturbate nella produzione, si sono  prese di mira le scuole, additate a più riprese come i luoghi principali del contagio (e non come i luoghi del sicuro tracciamento dello stesso), consegnando un’intera generazione di giovani e bambini ad una vita sospesa davanti a un computer, priva di sogni e di socialità. 

Anche su questo versante i dati sono più che allarmanti, con un aumento tra il 30 e il 40% del disagio psicosociale fra  bambini e adolescenti.

In un anno di interventi, una generazione (gli anziani) è stata falcidiata, un’altra è stata consegnata all’isolamento e al disagio (infanzia e adolescenza), mentre l’insieme delle famiglie è stato costretto alla precarietà, scaricandone gli effetti in particolare sulle donne.

Tutto questo per evitare quello che avrebbe dovuto essere fatto già all’inizio: un vero, completo e molto più breve lockdown, a cui far seguire una strategia di tutela delle fasce più fragili della società, con un reddito di emergenza per tutti, investimenti massicci per una sanità pubblica e territoriale, per una scuola aperta e sicura, per trasporti locali degni.

Tutto questo avrebbe messo in discussione le priorità del modello economico-sociale in cui viviamo, mettendo al centro il prendersi cura al posto dei profitti, la coesione sociale al posto del “Bergamo is running”, l’interdipendenza fra le persone al posto della solitudine competitiva.

Proprio per evitare tutto questo, si è costruita e si continua ad alimentare una narrazione di colpevolizzazione dei comportamenti individuali che, al netto di casi deprecabili ma quantitativamente insignificanti, sono stati additati come la ragione unica della diffusione del virus e della moltiplicazione delle sue varianti, indicando ogni volta l’untore di turno.

Un anno dopo, possiamo prendere atto che non sono i profitti delle imprese a determinare il benessere della società? 

Possiamo lasciar chiagnere Confindustria (è il suo mestiere) ma evitare per una volta di farci fottere? Possiamo dire che è l’economia a doversi mettere al servizio dell’ecologia e della società e non il contrario?

Possiamo scendere nelle piazze e urlare che non abbiamo bisogno di alcun Recovery Plan che rilanci l’esistente, ma di un Recovery PlanET per progettare assieme una diversa società?

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Il “tesoretto” di Anagni. Pronte da mesi milioni di dosi di vaccino AstraZeneca.

di  Sergio Cararo   

In Italia ci sono almeno 29 milioni di dosi del vaccino AstraZeneca. E non solo. Ci sono probabilmente anche quelli della Johnson&Johnson, e la produzione di vaccini AstaZeneca ad Anagni era cominciata già da ottobre 2020, anche senza il via libera dell’Ema.

Questi vaccini si trovano ad Anagni, in provincia di Frosinone, dentro lo stabilimento della Catalent, una multinazionale statunitense. E sono pronte per essere spedite all’estero, mentre le forniture dello stesso vaccini all’Italia scarseggiano. 

Ma sono state scoperte dalle autorità italiane dopo una segnalazione della Commissione europea. In realtà l’esistenza di questo tesoretto di vaccini prodotti in Italia, ma destinati altrove, era stata segnalata già il 17 marzo sul Financial Times.

Non solo. Cercando meglio, si scopre che nello stabilimento della Catalent di Anagni, la produzione dei vaccini AstraZeneca era iniziata addirittura già ad ottobre 2020.

La Catalent, ..multinazionale Usa con sede a Somerset, nel New Jersey, nel 2019 ha acquistato lo stabilimento della ex Bristol di Anagni. Risulta però avere in Italia anche uno stabilimento ad Aprilia (provincia di Latina). 

Fonti tedesche rivelano che nello stabilimento di Anagni è addirittura da ottobre 2020 che si stanno producendo i vaccini per AstraZeneca, anche quando il via libera dell’Agenzia Europea del Farmaco era ancora al di là da venire. Secondo una dirigente della stessa Catalent, la produzione era già stata avviata “confidando nell’idoneità del vaccino, sviluppato sulla base di meccanismi già studiati in passato”.

La Catalent è il principale fornitore globale di tecnologie avanzate di consegna, sviluppo e produzione di soluzioni per farmaci, farmaci biologici, terapie cellulari e geniche e prodotti per la salute dei consumatori; ha annunciato una partnership ampliata non solo con AstraZeneca ma anche con con Janssen Pharmaceutica NV e Janssen Pharmaceuticals, Inc., ossia due delle divisioni farmaceutiche della Janssen, proprietaria della Johnson & Johnson.

Per quest’ultima, la Catalent Biologics aumenterà in modo significativo la sua capacità di produzione per la fornitura commerciale su larga scala del vaccino Covid-19 proprio presso lo stabilimento di produzione di Anagni, compresi i processi di infialamento, ispezione, etichettatura e confezionamento delle fiale di vaccino.

La Catalent ha una trentina di stabilimenti produttivi nel mondo: negli Stati Uniti, in Europa (in Belgio, Germania, Francia, Svizzera, Italia e Gran Bretagna), in Asia (Giappone, Cina e Singapore) e in America Latina (Argentina, Brasile, Uruguay). Ha una capacità produttiva di 70 miliardi di dosi l’anno su una gamma di quasi 7mila prodotti. Dispone di una estesissima rete di distribuzione globale che hanno portato ad entrate fiscali di ben 2,5 miliardi di dollari nel 2018.

E’ venuto fuori che almeno due dei lotti di Astrazeneca individuati nella Catalent di Anagni sono partiti con destinazione Belgio. La successiva destinazione al momento è ignota.

Ad ammetterlo è stato in Parlamento lo stesso Presidente del Consiglio Draghi  annunciando che i lotti di vaccini rimasti dentro lo stabilimento della Catalent sono adesso sotto sorveglianza. Le forze dell’ordine stazionano da ieri pomeriggio intorno allo stabilimento.

Lo  stesso premier ha rivelato che “Sabato sera ricevo una telefonata della presidente della Commissione Ue su alcuni lotti che non tornavano nei conti della Commissione e che sarebbero stati giacenti presso lo stabilimento di Anagni”, dove vengono infialati i vaccini di AstraZeneca. 

“Mi si suggeriva un’ispezione. La sera stessa ho chiamato il ministro Speranza, da cui dipendono i Nas, e i Nas sono andati immediatamente e la mattina successiva, dopo aver lavorato tutta la notte, hanno identificato dei lotti in eccesso che a quel punto sono stati bloccati. Due oggi sono stati spediti in Belgio, dove c’è la casa madre. Ma sono lì, da lì dove andranno non so, ma intanto la sorveglianza continua per i lotti rimanenti”.

La destinazione finale dei vaccini infialati e stoccati ad Anagni non è certo un fatto secondario perché – se diretti in Gran Bretagna – scatterebbe il blocco, dato che l’Unione Europea èora  orientata a bloccare l’export di vaccini prodotti nei paesi membri al di fuori dalla Ue. Diverso sarebbe se la destinazione fosse davvero il Belgio cioè un paese dell’Unione.

Immediata la replica di AstraZeneca, secondo cui “Attualmente non sono pianificati export al di fuori dei paesi che aderiscono al piano COVAX. Ci sono 13 milioni di dosi di vaccino in attesa del controllo di qualità per essere poi spediti a COVAX come parte del nostro impegno per fornire milioni di dosi a paesi a basso reddito, il vaccino è stato prodotto fuori dalla Ue e poi portato allo stabilimento di Anagni per l’infialamento – scrive la multinazionale nella sua nota –  Ci sono altre 16 milioni di dosi che sono pronte per essere spedite in Europa. Quasi 10 milioni di dosi saranno consegnate ai paesi Ue nell’ultima settimana di marzo. Non è corretto definire questo carico come scorta. La produzione del vaccino è un procedimento molto complesso che richiede tempo”.

Ma questo richiamo ai tempi lunghi, che AstraZeneca mette continuamente avanti, stride con il fatto che – ad esempio – la Catalent di Anagni ha una capacità produttiva di 70 miliardi di fiale o che la produzione dei vaccini fosse stata iniziata già ad ottobre 2020, prima ancora che l’EMA desse il via libera. 

Queste “sinergie” tra multinazionali del farmaco – come quelle tra AstraZeneca, Catalent, Johnson&Johnson – possono poi contare su reti di distribuzione comuni con numeri da paura. Una perfetta macchina da profitto che però si intoppa e si arena solo quando deve in qualche modo fare “sinergia” con gli interessi collettivi.

giovedì 25 marzo 2021

SANTE,BANDITO SENZA TEMPO

Negli scorsi giorni è morto Sante Notarnicola,persona prima che personaggio che ha indelebilmente segnato pagine sia di cronaca che di poesia e rivoluzioni a partire dagli anni sessanta,pugliese emigrato  Torino da ragazzo e da lì è nata la ribellione e la militanza comunista:assieme ad alcuni amici fece parte della banda Cavallaro cui ne seguì tutta la storia e le vicissitudini fino al carcere per quasi trent'anni.
Ed è proprio da qui che la sua lotta fece avere ai carcerati di un'intera nazione,avvezzi a pratiche di detenzione disumane,dei miglioramenti tangibili anche attraverso rivolte,e lui fu sballottato in tutta Italia nei decenni di reclusione,compreso un tentativo di fuga a Favignana.
Negli articoli presentati(contropiano sante-notarnicola-dal-vivo infoaut li/in-ricordo-di-sante-notarnicola-bandito-rivoluzionario-e-poeta )ricordi e cronache,sensazioni e pensieri a corollario di un uomo che ha pagato le conseguenze delle sue scelte e che ha saputo affermarsi e farsi amare in un contesto molto difficile da comprendere e da spiegare.
Lui che fu comunista,bandito e rivoluzionario,generoso e pronto sempre ad offrire il proprio aiuto,che trovò a fine detenzione con i domiciliari momenti di difficoltà e anche di riscatto e di confronto con una generazione che per forza di cose si era anestetizzata,e che per la maggior parte dei casi lo è tutt'ora,che guarda con nostalgia ai tempi passati e con speranza verso tempi di lotta e di ribellione futuri.

Sante Notarnicola, dal vivo.

di  Francesco Piccioni  

Non so da dove cominciare. Avevo, come tutti, divorato il suo libro L’evasione impossibile. E dopo aver letto pensavo di aver capito, se non proprio di conoscerlo. Ero giovane, a quel tempo. Non avevo molta esperienza da confrontare. E senza quella, è meglio stare zitti. Sempre, anche oggi.

Pochi anni dopo ero già uno “vecchio”, ossia uno che ne aveva passate parecchie, e dunque sapevo che tra il fare e il raccontare la differenza è tanta. E che, se sei una persona seria, le cose più importanti spesso ti restano nella penna.

Quando sono arrivato nelle carceri speciali, però, ho visto che anche l’essenziale era in qualche modo sgocciolato dalla penna di Sante. Sarà che l’Asinara era proprio come te l’aspettavi, dopo due traghetti e un’ora di viaggio in jeep verso Fornelli, al capo opposto di Cala d’Oliva. Tra un mare che non si vede da nessun’altra parte e facce da bruti in divisa. Senza manette, “perché tanto, ‘ndo vai?”

Nelle carceri speciali c’erano solo compagni arrestati per “cose serie”, come sempre divisi per gruppi organizzati differenti. Oppure “detenuti comuni” che erano in genere davvero fuori dal comune. A quel tempo le rapine erano affare di piccole “batterie”, gruppi di amici nati come noi nei quartieri e poi cresciuti insieme. I sequestri di persona avvenivano a decine, anche contemporaneamente, e chi li faceva – una volta preso – finiva lì, mica nella “casa circondariale” vicino casa. 

Tutta gente che pensava alla fuga, e ne era capace. Che “si pesava” per quel che aveva dimostrato di saper fare, non per le chiacchiere. Se non sai fare, stai zitto. E impari.

Pochi i mafiosi, e minori; pochi quelli della ‘ndrangheta. Ancora non erano diventati “nemici” da combattere. E anche di camorristi, nel 1980, non ce n’erano tantissimi. Niente spacciatori, nix papponi.

Tanti gruppi, tante “etiche”, tante appartenenze diverse. Sante viaggiava a un altro livello. Si era guadagnato negli anni il rispetto di tutti, a prescindere dal “reato” e dal “giro”.

L’epopea della “banda Cavallero” era finita da oltre un decennio. Ci aveva fatto un film Carlo Lizzani, a metà strada tra il riconoscimento e la condanna (neanche il Pci, allora, poteva ignorare che quei “banditi” erano nati a Mirafiori, tra i suoi militanti che sognavano la Rivoluzione). E non era già più il tempo in cui qualche attrice famosa “chiedeva i colloqui” per conoscerlo.

Non era per quello che tutti lo salutavano. Era quello che aveva fatto dentro il carcere che girava di bocca in bocca, di generazione in generazione di detenuti. Grandi e piccole cose, magari solo la certezza che – se arrivavi a tarda sera, dopo cena, dove c’era lui – ti sarebbe arrivato un piatto di pasta, un caffè, qualche sigaretta. Sei qui, sei dei nostri, non sei solo in mezzo alle guardie. E non devi dare nulla in cambio.

C’era stato il periodo delle rivolte, quando “i dannati della terra” erano stati capaci di rivendicare una dignità che la “società perbene” negava loro. E lui era stato tra i maestri silenziosi, senza strepiti e “coatteria”. Seminava consapevolezza, coscienza, conoscenza, attenzione al vicino di cella, previsione delle mosse del nemico, cura nel racconto per far capire “fuori” cosa succedeva “dentro”. 

Aveva insegnato, insomma, a superare il “paradosso del prigioniero”, che porta all’isolamento e all’inazione; a scoprirsi simili in quella condizione, quindi con interessi comuni e diritti da rivendicare. Cose da fare insieme, costruendo fiducia reciproca nell’universo più individualista che c’è.

A lui, spesso, i detenuti affidavano le trattative rognose. Quelle da fare con i direttori e gli sbirri durante una rivolta. Quando devi essere calmo, lucido, sapere dove vuoi andare e capire “il nemico” cosa intende fare. “Piccolo grande uomo”, proprio come nel film di Arthur Penn…

Lo avevano chiamato, per questo, anche a Favignana, un’Asinara di Sicilia, con le celle nel fossato di un vecchio castello sulla collina. Un detenuto comune, uno qualsiasi che chissà cosa voleva, aveva “sequestrato” il giovane magistrato di sorveglianza con cui aveva “chiesto udienza”.

Erano anni strani, questi gesti avvenivano spesso, anche per obbiettivi individuali (un trasferimento più vicino casa, un colloquio negato, ecc). Ma i carabinieri di Dalla Chiesa a volte intervenivano quasi motu proprio, in quelle situazioni. Facendo strage “imparzialmente”, di detenuti e ostaggi. Senza remore, come ad Alessandria, nel 1974.

La “trattativa” da fare in quel caso era semplice ma definitiva. Bisognava convincere il detenuto a lasciar libero il magistrato, entro poco tempo. Le teste di cuoio stavano già scalpitando al portone d’ingresso.

Chiamarono Sante e non altri, perché solo da lui quel povero matto di prigioniero avrebbe potuto forse accettare un consiglio. E salvarsi la vita.

Sante lo convinse e a chi lo ringraziava – il direttore, qualche impiegato civile – rispose che lo aveva fatto solo perché gli interessava la vita del suo compagno di galera.

Lo ringraziò anche il magistrato, che sapeva quanto lui cosa sarebbe successo in caso contrario. Era destinato a una grande carriera, quel giovanissimo giudice, Giovanni Falcone…

La grandezza di Sante era nel saper stare da solo, se necessario, in un mondo dove è importante – spesso decisivo – “stare in gruppo”. Fuori da ogni organizzazione, “batteria”, gruppo omogeneo. Poteva parlare con tutti, e tutti lo ascoltavano. Restando ognuno quel che era, trovando il modo per farlo.

Era stato inserito nella lista dei 13 prigionieri di cui le Brigate Rosse, ad un certo punto, chiesero la libertà in cambio della vita di Aldo Moro. Un “grande”, insomma, di cui si parlava in ogni carcere d’Italia.

E lui scriveva poesie, quando la porta veniva chiusa sbattendo e le due mandate di serratura ti auguravano la buonanotte. Cercava di mantenere l’irrequietezza della vita tra muri di cemento armato. E ci riusciva.

Se le scambiava, nel cortile, con gli altri poeti prigionieri. Con Horst Fantazzini, Agrippino Costa, con chiunque provasse la stessa inquietudine.

Quando pubblicò la sua prima raccolta di versi, finì che una copia venne fatta arrivare a Primo Levi. Oggi un intellettuale “affermato”, che magari vale un’unghia dell’autore di “Se questo è un uomo”, griderebbe alla provocazione, chiamerebbe carabinieri e giornalisti per levarsi di dosso l’ombra del sospetto di una simpatia verso un prigioniero di quelle “dimensioni”.

Il partigiano che era sopravvissuto ad Aushwitz rispose. Apprezzando, commentando, consigliando, “entrando nel merito”. La grandezza si riconosce reciprocamente, a prima vista. Se hai visto certe cose, parli la stessa lingua. E non la può capire nessun altro.

Visse con noi, ex ragazzi di un’altra generazione, la nostra sconfitta, le divisioni, i tradimenti, le dissociazioni. In una “sezione” di carcere li vedevi trasformarsi di giorno in giorno, mutare lo sguardo, svuotare di vita gli occhi, assumere la postura di chi simula qualcosa che non è più. E poi una mattina, o una sera, venivano portati via, verso carceri più accoglienti. 

Quando comunque si scherzava, quasi ogni giorno, lo potevi sentir rivendicare il paese dov’era nato, Castellaneta, vicino Taranto. Perché c’era nato pure Rodolfo Valentino, e dunque…

Qualche anno dopo, nella solita alternanza tra periodi durissimi e momenti di “allentamento”, qualcuno decise che poteva cominciare ad uscire. Dopo “venti anni, otto mesi e un giorno”, come scrisse in una delle prime poesie da semilibero. Perché anche quel singolo giorno, lui, se lo ricordava.

Ci salutò, nello “speciale” di Cuneo, quasi scusandosi di lasciarci lì mentre lui andava a riveder le stelle e a dilatare finalmente gli occhi per raggiungere un orizzonte più lontano del muro di cinta. Noi gli facevamo festa, lo spingevamo fuori, “che cazzo stai a fare ancora qui?”. A parole, certo, ognuno dalla sua cella. Sante era libero, o quasi. 

Trovò un altro mondo. Tra sbirri in borghese che ne scrutavano ogni passo e compagni disperatamente ingenui, generosi e casinisti. Restò fuori da ogni “giro” organizzato, anche questa volta. Preferendo la libertà di parlare solo se voleva e come sapeva. Di raccontare per far sapere, non per indottrinare. Scegliendo gli amici con cura, per carattere e per prudenza. Non gli piaceva restare deluso dalle persone che accoglieva.

Preferì rischiare anche con il lavoro. Invece di restare nelle pieghe e nelle piaghe del “privato sociale”, delle cooperative più o meno dipendenti dalla mangiatoia del Pds-Pd o come si chiama adesso, aprì il Mutenye, pub del Pratello subito meta della compagneria bolognese. Un luogo dello spirito, finché ebbe le forze per stare dietro il bancone tutte le sere.

La sua militanza si concentrò sulla Storia e le storie. Non c’è stato professore decente, dalle sue parti, che non finisse a parlare con lui, a impostare una ricerca, un’idea. La Resistenza sui colli era stata dura, cruenta e dimenticata nel solito modo della “sinistra” di merda. Rendendola un’icona da tirar fuori una volta l’anno, facendo l’opposto per 364 giorni.

Mi portò, pochi anni fa – perché i meno vecchi di lui uscirono anche loro dopo “venti anni…” e più – ai Sabbioni, sull’orlo del piccolo abisso dove i nazisti avevano fucilato un mucchio di partigiani. Mi portò a Monte Sole, sulle colline di Marzabotto, a stare in silenzio in quel dannato cortile di una strage di massa, coi buchi delle pallottole ancora sui muri e la tomba di Giuseppe Dossetti davanti ai piedi.

A misurare l’enormità delle contraddizioni rivelate quel prete tra i fondatori della Democrazia Cristiana e persino presidente (un altro…), che era stato fascista e poi partigiano e alla fine aveva voluto essere seppellito lì.

La ricerca su Monte Sole si trova ancora, da qualche parte. Io la farei leggere a tanti…

Non so come finire. Una vita così lunga, ricca, faticosa, piena, un compagno e un amico… è quasi un’offesa rinchiuderla in così poche battute. Spero che non me vorrai. Tu sei più bravo a dire molto con poche parole. Ciao, Sante.

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IN RICORDO DI SANTE NOTARNICOLA. BANDITO, RIVOLUZIONARIO E POETA 

Lunedì 22 marzo 2021 è morto, a 82 anni, il compagno Sante Notarnicola. 

Bandito, rivoluzionario, poeta

Sante, nato a Castellaneta, provincia di Taranto, nel 1938, a soli 13 anni emigrò al nord, a Torino. “Venni dal Sud con la valigia di cartone”, scriverà lui stesso. Proletario immigrato dal mezzogiorno, a Torino svolse diversi lavori e frequentò le sezioni del PCI e della FIGC ma dalla politica istituzionale si allontanò presto, attratto piuttosto dalle idee dei gruppi della sinistra rivoluzionaria.

Nel 1963 incontra Pietro Cavallero e nel quartiere operaio della periferia torinese Barriera di Milano nasce il gruppo di rapinatori passato alla storia come Banda Cavallero. Cavallero, Sante Notarnicola e compagni – come spiegheranno loro stessi – non erano animati tanto dal problema della fame, ma dal desiderio di giustizia sociale. I loro punti di riferimento erano rivoluzionari, comunisti e anarchici, e banditi della storia. Con le rapine, la Banda Cavallero attaccava il potere borghese e capitalista. Per Sante e gli altri era un modo per combattere e sabotare un sistema ingiusto, prendendosi la ricchezza da esso sottratta ai proletari e alla povera gente, senza farsi sfruttare in fabbrica, in cantiere o in altri luoghi di lavoro.

Il 3 ottobre 1967 Sante Notarnicola e Pietro Cavallero furono arrestati. Durante la loro ultima rapina, il 25 settembre al Banco di Napoli a Milano, la Polizia era riuscita a intervenire prima della loro fuga. Ne nacque un inseguimento con sparatoria e il bilancio fu di 4 morti. Nel processo, che si svolse tra giugno e luglio del 1968, Sante Notarnicola (così come Pietro Cavallero) fu condannato all’ergastolo.

Per Sante è l’inizio di una nuova battaglia. Insieme agli altri detenuti, lotta contro le le dure condizioni carcerarie cui erano costretti riuscendo, attraverso alcune rivolte, a conquistare una serie di diritti fino ad allora negati: tra questi la possibilità di avere carta e matita per scrivere o detenere più di un libro in cella. In carcere fu attivo anche nella lotta sul decreto di amnistia per i detenuti politici incarcerati durante “l’autunno caldo” e poi contro l’introduzione delle carceri speciali e del regime carcerario del 41bis. Partecipò alla stagione delle rivolte che segnarono la storia carceraria italiana per tutto il periodo antecedente e successivo alla legge Gozzini. Nel novembre del 1976, con altri quattro detenuti, tenta di evadere dal carcere di Favignana attraverso un tunnel sotterraneo, che viene però scoperto dagli agenti. Nel 1978 fu il primo nella lista dei 13 nomi indicati dalle Brigate rosse come detenuti da liberare in cambio del rilascio del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro.

In prigione Sante ha studiato, scritto libri come il celebre “L’evasione impossibile”, pubblicato da Feltrinelli nel 1972, e raccolte di splendide poesie come “La nostalgia e la memoria” (1986).

Nel 1995 gli fu concessa la semi-libertà e durante il giorno, per cinque anni, gestì il pub Mutenye, a Bologna, dove si stabilì dal 2000 quando, giunto il fine pena, fu finalmente libero.

In questa trasmissione dedicata a Sante, il ricordo di Pinuccio, storico compagno dell’Autonomia bolognese e amico di Sante Notarnicola, e – soprattutto sulla sua produzione poetica e letteraria – di Cristiano Armati, compagno romano ed editore indipendente con RedStar Press e amico di Sante. Nel podcast anche le parole pronunciate da Sante a margine del funerale dell’amico e compagno Prospero Gallinari nel 2013, la lettura della poesia “I numeri” dell’attore Gian-Maria Volonté, le canzoni “La nostalgia e la memoria” di Assalti Frontali (con la voce dello stesso Sante), “Bandito senza tempo”, The Gang, “Omaggio a Sante” degli Onda Rossa Posse e un breve stralcio da “Quale ordine”, del rapper milanese Lord Bean. Ascolta o scarica.

mercoledì 24 marzo 2021

VOGLIA DI CONFLITTO

E' sotto gli occhi di tutti l'ostilità e le prepotenze perpetrate dal nuovo insediato alla Casa bianca Biden verso i nemici storici Russia e Cina in questa nuova guerra fredda che potrebbe essere qualcosa di più e che effettivamente già lo è per motivi differenti rispetto all'ex superpotenza russa e la nuova e affermata Cina.
Mentre per la Russia ogni pretesto è valido per litigare per tutti i motivi,per le restrizioni e i vaccini,per Navalny e i diritti umani e per le"politiche aggressive"in materia estera,la Cina è attaccata soprattutto per motivi economici vista la grande competitività che anno dopo anno fa fare passi da gigante e nonostante il coronavirus i risultati sono in assoluto i migliori in tutto il mondo.
E l'Europa viene trascinata in questa guerra fredda come avvenne appena dopo la fine del secondo conflitto mondiale solo che ormai tutta l'Europa è praticamente dalla parte statunitense,ammaestrata e ammansita dall'impero Usa e questa è una posizione che col passare del tempo porterà risultati catastrofici per l'intera unione.
Nell'articolo(contropiano la-nuova-guerra-fredda )le continue e pesanti accuse verso Putin da parte del guerrafondaio democratico Biden(madn gli-usa-di-biden-gia-in-guerra )e le pacate per il momento risposte del leader russo,e le provocazioni verso l'omologo cinese Xi Jinping che con calma sa che una possibile alleanza ancor più strategica con la Russia coinvolgendo altre realtà potrebbero mettere fine all'egemonia statunitense nel mondo.

La nuova Guerra Fredda ridivide il mondo in “due campi”, con qualche novità.

di  S.C.   

In meno di una settimana il mondo è entrato a passo di carica in una nuova Guerra Fredda, tra dichiarazioni improvvide del presidente Usa, sanzioni e dossier, spesso impolverati, che vengono improvvisamente rispolverati e diventano dirimenti nelle relazioni internazionali tra “occidente” ed “oriente”.

La Cina ha convocato l’ambasciatore dell’Unione Europea a Pechino, Chapuis, per protestare contro l’imposizione di sanzioni “unilaterali” Ue per le violazioni ai diritti umani contro gli uiguri, l’etnia musulmana e turcofona che vive nella regione dello Xinjiang. Lo ha reso noto il ministero degli Esteri di Pechino.

Secondo il governo cinese “l’Unione Europea non è qualificata per dare lezioni sui diritti umani” e la Cina “esorta l’Ue a riconoscere la gravità dell’errore, correggerlo e interrompere lo scontro, per non causare ulteriori danni alle relazioni”. La determinazione della Cina di proteggere i propri interessi di sovranità, sicurezza e sviluppo, ha concluso il vice ministro degli Esteri cinese, è “incrollabile”.

Ma la risposta della Cina questa volta avviene in piena sintonia con quella della Russia. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov e il suo omologo cinese, Wang Yi, impegnati in un vertice bilaterale, hanno comunemente definito “inaccettabili” le sanzioni decise da Ue.

Secondo Cina e Russia, “Gli Stati Uniti stanno cercando di affidarsi alle alleanze politico-militari della guerra fredda per cercare di distruggere l’architettura legale internazionale” ha detto Lavrov, in conferenza stampa stampa insieme con Wang Yi.

“L’intera infrastruttura delle relazioni con l’Unione europea è stata distrutta dai passi unilaterali compiuti da Bruxelles” e per questo la Russia interrompe le “relazioni ora” ha detto Lavrov, il quale poi ha avvertito “che sarà pronta a contatti per intensificare la cooperazione con l’Ue quando Bruxelles riterrà necessario eliminare le anomalie nelle relazioni bilaterali. “Se e quando gli europei riterranno opportuno eliminare queste anomalie nelle relazioni con il loro più grande vicino, ovviamente, saremo pronti a costruire questi rapporti basati sull’uguaglianza e la ricerca dell’equilibrio degli interessi. A Est invece abbiamo un’agenda molto intensa, che diventa ogni anno più diversificata”, ha sottolineato il ministro degli esteri russo.

Ma se la convergenza tra Russia e Cina segna una novità rispetto al passato (quando i rapporti tra Mosca e Pechino erano di contrapposizione, ndr), con un’alleanza che ricorda i tempi della Guerra Fredda, l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Canada hanno adottato unilateralmente sanzioni contro la Cina. 

Diversi funzionari cinesi sono stati sanzionati con l’accusa di reprimere uiguri musulmani nella regione dello Xinjiang, e Pechino ha immediatamente reagito con sanzioni contro una decina di personalità europee, tra cui cinque europarlamentari. Anche gli Stati Uniti hanno sanzionato due dei quattro funzionari cinesi individuati dagli europei. Secondo Washington le sanzioni statunitensi “completano” quelle dell’Ue e del Canada, secondo Washington.

Nelle sanzioni cinesi vengono prese di mira anche quattro “fondazioni europee”, tra cui l’Alleanza delle Democrazie, una fondazione danese guidata dall’ex segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen. Pechino ha inoltre sanzionato il Comitato politico e di sicurezza (Cps), un organo che riunisce gli ambasciatori degli Stati membri della Ue che è poi l’organismo che ha preparato le sanzioni contro la Cina.

“Queste sanzioni sono inaccettabili”, ha dichiarato il capo della diplomazia europea, Josep Borrell. “Queste sanzioni non avranno alcuna influenza sulla determinazione dell’Ue a reagire a tutte le violazioni dei diritti umani”, ha affermato il responsabile della politica estera europea.

Ma l’Unione Europea  non si è consapevolmente complicata l’esistenza solo con la Cina. I ministri degli Esteri della Ue hanno infatti dato il via a sanzioni anche contro alcuni funzionari russi per la repressione a danno delle persone Lgbt e degli oppositori politici in….Cecenia. Insomma dossier antichi ed abbastanza pretestuosi, che da un lato indicano il tentativo di un “basso profilo” (non hanno definito Putin un assassino come ha fatto l’establishment Usa), dall’altro rivelano come per la Ue – al contrario degli Stati Uniti – una nuova contrapposizione frontale con Russia e Cina sia tutta remissione.

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha avuto un colloquio telefonico con Putin che, da quanto risulta, è stato tutt’altro che cordiale.

“I legami tra l’Ue e la Russia sono a un punto basso” ha dichiarato Michel che ha confermato “l’approccio dell’Ue ai cinque principi guida, basato sui valori fondamentali dell’Unione” . Secondo Michel “Dal punto di vista dell’Ue, le relazioni con la Russia possono prendere una direzione diversa solo se si registrano progressi costanti su questioni come l’attuazione degli accordi di Minsk, l’arresto degli attacchi ibridi e informatici agli Stati membri e il rispetto dei diritti umani”.

Il carico da undici lo ha aggiunto il segretario generale della Nato uscente, Jens Stoltenberg: “La Russia continua il suo comportamento di oppressione interna, verso i dissidenti pacifici, e di aggressione verso l’estero”, ha detto alla presentazione del vertice dei ministri degli Esteri della Nato che si terrà oggi e domani. E Stoltemberg si è allineato sulla aggressiva posizione dell’amministrazione Usa  affermando che: “Il presidente Putin è, ovviamente, il responsabile ultimo di tutte le azioni svolte dallo stato russo, e abbiamo visto un modello di comportamento aggressivo, inclusi tentativi mirati e omicidi di avversari”.

Toni minacciosi, sanzioni, pretesti. Un avventurismo delle classi dirigenti dell’occidente liberale e liberista che stende un pesante velo di inquietudine sul futuro prossimo delle relazioni internazionali.

Qualcuno ha spesso sostenuto – e a ragione – che il sistema capitalista vede nella guerra lo strumento “creativo e distruttivo” per uscire dalle proprie crisi. Ma una guerra che oggi può disporre di armi nucleari in tutti i belligeranti, è una opzione talmente estrema da diventare impossibile da gestire con qualche speranza di beneficio duraturo. Lo stallo degli imperialismi storici nel mondo capitalista, è la fotografia dell’esistente. Ma quando tale crisi produce solo avventuristi nelle classi dirigenti, il cortocircuito che fa saltare l’impianto è dietro l’angolo.

domenica 7 marzo 2021

IL FMI STUDIA IL MALESSERE SOCIALE

Uno studio del Fondo Monetario Internazionale,organismo che piuttosto di aiutare le nazioni in difficoltà ne esautorano la sovranità non solo economica ma anche sociale facendo bieca attività di ricatto e di strozzinaggio,racconta che i prossimi mesi saranno a rischio di grandi sollevazioni popolari di protesta un poco in tutto il mondo.
L'articolo(comune-info.net esplosioni-sociali-e-rivolte-popolari )parla di un colossale lavoro che l'organizzazione sta facendo da decenni vagliando informazioni a livello globale che indagano sul malessere sociale delle popolazioni,qui focalizzate sul Sud America che ha visto negli ultimi anni soprattutto in Argentina ma anche nei vari Stati del continente(vedi anche:madn il-fondo-monetario-internazionale sconfitto dal popolo ecuatoriano e madn un-caracazo-anche-da-noi ? )interventi massicci di prestiti con richieste insostenibili di solvibilità.
E' lampante che l'Fmi ora guidata dalla bulgara Georgieva(succeduta alla Lagarde ora Presidente della Bce)abbia come scopo l'aiuto del Nord del mondo,di quello più sviluppato economicamente,a scapito dei paesi poveri(vedi il disastro greco perché anche in Europa non tutte le nazioni godono degli stessi benefici e fortune)analizzi la condizione sociale dei paesi in modo da indirizzare e avvertire i governi sulle misure da adottare,che sono lacrime e sangue condite da interventi polizieschi e militari di dura e violenta repressione.
Il dato interessante è che queste future rivolte nella grande maggioranza dei casi non saranno imputabili a risultati elettorali in quanto qualsiasi compagine politica abbia avuto successo negli ultimi anni(l'Italia ne è un perfetto esempio)non abbia mai intaccato il potere del capitale,ma nasceranno dai movimenti anticapitalisti ed antimperialisti che non hanno avuto ascolto e nel prossimo futuro vorranno sempre più fare sentire la loro voce in difesa delle legittime aspirazioni dei popoli.

Esplosioni sociali e rivolte popolari.

di Raúl Zibechi 

Il Fondo Monetario Internazionale ha elaborato un indice del malessere sociale basato sull’analisi di milioni di articoli, pubblicati dal 1985 in 130 paesi, che esaminano 11mila eventi capaci di causare esplosioni sociali. Questa facoltosa ricerca gli consente di anticipare che, entro la metà del 2022, inizierà un’ondata di proteste, che si tenta già di prevenire e controllare. Un rapporto pubblicato in gennaio dallo stesso FMI conferma la probabilità delle proteste e dice ai governi e al grande capitale che il periodo che si apre può essere pericoloso per i loro interessi e che essi devono farsi trovare preparati, ma si premura di aggiungere che cinque anni dopo gli effetti delle esplosioni saranno residuali e non influenzeranno più l’economia. Lo rivela in questo articolo Raúl Zibechi che non manca di sottolineare un dettaglio significativo: lo studio non si preoccupa affatto di citare i risultati di possibili elezioni come rischi per il capitale, forse perché, al di là di chi vince, sanno che i governi che escono dalle urne non sono mai riusciti a intaccare il potere del capitale. Poi Zibechi prende in esame due tipi di grandi proteste per analizzarne soprattutto le diversità sul piano delle conseguenze per il potere delle classi dominanti e per l’organizzazione dei movimenti anticapitalisti: le esplosioni sociali di grande impatto anche mediatico ma di breve durata e i levantamientos, le sollevazioni popolari che rafforzano i movimenti e sono in grado di dare continuità in altre forme alle rivolte, come è accaduto per esempio in Cile e in Ecuador poco prima dell’inizio della pandemia. Naturalmente, una suddivisione così schematica è puramente esplicativa, ma aiuta molto a leggere quel che accade e accadrà, soprattutto in paesi lontani come quelli dell’América latina, al di là della consueta rappresentazione dei grandi media che scelgono immagini e linguaggi solo sulla base dell’impatto “spettacolare” dello scontro di piazza.

Un recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale (FMI) rivela che le classi dominanti, quelle al cui servizio agisce il FMI, si aspettano esplosioni sociali in tutto il mondo in conseguenza della pandemia. Il lavoro Ripercussioni sociali della pandemia, pubblicato a gennaio, afferma che la storia è una guida che permette di aspettarsi esplosioni che mettono in evidenza fratture già esistenti nella società: mancanza di protezione sociale, sfiducia nelle istituzioni, percezione di incompetenza o corruzione dei governi.

Grazie alle sue ingenti risorse, il FMI ha elaborato un indice del malessere sociale basato sull’analisi di milioni di articoli di stampa pubblicati dal 1985 in 130 paesi che esaminano 11mila eventi in grado di causare esplosioni sociali. Questo gli consente di anticipare che entro la metà del 2022 inizierà un’ondata di proteste, che si tenta di prevenire e controllare.

L’importante è che l’organizzazione dice ai governi e al grande capitale che il periodo che si apre nei 14 mesi successivi all’inizio della pandemia può essere pericoloso per i loro interessi e che essi devono farsi trovare preparati, ma aggiunge che cinque anni dopo gli effetti delle esplosioni saranno residuali e non influenzeranno più l’economia.

L’equazione sembra chiara: le classi dominanti si aspettano esplosioni, si preparano ad affrontarle e neutralizzarle, perché per un certo periodo possono destabilizzare il loro dominio.

Un dettaglio: lo studio non cita nemmeno i risultati di possibili elezioni come rischi per il capitale, forse perché al di là di chi vince, sanno che i governi che escono dalle urne non sono mai riusciti a intaccare il potere del capitale.

Noi dei movimenti anticapitalisti dobbiamo prendere buona nota delle previsioni del sistema, in modo da non ripetere errori e evitarci azioni che, nel lungo periodo, ci logorano senza produrre cambiamenti. Propongo dunque di differenziare le esplosioni sociali dalle sollevazioni popolari, per mostrare quelle che non sono utili, i levantamientos (le sollevazioni) possono esserlo qualora siano il frutto di una solida organizzazione collettiva.

Le esplosioni sociali sono reazioni quasi immediate alle ingiustizie e ai torti subiti, come ad esempio i crimini della polizia; generano un’enorme e furiosa energia sociale che però svanisce in pochi giorni. Tra le esplosioni possiamo collocare, per citarne solo una, quella avvenuta a Bogotà, nei tre giorni di settembre dello scorso anno, in occasione dell’omicidio da parte della polizia di un giovane avvocato con nove fratture del cranio.

La repressione ha causato la morte di oltre 10 manifestanti e 500 feriti, circa 70 di essi colpiti da proiettili. La giusta rabbia si concentrò nei Centri di Pronto Intervento, sedi della polizia nelle periferie, 50 delle quali furono distrutte o bruciate. Dopo tre giorni, però, la protesta è svanita e perfino nei quartieri più colpiti dalla violenza statale non è rimasto alcun gruppo organizzato.

Ci sono molti esempi di questo tipo, ma mi interessa sottolineare che gli Stati hanno imparato ad affrontarli. Esaltano la portata della violenza nei media, creano gruppi di studio sulle ingiustizie sociali e tavoli di mediazione per simulare interesse. Possono arrivare persino a sospendere alcuni graduati dai loro compiti per inviarli altrove.

Ciò che accade con maggior frequenza è che i governi ammettano che vi siano ingiustizie, in generale, e che attribuiscano la violenza delle esplosioni alla precarietà del lavoro giovanile e ad altre conseguenze del sistema, senza naturalmente affrontarne le cause profonde.

Il levantamiento, la sollevazione, è qualcosa di diverso. Un gruppo organizzato ne decide l’inizio, traccia gli obiettivi e le modalità, i punti di concentrazione e di ripiego e decide, attraverso un dialogo collettivo, quando deve aver termine. L’esempio migliore è il levantamiento indigeno e popolare dell’ottobre del 2019 in Ecuador. È durato 11 giorni, venne deciso dalle basi della Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador e vi parteciparono sindacati e giovani delle periferie urbane.

La violenza venne contenuta dal servizio d’ordine delle organizzazioni, che impedì anche i saccheggi provocati dagli agenti di polizia infiltrati. Venne deciso di porvi fine in enormi assemblee tenute a Quito, dopo che il governo di Lenín Moreno aveva annullato il pacchetto di misure neoliberiste che avevano causato la mobilitazione. Il parlamento indigeno e dei movimenti sociali creato alcuni giorni dopo fu incaricato di dare continuità al movimento.

Una sollevazione può rafforzare l’organizzazione popolare. In Cile, dove preferiscono dire rivolta e non esplosione della protesta, più di 200 assemblee territoriali sono nate durante le proteste in quasi tutti i quartieri popolari.

L’azione collettiva massiccia e contundente deve rafforzare l’organizzazione, perché è l’unica cosa che può dargli continuità nel tempo lungo. Le classi dominanti hanno imparato già da tempo  a superare le esplosioni, perché sanno che sono effimere. Se ci organizziamo, le cose possono cambiare, ma non raggiungeremo nulla se ci ostiniamo a credere che il sistema cadrà con un solo colpo.

Fonte originale: Estallidos o Levantamientos

Traduzione a cura di camminar domandando

sabato 6 marzo 2021

NON SOLO ZINGARETTI

Il segnale forte,ma che di certo avrà dei retroscena che tra poco saliranno a galla un poco come le cacchette nell'acqua,che Zingaretti ha voluto dare al Pd rassegnando le dimissione da segretario ha sconquassato i dem soprattutto per le gravi accuse dell'anche Presidente della regione Lazio(e forse nuovo candidato sindaco di Roma)che ha accusato i suoi di ricercare in maniera spasmodica le poltrone.
E non è di certo il primo che ha avuto parole pesanti e come dice l'articolo(contropiano il-partito-delle-porte-che-sbattono )ha lasciato la segreteria sbattendo la porta:lo fece per primo Veltroni dopo la fondazione del partito che si riteneva e che forse si ritiene ancora di centro sinistra.
Ed è proprio qui che nasce il peccato originale,un partito che si è sempre detto di centro sinistra ma che sia nei fatti che nelle persone ha da subito perseguito politiche che hanno sempre strizzato l'occhio ai padroni piuttosto che alle classi operaie,che hanno avvantaggiato i privati rispetto al pubblico e che quando hanno tentato d'imbastire discorsi su tematiche almeno progressiste hanno miseramente fallito,risultando dalla parte di Bruxelles e della Nato senza se e senza ma piuttosto che dalla parte del popolo.
E quelli che lo hanno capito fin dal principio sono stati i partiti ed i movimenti de destra o di centro destra che hanno saputo trarre beneficio dalle contradizioni di un partito che ormai era già distante anni luce dal Partito Comunista Italiano e che ormai è un'accozzaglia di democristiani,socialisti invischiati nel malaffare,opportunisti e di altri partiti decaduti della Prima Repubblica.
Qui di seguito un paio di articoli che già prevedevano la fine di Zingaretti e un forte ridimensionamento di tutto il Pd:madn pdilnuovoche-avanzala-fine-che-si avvicina e madn il-funerale-di-zingaretti .

Il partito delle porte che sbattono.

di  Ascanio Celestini *   

Il primo segretario del PD è Valter Veltroni.

Alle prime elezioni che si trova davanti decide lo strappo con la cosiddetta sinistra radicale. Ma è uno strappo nazionale in contraddizione con le romane (in quei giorni amministrava Roma). Così per la capitale si corre tutti insieme, cercando il consenso anche dei centri sociali. 

Gli elettori di sinistra non afferrano il significato di questa dissociazione, ma quelli di destra capiscono benissimo.

Il PD lascia il governo nazionale a Berlusconi e quello romano a Alemanno. Siamo nell’aprile del 2008 e perde su tutto il fronte.

Regge fino alla batosta che prende in Sardegna (febbraio 2009). L’isola abbandona Soru per Forza Italia e Valter si dimette.

Berlusconi commenta dicendo che si è «fatto fuori da solo» e parla di «implosione» nel PD.

I successivi segretari si defilano praticamente tutti.

Tranne Franceschini che fa il ministro in attesa di un grande salto e Orfini che resta come il famoso Moretti di Ecce Bombo, …mi si nota di più se resto e me ne sto in disparte o se me ne vado? Ma intanto insinua che Zingaretti s’è dimesso per fare il sindaco a Roma.

Epifani e Bersani migrano in LeU, Martina scappa in FAO.

Renzi fonda un partito pirata con un manipolo di guastatori.

Dopo 14 anni anche Zingaretti se ne va sbattendo la porta.

Più o meno come tutti gli altri.

Si vergogna del PD, dice che «Non ci si ascolta più».

Ma a quale periodo si riferisce?

Quand’è che qualcuno nel partito era in ascolto se fu proprio Veltroni a andarsene dicendo «basta farsi del male» e aggiungendo che spesso si era «trovato i bastoni tra le ruote»?

 * da Facebook

venerdì 5 marzo 2021

GIANNINI E QUEL PASTICCIO KAZAKO NELL'ARMADIO

Dopo il giro di poltrone che hanno visto avvicendarsi nei ruoli che contano e dovuti al cambio di marcia sperato da Draghi(vedi:madn la-militarizzazione-dellemergenza-covid19 )ecco Lamberto Giannini come nuovo capo della polizia e direttore generale della pubblica sicurezza.
Romano e per anni a capo della digos della capitale ha esperienza almeno nella gestione dell'ordine pubblico in una città che mette a dura prova i nervi anche delle forze del disordine,ha anche fatto da tramite nel rimpatrio di Battisti ed è stato implicato ma senza essere condannato nel caso del dissidente politico kazako  Ablyazov.
Nel senso che in barba a regolamenti assieme alla polizia e alla digos sequestrò la moglie Shalabayeva e la figlia e l'Onu stessa oltre che numerose associazioni per i diritti umani tirarono direttamente le orecchie all'ex capo Giannini,mentre vennero incriminati e condannati Improta e Cortese(vedi:madn servi-di-tutto-e-di-tutti ).
Il caso nel 2013 ebbe un eco mondiale e si voleva sfiduciare l'allora ministro degli interni Alfano graziato dell'intervento dell'allora premier Letta:l'articolo proposto da Contropiano(draghi-nomina-capo-della-polizia-il-dott-giannini )parla di questo e della carriera di Giannini.

Draghi nomina Capo della Polizia il dott. Giannini.

di  Federico Rucco   

Quando è arrivata la notizia che il nuovo Capo della Polizia e “Direttore generale della Pubblica Sicurezza” sarebbe diventato Lamberto Giannini, la reazione spontanea di tanti compagni storici del movimento a Roma è stata: “Praticamente è uno di noi”. Ma per non dare adito a equivoci è bene mettere mano a biografie ben distinte.

Il dott. Giannini è romano, e per molti anni nonostante la giovane età, ha guidato la Digos nella Capitale, ragione per cui in centinaia di manifestazioni ci si è trovati a dover gestire le piazze, ovviamente su sponde diverse.

La gestione dell’ordine pubblico nella Capitale è una rogna immensa per i funzionari di polizia e un laboratorio iperattivo sul piano del conflitto e delle mobilitazioni di piazza. E in questi casi, spesso, conta anche la personalità e la flessibilità dei diversi soggetti, che magari consente di evitare scontri e tensioni quando non necessari.

Inutile dire che quando questo avviene per anni, in momenti facili e in momenti difficili, viene a crearsi quello strano rapporto di interlocuzione tra persone che esula dal ruolo che si è chiamati a svolgere, talvolta anche in ruoli contrapposti. Non solo. Di Giannini è nota la fede romanista, motivo per cui non è difficile incontrarlo alla stadio a sostenere animosamente i giocatori giallorossi. 

Insomma un poliziotto un pò sui generis, con il quale l’incanto delle battute e della reciproca ironia si spezza solo quando, ed eventualmente, dovessero scattare le manette e ognuno torna al ruolo che gli compete.

In molti lo ricordano nelle immagini televisive quando gestì l’arresto e il rientro in Italia di Cesare Battisti, militante dei Proletari Armati per il Comunismo latitante da anni in America Latina.

L’incidente di percorso della carriera del dott. Giannini di cui si ha memoria è il caso Shalabayeva. Ma ne è uscito indenne

Nel 2019 il dott. Giannini è stato convocato come testimone al Tribunale di Perugia nel processo per l’impiccio Shalabyeva, uno degli arresti più maldestri sul filo dell’intrigo internazionale, che ha portato alla condanna a cinque anni all’ex capo della squadra mobile di Roma Renato Cortese, e Maurizio Improta, ex responsabile dell’ufficio immigrazione.

In diversi video dell’imbarazzante irruzione del 2013 in una villetta di Casalpalocco a Roma, compare anche il dott. Giannini, spesso al telefono e in evidente difficoltà nel cercare di inquadrare una operazione nella quale era coinvolta la Digos di Roma, ma che si presentava con contraddizioni e irregolarità che sono poi emerse clamorosamente. Dalla clamorosa vicenda Shalabayeva il dott. Giannini è uscito indenne. Le responsabilità nella maldestra gestione dell’arresto, del sequestro e dell’espulsione sono ricadute infatti su altri due funzionari di polizia come Cortese e Improta. I fatti risalgono al maggio 2013,  con Ministro degli Interni Angiolino Alfano.

Il dott. Giannini è un allievo della “scuola” Gabrielli (adesso tornato ai servizi segreti per conto di Palazzo Chigi). Ragione per cui ha ottime relazioni con i servizi di intelligence, con i Carabinieri e con i terminali istituzionali della filiera dell’ordine pubblico.

E’ quindi un dirigente di polizia perfettamente adeguato ad un ruolo di comando strategico, in un fase in cui controllo e ammortizzazione sociale e potere coercitivo devono essere perfettamente dosati nella gestione di una pesantissima crisi sanitaria e sociale. Insomma il poliziotto giusto per un governo oligarchico come quello di Mario Draghi.

mercoledì 3 marzo 2021

CREMA ED IL GRAVE PROBLEMA DEL VERDE PUBBLICO

A Crema se ne parla da settimane se non da anni facendo riferimento a Via Bacchetta e al tanto discusso taglio di imponenti bagolari(vedi:www.conalpa.it/la-strage-dei-bagolari-in-via-bacchetta-a-crema )della controversa gestione del verde cittadino.
Negli ultimi periodi in molte zone della città si è visto un indiscriminato abbattimento di alberi in alcuni casi anche secolari che ha lasciato perplessi molti concittadini a parte l'amministrazione che dietro l'inderogabile sicurezza dei cittadini ha abbattuto centinaia di piante molte delle quali sane e che però potevano creare ostacolo a parcheggi,a privati,o tanto che ci siamo facciamo tabula rasa.
L'articolo proposto(hwww.cremaonline.it/politica )parla di una presa in giro in quanto si decanta Crema come una città che ha un "verde giovane e ricco" e nel ricordo recente c'è il taglio di numerosi alberi presso il Parco(ormai ex)Bonaldi molti dei quali si vedono sani,46 in totale con ben 40 robinie definite oltre che pericolose anche "infestanti cresciute spontaneamente" e chiunque passi dai Sabbioni ha visto questo spettacolo di orrore passando dal Viale Europa ed entrandovi.
Nel progetto illustrato in Comune ci si è dati tante pacche sulle spalle tra vari assessori e il curatore che come tutti i professionisti può svolgere un eccellente o un disastroso lavoro,propenderei per la seconda ipotesi,promettendo di piantumare molte zone devastate dalla cieca incompetenza e parandosi le chiappe dietro la sicurezza dei cittadini(e poi se un albero ahilui non è alto almeno 10 metri non è "monumentale" quindi non meritevole di cura ed attenzione).
Nell'ultimo caso dei Sabbioni il tutto è avvenuto nel massimo riserbo,da nascundù come si dice qui,e da un giorno all'altro ci si è trovati con quello descritto sopra anche per evitare polemiche come nel caso di Via Bacchetta.
La giunta a maggioranza Pd,il partito contro il consumo del suolo,quello dell'ecologia e dell'ambiente, che forse non sa che parlare di questo senza la lotta di classe è solamente giardinaggio(cit.),sta facendo scempio della città sia in materia di nuove costruzioni che di gestione di ecomostri o di intere aree industriali lasciate abbandonate e altri edifici di importanza strategica che sono senza futuro,chiunque abiti o bazzichi in città sa di cosa parlo.
Oggi che è la giornata mondiale della fauna selvatica creata dall'Onu otto anni fa,il WWF l'ha dedicata all'habitat e alle foreste,al patrimonio silvestre e arboreo mondiale cui penso che pure Crema faccia parte e non troverei strano che personaggi citati nell'articolo nelle bacheche dei loro profili social mettano messaggi peace & love riguardo la Terra mentre nel loro piccolo contribuiscono a devastarla.
Per concludere recentemente nell'ambito dei Luoghi del cuore Fai(Fondo ambiente italiano)i Giardini pubblici di Crema sono stati votati da centinaia di persone tanto da arrivare all'84° posto su tutto il territorio nazionale,ed il comitato per la difesa dei giardini stessi ha chiesto un incontro con l'amministrazione comunale per la tutela ed il recupero(anche qui ci sono stati molti tagli nel corso degli ultimi tempi)...gli alberi si stanno toccando le radici!

'Il verde di Crema è giovane e ricco': i risultati del primo censimento informatizzato.

Sono 5002 per 110 diverse specie arboree, gli alberi analizzati e censiti attraverso il Censimento informatizzato e verifica delle condizioni fitopatologiche e di stabilità del patrimonio arboreo della città di Crema. Lo strumento, realizzato in conformità alle indicazioni e alle specifiche contenute nei nuovi Criteri ambientali minimi (Cam) per il servizio di gestione del verde pubblico, è stato elaborato dallo studio Arboricoltura per conto della società L’Ulivo e presentato oggi in conferenza stampa. Secondo quanto emerso dal lavoro, iniziato nel 2018, sono 238 gli alberi da abbattere, 428 quelli da monitorare, 3704 in buona salute, 632 quelli da definire.

Alberi abbattuti

“Il patrimonio arboreo della città di Crema è costituito per lo più da piante giovani” spiega il curatore del progetto Andrea Pellegatta, presidente della Società italiana di Arboricultura. “Quanto agli alberi abbattuti o da abbattere si tratta per lo più di piante secche o gravemente deperite (215), solo 23 destano in condizioni precarie di stabilità. A questa conclusione si è giunti mediante indagini strumentali che rendono oggettiva la valutazione”. Quarantasei degli alberi abbattuti si trovavano presso il parco Bonaldi. “ Erano Robinia pseudoacacia, una specie infestante cresciuta spontaneamente, presentavano funghi e costituivano un vero pericolo”. Il 60 per cento degli alberi abbattuti presenta un'altezza inferiore ai 10 metri “non si tratta di alberi monumentali”.

L'importanza del verde

Sulla base di questi dati, si potrà ora procedere ad una pianificazione degli interventi. “Lo scopo di questo lavoro non è solo quello di etichettare secondo un sistema brevettato gli alberi della città, ma è soprattutto quello di  aiutare nella pianificazione oggettiva degli interventi di cura del verde”. Bisogna anzitutto tenere presente che “il verde non è solo un elemento decorativo, ma una risorsa indispensabile per le città”. Secondo recenti studi “per ogni euro speso per gli alberi tre tornano in termini di benefici”. Resta, dunque, importante focalizzarsi sul rinnovo. “La compensazione non deve essere solo numerica, ma pure valutata su fattori ambientali”.

Pianificare e rinnovare

Sul punto è intervenuto anche l'assessore all'ambiente Matteo Gramignoli: “ da questo enorme lavoro abbiamo imparato molto e continueremo a farlo. Ora sappiamo che, secondo importanti studi, un patrimonio pubblico verde dovrebbe essere sostituito per il tre per cento annuo. Dal mese di marzo cominceremo a ripiantumare 100 alberi in viale Santa Maria (70 alberi) al Parco Bonaldi ed eventualmente anche in via Indipendenza. Quest’autunno sono previsti interventi più diffusi in città”. Focalizzati sull'importanza della pianificazione gli interventi di Cinzia Fontana e Fabio Bergamaschi. Secondo Fontana “oggi pianificare vuol dire promuovere un approccio integrato: tenere assieme la conoscenza, per decidere oggettivamente, con la direzione, intervenire grazie alla mappatura dell’area verde nei prossimi anni in base a quanto già previsto dal Pgt”. Bergamaschi ha elogiato l'utilità di questo nuovo strumento, anche se “le decisioni prese in precedenza non sono state assunte in modo irrazionale”. Agli alberi censiti in questa occasione vanno aggiunti 482 alberi cimiteriali già analizzati con precedente e autonomo censimento: solo sei di questi sono da abbattere.

martedì 2 marzo 2021

LA MILITARIZZAZIONE DELL'EMERGENZA COVID-19

In Italia sta avvenendo un golpe soft dove alcuni vertici militari stanno prendendo posizioni sempre più importanti all'interno dello Stato oppure è un brutto sogno che il buon Draghi ha inculcato nell'inconscio(almeno nel mio)?
Le nomine ai servizi segreti di Gabrielli,un ritorno alla guida della protezione civile del suo fido Curcio e di Figliuolo a Commissario straordinario per l'emergenza pandemica sono tre nomi che vanno a sostituire persone in incarichi di una certa rilevanza sia strategica che operativa sia sul territorio nazionale che estero.
Nei casi di Curcio e Figliuolo non entro per ora in merito al loro operato in quanto hanno comunque delle qualifiche professionali che concorrono alla loro nomina e quel che è certo è che fare peggio dei predecessori(Borrelli e Arcuri)sia umanamente difficile da fare anche impegnandosi.
Poi Gabrielli ora Sottosegretario di Stato alla presidenza del consiglio dei ministri(in sostituzione di Benassi)lo si conosce già da tempo fin da quando era stato prefetto a L'Aquila e Roma e poi capo della polizia,una carriera in crescendo arrivata nei giorni in cui Draghi ha stravolto alcune poltrone importanti.
Nel primo articolo(contropiano un-generale-emergenza-sanitaria-secondo-brutto-segnale-da-draghi )i dubbi condivisi sulla militarizzazione ulteriore dei vertici di chi deve affrontare la pandemia nella speranza di potere avere un cambio di passo sulle vaccinazione strizzando l'occhio alla Nato con una forte presenza militare nei posti strategici un poco come è accaduto in Brasile con Bolsonaro con tutte le nefaste conseguenze.
Nel secondo(left ma-la-soddisfazione-del-repulisti-e-breve )ci si sofferma di più su Arcuri trombato ma ancora con un bello stipendio,un altro della folta schiera dei incapaci italiani(su tutti svetta ancora Bertolaso)che in un anno non ha contribuito a debellare il coronavirus ma nemmeno a limitarne la diffusione,indagato per scandali riguardanti le mascherine,quello del flop Immuni e delle primule,nonché delle vane promesse sui vaccini,non mancherà a nessuno.

Un Generale all’emergenza sanitaria; secondo brutto segnale da Draghi.

di  Sergio Cararo  

L’obiettivo di militarizzare l'”emergenza Covid” e la Protezione Civile non poteva  avverarsi se non con un governo di “unità nazionale”, come quello comandato da Draghi. Tanto è vero che questa scelta è stata salutata con grandi fanfare anche da Salvini e dalla Meloni.

Da adesso sarà il generale Francesco Paolo Figliuolo il nuovo Commissario straordinario per l’emergenza Covid al posto di Domenico Arcuri.

E’ stato direttamente il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, a nominare il Generale di Corpo d’Armata come Commissario all’emergenza rimuovendo e ringraziando Arcuri a nome del Governo “per l’impegno e lo spirito di dedizione con cui ha svolto il compito a lui affidato in un momento di particolare emergenza per il Paese”. 

Questa nomina fa seguito, e “completa”, quella di Fabrizio Curcio – considerato uomo di fiducia dell’ex capo della polizia Gabrielli, alla guida della Protezione Civile, al posto di Angelo Borrelli.

Così dopo aver messo “uno del mestiere” come Gabrielli alla funzione di controllo di Palazzo Chigi sui servizi segreti (funzione per consuetudine istituzionale riservata ad un civile cioè alla politica, ndr), adesso Draghi ha piazzato un militare come commissario straordinario all’emergenza sanitaria.

Il Generale Francesco Paolo Figliuolo, ha ricoperto numerosi incarichi nell’Esercito, sia a livello di interforze che a livello internazionale. In questo secondo ambito è stato Comandante del Contingente militare italiano in Afghanistan, nell’ambito dell’operazione ISAF/Nato e Comandante delle Forze NATO in Kosovo (settembre 2014 – agosto 2015). 

Insomma un alto ufficiale con il pedigree perfetto per rappresentare l’atlantismo rivendicato da Draghi nel suo discorso di insediamento.

Inoltre ha ricoperto anche l’incarico di Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa e dal 7 novembre 2018 è il Comandante Logistico dell’Esercito. Quest’ultimo incarico sembra essere quello che ha spianato la sua nomina a commissario straordinario.

Tale decisione sembra rispondere ai desiderata manifestati anche da alcuni ambienti finanziari – ben linkati con Draghi – che in questi giorni hanno invocato la militarizzazione per far fronte alla pandemia di Covid. “Il Paese è vittima di una direzione politica insicura, sia a livello nazionale che a livello regionale, quando sarebbe necessaria una sorta di “militarizzazione civile” degli italiani, dando a tutti un quadro semplice, comprensibile di cosa non si deve fare”,  ha scritto ad esempio il quotidiano Milano/Finanza.

In realtà il giornale della finanza milanese aveva in mente un esperto di malattie infettive, magari con pieni poteri, ma quando evochi la militarizzazione non puoi sorprenderti se poi ti arriva invece proprio un militare nella cabina di regia.

Questo scenario era stato ben intuito da un osservatore attento come Antonio Mazzeo, le cui considerazioni in merito abbiamo recentemente pubblicato anche sulle pagine del nostro giornale.

Adesso la cabina di comando sulla pandemia non è più nella mani del “manager” dall’eloquenza lenta come Arcuri, ma di un generale con esperienza di guerra (Afghanistan), di conflitti a bassa intensità (Kosovo) ma anche di comando logistico dell’Esercito.

Non è comunque affatto detto che un generale sappia funzionare meglio di un civile. Soprattutto in materia di sanità un po’ tutti ricordano la figura barbina fatta dall’ex generale dei carabinieri Cotticelli nominato commissario straordinario della sanità in Calabria, uno che neanche sapeva di essere il responsabile del piano pandemico in quella regione.

Eravamo poi rimasti con la convinzione che, in alcune occasioni (ma solo in alcune occasioni), il “rosso vincesse sull’esperto”, ossia che la guida politica fosse in grado di padroneggiare la “competenza tecnica”. Ma ora ci troviamo di fronte ad un serio cambio di paradigma: lì dove ci si aspettava la nomina di un competente vero (cioè un sanitario con esperienza di pandemie) è stato invece nominato un generale.

Neanche negli Stati Uniti, ai vertici della FEMA – che è una organizzazione che dispone di pieni poteri durante le emergenze – è mai stato nominato un militare.

Non abbiamo ancora visto all’opera il Gen. Figliuolo sull’emergenza pandemica, per cui è prematuro giudicarlo sui fatti. Diciamo però che dopo la nomina del dott. Gabrielli alla delega sui servizi segreti,  l'”impostazione strategia” mostrata da Draghi anche con questa nomina ha un qualcosa di inquietante.

O siamo noi che la pensiamo male?

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Ma la soddisfazione del repulisti è breve.

di Giulio Cavalli

Siamo ancora in quel momento in cui l’eliminazione delle pedine precedenti viene considerata una vittoria, dove ad esempio le dimissioni forzate di Domenico Arcuri bastano per fare esultare elettori e per infervorare capi di partito che si appuntano la medaglia il merito della cacciata (su Arcuri sono Renzi e Salvini, curioso nevvero?) e dove “basta non vedere più certe facce” per sentirsi già meglio, secondo alcuni. Il governo Draghi è all’inizio della sua opera, sentimentalmente è ancora acerbo e il profumo della vendetta continua a spirare. Però alcuni fatti incontestabili si scorgono.

Innanzitutto in meno di una settimana Mario Draghi ha cambiato le persone apicali a cui è affidata la missione contro la pandemia. Non è una scelta di poco conto, soprattutto in un Paese che piuttosto avrebbe mediato, spacchettato e mischiato le competenze per tenere in bilico assetti nuovi e quelli passati. Di questo gli va dato atto: si è preso la responsabilità di imprimere una svolta (per ora almeno sui nomi e poi naturalmente anche sulle dinamiche) della distribuzione del vaccino e della gestione dell’emergenza. Ieri ha preteso le dimissioni del commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri, prima aveva sostituito il capo della Protezione civile Angelo Borrelli richiamando Francesco Curcio e al coordinamento dei servizi segreti ha messo il capo della polizia Franco Gabrielli, al posto del diplomatico Piero Benassi.

Qualcuno in queste ore ci dice che la dipartita di Arcuri (che per ora cade perfettamente in piedi visto che è e rimane a capo di Invitalia) sarebbe “una vittoria della destra”: falso. Arcuri è, forse sì, uomo molto stretto a Giuseppe Conte ma le osservazioni sul suo operato sono arrivate da più parti. È l’Arcuri che ha fallito su tutta la linea con l’app Immuni, è l’Arcuri dei banchi a rotelle tra l’altro arrivati persino troppo tardi, è l’Arcuri delle costose e inutili primule come centri vaccinali, è l’Arcuri sempre tronfio in conferenza stampa che non rispondeva ai giornalisti o se rispondeva lo faceva con una querela, è l’Arcuri soprattutto che c’entra con l’inchiesta della procura di Roma per traffico di influenze illecito nell’acquisto di 1,25 miliardi di euro in mascherine cinesi intermediato da un giornalista Rai in aspettativa, Mauro Benotti, che ha ottenuto 12 milioni di euro per la mediazione che ha avuto 1282 contatti con Arcuri tra gennaio e maggio 2020. Insomma Arcuri ha molto da spiegare e molto da farsi perdonare e anche su queste pagine ne abbiamo scritto spesso.

Ieri sui social girava una card di pessimo gusto di PiùEuropa (quelli che dovrebbero essere seri) che diceva “ciao #Arcuri” con la scritta “Liberisti da divano te salutant”. Salviniani e renziani hanno esultato sbracciandosi. Siamo ancora nel tempo del rancore. E intanto ci ritroviamo pezzi di esercito a gestire la pandemia, con l’aria di un’idea militarizzante che ricorda tanto ciò che fa Bolsonaro in Brasile. E a nessuno viene il dubbio che per quel compito ci sarebbe, proprio per sua natura, ad esempio anche la Protezione civile. Ma quando finirà la voglia di rottamazione, finalmente, osserveremo e giudicheremo i risultati.

Buon martedì.