lunedì 6 aprile 2020
FONTANA E GALLERA:DAI TAMPONI AI TAMPONATI(NEL CERVELLO E NELL'ANIMA)
Parlare di Fontana e di Gallera,rispettivamente presidente della regione Lombardia e relativo assessore al welfare,sinceramente non mi piace così con mi piacciono alcune disposizioni che la regione sta adottando,che non ha fatto o che ha accolto con un ritardo che ha provocato centinaia di morti evitabili,vedi la Valle Seriana dove il ritardo di sei giorni d'istituire una zona rossa stile Codogno per tenere aperte le numerose attività lavorative e che ha causato un danno epocale.
Negli articoli proposti alcuni degli errori macroscopici che questi incapaci sono riusciti a compiere e che stanno continuando a fare,come lo spostamento di pazienti non gravi colpiti dal Covid-19 nelle case di riposo e delle residenze sanitarie assistenziali che hanno in alcune zone azzerato generazioni di anziani,aggravato dal fatto che sono riusciti a spostare malati a strutture i cui operatori e pazienti erano(ancora oggi in alcuni casi)sprovvisti di protezioni.
Il tanto elogiato sistema lombardo(madn sanita-e-santità ),il fiore all'occhiello della sanità italiana è ridotto a colabrodo grazie ai tagli lineari del governo e alle corsie preferenziali che hanno indirizzato i pochi soldi disponibili verso le strutture private,è allo stremo e tutto il mondo lo ha visto,salvato solamente dall'abnegazione degli addetti sanitari delle strutture pubbliche,ridotti a lavorare senza protezioni o con dispositivi ampiamente al di sotto della necessità,con un numero impressionante di loro deceduti o contagiati(contropiano la-strage-di-anziani ).
La questione delle morti,del loro aumento percentuale vertiginoso come si vedono nei dati del secondo contributo(left.it ),decessi sommersi che sono per la maggior parte se non tutti dovuti al coronavirus,deceduti nelle case di cura p a casa propria cui non sono stati eseguiti tamponi nemmeno dopo il decesso,sono una questione per loro di numeri e basta,non di tragedie evitabili.
Gli stessi tamponi che tutt'ora vengono eseguiti con solerzia a politici e vip,mentre anche chi ha sintomi oppure è venuto a contatto con casi conclamati di ammalati viene imposta una quarantena come restrizione,con centinaia di migliaia di persone asintomatiche che lavorano ogni giorno e che si spostano sia in Lombardia che in tutta Italia.
Il Veneto ha già numeri diversi sia come decessi che contagiati(fatte le debite proporzioni con la regione accanto)così come i tamponi sono stati eseguiti con maggiore continuità:la Lombardia vuole insabbiare i contagiati,con gli ospedali ancora al collasso nonostante i nuovi presidi ospedalieri spuntati fuori un poco ovunque e col grave ritardo col quale si è aperto(solo oggi)quello della zona fiera di Milano,una montagna che ha partorito un topolino.
C'è pure il fastidioso gioco allo scaricabarile delle colpe tra il governo centrale e quello regionale,ma visto che la sopravvalutata sanità è gestita dalla Lombardia bisogna prendersi pure le proprie responsabilità.
Non fa una grinza un emendamento al decreto 1766 contro rivalse agli operatori sanitari per i decessi avvenuti in situazioni d'emergenza e di orrore direi,che ha la prima firma di Salvini e che vorrebbe allargare lo scudo penale a politici come Fontana e Gallera,che se il mondo fosse giusto fino in fondo sarebbero giudicati da un tribunale popolare,ma ci accontenteremo di un lungo periodo di meritata galera per come hanno gestito,stanno gestendo e che purtroppo continueranno a fare.
Quelle morti (quasi) invisibili. Cosa è successo in Lombardia?
di Quinto Tozzi
Sono centinaia e forse migliaia i decessi a domicilio (e nelle case di cura per anziani), oltre l’ecatombe negli ospedali. Cerchiamo di capire come mai
Che la diffusione dell’epidemia nella popolazione fosse ben più ampia dei numeri ufficiali desunti dai tamponi è ormai cosa nota. Stanno invece giungendo conferme che anche il numero dei deceduti per Covid-19 in alcune aree geografiche è ben più alto delle cifre ufficiali. L’Istat al riguardo ha pubblicato i dati sulla mortalità sino al 20 marzo 2020 di un migliaio di comuni italiani (v. articolo su Left). Dati che utilizzati per elaborazioni statistiche consentono di meglio comprendere gli anomali picchi di mortalità segnalati da alcuni sindaci e ripresi dalla stampa locale. Tra i tanti che si sono cimentati anche il prestigioso Istituto Cattaneo di Bologna con uno studio su: “Gli effetti della pandemia da Covid-19 sulla mortalità. Analisi di 1084 comuni italiani”. Colpiscono, tra i molti dati, l’aumento dei decessi rispetto alla media del quinquennio precedente (molto superiore alle cifre ufficiali): a Bergamo sono aumentati del 266%, seguono Piacenza con il 178%, Pesaro 167%, Cremona 134%, Parma 80%, Brescia 78%; le altre città raramente superano il 40%; Milano fortunatamente al 16,3%. Lo studio così conclude: “Il numero di decessi riconducibili a Coronavirus in Italia risulta comunque il doppio di quello a cui si arriva sulla base dei numeri relativi ai pazienti deceduti positivi al test per Covid-19, comunicati dalla Protezione Civile. È plausibile, quindi, che i decessi aggiuntivi non attribuiti a Covid-19 riguardino persone decedute in casa, e sulle quali non è stato eseguito il test di positività”. Perché si sono verificati centinaia e forse migliaia di decessi a domicilio oltre l’ecatombe dell’ospedale e la prevedibile e normale mortalità della popolazione? Cosa è stato fatto o non fatto per prevenirli? In assenza di altre cause massive di morte perfettamente concomitanti (terremoti, guerre, tsunami o terribili maledizioni) l’unica spiegazione logica e plausibile, come conclude la ricerca, è che fossero anch’essi dovuti al Covid-19 e, aggiungiamo noi, che ci sia stato un insuperabile e persistente motivo che ha impedito loro di fare il tampone e andare in ospedale. Cerchiamo di chiarire e dare qualche spiegazione.
Normalmente i pazienti con sintomi si rivolgono al medico di base il quale eventualmente segnala il caso alla ASL che decide se procedere o no con un tampone. Se il paziente fa il tampone, se questo è positivo, se ha sintomi importanti va in ospedale altrimenti resta a casa variamente controllato; se peggiora va in ospedale. Evidente che in questo percorso ci sono troppi se. Il più cruciale è che se il paziente non fa il tampone, pur avendo i sintomi, non è considerato un Covid-19 e resta fuori dall’intero circuito. Se la strategia della regione, come affermano i numeri, è fare pochi tamponi è più difficile entrare nel circuito ospedaliero e territoriale e le situazioni sempre possibili ma eccezionali possono diventare, come accaduto, quasi la norma. Inutile dire che lasciare a casa un paziente positivo ma non diagnosticato significa per prima cosa ridurre le sue probabilità di sopravvivenza ma anche condannare alla positività la famiglia ed i contatti (ed essere una delle principali cause dell’esplosione dei contagi); esattamente il contrario di quello che si dovrebbe fare. Ovviamente è quasi impossibile sapere ora quanti sono i pazienti senza tampone; lo si può intuire, come stiamo facendo ora, contando, dopo, i morti.
Fare pochi tamponi ha altre gravi conseguenze: sottostima il numero dei positivi giornalieri (cosa che può far mediaticamente comodo e dipende da quanti tamponi vengono fatti, a chi, e dispersi su quale popolazione). Pochi tamponi rendono l’ospedale fortemente permeabile ai contagi dei pazienti e del personale; sul territorio, come detto, questa “strategia” limita enormemente la possibilità di individuare i pazienti con Covid-19. L’OMS ha da tempo sollecitato a fare più tamponi. Quando si parla di numero di tamponi viene comunemente commesso l’errore di riferirsi al loro numero assoluto e non rapportarli alla popolazione (tamponi / 100.000 abitanti). È questo indicatore che svela e rende palese e inconfutabile la scelta iniziale della Lombardia di fare pochi tamponi. Varie fonti, elaborando i dati ufficiali, evidenziano che per un periodo sono stati fatti quasi la metà dei tamponi rispetto al Veneto.
È ampiamente noto che il famoso modello lombardo di sanità è da decenni fortemente ospedalocentrico con un territorio debole e fragile. Lo stesso modello è stato utilizzato per affrontare l’epidemia: grande potenziamento degli ospedali e residuale attività territoriale. Non si è capito che è sempre il territorio che protegge l’ospedale da flussi massicci e contemporanei di pazienti. Non si è capito che non si fronteggia una epidemia solo aumentando i pur indispensabili posti letto negli ospedali. Non si è capito che non basta il prezioso distanziamento sociale (che previene le infezioni). Non si è capito che è sul territorio che si intercettano e bloccano i malati prima che diffondano il virus; e se non lo si fa questi muoiono a casa. Non si è capito che fare pochi tamponi è un gravissimo errore. Ciò ha portato al collasso degli ospedali nonostante i sacrifici incommensurabili del personale. Ciò ha contribuito a questi morti prima invisibili. È il fallimento di buona parte della politica sanitaria regionale; fallimento che ha sempre ed inevitabilmente un costo esoso in vite umane.
Un approccio quasi opposto e decisamente più efficace, come dimostrano i numeri, ha avuto il Veneto che, avendo un territorio più forte, ha puntato subito su un energico e capillare contrasto territoriale. Inconsistenti le usuali scuse addotte della Lombardia; Codogno e Vò hanno iniziato insieme ma pochissimo dopo è arrivata la fiammata della bergamasca e la domanda vera e ineludibile è: perché si è perso così tanto tempo per decretare la zona rossa? C’entra forse il non voler chiudere le centinaia di fabbriche del posto? Scaricare la responsabilità sul governo centrale è troppo comodo e non regge più; se la gestione della sanità è regionale lo è inevitabilmente anche la responsabilità.
Possibile che la regione che si vanta di essere la più avanzata sul versante sanitario commetta errori tecnici e strategici di tale portata? Possibile che perseveri nonostante la criticità delle evidenze? Abbondano in Lombardia le competenze per capire da subito quanto stava accadendo. Molte e scomode sono domande che pretendono una risposta onesta. Altrimenti, finita questa storia, le risposte verranno comunque date ai numeri. Lo si deve quantomeno a tutti quei morti (quasi) invisibili, e probabilmente evitabili.
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Quinto Tozzi, già cardiologo intensivista ospedaliero; già direttore ufficio Qualità e rischio clinico dell’Agenzia sanitaria nazionale (Agenas)
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La strage di anziani nelle case di riposo? Chiedete a Fontana perché…
di Redazione Contropiano
La delibera della giunta Lombarda – la numero XI/2906, 8 marzo 2020 – chiedeva alle Ats, le aziende territoriali della sanità, di individuare nelle case di riposo dedicate agli anziani strutture autonome per assistere pazienti Covid 19 a bassa intensità. Come mettere un cerino in un pagliaio.
«Chiederci di ospitare pazienti con i sintomi del Covid 19 è stato come accendere un cerino in un pagliaio: quella delibera della giunta regionale l’abbiamo riletta due volte, non volevamo credere che dalla Regione Lombardia potesse arrivarci una richiesta così folle».
Luca Degani è il presidente di Uneba Lombardia, l’associazione di categoria che mette insieme circa 400 case di riposo lombarde. La sua è un’accusa precisa di cui dà conto in un’intervista a Il Quotidiano del Sud. Tira in ballo le responsabilità dell’assessore alla Sanità Giulio Gallera e del presidente Attilio Fontana. Altri direttori e altri responsabili di Rsa hanno scelto il silenzio o si sono rifugiati nella retorica del lutto. Una forma di protezione dal dolore. Che accomuna tutti, infermieri, medici, personale. Nel tempo si erano stabiliti legami non solo professionali. C’è chi, a causa del Coronavirus, ha perso pazienti, chi amici, chi colleghi.
«Dipendiamo per un buon 30% dai finanziamenti della Regione -riprende Degani – logico che molti abbiano paura di perderli. Non parlano e io li capisco, Ma noi, che facciamo parte del Terzo settore e siamo non profit, certe cose dobbiamo dirle: i nostri ospiti hanno una media di 80 anni, sono persone con pluripatologie. Come potevamo attrezzarci per prendere in carico malati spostati dagli altri ospedali per liberare posti-letto? Ci chiedevano di prendere pazienti a bassa intensità Covid e altri ai quali non era stato fatto alcun tampone. Il virus si stava già diffondendo. Stavamo per barricarci nelle nostre strutture, le visite dei parenti erano già state vietate».
Il fuoco è divampato all’improvviso e l’incendio non si è ancora spento, facendo strage di anziani. Una mattanza tenuta segreta, separata dalla contabilità quotidiana della Protezione civile.
La delibera della giunta Lombarda – la numero XI/2906, 8 marzo 2020 – chiedeva alle Ats, le aziende territoriali della sanità, di individuare nelle case di riposo dedicate agli anziani strutture autonome per assistere pazienti Covid 19 a bassa intensità.
Il presidente di Uneba spiega: «Dopo la delibera abbiamo chiesto chiarimenti, maggior parte delle nostre strutture non hanno dato seguito alla richiesta della regione. Ma c’è chi l’ha fatto e poi si è pentito. Come potevamo accettare malati ai quali non era stato fatto alcun tampone né prima né dopo? Senza dire, che il nostro personale sarebbe stato comunque a rischio. Si sono infettati medici e sanitari in strutture molto più attrezzate della nostra. Non ci hanno dato i dispositivi di protezione ma volevano darci i malati… insomma».
Ipotizzare la presenza di pazienti Covid è ritenuto – si legge nella lettera inviata alla Regione – «estremamente complesso, difficile e potenzialmente rischioso». Le Rsa ospitano, infatti, per lo più anziani che hanno già malattie gravi e conclamate. Che non possono essere più assistiti a domicilio. In totale dispongono di 70mila posti letto, tra privati, (80%), enti vari e strutture pubbliche.
Non tutti, però, purtroppo, hanno detto di no. C’è chi li ha presi i malati. Chi ha rischiato di far entrare il l virus dalla porta principale.
Tutto questo non sarebbe venuto fuori se il direttore sanitario di una Casa di riposo milanese – intervistato da Irene Benassi durante la trasmissione Agorà, su Rai3 – non avesse accennato alla “strana” richiesta della giunta lombarda.
Quando il dietrofront è partito era ormai troppo tardi, «la necessità di liberare rapidamente posti letto di Terapia Intensiva e Sub Intensiva e in regime di ricovero ordinario degli ospedali per acuti» – come si legge nella delibera, ha prevalso su tutto. Forse anche sul più comune buon senso.
In molte case di riposo lombarde ancora si aspettano le mascherine. C’è chi ha provato a ordinarle senza aspettare la Regione e la Protezione civile. È riuscito a ottenerle camuffando l’ordine d’acquisto e la bolla di accompagnamento per evitare il sequestro e i controlli in dogana! Mascherine provenienti dall’Azerbaijan ma in realtà prodotte in Cina e spacciate per tessuti: cosa bisogna fare per salvarsi la vita.
* da Vita Per chi fosse tentato di “minimizzare” la responsabilità del duo lumbard che sfortunatamente dirige questa Regione, ricordiamo che secondo l’art. 438 c.p.:“Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni[1] è punito con l’ergastolo”.
E inviare nelle case di riposo (“soggiorni”, non ospedali) degenti contagiati in modo conclamato da Covid-1 è certamente una “diffusione di germi patogeni”, oltretutto in ambienti chiusi e in presenza di soggetti particolarmente esposti. Persino i “positivi” che vengono fermati fuori dell’abitazione rischiano la stessa imputazione.
E si capisce dunque perché un vasto arco di parlamentari – in primo luogo della Lega, primo firmatario Salvini, guarda caso – abbia presentato pochi giorni fa un emendamento al decreto 1766 che allarga lo “scudo penale” per errori commessi dai sanitari nella lotta all’epidemia (doveroso, in questi casi) ai molto più vaghi “soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria derivante dal contagio”.
Che, oggettivamente e senza malizia alcuna, sembra attagliarsi perfettamente agli amministratori della Regione Lombardia.
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