sabato 20 agosto 2022

LA STRAGE DI AYOTZINAPA FU STRAGE DI STATO

E' giunta quasi come una sorpresa,almeno noi abituati agli standard italiani,la notizia arrivata dal Messico che vede l'arresto dell'ex procuratore generale Karam e quello di altri 64 criminali tra poliziotti,militari e narcotrafficanti del Guerreros Unidos.
Lo stesso Karam era stato messo a capo delle indagini sulla scomparsa di 43 studenti spariti a Ayotzinapa nello Stato del Guerrero nel settembre del 2014 mentre con un pullman si stavano recando per una manifestazione nella capitale Città del Messico(vedi:madn il-voto-messicano sulle elezioni del 2015 in Messico dove i comitato dei genitori e dei parenti dei 43 desaparecidos influirono moto sul sabotaggio di quella tornata elettorale).
Sin dalle prime ore si era pensato ad un sequestro ed alla successiva morte e sparizione dei cadaveri poi bruciati come appurato nelle successive indagini chiuse in fretta e furia da Karam,e dopo "solo" otto anni si è giunti a questo verdetto che ha certificato che la strage di Ayotzinapa è stata ina strage del narcostato messicano.
Articolo preso da Contropiano(la-strage-di-ayotzinapa ).

Messico. Arrestati giudice, militari, poliziotti e narcos per la strage di Ayotzinapa

di R.C.

E’ stato arrestato l’ex procuratore generale nazionale, Jesus Murillo Karam, il giudice incaricato di indagare sulla sorte dei 43 studenti ‘desaparacidos’ nel 2014 ad Ayotzinapa ma che archiviò tutto. Insieme a lui sono stati arrestati anche 64 fra militari, poliziotti e sicari di un cartello del narcotraffico.

Gli arresti sono avvenuti il giorno successivo alla pubblicazione del rapporto della commissione d’indagine sulla strage di Ayotzinapa che parla di “delitto di Stato”, cioè del sequestro e dell’assassinio degli studenti da parte dai narcotrafficanti ma con la complicità di giustizia e forze dell’ordine.

Il caso di Ayotzinapa “è stato un crimine di Stato”, in quanto “tutte le autorità federali, statali e municipali sono state informate” di quanto stava accadendo la notte del 26 settembre 2014 senza intervenire per impedire la “sparizione e l’omicidio” dei 43 studenti della Scuola Normale Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa, Guerrero, ha dichiarato il sottosegretario ai Diritti Umani dell’Interno, Alejandro Encinas, in occasione della presentazione del rapporto della Commissione per la Verità e l’Accesso alla Giustizia sul caso Ayotzinapa.

Quasi otto anni dopo i fatti, Encinas ha sottolineato ai genitori degli studenti che la scomparsa dei loro figli è stata “insabbiata ai massimi livelli”, poiché le autorità dei tre livelli di governo sapevano in tempo reale “del prelievo dei camion, del trasferimento degli studenti a Iguala, del loro arrivo al Rancho del Cura e alla stazione degli autobus di Iguala, del loro arrivo alla stazione degli autobus, della persecuzione e della violenza di cui sono stati vittime” da parte del cartello Guerreros Unidos.

Il giudice arrestato, Murillo Karam nel 2015 (il presidente era Enrique Pena Neto) chiuse l’indagine affermando su di essa la cosiddetta “Verità storica”, che venne respinta e rifiutata dai familiari dei 43 studenti spariti nel nulla la notte fra il 26 e 27 settembre 2014 nello stato di Guerrero dopo aver prenotato dei pullman per partecipare a una manifestazione a Città del Messico.

Da quanto emerso dalle successive indagini, gli studenti furono arrestati da poliziotti corrotti e consegnati alla criminalità organizzata locale del cartello definito come “Guerreros Unidos” che , per motivi non completamente chiariti, li avrebbe uccisi e fatto sparire i cadaveri bruciandoli in una discarica. Solo i resti di tre di essi furono trovati e identificati.

Tutti gli arrestati, incluso l’ex procuratore generale Murillo Karam, sono accusati di “collusione con il crimine organizzato, sequestro di persona, tortura, omicidio e ostruzione della giustizia. La ‘Verità storica’ del 2015 avrebbe omesso la responsabilità di militari corrotti e di altre istituzioni pubbliche, che è stata invece accertata dalla “Commissione per la verità su Ayatzinapa”, messa in piedi dall’attuale presidente messicano, Andrés Manuel Lopez Obrador, e guidata dal sottosegretario agli Interni, Alejandro Encinas.

mercoledì 10 agosto 2022

DAL 2007 CONTRO I LAVORATORI E CONTRO IL POPOLO

Manca poco più di un mese a quelle che saranno forse,quasi certamente fino ad ora,delle elezioni politiche caratterizzate da continui spostamenti sia di personaggi politici che di partiti,con abbracci fraterni subito cancellati da pugnalate alle spalle e non,con le solite promesse mai mantenute e che pur continuiamo a risentire da quasi trent'anni fin da quando è morta la prima repubblica.
Un uso cattivo e spropositato dei termini destra,centro e sinistra,dove personalmente ritengo che le vere forze di sinistra siano ridotte al lumicino sia per candidature che per esposizione mediatica(e va da sé che pure il risultato elettorale sarà proporzionale),dove vedo grandi numeri per la destra estrema e per i partiti vicini mentre il centro galleggia verso una sostanziale sconfitta.
L'analisi proposta dall'articolo di Left da parte dello storico Piero Bevilacqua(breve-storia-del-pd )pur se come evidenziato dal titolo è una piccola parte di quello fatto e soprattutto non affrontato dal Pd dalla sua fondazione avvenuta nel 2007.
Si parla soprattutto del mondo del lavoro tralasciando la scuola e la sanità e accennando qualcosa alla giustizia ed alla politica estera,e tuttavia nella relativamente breve vita di questo partito nato principalmente dalla fusione dei Ds e della Margherita ha avuto parecchi anni di vita al governo del paese(un'intera legislatura con i vari Letta,Renzi e Gentiloni)e quando non è stato direttamente al potere ha comunque suffragato i governi Monti,Conte(il secondo mandato)e Draghi.
I disastrosi risultati portati a casa sono sotto gli occhi di tutti,con un partito che al posto di essere al fianco della classe operaia è suo nemico,che al posto di combattere la povertà combatte i poveri e che nelle decisioni topiche ha sempre aiutato le classi più abbienti soprattutto con le tasse.
Non ci vedo nulla di sinistra in tutto questo,tralasciando i tagli lineari alla sanità e alla scuola pubblica,e vedo nei job acts,nell'abolizione dell'articolo 18 e nella perdita sempre più emorragica dei diritti sindacali(con la complicità attiva e complice delle sigle confederali),per non parlare di personaggi come Minniti che hanno svolto semplicemente una politica di destra riguardo la giustizia sociale.
Nell'ambito lavorativo in tutta Europa siamo quelli che ce la passiamo peggio sia come reddito che non riesce a tenere il passo del carovita che come normative antinfortunistiche e lavoro in nero e ampiamente sottopagato.
Un accenno visto che non se ne parla direttamente nell'articolo lo merita anche la questione ambientale con la transizione ecologica al palo ed un ritorno alle energie non rinnovabile strizzando l'occhio al nucleare ed un consumo di suolo sempre bello presente nonostante le troppe parole spese per fare sembrare il contrario.
Il problema che più si è comunque ampliato e che raccoglie quello descritto qui sopra rimane quello della diseguaglianza sociale ed economica,con la forbice tra il ricco e il povero sempre più ampia e con interventi mirati proprio a far diventare chi se la passa più male a sopravvivere sempre peggio mentre l'abbiente ha sempre più prestigio,con una mano che taglia le risorse al popolo e l'altra che aumenta le spese per la guerra.
Concludo nel citare pure tutti i partiti messi all'angolo e talvolta riesumati per meri accordi elettorali che sono satelliti che saltuariamente(anche in questa campagna elettorale)girano attorno al pianeta Pd salvo poi saltare fuori la disillusione degli elettori(per quanto riguarda i politici qualche poltroncina risulta sempre libera)per accorpamenti morti già prima di nascere.
E così che le varie sigle di questo firmamento alcune ancora presenti altre meno (Rifondazione,Si,Sel,Leu,Pci,le varie campagne per Ingroia,Tsipras,De Magistris)pur nella loro lotta non riescano,se non a carattere locale,ad avere voce in capitolo al governo per fare cambiare l'idea ad un popolo che ritengo sempre più compromesso a livello mentale.

Breve storia del Pd: le sue responsabilità (di ieri e di oggi) per la crisi sociale del Paese.

di Piero Bevilacqua -10 Agosto 2022

Da quando è nato, nel 2007, il Partito democratico si è sempre più allontanato dal mondo del lavoro e dai ceti popolari abbracciando un pensiero neoliberale che ha mostrato tutti i suoi limiti nella difesa dei diritti e nella lotta per la giustizia sociale

Occorre di tanto in tanto fermarsi e guardare indietro, fare un po’ di storia, per capire come siamo arrivati sin qui. E un buon filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della cronaca carnevalesca di oggi è la vicenda del Partito democratico. Nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di sinistra e della Margherita, è stato sino al 2018 il maggiore partito italiano e, con alcune interruzioni, nel governo della Repubblica per quasi 9 anni. L’intera XVII legislatura coperta con i governi Letta-Renzi-Gentiloni. In tutto 15 anni che, per i tempi della politica, per le sorti di un Paese, costituiscono una stagione abbastanza lunga perché sia possibile valutarne le responsabilità.

Comincio col rammentare che, erroneamente, questa formazione è stata sempre considerata l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi, avevano subìto una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura. Tanto Mitterand in Francia, che Schroeder in Germania, Blair nel Regno Unito, D’Alema ( insieme a Prodi e Treu) in Italia, hanno proseguito o introdotto nei loro Paesi le leggi di deregolamentazione avviate dalla Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti. In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni 90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati.

Democratici americani, socialdemocratici ed ex comunisti europei hanno sottratto le politiche neoliberistiche dai loro confini americani e britannici e le hanno diffuse più largamente nel Vecchio Continente. Un compito svolto senza incontrare resistenza, perché gli agenti politici si presentavano ai ceti popolari col volto amico e le insegne delle organizzazioni di sinistra. Hanno cosi impedito ogni reazione e conflitto. Negli anni 90 le élites di queste forze, hanno compiuto un capolavoro politico: hanno abbandonato il loro tradizionale insediamento sociale (classe operaia e strati popolari) e hanno salvato se stesse come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione. Serge Halimi ha ricostruito con copiosa ricchezza di particolari questa vicenda (Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi 2006).

Sarebbe un errore moralistico tuttavia bollare come tradimento tale ribaltamento strategico. Quei gruppi dirigenti, nutriti di cultura sviluppista e privi di ogni sguardo agli equilibri del pianeta, non hanno fatto fatica a convincersi che rendere sempre più libero e protagonista il mercato, togliere lacci e lacciuoli, come ancora si dice, avrebbe accresciuto la ricchezza generale e dunque allargata la quota da distribuire anche ai ceti subalterni. E a questo compito residuale hanno limitato il loro rapporto col mondo del lavoro, ritagliandosi spazio e consenso tra i gruppi dirigenti. Senza dire che nel vocabolario della cultura neoliberista (libero mercato, flessibilità del lavoro, competizione, meritocrazia, ecc) essi hanno trovato il repertorio linguistico per innovare il loro discorso politico, quello più confacente alla loro nuova collocazione. Quella di forze politiche che non dovevano più promuovere e orientare il conflitto sociale, ma ottenere consenso elettorale per politiche di mediazione e di lenimento risarcitorio degli effetti più aspri dello sviluppo derogolamentato.

Dunque le forze che danno vita al Pd non sono gli epigoni dei vecchi partiti popolari, nati dalla Resistenza, sono forze del tutto nuove, indossano il vestito smagliante del vecchio avversario di classe. Ma quello di Veltroni e degli altri nasce come un progetto invecchiato, perché vuole imporre in Italia il bipartitismo in una fase storica in cui esso è al tramonto negli stessi Paesi in cui ha avuto più fortuna.

Qualcuno ricorda quando il Financial Times si scandalizzava per i programmi elettorali dei Tories e dei Laburisti nel Regno Unito, che erano pressoché identici? La stessa cosa accadeva negli Usa, fino a quando Trump non ha incarnato l’estremismo del primatismo bianco. Luigi Ferrajoli ha scritto pagine lucidissime su quei sistemi elettorali nel secondo volume dei suoi Principia iuris (Laterza 2007). Ma il tentativo di trasferire nel nostro Paese il sistema politico anglo-americano è poi velleitario non solo perché non tiene conto delle nostre varie culture politiche. Come se bastasse creare un unico contenitore per due contendenti, lasciando fuori tutti gli altri, per assicurare stabilità al sistema politico e conseguire la tanto agognata governabilità.

La storia non si lascia comprimere dal volontarismo istituzionale. Quella scelta ha contributo col tempo a mettere all’angolo le varie forze di sinistra, Rifondazione Comunista, Sel, Sinistra italiana, ecc (che portano la loro quota specifica di responsabilità), senza tuttavia risolvere i problemi di coesione e stabilità al proprio interno e nel sistema politico. Ma il tentativo nasconde un altro deficit analitico, comune a tutti coloro che ricercano la “governabilità”, accrescendo la torsione autoritaria degli ordinamenti. La fragilità dei governi riflette in realtà quella dei partiti, vuoti di ogni progettualità, privi ormai di forti ancoraggi sociali (tranne in parte la Lega) e trasformatisi in agenzie di marketing elettorale. Essi inseguono gli umori dei gruppi sociali, in parte creati, e non solo veicolati, dai media, protagonisti in prima persona della lotta politica, e perciò sono volatili, scomponibili come giocattoli di Lego.

Ma ciò che quasi tutti ignorano è che nella stagione di euforia neoliberista i partiti hanno consegnato al mercato, cioè al potere privato, non poche prerogative che erano del potere pubblico. E oggi il ceto politico, si ritrova con strumenti limitati di regolazione e controllo, sempre più costretto a subire la spinta del capitalismo finanziario a trasformare lo Stato in azienda. Le procedure di scelta e decisione dei Parlamenti e dei governi appaiono troppo lente rispetto alla velocità dell’economia e della finanza senza regole. Se un operatore può spostare immense somme di danaro con un gesto che dura pochi secondi, all’interno di società capitalistiche in competizione su scala mondiale, è evidente che la struttura degli Stati democratici appare ormai come un organismo arcaico. E senza un vasto ancoraggio con i ceti popolari, senza essere supportati dalla loro forza conflittuale, i partiti sono fragili e i governi instabili.

Dunque il Pd è nato come “forza di governo”, emarginando le culture politiche alla sua sinistra, imponendo o caldeggiando il sistema elettorale maggioritario. Ciò ha prodotto una torsione antidemocratica all’interno dei partiti in cui le segreterie hanno accresciuto il proprio potere sulla scelta della rappresentanza parlamentare, sempre più sottratta ai cittadini elettori. Un colpo alla democrazia dei partiti e a quella del Paese, governato da Parlamenti nominati, frutto di leggi elettorali spesso incostituzionali.

Se poi entriamo nella narrazione storica delle scelte partitiche e di governo compiute in 15 anni di storia nazionale non possiamo non stupirci della capacità manipolatoria dei gruppi dirigenti di questo partito, e della grande stampa, nel celare la sua natura conservatrice, spacciandolo per una forza di centro-sinistra. Si può ricordare il Jobs Act? Alcuni compassionevoli difensori scaricano la responsabilità su Matteo Renzi, quasi non fosse rampollo della stessa casata. Ma dopo di lui il lavoro precario in Italia è dilagato, il Pd non si mai mosso per arginarlo e, meraviglie delle meraviglie, si è insediato anche in ambito pubblico. Nel ministero dei Beni culturali, presieduto per un totale di 7 anni da Enrico Franceschini, siamo al “caporalato di Stato”, con una miriade di giovani che tengono in piedi  musei e siti con contratti a tempo determinato e salari da fame. Non va meglio ai ricercatori della Sanità pubblica, 1290 operatori con una media di 10 anni di precariato alle spalle. Sono i nostri giovani più brillanti, quelli che la Tv ci mostra dopo che sono scappati, quando hanno avuto successo nelle Università straniere. Nel 2021 con la ripresa dell’occupazione del 23%, il 68% è di contratti stagionali, il 35% in somministrazione, e solo 2% a tempo indeterminato.

Ma tutto il mondo del lavoro italiano ha conosciuto forse il più grave arretramento della sua storia recente. «Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%» (D. Affinito e M.Gabanelli, Corriere della Sera, 11 luglio 2022). E siamo ora al dilagare dei lavoratori poveri. Il rapporto dell’11 luglio del presidente dell’Inps Tridico ricorda che «il 28% non arriva a 9 euro l’ora lordi». Tutto questo quando non muoiono per infortuni: nel 2020 1.270 lavoratori non sono tornati alle loro case. Poveri in un mare di miseria, perché oggi contiamo oltre 5 milioni di poveri assoluti e 7 di milioni di poveri relativi. Ma c’è chi sta peggio. Nelle campagne è rinato il lavoro semischiavile comandato dai caporali. La figura dei caporali era attiva in alcune campagne del Sud negli anni 50, poi travolta dall’onda di conflitti del decennio successivo. Negli ultimi 20 anni è risorta, ma si è diffusa anche nelle campagne del Nord.

Dobbiamo ricordare le condizioni della scuola? Renzi ha portato alle estreme conseguenze, secondo il dettato neoliberista europeo, avviato in Europa col Processo di Bologna (1999) e introdotto in Italia da Luigi Berlinguer, la trasformazione in senso aziendalistico degli istituiti formativi. Con l’alternaza scuola/lavoro ha portato la scuola in fabbrica e la fabbrica nella scuola. Ma il processo è proseguito con gli altri governi per iniziativa o col consenso/assenso del Pd e prosegue ancora oggi, grazie all’assoggettamento dei bambini e dei ragazzi a logiche strumentali di apprendistato, perché acquistino competenze, non per formarsi come persone. Gli insegnanti vengono obbligati a compiti estenuanti di verifica dei risultati, sulla base di test e misurazioni standardizzate, quasi fossero dei capireparti che sorvegliano gli operai al cottimo. Essi non sono più liberi nelle loro scelte educative e culturali, trasformati come sono in esecutori di compiti dettati dalle circolari ministeriali. Sotto il profilo culturale, la torsione della scuola a strumento di formazione di individui atti al lavoro, al comando, alla competizione, – di cui il Pd è il più convinto sostenitore – costituisce il più sordido e devastante attacco alle basi del nostro umanesimo, della nostra civiltà.

Ma il giudizio da dare a questo partito non può riguardare solo le scelte di governo. Certo, alcune sono particolarmente gravi. L’iniziativa del ministro Marco Minniti, nel 2017, di armare la Guardia libica per dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo, allo scopo di rinchiuderli e torturarli nelle loro eleganti prigioni, rappresenta forse il più feroce atto di governo nella storia della Repubblica. Dal 2017 sono affogati in quel mare oltre circa 2mila esseri umani ogni anno.

Ma ci sono iniziative meno cruente, non per questo però meno devastanti. La scelta del governo Gentiloni di stabilire “accordi preliminari” con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per avviare i loro progetti di autonomia differenziata è un passo esemplare. Mostra quale visione del futuro del nostro Paese orienta il gruppo dirigente del Pd. Un’Italia abbandonata agli egoismi territoriali delle regioni più forti, la competizione neoliberista portata dentro le istituzioni dello Stato, per disgregare definitivamente un Paese già in frantumi.

Ma occorre mettere nel conto dei 15 anni di presenza politica anche il “non fatto direttamente”, le leggi e le scelte accettate, dal governo Monti nel 2011 a quello Draghi appena concluso. E non abbiamo spazio per elencare le scelte avallate, dalla riforma Fornero all’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. E tuttavia non possiamo dimenticare che il Pd ha sabotato in ogni modo il referendum vittorioso per la publicizzazione dell’acqua, ha taciuto di fronte al continuo sottofinanziamento della scuola e dell’Università, non si contrappone ancora oggi al sostegno pubblico alla medicina privata. Il Pd non ha preso alcuna iniziativa per sanare un territorio devastato dagli incendi d’estate e travolto dalle alluvioni in inverno, ha anzi taciuto e sostenuto, tramite i suoi presidenti di regione e sindaci, la cementificazione selvaggia del Paese, la più totalitaria d’Europa. Il Rapporto nazionale Ispra 2022 denuncia che nel 2021 abbiamo raggiunto il valore più alto  negli ultimi dieci anni di consumo di suolo con la media di 19 ettari al giorno, per effetto di cementificazione, soprattutto per la costruzione di edifici. È una cifra spaventosa, una sottrazione di verde che espone il territorio alle tempeste invernali, accresce la temperatura locale, sottrae ossigeno alle città appestate dallo smog.

Potremmo continuare ricordando che il Pd non ha mai mosso un dito contro le disuguaglianze selvagge che lacerano il Paese, ha votato la riforma fiscale Draghi che premia i ceti con redditi superiori ai 40 mila euro, mentre il suo segretario, con l’elmetto guerriero in testa, ha prontamente accettato la richiesta Nato di portare al 2% del Pil le nostre spese annue in armi, poco meno di 40 miliardi di euro. Un vero sollievo per le nostre brillanti finanze.

Ma non abusiamo della pazienza del lettore. Quanto già scritto mostra ad abundantiam come questo partito ha immobilizzato un Paese che sta su un piano inclinato e quindi se sta fermo scende, quando, con le proprie scelte, non lo ha spinto indietro. Ma la difesa dello status quo oggi, mentre tutto precipita e il pianeta mostra segni di collasso, è una strada rovinosa.

Dunque, al netto degli effetti prodotti dalle scelte dei governi precedenti, è evidente che il Partito democratico, in questi ultimi 15 anni di storia, è il maggiore responsabile del declino italiano. Per tale ragione tutte le rare lucciole di persone effettivamente progressiste che si aggirano disperse nella pesta notte del suo conservatorismo, concorrono, sia pure involontariamente, a nascondere la natura antipopolare di questo partito, i danni storici inflitti all’Italia. Votarlo non è il meno peggio, ma il peggio.

Ne va dunque dell’onore dei giornalisti italiani continuare a pronunciare il nobile lemma sinistra e alludere al Pd. Così come ne va dell’onore, della coerenza e della ragione di Sinistra italiana continuare a ricercare una alleanza elettorale con questo partito, che ha dimostrato, con ampiezza di prove, di essere un avversario di classe.

martedì 9 agosto 2022

IL FONDAMENTALISMO DEI GUERRAFONDAI

Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla nascita della gran maggioranza delle guerre in atto in tutto il mondo ecco che la paternità e pure la maternità di questi crimini insensati è da attribuire agli Stati Uniti che nel corso della storia hanno passato ben oltre il 90% della loro esistenza a fare guerre.
Nel breve articolo(www.storiauniversale.it/bilancio-dell-imperialismo-guerrafondaio-usa )ecco servito in poche righe ciò che gli Usa hanno rappresentato fin dalla loro costituzione nel 1776 con un numero impressionante di conflitti scatenati o in cui hanno messo lo zampino e vi hanno partecipato,dove ogni angolo della terra non è stato lasciato fuori.
E pensare che questo contributo è del 2015 e non vi sono inclusi gli ultimi casi dell'Ucraina(madn nuova-tappa-del-war-world-tour statunitense? )e dei supporti vitali in Israele e le provocazioni in Kosovo,per elencare i casi più recenti dell'ennesimo presidente guerrafondaio made in Usa(madn giusto-esultare-per-biden? ).
Che se volesse davvero manderebbe truppe regolari dell'esercito in posti come Cuba e Venezuela solo per citarne un paio,mentre per la questione Taiwan-Cina se che perderebbe e male in partenza,e con lui andrebbe a fondo quasi tutta l'Europa servile e complice.
Mentre in Italia la stragrande maggioranza dei partiti politici che si stanno dilaniando per il voto del 25 settembre si professano convintamente atlantisti e fieri sostenitori degli Stati Uniti,sarebbe meglio scegliere forze che metterebbero al bando la Nato dal nostro paese e che seguisse per davvero la Costituzione italiana con il nostro paese che ripudia la guerra.

BILANCIO DELL'IMPERIALISMO GUERRAFONDAIO USA

«Siamo un popolo di guerra. Noi amiamo la guerra perché siamo molto bravi a farla. In realtà, è l'unica cosa che possiamo fare in questo cazzo di paese: la guerra. Abbiamo avuto un sacco di tempo per fare pratica e anche perché è sicuro che non siamo in grado di costruire una lavatrice o una macchina che vale un coniglio da compagnia; per contro, se avete un sacco di abbronzati nel vostro paese, dite loro di stare attenti perché noi verremo a sbattere una bomba sul loro viso...». (George Carlin, comico statunitense)

Nel 2015 in un articolo su un blog(29) si tirano due somme che alla luce di quanto riportato finora non stupiscono:

«Gli Stati Uniti sono stati in guerra il 93% del tempo, dalla loro creazione nel 1776, vale a dire 222 dei 239 anni della loro esistenza. Gli anni di pace sono stati solo 21 dal 1776. […] Per mettere questo in prospettiva:

-Nessun presidente degli Stati Uniti è mai stato un Presidente di pace. Tutti i presidenti degli USA che si sono succeduti sono stati tutti, in un modo o nell'altro, coinvolti almeno in una guerra.

-Gli Stati Uniti non hanno mai passato un intero decennio, senza fare una guerra.

-L'unica volta che gli Stati Uniti sono rimasti 5 anni senza guerra (1935-1940) è stato durante il periodo isolazionista della Grande Depressione.

Nella maggior parte di queste guerre, gli Stati Uniti erano all'offensiva, in alcune sulla difensiva […]. Il 95% delle operazioni militari lanciate dalla fine della seconda guerra mondiale, sono state degli Stati Uniti, la cui spesa militare è maggiore di quella di tutte le altre nazioni del mondo messe insieme. Nessuna meraviglia quindi che il mondo pensi che gli Stati Uniti sono la prima minaccia del mondo per la pace.

Eppure ci sono ancora alcuni nord americani (più di quello che sembra) che fanno ancora la domanda: “Perché tutte queste persone nel mondo ci odiano?” E la risposta della propaganda USA è sempre, invariabilmente, la stessa: “...perché sono gelosi di noi, della nostra libertà, della nostra grandezza. Gelosi della nostra cultura...”

Ecco, soprattutto della loro cultura e del loro squisito modo di rapportarsi col prossimo».

Leggiamo ora cosa riporta l'autorevole quotidiano di Confindustria, Il Sole 24 ore(30):

«Gli Usa si sono cimentati in 64 guerre grandi e piccole negli ultimi cent'anni, in 43 dei casi giungendo solo al pareggio. Troppi pareggi, commenta l'ex diplomatico americano e giornalista James Hansen. Tolte anche le nove sconfitte, hanno vinto meno del 20% dei conflitti. Lo dice il Socom, il comando unificato delle forze speciali americane. Il documento delle forze speciali, che comprendono Navy Seals, Delta Force e Berretti Verdi, esamina i nove conflitti cui hanno preso parte gli americani negli ultimi 15 anni con la presidenza prima di Bush junior e poi di Obama: il risultato stilato in termini calcistici è di zero vittorie, due sconfitte e sette pareggi. L'analisi si intitola A Century of war and Gray Zone Challenges e risale al settembre 2015 ma è stata da poco resa nota dal sito TomDispatch.com grazie a una legge che permette di accedere a documenti riservati se chi le detiene non riesce a motivarne la segretezza. […] Vengono esaminati cento anni di interventi militari americani e dei 64 conflitti considerati solo cinque vengono definiti di primaria importanza. Tre sono stati vinti, la prima guerra mondiale, la seconda e Desert Storm in Iraq nel '91, una sconfitta, il Vietnam, e un pareggio, la guerra di Corea negli anni Cinquanta. Nella zona grigia citata nel titolo del documento ricadono i conflitti minori con un bilancio di nove vittorie, otto sconfitte e ben 42 pareggi».

È utile notare che i due conflitti «di primaria importanza» che non sono stati vinti dagli USA hanno visto come oppositori forze comuniste sostenute da Cina e URSS. Sono aperte le scommesse sullo schieramento mantenuto dai paesi socialisti negli altri 59 conflitti.

29. G. Fraschetti, Gli Stati Uniti sono stati in guerra 222 anni su 239 che esistono come Stato, Informare.over-blog.it, 26 febbraio 2015.

30. A. Negri, La superpotenza Usa? In cento anni ha vinto solo il 20% delle guerre, Il sole 24 ore, 7 ottobre 2016.