martedì 30 settembre 2014

SI MUORE ANCORA DI LAVORO


La notizia risale allo scorso weekend quando esattamente nella tarda serata a cavallo con il sabato due operai cremonesi sono morti a Bonemerse presso la ditta di mangimi Ferraroni sepolti da tonnellate di mais essiccato.
Per ora non vi sarebbero tra cause dell'incidente la mala manutenzione dei silos anche se le immagini che ho visto anche ai telegiornali facevano vedere lamiere,scale e altre strutture metalliche più che arrugginite,ma ci saranno spero accertamenti più approfonditi da parte degli investigatori.
Anche se ultimamente non se ne parla più tanto sui mass media a parte i singoli casi che quotidianamente emergono dal silenzio,pur se diminuite la morte sul posto di lavoro rimane una delle cause di decesso tra le più elevate nelle statistiche di un uomo tra i venti ed i sessant'anni.
Questa volta il fatto che è accaduto vicino ha destato più scalpore e cordoglio verso le famiglie dei due operai morti nell'adempimento del proprio mestiere.
Articolo preso da Repubblica.


Tragedia sul lavoro a Cremona: crolla un silo, due operai muoiono sepolti dal mais


L'incidente all'interno di un'azienda a Bonemerse. I vigili del fuoco sono intervenuti per il crollo della struttura che conteneva 700 chili di mais e hanno trovato i corpi di due uomini di 48 e 54 anni.

Due operai, Francesco Lissignoli (48 anni) e Giuseppe Vezzoli (54), dipendenti della Ferraroni Mangimi di Bonemerse (Cremona), sono morti schiacciati sotto almeno 300 tonnellate di mais fuoriuscito da un silos. Il dramma si è consumato nella tarda serata di venerdì: secondo la ricostruzione dei carabinieri, i due lavoratori erano addetti alla manutenzione dell'essiccatoio e sarebbe stato lo scricchiolio proveniente dalla cima del serbatoio a indurli ad avvicinarsi all'impianto per verificare l'origine del rumore. In un attimo la lamiera del gigantesco cilindro, contenente circa 700 tonnellate di cereali, si è squarciata nella parte superiore e una valanga di mais caldo, perché appena essiccato, si è riversata sui due uomini.

I soccorsi sono stati immediati, ma i vigili del fuoco arrivati da Cremona hanno impiegato un'ora e mezzo per estrarre i copri sepolti sotto le granaglie. I soccorritori si sono armati di pale da neve e hanno compiuto una disperata corsa per spostare la massa di mais, aiutati dagli altri operai accorsi in ditta assieme ai titolari, nella vana speranza di trarre in salvo i due operai. Mezz'ora dopo la mezzanotte, davanti alle due salme, i carabinieri di Sospiro (Cremona) e di Casalmaggiore hanno avvisato il magistrato di turno del tribunale di Cremona, Francesco Messina. L'impianto è stato posto immediatamente sotto sequestro. Occorrerà effettuare una perizia per stabilire le condizioni del silos e accertare eventuali responsabilità.

Francesco Lissignoli, separato e padre di due figli, abitava a Bonemerse. Giuseppe Vezzoli viveva a Stagno Lombardo (Cremona): lascia la moglie e una figlia di 27 anni. Tutta la loro carriera lavorativa si era svolta  nell'azienda di Bonemerse. Il sindaco Oreste Bini ha annunciato il lutto cittadino nel giorno dei funerali. "Questa disgrazia getta nel dolore tutta la comunità - ha commentato -. Siamo vicini alle famiglie delle vittime e alla famiglia Ferraroni, che considera i propri dipendenti come figli. Entrambi erano originari di Bonemerse ed erano molto conosciuti e stimati".

lunedì 29 settembre 2014

70 ANNI DALLA STRAGE DI MARZABOTTO

Oggi ricorre l'anniversario del più terribile e grande come numero di vittime,eccidio perpetrato dai nazisti in Italia supportati dai collaborazionisti fascisti,la strage di Marzabotto in cui perirono 1830 persone tutte civili in quanto di partigiani nella località e negli altri paesini limitrofi nell'Appennino bolognese non ce n'erano.
In quei mesi i nazisti stavano arretrando verso nord sotto la minaccia degli alleati e della lotta partigiana sempre più insistente,e dopo i massacri in Versilia e in Lunigiana cominciarono quelli a ridosso dell'Appennino toscoemiliano in una escalation di orrore e di violenza.
Qui sotto preso dal sito del Centro studi della Resistenza italiana(http://www.storiaxxisecolo.it/DOSSIER/dossier1b.htm )un breve resoconto di quei giorni dove trovarono la morte neonati,bimbi e ragazzi,donne e anziani:vi furono vittime indirette fino a metà degli anni sessanta dovute alle mine piazzate dai tedeschi in fuga(55)e come in molti altri casi la verità è emersa solo dopo decenni ed i carnefici non vennero puniti a dovere.
A piè pagina una riflessione di Giorgio Diritti su quello che è stato Marzabotto raffrontato ai giorni nostri preso da Repubblica.it.

La strage di Marzabotto.

La strage di Marzabotto del 29 settembre 1944 fu la tragica tappa finale di una «marcia della morte» che era iniziata in Versilia. L'esercito alleato indugiava davanti alla Linea Gotica e il maresciallo Albert Kesserling, per proteggersi dall'«incubo» dei partigiani, aveva ordinato di fare «terra bruciata» alle sue spalle.
Kesserling fu il mandante di una strage che nessun'altra superò per dimensioni e per ferocia e che assunse simbolicamente il nome di Marzabotto anche se i paesi colpiti furono molti di più.
L'esecutore si chiamava Walter Reder. Era un maggiore delle SS soprannominato «il monco» perché aveva lasciato l'avambraccio sinistro a Charkov, sul fronte orientale. Kesserling lo aveva scelto perché considerato uno «specialista» in materia.
Al comando del 16° Panzergrenadier «Reichsfuhrer», il «monco» iniziò il 12 agosto una marcia che lo porterà dalla Versilia alla Lunigiana e al Bolognese lasciando dietro di sé una scia insanguinata di tremila corpi straziati: uomini, donne, vecchi e bambini.
In Lunigiana si erano uniti alle SS anche elementi delle Brigate nere di Carrara e, con l'aiuto dei collaborazionisti in camicia nera, Reder continuò a seminare morte. Gragnola, Monzone, Santa Lucia, Vinca: fu un susseguirsi di stragi immotivate. Nella zona non c'erano partigiani: lo dirà anche la sentenza di condanna di Reder: «Non c'erano combattenti. Nei dirupi intorno al paese c'era soltanto povera gente terrorizzata...».
A fine settembre il «monco» si spinse in Emilia ai piedi del monte Sole dove si trovava la brigata partigiana «Stella Rossa». Per tre giorni, a Marzabotto, Grizzana e Vado di Monzuno, Reder compì la più tremenda delle sue rappresaglie. In località Caviglia i nazisti irruppero nella chiesa dove don Ubaldo Marchioni aveva radunato i fedeli per recitare il rosario. Furono tutti sterminati a colpi di mitraglia e bombe a mano.
Nella frazione di Castellano fu uccisa una donna coi suoi sette figli, a Tagliadazza furono fucilati undici donne e otto bambini, a Caprara vennero rastrellati e uccisi 108 abitanti compresa l'intera famiglia di Antonio Tonelli (15 componenti di cui 10 bambini).
A Marzabotto furono anche distrutti 800 appartamenti, una cartiera, un risificio, quindici strade, sette ponti, cinque scuole, undici cimiteri, nove chiese e cinque oratori. Infine, la morte nascosta: prima di andarsene Reder fece disseminare il territorio di mine che continuarono a uccidere fino al 1966 altre 55 persone. Complessivamente, le vittime di Marzabotto, Grizzano e Vado di Monzuno furono 1.830. Fra i caduti, 95 avevano meno di sedici anni, 110 ne avevano meno di dieci, 22 meno di due anni, 8 di un anno e quindici meno di un anno. Il più giovane si chiamava Walter Cardi: era nato da due settimane.
Dopo la liberazione Reder, che era riuscito a raggiungere la Baviera, fu catturato dagli americani. Estradato in Italia fu processato dal Tribunale militare di Bologna nel 1951 e condannato all'ergastolo. Dopo molti anni trascorsi nel penitenziario di Gaeta fu graziato per intercessione del governo austriaco. Morì pochi anni dopo in Austria senza mai essere sfiorato dall'ombra del rimorso.
(in il Resto del Carlino, 12 aprile 2002)

I sopravvissuti
A Marzabotto gli unici sopravvissuti furono due bambini, Fernando Piretti, di otto anni, e Paolo Rossi di sei, e una donna, Antonietta Benni, maestra d'asilo delle Orsoline. Per 33 ore finse di essere stata abbattuta anche lei e quando finalmente potè alzarsi, commentò ad alta voce: «Tutti morti, la mia mamma, la mia zia, la mia nonna Rosina, la mia nonna Giovanna, il mio fratellino... Tutti morti». Anche a Marzabotto alcune SS parlavano un italiano perfetto: erano italiani.

I collaborazionisti italiani
Per i fatti di Marzabotto ci fu anche una coda processuale italiana. Prima della condanna del maggiore Reder, nel 1946, la corte d'assise di Brescia aveva giudicato Lorenzo Mingardi e Giovanni Quadri, due repubblichini (il primo, reggente del Fascio di Marzabotto, nonché commissario prefettizio durante la carneficina), per collaborazione, omicidio, incendio e devastazione. Mingardi ebbe la pena di morte, poi trasformata in ergastolo. Il secondo, 30 anni, poi ridotti a dieci anni e otto mesi. Tutti e due furono successivamente liberati per amnistia.

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Cambia solo la lingua.

Giorgio Diritti.

Quanto è distante Marzabotto?
Settant'anni…?
Settanta miglia prima che lo scafista butti a mare i suoi naviganti "clandestini," settanta giorni di prigionia prima che il combattente rivendichi la gloria di esporre al mondo la morte per decapitazione del suo prigioniero inerme, settanta bombe, settanta razzi prima che una, due, tre cadano sulla scuola, nel mercato, prima di vedere i brandelli di sangue come a Casaglia o Cerpiano. È molto vicina la stage di Marzabotto, ha cambiato lingua, territorio, ma poco altro nello scempio di vita altrui che certi uomini continuano a fare.
Nello scempio di un società evoluta dove la ricchezza si fonda anche sul mercato delle armi, sullo sfruttamento dei simili, sulla schiavitù, e dove il confine dello spettacolo televisivo mischia ogni sera la realtà drammatica e violenta a quella effimera della pubblicità. Il pianto cammina ancora sui sentieri di Monte Sole nell'animo di chi c'era o di chi ha ascoltato la voce di chi c'era. Credo sia fondamentale nella vita un giorno andare lì.
La memoria è il più importante patrimonio da difendere.
E forse un giorno, finalmente, il progresso non sarà solo un nuovo oggetto tecnologico ma il bene per l'umanità.


(L'autore nel 2009 ha diretto il film "L'uomo che verrà" sulla strage di Marzabotto).

domenica 28 settembre 2014

LE DONNE SPAGNOLE VINCONO:GALLARDON A CASA

L'ormai ex ministro della giustizia Alberto Ruiz-Gallardon ha rassegnato le dimissioni nelle mani del premier Rajoy dopo che il suo criticatissimo decreto di legge di chiaro stampo medievale contro l'aborto in terra di Spagna è stato affossato per l'ennesima volta.
Facendo riferimento all'articolo preso da Senza Soste e anche da qui(http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/search?q=spagna+aborto )si può dimostrare chiaramente che il lavoro infame di questo personaggio del partito popolare già presidente della comunità madrilena ed ex sindaco di Madrid era stato incentrato su un fondamentale odio verso le donne in salsa clericomachista che ha provocato numerose prese di posizione non solo dai movimenti femministi ma di tutte le persone con un cervello abitanti nei confini iberici.
Come si può leggere nelle prime righe del contributo Gallardon è un ricettacolo di abomini politici sociali ed amministrativi che ne hanno segnato la pluridecennale carriera,e a dirla così com'è non avrebbe certo sfigurato nel Parlamento italiano di oggi.

Spagna, hanno vinto le donne .
 di Justa Montero* - tratto da http://www.communianet.org
L’ex ministro della giustizia non si è stancato di ripetere che il disegno di legge di “tutela della vita del nascituro e dei diritti della donna incinta” era il progetto più importante della sua carriera. Ciò che però non si poteva immaginare era il senso che avrebbe acquisito tale affermazione, dal momento che questo progetto ha posto fine alla sua carriera politica.
Una carriera lunga trent’anni, segnata da disastri delle dimensioni dell’astronomico debito che dovranno pagare i cittadini madrilegni per la sua amministrazione (1), dai suoi continui insuccessi olimpici (2), dal taglio alle libertà personali perpetrato con la “ley mordaza” (3) o dall’aver reso la giustizia un lusso per la maggioranza della popolazione. E come ciliegina sulla torta, la sua misoginia ed il suo disprezzo per le donne.
Conviene però non dimenticare che è stato l’intero esecutivo ad approvare, nel dicembre 2013, il disegno di legge sostenuto da Gallardón, così come ad accompagnare congiuntamente il processo durato quasi tre anni, da quando l’ex ministro annunciò le sue intenzioni. In questo lasso di tempo molte donne hanno vissuto una situazione di preoccupazione e timore, a fronte dell’incertezza di ciò che sarebbe potuto accadergli se avessero dovuto abortire; l’indignazione femminista è andata aumentando davanti a tale offensiva patriarcale e man mano che Gallardón concretizzava la sua proposta di legge, fino ad arrivare all’estremo di voler stabilire in quali casi di malformazioni del feto una donna avrebbe potuto abortire e in quali no.
Il totale insuccesso di questo disegno dimostra fino a che punto il Governo e coloro che lo hanno appoggiato, la Conferenza Episcopale in testa, sono lontani dalla società reale, dalla realtà delle donne e dei loro diversi progetti di vita e dalle molteplici forme di pensare e vivere la maternità e la sessualità. Dei cambi profondi ai quali non siamo disposte a rinunciare.
Per questo il tentativo dell'ex ministro di riportarci in dietro ad una situazione del secolo passato, era una battaglia persa in partenza, ma la sua superbia ed il suo profondo conservatorismo patriarcale non gli hanno fatto sospettare che un tale errore l'avrebbe pagato a caro prezzo, ad un prezzo tanto alto come lo scompiglio che oggi è visibile tra le sue fila.
Un prezzo ancora più caro lo pagherà il Governo se cercherà di utilizzare le donne come moneta di scambio per accontentare un settore ultraconservatore impegnato in una perenne crociata contro i diritti sessuali e riproduttivi delle donne o, cambiando un po' la visuale, strumentalizzando il nostro corpo ed i nostri diritti per risalire i sondaggi in prossimità delle elezioni.
La cerimonia di addio di Gallardón ha avuto come contraltare i festeggiamenti di migliaia di donne in tutti gli angoli dello Stato spagnolo e il suo aspetto depresso e sconfitto era l'altra faccia della medaglia dell'allegria di coloro che avevano avuto fiducia nel trionfo delle ragioni femministe e nella mobilitazione. Perché il ritiro del disegno di legge è una prima vittoria del movimento femminista, che ha dato impulso ad un profondo cambiamento nella nostra società, un vittoria che è il risultato delle mobilitazioni che si sono frapposte costantemente, alcune volte in modo più visibile, altre volte meno, altre ancora con grandi manifestazioni, con azioni provocatorie, con “escraches” (4), sit-in, occupazioni di centri di salute, di chiese, disturbando anche le sedute del Parlamento, con centinaia di iniziative da parte dei diversi gruppi femministi.
Una mobilitazione accompagnata da altre mobilitazioni, tra le quali quella degli operatori sanitari, in definitiva un'importante mobilitazione cittadina. E sempre con l'intento di spiegare che quando reclamiamo “Aborto libero, sono le donne a decidere”, si esige la sovranità sui nostri corpi, che è l'ultima cosa che si può strappare ad una persona e che quando difendiamo il nostro diritto a decidere, affermiamo la nostra condizione di soggetti di diritto, una rivendicazione femminista di giustizia sociale e democrazia reale.
Domenica 28 settembre, giornata internazionale per la depenalizzazione dell'aborto, in molte città ci saranno manifestazioni convocate dal movimento femminista. Sarà un'occasione magnifica per ritrovarci tutte e tutti e festeggiare, per dimostrare che “sì, se puede”.
E' stato possibile con Gallardón e sarà possibile con il Governo bloccare alcuni dei piani che il presidente Rajoy si è affrettato ad anticipare: nuove tagli alla capacità decisionale delle donne giovani e un “piano di protezione per la famiglia”, essendo chiaro che si tratta della “sua” famiglia radioattiva (per il suo carattere nucleare). Tutto ciò se non decidono di accelerare la decisione della Corte Costituzionale sul ricorso presentato contro la legge attualmente in vigore. Una legge che effettivamente richiede modificazioni, ma in una direzione radicalmente opposta a quanto proposto dal Governo, per ottenere che l'aborto venga escluso dal codice penale e si normalizzi come prestazione sanitaria pubblica.
Domenica prossima, doppiamente festiva, sarà anche l'occasione per rivendicare i diritti sessuali e riproduttivi, tra gli altri il diritto delle lesbiche ad accedere alla riproduzione assistita, perché tutte le donne migranti abbiano la tesserà della previdenza sociale, perché torni l'educazione sessuale nelle scuole, perché si rispetti l'autonomia e l'identità sessuale di tutte le persone.
La storia dà ragione alla nostra determinazione nel non cedere davanti a niente e a nessuno nella difesa del diritto a decidere sulla nostra vita e a rivendicare i diritti per tutte, però tutte, tutte, tutte le donne.
* Da Publico.es Traduzione di Marco Pettenella
Note:
(1) Alberto Ruiz Gallardón Jiménez tra il 1995 ed il 2011 è stato prima presidente della provincia di Madrid e poi sindaco della capitale [N.d.t.]
(2) Più volte ha cercato di far assegnare i giochi olimpici a Madrid [N.d.t.]
(3) http://www.communianet.org/content/il-codice-gallard%C3%B3n-trasforma-ne...
(4) Nome latinoamericano dato a quelle manifestazioni nelle quali un gruppo di attivisti si dirige
26 settembre 2014

sabato 27 settembre 2014

EQUO E SOLIDALE?

Appena ho letto qualche tempo addietro questo articolo tratto da Q Code Mag di Raffaele Masto(http://www.qcodemag.it/2014/09/21/equo-e-solidale-sotto-accusa/ )ho pensato a qualche commento negativo verso poche società senza scopo di lucro che sono nate attorno al giusto tema dell'equo e solidale.
Invece scopro che molte realtà perseguono tutt'altro di quello che reclamizzano tramite gli slogan del futuro sostenibile,dei commerci giusti e dell'economia che premia il produttore in zone disagiate:come evidenziato qui sotto in molti casi il guadagno netto del lavoratore è più basso di quello delle normali società di import-export anche se non si fa riferimento al trattamento ed alle condizioni di lavoro.
Inoltre la piaga del lavoro minorile,e non si parla certamente di quindicenni ma di bimbi di sei anni,che già è difficile da contrastare per mille motivi,in questo contesto sembra che sia ancora di massima importanza anche per quel che riguarda il brand dell'equo e solidale.
Di sicuro bisogna fare chiarezza,e le parole del Fairtrade International criticano fortemente il rapporto stilato in Africa di un organismo del dipartimento per lo sviluppo internazionale del governo britannico,il fair trade employment and poverty reduction.

Equo e solidale sotto accusa.
Uno studio realizzato in Africa Dal Fair Trade Employment and Poverty Reduction fa crollare infatti le certezze che un marchio così affidabile offriva agli acquirenti
Verrebbe da dire che non c’è più religione: adesso anche il commercio equo e solidale è finito sotto accusa, colpevole di non rispettare la sua “mission”, cioè garantire, a chi acquista prodotti etici, che ai produttori africani siano stati garantiti compensi adeguati, condizioni di lavoro dignitose e tutela del territorio.



Uno studio realizzato in Africa Dal Fair Trade Employment and Poverty Reduction, un organismo del Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale del governo britannico, fa crollare infatti le certezze che un marchio così affidabile offriva agli acquirenti.



La Rivista “Africa” che ha pubblicato un lungo articolo sulle conclusioni di questo studio ne riporta alcuni stralci: “I compensi ricevuti dagli agricoltori che vendono prodotti certificati sono spesso più bassi di coloro che hanno a che fare con le società di Import-Export tradizionali”.
Parole che pesano come macigni e che Christopher Cramer, uno dei curatori del rapporto, docente di economia all’Università di studi orientali e africani di Londra, conferma: “In molti casi siamo giunti alla conclusione che il commercio equo e solidale non si è rivelato un efficace meccanismo per migliorare la qualità della vita dei contadini poveri”.


I ricercatori poi toccano un argomento ancora più sensibile, quello del lavoro minorile: “un numero molto significativo di giovani, bambini in età scolare, è stato costretto ad abbandonare la scuola per lavorare nei campi”.



La rivista “Africa” pubblica anche la reazione a caldo del principale ente certificatore dei prodotti equo e solidali: “Le conclusioni del rapporto sono ingiuste e superficiali” – scrive Fairtrade International – “i ricercatori hanno commesso l’errore di confrontare tra loro piantagioni di dimensioni industriali con vivai di dimensioni contenute, gestiti da piccole cooperative di contadini. Di conseguenza i risultati sono distorti e le dichiarazioni rese da alcuni produttori sono state strumentalizzate”.

La vicenda resta aperta, ma il fatto che sia stata sollevata risulta già inquietante in sé. Se anche il commercio equo e solidale è finito sotto accusa, il mercato, quello spietato che tante volte accusiamo, per contrasto, diventa più accettabile.

venerdì 26 settembre 2014

AUTUNNO FREDDO

Tutti gli effetti del benservito di Renzi a Camusso
La data di avvicinamento della discussione in Parlamento del famigerato(per i lavoratori),job act,si sta avvicinando sempre più e la confusione e la voglia di fare lo sgambetto fatale alla classe operaia da parte dei sindacati confederali è sempre più alta.
Tra dichiarazioni bellicose con proclami di scioperi più che altro minacciati che detti con una certezza d'intenti,dimissioni e incontri-scontri,Renzi che va dritto per la sua meta senza dar retta a nessuno nonostante l'ennesimo tentativo di sottomissione della Camusso,il discorso dei diritti(sempre meno)e i doveri(all'opposto sempre maggiori)dei lavoratori passa obbligatoriamente per l'articolo 18,un vero e proprio tabù per le parte in questione.
L'articolo preso da Senza Soste ha già qualche giorno,e come detto sopra le cose cambiano ora dopo ora ma si tratta comunque di dettagli,perché la certezza sempre più imminente è la sconfitta del lavoratore in favore al padrone,senza nemmeno che i sindacati lottino molto...a questo punto il futuro è nelle mani di tutti noi ed il tempo a disposizione sta scadendo.Autunno caldo?

Renzi-Cgil: sempre i soliti, sempre più noiosi, sempre più pericolosi .


Per chi è abituato a seguire la politica sindacale è difficile trattenere lo sbadiglio, anche nella consapevolezza della gravità della situazione, di fronte alle esternazioni del Presidente del Consiglio sull’articolo 18. Le frasi, sul presunto desiderio di tutela dei non garantiti da parte del governo, sono le stesse di D’Alema, segretario del Pds prima, Presidente del Consiglio poi, di un quindicennio fa. Di qui si capisce che tra il rottamatore e il rottamato, la differenza sta solo nel ruolo.
Poi c’è il comportamento della Cgil che, come al solito, fa capire che il problema non è smantellare i diritti ma il ruolo del sindacato, e dei suoi vertici, nello smantellamento. Quindici anni fa D’Alema aveva di fronte un principe della svendita dei diritti: Sergio Cofferati. Non seppe dirgli le parole giuste per convogliare a smantellamento. Eppure Cofferati, appena 5 anni prima aveva portato a compimento quella disgraziata riforma delle pensioni che, prima o poi, sarà ben maledetta dagli italiani. Oggi è diverso. Renzi ha di fronte Susanna Camusso, la regina delle svendite, non del mercatone ma dei diritti sindacali, ma sembra tornargli inutile. La segretaria della Cgil ha persino accorciato il rito della disponibilità sindacale alla trattativa che prelude allo smantellamento.
In passato la fase del confronto, anche serrato, doveva maturare, anche in piazza, prima di mettere governo e sindacati al tavolo della restrizione del salario e dei diritti. Oggi la Camusso, dopo un soporifero scambio di battute con Renzi, si è già detta disposta a discutere. La fase del conflitto che prelude all’accordo, antico rito sindacale che serviva per canalizzare e domare forze sociali realmente effervescenti, sembra oggi essersi ristretta ad uno scambio di tweet tra Presidenza del Consiglio e Cgil.
Gli scioperi, se avverranno, saranno così senza pathos, nella comune consapevolezza tra governo e Cgil, che si dovrà massacrare i lavoratori in nome di “impegni con l’Europa” di cui persino i massacratori hanno perso il senso. Eppure si ha l’impressione che alla fine entrambe le parti rimarranno insoddisfatte. Nonostante la rinnovata stagione di svendita dei diritti magari celebrata da Bonanni, consueto banchettatore sulle spoglie del reddito altrui, rimarrà comunque insoddisfatta la controparte sindacale. La stagione dell’estinzione del sindacalismo confederale, di questo passo, non sembra infatti lontana. Tra deroghe, eccezioni e blocchi, i contratti di categoria, pubblico impiego compreso, sembrano oggi solo racconti di un tempo lontano piuttosto che strumenti di garanzia per i diritti dei lavoratori.
Si intravede poi la crisi di un importante strumento di autoriproduzione del sindacalismo confederale, le dichiarazioni dei redditi low cost, grazie alla possibile riforma dei Caf. Siccome il lavoro precarizzato rappresenta l’80 per cento delle nuove assunzioni, e persino il consenso dei pensionati latita, non si capisce ormai su quali basi sociali e materiali (vedi deleghe) possa continuare a reggere il sindacato. Per tacere dell’assenza di Cgil-Cisl-Uil dalla miriade di nuovi lavori dove il sindacato non solo non c’è, ma neanche si sa che esiste. La stagione delle svendite autunno-inverno 2014-2015 sembra quindi essere, se non l’ultima, una delle ultime per incipiente esaurimento del materiale da vendere in magazzino. Questo è un problema per la Cgil: è infatti sempre più difficile svendere diritti per tenere in vita l’alto funzionariato sindacale come si è abitualmente fatto. Ma ci saranno difficoltà anche per il governo nonostante Renzi occupi i media (sembra troppo fine dire che è un problema di democrazia ma è così). Sarà un problema comunque vada, in ogni caso, infatti, proprio la famosa base elettorale del 41 per cento è destinata a restringersi. Si parla proprio del lavoro dipendente, quello che surrealmente si aspettava una rivalutazione del salario e dei diritti dal renzismo, il vero portatore di voti a seguito dei famosi e simbolici ottanta euro. Quel lavoro dipendente che sarà colpito in modo chirurgico dal gelataio lisergico-liberista di Palazzo Chigi.
Ma ciò che rende disperato il governo Renzi, ancora più delle mummie sindacali oggi a corto di ossigeno per le bende, è il "conto della serva" della situazione economico-finanziaria. La gabbia Bce-Fmi-Ue, che cerca di regolare le esigenze di un capitalismo europeo a moneta forte e salari deboli, non lascia scampo all’Italia. Forte avanzo primario di bilancio, quindi tagli alla spesa sociale, in caso di crisi di liquidità sui mercati (già le vendite Bot-Btp non sono andate benissimo e l’unione bancaria comporterà problemi al paese); attenzione al rischio bolla finanziaria e quindi massimo rispetto del fiscal compact sul debito pubblico; deflazione salariale per vendere merci italiane all’estero nonostante una moneta forte (l’Euro). Questi sono i dikat, in fondo quelli di sempre, che la governance economico-finanziaria dell’Europa, e non solo visto che c’è il Fmi di mezzo, ha dato al governo Renzi. Non solo le dichiarazioni di Draghi, o le raccomandazioni di Bruxelles a Padoan, ma anche il recente report del Fmi parlano chiaro. Quindi Renzi sta provando l’affondo all’articolo 18 per non farsi commissariare come se fosse un premier greco. Perché è vero che le raccomandazioni della governance sono sempre le solite, ma è anche vero, come è accaduto per Monti, che, visto il rallentamento dell'economia globale e il rischio bolle finanziarie, questa è stagione di pedanteria nell’esecuzione delle direttive non di libera interpretazione. Se poi questo avverrà tramite l’accordo con la Cgil, come è accaduto sostanzialmente con Monti (che si è ritrovato contro, non a caso, un pugno di scioperi indetti blandamente) lo si capirà nelle prossime settimane. Se avverrà sacrificando il rapporto Pd-sindacato, probabilmente nell’indifferenza dei molti e con il gossip dei media bisognosi di gonfiare le “imprese” di Renzi, si capirà abbastanza presto.
Quando cominciarono le grandi stagioni di svendite dei diritti sindacali, 30 anni fa con il decreto che raffreddava la scala mobile, la natura della sinistra istituzionale e sindacale era evidente. Presidiava la lenta dismissione dei diritti in attesa di una “ripresa” che non sarebbe mai arrivata. Oltre ad essere, dopo gli anni ‘70, una nuova destra che parla un linguaggio politicamente corretto, la sinistra istituzionale e sindacale manca infatti di comprensione dei processi di evoluzione del capitalismo globale dall’inizio degli anni ’80. Contribuendo così non solo al declino di una classe, ma di un intero paese. Come compenso però, per le fasi di dismissione, poteva progredire la carriera politica e sindacale di tutti i protagonisti di quelle dismissioni stesse. Dopo il raffreddamento della scala mobile si è quindi arrivati, negli anni ’90, alla sua abolizione. Poi si è finito di ingabbiare la struttura del salario, si sono tagliate le pensioni, si è introdotto il precariato di massa. E tutti i protagonisti di queste stagioni hanno esteso, fino all’inverosimile, i propri benefici di carriera. Quando si dice crescita delle reti di potere a detrimento della popolazione: qui un Robert Michels del XXI secolo ci scriverebbe fior di testi. Basti pensare a gente come Cesare Damiano, liquidatore della scala mobile nel ’92 e dei diritti dei lavoratori immolati nell’accordo di luglio ’93 come segretario Fiom, che secondo Repubblica o Sky sarebbe un "falco". Di quelli tesi a difendere un mondo di diritti, insomma. Damiano è invece diventato ministro proprio in virtù della sua fedeltà alla politica dei tagli di stipendio e di diritti. Ministro del Lavoro di un governo, il Prodi 2 o "governo di tutte le sinistre", che imboccò ciecamente la strada indicata dal Fmi, quella del disastro, giusto quando stava lievitando la crisi poi scoppiata coi subprime. Ecco chi è tutta quella generazione di “riformisti”. O lo stesso Bersani, responsabile del saccheggio liberista del paese tramite il governo Monti e l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione (un assurdo economico che ha liquefatto la Costituzione del ’48).
Lo scontro Renzi vs. Bersani o Damiano (o Cuperlo che li rappresenta) sull’articolo 18 non è quindi quello tra presunti innovatori e improvvisati garantisti come quello di 30 anni fa sul raffreddamento della scala mobile. Scontro che, per il futuro dell’allora sinistra istituzionale, un senso, seppure di destra, ce l’aveva. Oggi lo scontro reale è tra chi interpreta meglio le feroci direttive della governance continentale. O sul fatto se il sindacato possa essere giudicato o meno interprete di queste direttive (di destra, antisociali ed impoverenti). Per cui se i media in questi giorni appaiono ancora più surreali, riproducendo in modo soporifero gli stessi schemi di scontro simulato di 30 anni fa (riformisti vs. massimalisti, innovatori vs. conservatori) non ci si rende conto che la posta in gioco rende il tutto molto più pericoloso. Infatti la posta in gioco è assegnare il titolo di chi potrà arrogarsi il diritto di continuare ad infierire su questo paese. Sempre che, come dicono gli storici, Cleopatra non ci metta il naso. Ovvero che il paese si rivolti mettendo spalle al muro le destre di questo paese: Renzi e Cgil prima di tutte.
Redazione - 22 settembre 2014

giovedì 25 settembre 2014

BUON COMPLEANNO PRESIDENTE


Nel 1896 e più precisamente proprio nel giorno del venticinque di settembre nacque a Stella in provincia di Savona Alessandro Pertini,noto a tutti come Sandro,il Presidente della Repubblica italiana più amato e stimato fino ad oggi,e fortunatamente ho un suo ricordo diretto da bambino e da ragazzo e non preso dai libri di storia.
Fermamente antifascista e socialista ha pagato con il carcere e l'esilio la sua forte contrapposizione al regime nazifascista organizzando e combattendo tra le file della Resistenza e fu uno dei padri della Costituzione italiana nata dopo la liberazione dagli oppressori fascisti e gli invasori nazisti tedeschi.
Un uomo semplice e saggio,una persona prima di un politico,un uomo prima di essere la più alta carica dello Stato:Pertini ce lo ricordiamo in momenti tragici come la vicenda di Vermicino e del terremoto in Irpinia ed in quelli di gioiosa festa quando l'Italia vinse il campionato del mondo del 1982 in Spagna battendo contro la Germania.
Un uomo tutto d'un pezzo,incorruttibile,onesto,leale e sincero,capace di lottare con le armi vere e con quelle della politica,un socialista vecchio stampo quando l'ideologia di libertà e di uguaglianza era fatta di conquiste giornaliere sul campo e non parole gettate al vento,un esempio per tutti di grandezza e di umiltà.
Articolo preso da:http://www.centropertini.org/biografia.htm .

La vita di Sandro Pertini.

1. Gli anni della gioventù.


Ripercorrere le tappe della vita di Sandro Pertini equivale a leggere un appassionante capitolo di storia del nostro Paese.
Pertini nasce a Stella (Savona) il 25 settembre del 1896. La madre Maria Muzio ebbe cinque figli, Sandro, Gigi, Giuseppe detto Pippo, Eugenio e Marion. Il padre Alberto morì giovane, fu la madre a doversi prendere cura dei figli, dei terreni agricoli e delle cascine ereditate. Con il fratello Eugenio, Sandro frequentò il ginnasio nel collegio dei salesiani di Varazze, dei quali diceva: "Mi hanno insegnato ad amare i poveri". A Savona tornò per il liceo e là cominciò l'impegno socialista.
Alle lotte dei lavoratori e dei contadini, alla prima guerra mondiale, Pertini partecipò combattendo con coraggio. Fu poi il momento dell'opposizione alla dittatura fascista, dell'esilio, della clandestinità, del carcere, e del confino. Nel 1918 si iscrive al Partito Socialista, schierandosi contro il fascismo subendo di conseguenza numerose aggressioni squadristiche.
Pertini è uno dei pochissimi italiani che non si sono mai piegati al compromesso, mentre milioni di persone accettavano supinamente la retorica di una dittatura antidemocratica, Pertini ancora giovanissimo e senza esperienza politica, si mantenne uomo sempre capace di pensare con la propria testa.
Il suo carattere indipendente non solo lo pose in contrasto con il potere fascista ma ne fece spesso un personaggio scomodo anche all'interno della sinistra. Con i comunisti Pertini ha spesso litigato, pur riconoscendo il peso che hanno avuto e il prezzo che hanno pagato in quegli anni. In ogni momento della sua vita l'intransigenza di Pertini è stata illuminata da una grande umanità: si è sempre battuto per aiutare, nelle carceri, i compagni ammalati o sottoposti a maltrattamenti. Nel carcere di Turi aiutò anche Antonio Gramsci, riuscendo ad attenuare, almeno in parte, le vessazioni dei carcerieri.
Pertini nel Partito Socialista aderisce alla corrente riformista di Filippo Turati, alla quale resterà sempre fedele. Nel maggio 1919 viene eletto consigliere comunale di Stella. Nel 1921 è eletto delegato al Congresso socialista di Livorno. Nel corso dello scontro ideologico che caratterizzerà quel congresso un gruppo di sinistra deciderà di abbandonare il partito e di fondare il Partito comunista rifacendosi ai principi del marxismo-leninismo e si proclama apertamente rivoluzionario. Pertini resta fedele al socialismo tradizionale riformista che ha in Filippo Turati l'esponente più rappresentativo.
2. Sotto l'oppressione nazi-fascista.

 Lo scontro fra le forze democratiche e quanti pensano di ristabilire la pace sociale con metodi violenti arriva ad una svolta nell'ottobre 1922, al momento della "Marcia su Roma". La mobilitazione fascista offre al re il pretesto per proporre a Mussolini la presidenza del Consiglio: la monarchia e le forze conservatrici si illudono di poter usare Mussolini e le sue squadracce di bastonatori per mettere a tacere i partiti di massa e le organizzazioni sindacali almeno per un breve periodo. Mussolini infatti si impadronirà di tutto il potere e lo terrà per ventun'anni, imponendo al paese un regime dittatoriale che ne travolgerà le fragili strutture democratiche e trascinerà l'Italia in una sanguinosa guerra e ad una memorabile sconfitta militare. Milioni di italiani illudendosi che Mussolini sarebbe stato in grado di risolvere i problemi del Paese, aderiranno al fascismo
Si laurea a Genova in giurisprudenza nel 1923 e a Firenze in scienze politiche nel 1924 presso l'Istituto Cesare Alfieri.
Nel maggio del 1924 il leader socialista Giacomo Matteotti in un suo discorso alla Camera attacca Mussolini e le sue squadre di picchiatori. Viene barbaramente assassinato da un gruppo di fedelissimi del capo del governo. Pertini a Firenze ricorda che quell'orrendo delitto riempì d'indignazione la gente che si staccava dall'occhiello il distintivo fascista e lo gettava via. "Era quello il momento giusto per abbattere Mussolini e il fascismo"dice Pertini "ma si perse tempo e non si concluse nulla".
Il 3 giugno 1925, in risposta al discorso di Mussolini del 3 Gennaio, Pertini pubblica un opuscolo: "Sotto il barbaro dominio fascista" che gli comporta la prima condanna a 8 mesi di carcere. Il 4 dicembre 1926 subisce la seconda condanna, che consiste in 5 anni di confino ma riesce a sottrarsi alla cattura rifugiandosi a Milano presso Carlo Rosselli. Insieme a Parri e Rosselli organizza la fuga in Francia di Filippo Turati suo fedele maestro. "Il 31 ottobre 1926 Sandro Pertini organizza un comizio di operai a Savona: la notte, rientrando a casa, viene aggredito da una squadraccia fascista che lo manganella selvaggiamente, spezzandogli il braccio destro, che gli viene ingessato all'altezza del gomito. Gli squadristi gli danno il bando dalla città di Savona, minacciandolo di morte se lo incontreranno per strada." Pertini si trasferisce a Milano e comincia a frequentare la casa di Carlo Rosselli.
Il 6 novembre 1926 vengono aboliti tutti i passaporti per l'estero, soppressi i giornali d'opposizione, sciolti i partiti politici. Nella stessa seduta il Consiglio dei Ministri affida al Ministro della Giustizia Alfredo Rocco l'incarico di stilare nuove leggi per la sicurezza dello Stato che comprenderanno, fra l'altro, l'istituzione della pena di morte, del Tribunale speciale e del confino di polizia per gli avversari del regime.
Il 9 novembre riapre la Camera dei Deputati: sono assenti i centoventiquattro parlamentari dell'opposizione, dei quali viene approvata, seduta stante, la decadenza dal mandato. Alcuni di essi, tra cui Antonio Gramsci, sono già stati arrestati. Entra anche in funzione l'organizzazione spionistica dell'OVRA, "Opera di vigilanza e di repressione dell'antifascismo" che dà la caccia a uomini e donne considerati nemici del regime. Sandro Pertini, definito dall'OVRA avversario irriducibile, viene subito incluso nella lista, in quanto svolge un'opera diretta ad ostacolare l'azione dei poteri dello Stato.
Il 4 dicembre 1926 la Regia Prefettura di Genova ordina che "l'avvocato Sandro Pertini sia assegnato al confino di polizia per la durata di anni cinque". Pertini sfugge al confino, essendosi rifugiato a Milano: con i fratelli Rosselli sta preparando l'espatrio di Filippo Turati, il vecchio leader socialista che i fascisti tengono sotto stretta sorveglianza a Milano. Pertini racconta "...Dopo le leggi eccezionali l'Italia era diventata un gigantesco carcere e noi dovevamo fare in modo che Filippo Turati, che consideravamo la persona più autorevole dell'antifascismo, potesse recarsi all'estero e da lì condurre la lotta, accusando davanti al mondo intero la dittatura fascista. Fui io a consigliare la fuga per mare con un motoscafo che sarebbe partito dalla mia Savona. Parri e Rosselli temevano che il litorale ligure fosse troppo sorvegliato. Ma io decisi di andare a Savona, in bocca ai miei nemici, e lì incontrai due esperti marinai, Dabove e Oxilia, ai quali va la mia gratitudine: essi mi confermarono che era possibile raggiungere la Corsica con un motoscafo capace di tenere l'alto mare.
L'8 dicembre, eludendo ogni vigilanza, si riesce a condurre Turati nella mia città. Turati rimase nascosto con me a Quiliano, vicino a Savona, in casa di un mio caro amico, Italo Oxilia. Dormivamo nella stessa stanza, Turati soffriva d'insonnia e passava le ore discorrendo con me della triste situazione creata dal fascismo e della necessità della sua partenza, ma anche dello strazio che questa partenza rappresentava per il suo animo.
Si decise di partire il 12 dicembre 1926. Parri, Adriano Olivetti ed io scendemmo in un'insenatura vicino al faro di Vado Ligure per perlustrare la zona. Dabove e Oxilia, i due capitani di mare, accostarono agli scogli con il motoscafo per prenderci a bordo, ma videro una guardia di finanza al molo e decisero di allontanarsi. Decidemmo di tornare a Savona e partire dal Lanternino verde in piena città. La decisione era rischiosa perché quella sera Savona era piena di fascisti che festeggiavano la promozione a capoluogo di provincia. Sul molo del Lanternino verde c'era il ristorante "I pesci vivi": passando con Turati e gli altri compagni, dicemmo ai carabinieri di guardia che andavamo a mangiare il pesce fresco. Quelli ci augurarono "buon appetito". Alle 10 di sera saliamo sul motoscafo e partiamo subito puntando verso la Corsica; il mare è agitato e rovescia onde su onde sulla prua ma il motoscafo è largo di chiatta e tiene bene la rotta. In compenso è piuttosto lento. Ad un certo punto le bussole di bordo impazziscono e noi, regolandoci con le stelle, ordiniamo ai timonieri di puntare sul porto di Calvi, cioè ad ovest, per non correre il rischio, andando verso Bastìa, di prendere terra all'Isola d'Elba, dove saremmo caduti in mano ai fascisti. Sul molo c'erano molti curiosi e parecchi gendarmi francesi avvertiti dall'osservatorio di Capo Corso, che ci aveva già avvistati alle prime luci dell'alba. I gendarmi ci portarono alla Capitaneria di porto, credendoci dei fascisti. Eravamo inzuppati d'acqua e quando il Comandante della Capitaneria chiese chi era il capitano del motoscafo Turati disse: "C'est moi! Filippo Turati". A sentire quel nome i gendarmi cambiarono atteggiamento, manifestandoci grande simpatia e rispetto, e consentirono a Turati di inviare due telegrammi a Painlevè e a Briand, chiedendo asilo politico al Governo Francese.
Il Governo e i socialisti francesi ci diedero subito la loro solidarietà e il benvenuto. Molti giornalisti arrivarono a Calvi da Bastìa e pubblicarono imprudentemente la notizia che Turati era arrivato in Francia con Carlo Rosselli e Ferruccio Parri. Pernottammo a Calvi, Turati voleva indurre Rosselli a restare con noi, a non far ritorno in Italia, ma vane furono le nostre insistenze. Così la mattina dopo il motoscafo ripartiva con Oxilia, Dabove, Boyancè e il giovane meccanico del motoscafo Ameglio. Con essi erano anche Parri e Rosselli. L'addio fu straziante. Ci abbracciammo senza pronunciare parola cercando di trattenere la profonda commozione.
Rosselli toglie il tricolore che avevamo issato a bordo, e lo agita. E' l'estremo saluto della Patria per Turati ed anche per me. Turati con gli occhi pieni di lacrime mi disse: "Io sono vecchio, non tornerò più vivo in Italia". Rimanemmo sul molo finché potemmo vedere i nostri compagni.
La mattina dopo ci imbarcammo sul traghetto per Nizza e di lì proseguimmo per Parigi dove trovammo Nenni, Modigliani, Treves e tanti altri. Turati mi offrì la sua assistenza economica, ma io rifiutai e decisi di guadagnarmi da vivere facendo i lavori più umili".
Ferruccio Parri e Carlo Rosselli vengono arrestati al loro rientro in Italia dalla Corsica, mentre attraccavano al pontile Walton di Marina di Carrara: invano cercano di far credere che stanno rientrando da una gita turistica. Ma le indagini dell'OVRA e della polizia portarono anche all'arresto degli altri complici: il Tribunale di Savona condannò a dieci mesi di carcere Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Dabove e Boyancè. Anche Turati e Pertini vennero condannati a dieci mesi in contumacia per espatrio clandestino.
In Francia Pertini si mantiene facendo il "laveur des taxi" ed in seguito il manovale muratore. Da Parigi si trasferisce a Nizza ma anche in Francia subisce due processi a causa della sua attività politica.
Il 30 novembre 1929 torna clandestinamente in Italia e continua l'azione antifascista, viene conosciuto da un delatore ed arrestato e condannato ad 11 anni di reclusione. Durante la lettura della condanna urla: "VIVA IL SOCIALISMO ABBASSO IL FASCISMO".
Dopo 7 anni di carcere viene inviato al confino prima a Ponza poi a Ventotene.
Tutte le Sue condanne erano relative a reati per idee e azioni antifasciste e giunse a rifiutare la grazia presentata dalla madre per le sue gravi condizioni di salute.
L'ambiente umido, il vitto scarso e la segregazione incidono sullo stato di salute di un uomo forte com'è Pertini. La notizia riesce a filtrare fuori dalle mura del carcere e arriva a Parigi, a Filippo Turati, attraverso due lettere scritte da Carlo Rosselli e da Palmiro Togliatti. Il 3 gennaio del 1930 Carlo Rosselli scrive a Turati: "Ormai mi pare che più che una protesta valga una segnalazione della sorte riservata a questi eroici combattenti per la libertà. Spiegare come una condanna alla segregazione sia una condanna alla pazzia e alla consunzione o alle due cose insieme. Vedi se ti riesce di buttar giù una breve lettera che possa interessare l'estero: Marion (sorella di Pertini) è pronta a tradurla".
Successivamente, il 30 ottobre 1930, Palmiro Togliatti scrive a Turati: "Pertini non sta bene di salute. Il medico del carcere ha chiesto il suo trasferimento in altro carcere. Il direttore del carcere (si chiama Russo) non ha nemmeno inoltrata la richiesta. E' necessario che la cosa venga denunciata. Pertini prega che questa notizia venga comunicata al signor A. Costa, Nizza, rue Gioffredo, 28... La fonte da cui ricevo queste comunicazioni è sicura e diretta. Credo che la denuncia pubblica dovrete farla. La nostra esperienza è che essa serva sempre a qualche cosa (caso Terracini, di cui si è ottenuto l'allontanamento da Santo Stefano; idem per Scoccimarro)".
Le denunce e le proteste provenienti dall'estero inducono le autorità fasciste a far trasferire Pertini in un carcere meno duro, e che ospitava malati anche gravi: il carcere di Turi, in provincia di Bari. Il 10 dicembre 1931 Pertini lascia Santo Stefano e viene imbarcato su un traghetto per Napoli. Pertini ricorda: "Chiesi al maresciallo dei carabinieri che comandava la scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi fece il nome di Turi me ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei incontrato Antonio Gramsci, un uomo che avevo sempre ammirato per il suo coraggio".
"A Turi incontrai Gramsci in un angolo del cortile dove coltivava un'aiuola di fiori; era piccolo di statura e con due gobbe: una davanti ed una di dietro. Mi avvicinai a lui, mi presentai, gli affermai che venivo da Santo Stefano e che ero onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo del lei e lo chiamavo Onorevole Gramsci. Lui si mise a ridere, dicendomi: " Perché mi dai del lei? Siamo antifascisti, vittime del Tribunale speciale tutti e due", "Io gli ricordai che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori". Gramsci disse di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e Gramsci parlò di Turati e Treves in maniera che mi sembrò offensiva ed io risposi con durezza. Il giorno dopo Gramsci si scusò, dicendo che il suo era un giudizio politico, non aveva avuto intenzione di offendere le persone, e capiva la mia reazione in favore di due compagni che si trovavano in Francia.
Da allora diventammo buoni amici. Parlavamo a lungo insieme anche perchè era stato isolato dai suoi. Per certi versi costoro lo consideravano un traditore e chiedevano la sua espulsione dal partito, come poi fecero anche con Camilla Ravera. In cella Gramsci era perseguitato dai carcerieri: credo che l'ordine di non lasciarlo dormire arrivasse direttamente da Roma. Io andai dal direttore del carcere a protestare perché i carcerieri, ogni volta che Gramsci si addormentava, lo svegliavano facendo scorrere sulle sbarre della finestra dei bastoni, con la scusa di controllare che le sbarre non fossero state segate per un'evasione. Dissi al direttore che se la situazione non fosse cambiata, avrei scritto una lettera al ministero. Il risultato fu che Gramsci, già gravemente malato di tubercolosi potè dormire tranquillo. Le mie proteste costrinsero il direttore del carcere di Turi a concedere a Gramsci anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una sedia. Così poterono nascere i quaderni dal carcere. La mia amicizia con Gramsci mi mise in contrasto con il direttore del carcere e forse non fu estraneo al mio trasferimento a Pianosa, all'inizio del 1932. Il regolamento carcerario era assai duro e veniva applicato, specialmente nei confronti dei condannati dal Tribunale speciale, in maniera rigida e fedele.
Il sanatorio giudiziario di Pianosa, dove Pertini fu trasferito all'inizio del 1932, avrebbe dovuto essere un luogo di cura per malati gravi di malattie polmonari. Era in realtà un luogo infernale, diretto da un certo Caddeo, uomo rozzo ed aggressivo, che stabilì subito con Pertini un rapporto di antipatia e di sopruso. La piccola superficie dell'isola di Pianosa è battuta dai venti del mare, e la sua aria ricca di iodio non si addice certo a malati di tubercolosi. Al suo arrivo dal carcere di Turi, Pertini risulta affetto da apicite destra, con elevamento termico costante. Ciononostante il direttore del penitenziario si accanisce contro di lui. Il 28 aprile del 32 Pertini decide di scrivergli in reazione all'offesa della sua dignità di carcerato una lettera dai toni durissimi chiedendo il rispetto della condizione di carcerato e della possibilità di poter avere garantito il collegamento epistolare con la madre. In seguito a questa lettera Pertini viene punito con quindici giorni di cella di segregazione per "ingiurie all'autorità". Intanto le sue condizioni di salute si aggravano e sua madre decide di firmare la domanda di grazia. Pertini immediatamente se ne dissocia.
Stabilimenti Penali di Pianosa
Al Presidente del Tribunale speciale

23 febbraio 1933
"La comunicazione che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore mi umilia profondamente. Non mi associo, quindi, a simile domanda, perchè sento che macchierei la mia fede politica, che più di ogni cosa, della mia stessa vita, mi preme".
Il recluso politico Sandro Pertini.


"Per giustificare il gesto di mia madre, che io ho amato immensamente, devo spiegare com'erano andate le cose. Quando lei era venuta a trovarmi a Regina Coeli, e io ero sotto processo, mi feci promettere che non avrebbe mai compiuto atti di debolezza, e soprattutto non avrebbe presentato domanda di grazia. La povera donna disse di sì. Ma accadde che io, a Pianosa, mi ammalai così gravemente da essere ridotto in fin di vita, e alcuni miei amici di Savona vennero a conoscenza della situazione. Allora andarono da mia madre e la pregarono, la esortarono ad intervenire. Ma mia madre disse: "No, avevo promesso a Sandro di non compiere nessun atto di debolezza, di non fare nessuna domanda di grazia" Ma questi insistettero affermando che il proprio figlio è gravemente ammalato e che lei sola potesse salvarlo. La povera donna fece domanda. E io commisi una crudeltà che ancora adesso mi pesa. Per due mesi non scrissi a mia madre, finché venni a sapere la verità, e allora ripresi la corrispondenza".
"E' giusto dire che non fui il solo a rifiutare la domanda di grazia", ricordando diversi episodi di contadini ed operai che neppure in punto di morte avevano permesso tanto alle proprie famiglie disperate". Pertini sosteneva: "L'uomo che ha una cultura deve più degli altri essere fedele ai principi di libertà, perché se la cultura non crea una coscienza civica, non serve a nulla, è nozionismo, allora tanto vale andare ad un quiz televisivo...Ma spesso a rifiutare la domanda di grazia erano dei quasi analfabeti e questo è veramente da ricordare. Il mio pensiero torna spesso a questi compagni di galera che ricordo con affetto e ammirazione".
Scontati durissimi anni di galera Pertini passa al periodo di confino politico all'Isola di Ponza il 10 settembre 1934. Vi rimarrà sei anni.
Pertini ricorda di aver trovato nell'isola parecchi comunisti: da Terracini a Secchia, Scoccimarro, Camilla Ravera, Giorgio Amendola che non era ancora un dirigente. C'erano quelli di Giustizia e Libertà e alcuni anarchici livornesi. Lui aspettava qualche socialista che non arrivava mai, dichiara: "Io restavo il solo Socialista e mi dispiaceva. Amendola diceva che avevo torto ad arrabbiarmi perché i socialisti erano più furbi dei comunisti e non si lasciavano acciuffare dalla polizia del regime. Per questo non arrivavano, non perché non c'erano".
Pertini ricorda che quando, nel luglio del '36, scoppia in Spagna la guerra civile e Carlo Rosselli lancia un appello a tutti i gruppi di Giustizia e Libertà perché intervengano a fianco del popolo spagnolo, l'eco di quell'appello arriva fra i confinati di Ponza e molti sperano di evadere per poter raggiungere la Spagna. Nei primi mesi del 37 furono introdotte nuove restrizioni per i confinati più pericolosi: non dovevano intrattenersi fra loro e neppure salutarsi per strada. Fu sciolta la mensa collettiva e Pertini infuriato protestò contro la posizione vessatoria:. ne nacque una diatriba che sfociò in un processo. Con le manette ai polsi fu tradotto sul battello Ponza-Napoli scortato da alcuni carabinieri. Al processo il 17 giugno 37 c'è molta gente che simpatizza per Pertini. Il pubblico ministero chiede tre mesi di arresto ma il Tribunale di Napoli assolve Pertini per insufficienza di prove. A Ponza le condizioni di salute di Pertini peggiorano: il dirigente dell'infermeria chiede il ricovero in sanatorio, ma il capo della polizia Bocchini è contrario perché considera Pertini un irriducibile. Pertini è costretto a minacciare lo sciopero della fame a oltranza, e solo allora il direttore di Ponza acconsente a trasferire Pertini, insieme con tutti gli altri confinati, a Ventotene. Pertini e gli altri pericolosi venivano pedinati addirittura alla distanza di un metro: un milite a turno li seguiva continuamente.
L'8 settembre del 1940 Pertini aveva finito di scontare tutte le sue condanne al carcere e al confino. Ma ancora una volta intervenne Mussolini per prolungare di altri cinque anni l'arresto e il confino.
Così recita l'ordinanza della prefettura di Littoria, in data 20 settembre 1940: "Ritenuto che detto Pertini, per i suoi precedenti politici e per la sua attività sovversiva, è pericoloso per la sicurezza pubblica e per l'ordine nazionale dello Stato, si delibera: Pertini Alessandro è riassegnato al confino di polizia per la durata di anni cinque confermandone l'arresto".
Questo vuol dire dittatura! Ma nonostante tutto, le persecuzioni non riescono a piegare la fibra di Pertini che è particolarmente vivace e attivo e cura addirittura la sua eleganza. Camilla Ravera ricorda: "Amichevoli conversazioni e discussioni avvenivano a Ventotene con esponenti di altri partiti e movimenti: Pertini, sempre elegante, cordialissimo e impaziente verso lo svolgersi dei fatti."
Probabilmente è questo il segreto di Pertini: avere sempre la forza di mantenere la propria dignità, anche quando si trova apparentemente isolato e solo contro i potenti e i sopraffattori.
L'11 settembre del 1941 avviene l'incontro con la madre. Pertini afferma : "Per rivedere mia madre accettai di andare a Savona. Rivedevo la mia città dopo tanti anni (era, ricordo, una giornata di sole) di dura separazione. Giunsi al carcere e venni chiuso in una cella. Dopo circa un'ora vennero a prendermi e mi condussero in una stanza dove il capoguardia con alcuni agenti mi aspettava". "Ora" disse "potrete rivedere vostra madre". "Mi sembrò che il cuore cessasse di battere. Essa apparve all'improvviso: piccola vestita di nero, bianchi i capelli e il volto. L'abbracciai. Piangeva, e fra le lacrime andava ripetendo il mio nome. Dovetti fare forza per non dare alle guardie che ci sorvegliavano un segno di debolezza. Ma il cuore mi faceva male, pareva spezzarsi. Parlammo di tutto e di niente, notizie sue e della mia vita di confinato. Il capoguardia interruppe bruscamente il colloquio, vidi mia madre allontanarsi curva. Tornai in cella senza toccare cibo, pensando a mia madre. Al mattino vennero a prendermi, speravo in un nuovo incontro con lei, ma i carabinieri erano venuti a prelevarmi per ricondurmi a Ventotene. Protestai, inutilmente. Alla stazione un gruppo di facchini mi attendeva, si levarono il berretto e, tenendolo in mano, si avvicinarono in silenzio esprimendomi con gli sguardi la loro solidarietà. Il più anziano dei facchini mi prese la valigia "Ci penso io Sandro" disse in dialetto. Il maresciallo lasciava fare. Arriva il treno, due facchini mi aiutano a salire perché ammanettato, mi volto: gli altri sono sempre col berretto in mano, fermi, muti. Il più anziano sistema la valigia, mi mette la mano sulla spalla: "Buona fortuna Sandro, tutti ti salutano". "Si volta bruscamente e si allontana singhiozzando".
L'incontro con la madre lascia in Pertini una profonda traccia di commozione, ma lui reagisce battendosi per la dignità e la salute dei compagni di prigionia. Si accende una vivace polemica con Marcello Guida, zelante funzionario di polizia, che applica con severità i regolamenti di per sé già duri. Pertini scrive un esposto al ministero dell'Interno che chiede notizie allo stesso Guida che definisce Pertini protagonista e non vittima della situazione come vorrebbe far credere. Il 12 dicembre 1969 dopo la strage di Piazza Fontana, Pertini Presidente della Camera dei deputati, andò a Milano, incontrò l'allora questore Marcello Guida, ma rifiutò di stringergli la mano, ricordando il suo comportamento come direttore a Ventotene negli anni del fascismo. A quanti oggi non stringerebbe le mani?
3. La resistenza.

La mattina del 26 luglio 1943 Pertini mentre stava passeggiando lungo i cameroni dei confinati notò la costernazione dei militi in camicia nera. "Erano le otto, udimmo scandire il segnale orario, un breve silenzio e poi la lettura di un comunicato: "Sua maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro, segretario di Stato, presentato da S.E. il cavalier Benito Mussolini.". Applaudimmo e ritornammo verso i cameroni. Strano quello che accadeva in noi: erano venti anni in esilio, in carcere, al confino, che attendevamo la caduta del fascismo e adesso l'accoglievamo senza alcuna manifestazione di esultanza.
Pensavamo alla responsabilità che sarebbe pesata sulla classe dirigente, su di noi, all'eredità fallimentare lasciata dal fascismo. Costituimmo un comitato che prendesse in mano la colonia dei confinati composta da circa ottocentocinquanta persone, ci recammo dal commissario Guida, pallido in volto. Notai che il ritratto di Mussolini era sparito, c'era ancora quello del re. Pensò che fossimo andati per arrestarlo ma ci limitammo a presentare alcune richieste fra le quali la gestione della colonia da parte del Comitato, la cessazione del pedinamento, l'eliminazione della camicia nera da parte delle milizia. Il direttore della colonia doveva intervenire presso il Ministero degli Interni perché si provvedesse al più presto alla liberazione di tutti i confinati politici".
Successivamente dall'isola di Ventotene Pertini scrive a Badoglio un telegramma chiedendo l'immediata liberazione dei confinati.
Un mattino d'agosto il commissario Guida informa Pertini che era finalmente libero. Solo lui. A quel punto Pertini rifiuta di lasciare l'isola finché non saranno liberati tutti i confinati. Ma molti compagni del comitato insistono affinché Pertini si rechi a Roma a sollecitare Badoglio per far liberare anche gli altri.
"A Roma insieme con Bruno Buozzi, andiamo tutti i giorni dal capo della polizia, Carmine Senise, e infine riusciamo a ottenere la liberazione dei confinati". Poi parto per Stella a salutare mia madre. Mi fermai a casa sua tre giorni e poi tornai a Roma. Fu quella l'ultima volta che la vidi".
Con Saragat, appena arrivato dalla Francia, Nenni e Pertini danno vita al primo esecutivo del Partito Socialista. Il 30 agosto del 43 si crea un comitato interpartitico composto da Riccardo Bauer (Partito D'Azione), Luigi Longo (Partito Comunista), Sandro Pertini (Partito Socialista ). Pertini progetta la costituzione di una forza armata antitedesca. Il 10 settembre 1943 Pertini guida i gruppi di resistenza a Porta San Paolo, tentando di contrastare l' ingresso nella capitale delle truppe tedesche, combattendo a fianco di granatieri e usando come proiettili anche cubetti di porfido. Si guadagna in questi giorni la medaglia d'oro al valor militare . L'8 settembre 1943 si pone alla testa degli ardimentosi civili che a fianco ai soldati dell'esercito regolare contrastarono tenacemente l'ingresso delle truppe tedesche nella capitale.
Conduce vita clandestina come gli altri militanti delle organizzazioni della Resistenza, assume i nomi di Nicola Durano e Mario Clerici. Quando Togliatti, sbarcato a Napoli proveniente dall'URSS, aderisce alla formazione di un governo di unità nazionale, formato da tutti i partiti antifascisti, compreso il Monarchico ed escluso il partito d'Azione, Pertini si ribella. Non accetta quella scelta che considera traditrice degli ideali per i quali avevano tanto sofferto centinaia di patrioti nelle carceri e al confino. La Collaborazione con la Monarchia voleva dire rifare la verginità alla Monarchia. Gli avvenimenti incalzano e l'occupazione tedesca ripropone un clima di terrore. Pertini e Saragat sono arrestati .
Pertini viene interrogato in questura dal capo della polizia Bernasconi che gli chiede l'indirizzo di Nenni e degli altri compagni, ma, a costo di farsi fucilare non dice nulla. Viene fatto rinchiudere a Regina Coeli. Rimarrà con Saragat nel sesto braccio, quello dei politici, fino al 15 novembre, poi entrambi saranno condannati a morte e trasferiti al terzo braccio in una cella con quattro ufficiali badogliani. Intanto il comitato interpartitico decide di sottrarli ai tedeschi lasciando operare l'organizzazione militare clandestina del Partito Socialista. Le SS li detengono in attesa di fucilarli con altri cinque detenuti a disposizione della giustizia italiana. Si muovono in clandestinità Vassalli, Giannini, Lupis, Gracceva, Maiorca, i coniugi Alfredo e Marcella Monaco. I primi due sono stati giudici al tribunale militare di Roma fino all'8 settembre. Dispongono di carta intestata e di timbri sottratti al tribunale prima di darsi alla macchia. Lupis è un giovane avvocato che , grazie alla professione, può frequentare il carcere.
Gracceva e Vassalli sono comandanti di formazioni combattenti partigiane. Maiorca, socialista, è tenente presso l'ufficio di polizia dove i detenuti debbono passare per legge dopo la scarcerazione per un controllo dei documenti . Alfredo Monaco è medico a Regina Coeli e sua moglie può predisporre il nascondiglio in cui alloggiare i fuggiaschi. Il 14 gennaio, allorché arriva l'ordine di scarcerazione, falso ma perfetto nella forma, i tedeschi si apprestano a liberare i detenuti ma il direttore del carcere , poiché sono le 18.30 e mancano pochi minuti al coprifuoco , vorrebbe scarcerarli l'indomani.
Il complotto potrebbe essere scoperto e allora Lupis esce dal carcere, corre in una vicina caserma di polizia, a Trastevere e, fingendosi funzionario della questura sollecita il rilascio. Durante una riunione dell'esecutivo del PSIUP (Partito Socialista italiano di unità proletaria) si decide di lasciare andare Pertini, il quale ha chiesto di recarsi al nord. Raggiunge Milano nel maggio del 1944 sull'auto di un amico .
Viaggia in tutto il settentrione e con Guido Mazzali consolida l'organizzazione della stampa clandestina socialista . Milano è teatro degli attentati dei Gap, delle rappresaglie tedesche, come quella di Piazzale Loreto, del Luglio 1944.
In giugno, Roma viene liberata e Nenni lo richiama nella capitale.
Per ritornare e superare la divisione in due dell'Italia Sandro tenta di raggiungere la Corsica partendo da Genova ma non riesce a trovare un motoscafo dopo essere stato lasciato a terra da Edgardo Sogno, il partigiano monarchico che gli aveva dato appuntamento per compiere con lui lo stesso viaggio ma che non l'aveva aspettato. Lasciato solo in Liguria, Pertini rischia di essere facilmente riconosciuto e fugge a Chiavari, poi a La Spezia da dove raggiunge Prato in auto, circondato dai bagliori dei colpi di artiglieria tedesca. A piedi da Prato a Firenze. E' a Firenze con Gaetano Pieraccini , il tempo di prendere parte all' insurrezione della città, l'8 agosto, quando la popolazione scende in piazza, e da una tipografia fa uscire un numero dell' "AVANTI !".
Torna al nord dove la liberazione deve ancora essere compiuta e dove nel CLNAI (Comitato Liberazione Alta Italia) c'è bisogno di un socialista come lui. Con Cerilo Spinelli raggiunge Napoli da dove decolla su un aereo diretto a Lione, da qui a Chamonix, ad affrontare il Monte Bianco dal quale discendere nella Pianura Padana occupata dai nazisti. Fu durante quella leggendaria traversata del Monte Bianco che Pertini imparò a fumare la pipa: gliene aveva regalata una, di marca Rops, una delle guide francesi e un ufficiale inglese aveva aggiunto il tabacco. Da allora è diventato un vero collezionista di pipe e preferisce sempre quelle italiane e il tabacco danese, anche da Presidente della Repubblica, e quelle artistiche di erica ligure di un famoso stilista genovese.
Agli inizi del '45 sposa Carla Voltolina, staffetta partigiana conosciuta a Torino.
Il 29 Marzo 1945 viene costituito un Comitato militare insurrezionale in seno al CLNAI, nel quale vengono designati Leo Valiani per gli azionisti, Sandro Pertini per i Socialisti e Luigi Longo per i Comunisti. Ha lo scopo di dare il via all'insurrezione prima dell'arrivo degli alleati e di occupare le città a mano a mano che i tedeschi si ritirano.
Il 25 aprile, alle ore 14, è predisposta l'insurrezione di Milano. Mussolini viene condannato a morte dal CLNAI, ma riesce a fuggire verso la Valtellina lasciando libera la Prefettura che viene occupata dai partigiani: il nuovo prefetto è Riccardo Lombardi. Il 26 aprile Pertini tiene un comizio in piazza Duomo, accanto al monumento di Vittorio Emanuele II, circondato dai partigiani. Pertini ricorda che nello stesso momento in cui parlava nella Milano liberata, suo fratello Eugenio veniva ucciso e messo in un forno crematorio nel campo di concentramento di Flossemburg.
Poco dopo parla da Radio Milano Libera, e annuncia l'imminente fine della guerra . In una edizione romana dell' Avanti! scrive Pietro Nenni : "Alessandro Pertini negli ultimi anni la sua storia si conforma con quella dell'antifascismo clandestino e ne costituisce una delle pagine più belle. Centinaia di giovani socialisti rispondono al suo appello, si formano alla sua scuola. Questo è l'uomo eloquente, appassionato, nervoso, divorato da un amore smisurato: l'amore per la libertà e per il socialismo".

(Ricerca documentale attraverso <> di Gianni Bisiach Mondadori Editore 1983 pagg. 30/34 e <> Torino Einaudi 1961 pagg. 95/99.)



4. Il dopoguerra.

Di Pertini preme ricordare l'idea di unità della classe lavoratrice: sebbene fosse autonomista convinto.
Vassalli ricorda ancora: "L'animo e la tradizione di Pertini erano tali che Egli non avrebbe mai potuto abbandonare il suo partito".
Lo ricordiamo come Direttore del Lavoro di Genova, Direttore dell'Avanti!, capolista socialista in Liguria per la Camera dei Deputati.
Non volle mai incarichi ministeriali, interpretò attivamente la vita parlamentare divenendo Vice Presidente della Camera e, successivamente, Presidente, per due legislature: dal 5 giugno 1968 al 4 luglio 1976.
A 82 anni, l'8 luglio del 1978 fu eletto a stragrande maggioranza con 832 voti su 995 votanti, Presidente della Repubblica Italiana.
5. Pertini presidente della Repubblica.

Pertini, che fin dai primi anni della Sua presidenza, durante i quali le regole democratiche erano minate dalla corruzione, dal terrorismo, da lobbies affaristiche, lottò senza tregua, come era suo carattere, per il riscatto di tutti, con grande vigore civile, tanto da ottenere anche la piena stima degli avversari politici, per la sua indiscussa rettitudine. In quegli anni divenne caposaldo dell'Italia democratica, un punto di riferimento per i cittadini onesti che videro in Lui un vero interprete dei valori di libertà e di democrazia.
I Suoi sette anni al Quirinale ricostruirono un senso generale di fiducia nelle istituzioni. Egli interpretava la politica come servizio e non come professione, esaltando il primato della politica con coerenza morale di uomo giusto e rispettoso delle idee altrui.
All'indomani della sua elezione a Presidente della Repubblica, l'allora segretario del PCI, Enrico Berlinguer, dichiarava: "Pertini è stato un fiero e intransigente antifascista, valoroso combattente e dirigente della Resistenza e, fin dalla sua giovinezza, ha lottato per la causa dei lavoratori e della loro emancipazione. Con Lui sale per la prima volta al Quirinale un eminente esponente socialista del movimento operaio che ha lavorato sempre per la sua unità. La sua alta moralità lo rende degno rappresentante dell'unità nazionale e supremo garante della Costituzione democratica".
E Galante Garrone: "Le ragioni del compiacimento vanno al di là della politica. Da oggi al Quirinale torna a sventolare, bella come non mai, la bandiera dell'antifascismo e della Resistenza".
Norberto Bobbio ricorda l'interpretazione nobile della politica: "La moralità dell'uomo politico consiste nell'esercitare il potere che gli è stato affidato, al fine di perseguire il bene comune. Non c'è un solo cittadino italiano che non sia fiero di essere stato rappresentato nel nostro Paese e nel mondo da un Uomo che ha interpretato il diritto degli uomini come cosa sacra, sia nell'esercizio del suo incarico istituzionale che sotto il dominio fascista".
Pertini si è fatto sentire dall'alto della Sua autorità di Capo dello Stato per denunciare altri capi di Stato o di Governo che calpestavano i diritti di democrazia e libertà. Norberto Bobbio ricorda l'intervento di Pertini contro il generale Bignone, Presidente della repubblica argentina: "Non mi interessa che altri capi di stato non abbiano sentito il dovere di protestare come ho protestato io. Peggio per loro, ciascuno agisce secondo il suo intimo modo di sentire. Io ho protestato e protesto in nome dei diritti civili e umani, in difesa della memoria di inermi vittime di morte orrenda".
Per Sandro Pertini il socialismo è democrazia e rispetto dei diritti dell'uomo.
"Libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile, l'uno presuppone l'altro: non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà, come non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale. La libertà non integrata da una politica che s'ispiri al principio della giustizia sociale, si risolve spesso nella libertà di morire di fame".
La sua incapacità di resa fu talmente "mostruosa", nel senso latino della parola, cioè prodigiosa, che si è talvolta tentati di crederla generata da un insopportabile orgoglio, amor proprio nel significato preciso di amore di sé; enorme culto della propria personalità, egocentrismo portato alle estreme conseguenze nel vissuto, oltre che a paradossali espressioni e comportamenti di ambiziosa autocoscienza. Ma questa interpretazione cozza contro la inconfutabile, dichiarata fedeltà ad una precisa ideologia di base: che cosa è il socialismo se non altruismo? E l'ideologia della giustizia sociale è cristianamente, senza ombra di dubbio, non egocentrica. Amava i compagni e la sua lotta fu sempre appassionata nell'anelito sociale a un bene comune. Quindi il suo orgoglio smisurato non era che aderenza coerente ad una fedeltà accanita per l'ideale del bene comune.
Per questo non irritava il popolo ma suscitava simpatia, ispirava consensi. Né la giustizia era per lui esclusivamente sociale: rigorosissima inappellabile, fu una virtù, e un vizio che gli fecero prendere gravi decisioni drastiche certo non politiche, impassibilmente coerenti al suo implacabile credo.
Era, senza possibilità di dubbio, un estremista. Forse anche per questo così amante dei giovani, e non solamente per una ottimistica attività preferenziale tesa al futuro. Erano, i giovani, la parte di sé più ardentemente scatenata ad oltranza verso il traguardo, e tentata da una intima insofferenza di regole frenanti. Non faticosamente: spedito nel passo sino alla fine.
Un altro punto fermo di Pertini fu quello della pace fra i popoli. A Strasburgo l'11 giugno 1985 ha ammonito: "La pace non può basarsi a lungo sull'equilibrio del terrore...l'equilibrio è instabile. La pace ha una sostanza che è dialogo, fiducia, distensione, intesa, disarmo e cooperazione in un ordine internazionale legittimato dal consenso".
"L'Italia deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame. Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra. Questa è la strada, la strada della pace che noi dobbiamo seguire".
Un costante pensiero Pertini lo rivolge sempre ai lavoratori e ai giovani: "Bisogna sia assicurato il lavoro ad ogni cittadino, la disoccupazione è un male tremendo che porta anche alla disperazione. Questo, chi vi parla, può dire per personale esperienza acquisita quando in esilio ha dovuto fare l'operaio per vivere onestamente. La disoccupazione giovanile deve soprattutto preoccuparci se non vogliamo che migliaia di giovani, privi di lavoro, diventino degli emarginati nella società, vadano alla deriva e, disperati, si facciano strumenti dei violenti o diventino succubi di corruttori senza scrupoli".
Egli ripeteva che la Sua coscienza di Uomo libero si era formata alla scuola del movimento operaio di Savona e che si era rinvigorita guardando sempre ai luminosi esempi di Filippo Turati, Giacomo Matteotti, Giovanni Amendola, Piero Gobetti, Carlo Rosselli, Don Minzoni, Antonio Gramsci .
Luis Borges ha scritto di Pertini: "L'intima caratteristica di un'anima è qualcosa che sentiamo immediatamente con certezza misteriosa...Pertini è esempio di rettitudine e di uomo esemplare".
Egli soleva dire: "Chi cammina inciampa, anche, qualche volta, ma l'essenziale è riprendere il cammino".
Sandro Pertini, un patrimonio di storia, di idealismo puro, di cultura, di lotta, di nobiltà, di passione che abbiamo il compito di portare avanti.
Si rischia la retorica, ma nell'impegno del nostro centro culturale si vuole interpretare, con umiltà, la concezione nobile del socialismo romantico, a fianco dei bisogni della gente, delle fasce deboli della società, difendendo, la giustizia sociale e la libertà.
Il Centro Culturale Sandro Pertini di Genova, nato il 25 aprile del 1990, si onora di avere Giuliano Vassalli Presidente onorario, si impegna a ricordarlo fra i giovani, nelle scuole, nella società civile, dando vita a iniziative solidali, ad incontri di riflessione, e di studio attraverso i quali non dimenticare quello che è stato il prezzo della libertà.
Lo abbiamo conosciuto da giovanissimi, gli abbiamo voluto bene, lo abbiamo ammirato e seguito per la sua concezione semplice, popolare della politica, la sua passionalità, il suo essere schietto, irascibile, a volte burbero, ma anche dolce, la sua etica, il suo grande esempio di onestà.
Il suo cuore di socialista romantico continuerà a battere nel cuore di chi, come noi, crede nella giustizia e nella libertà, ideali fondamentali del pensiero di Pertini.
Lo ricordo, infine, attraverso l'ultimo incontro al Quirinale: "Voi giovani non venite meno all'impegno per la giustizia e la libertà, non scendete a compromessi, difendete la vostra dignità, costi quello che costi!", ci disse. Poi, un lungo caro abbraccio, l'ultimo. Vorrei che quell'abbraccio continuasse..



Mario Oppedisano