giovedì 20 dicembre 2018

UN'ITALIA SEMPRE PEGGIORE

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I dati Istat relativi al terzo trimestre dell'anno corrente danno un'immagine del Belpaese alquanto pessima e soprattutto in ulteriore peggioramento,sia nei confronti dell'Unione Europea che all'interno della stessa Italia con enormi differenze tra nord e sud.
Calano sia gli occupati che i disoccupati,dato interessante se non si calcolano pure gli aumenti degli inattivi e dei Neet,mentre le spese sanitarie sono pressoché nulle nelle famiglie con redditi bassi rispetto a quelle più abbienti,ed il tasso di mortalità aumentato ne è una diretta conseguenza.
Per non parlare dell'istruzione dove siamo nei posti bassi della classifica rispetto all'Europa e anche qui il divario tra settentrione e meridione è molto deciso,con un aumento dell'analfabetismo funzionale che tocca tutto lo stivale e lo si può verificare tutti i giorni sia dal vivo che sui social:articolo preso da Contropiano(news-economia ).

Più disoccupati, più analfabeti funzionali e più malati. La situazione sociale del paese è in caduta libera.

di  Stefano Porcari 
Nel terzo trimestre dell’anno che sta per chiudersi, l’occupazione è diminuita ancora, con 52 mila unità in meno rispetto ai tre mesi precedenti Calano anche i disoccupati, 14 mila in meno ma a questa flessione, corrisponde un aumento molto simile sul numero di inattivi, saliti di 123 mila unità che escono dal mercato del lavoro e assommano a 13 milioni 299 mila unità nella fascia di età 15-64 anni). Sono questi i dati pubblicati da Istat, ministero del Lavoro, Inps, Inail e Anpal nella Nota trimestrale congiunta sulle tendenze dell’occupazione relativa al terzo trimestre 2018.

Ma non è l’unico dato critico sulla situazione sociale del paese. In Italia un giovane su quattro, il 24,1%, non studia e non lavora (Neet). Un dato in ulteriore peggioramento rispetto al passato. Particolarmente critica la dinamica dell’uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione (14% dei giovani di 18-24 anni) in crescita dopo 10 anni di ininterrotta diminuzione, specialmente al Nord.

In Italia – si legge nel rapporto Bes dell’Istat – i principali indicatori dell’istruzione e della formazione si mantengono molto inferiori alla media europea.

Le persone di 30-34 anni che hanno completato un’istruzione terziaria (università e altri percorsi equivalenti) sono state il 26,9%, una percentuale ancora distante dalla media europea (39,9%). Tra i paesi Ue soltanto in Romania il valore è inferiore (26,3%).

Anche la percentuale di persone di 25-64 anni con almeno il diploma è significativamente più bassa di quella media europea (rispettivamente 60,9% e 77,5%). Solo Spagna (59,1%), Malta (51,1%) e Portogallo (48%) hanno segnato percentuali più basse.

Infine, ma non certo per importanza, secondo le recenti elaborazioni su dati Istat presenti nel Rapporto OASI 2018, una famiglia con un reddito basso in Italia spende in media ogni mese per la propria salute un decimo di quanto spende una famiglia appartenente al gruppo di reddito maggiore: 25 euro contro 254 euro, fra medicinali, cure dentistiche, dispositivi biomedicali e assistenza. La metà delle famiglie appartenenti al primo gruppo risiede nelle regioni del Sud, quasi un componente su cinque è disoccupato e tre su quattro non hanno un diploma.

La situazione sociale della salute vede ormai oltre mezzo milione di italiani che nel 2018 non hanno potuto permettersi cure mediche e farmaci. 13,7 milioni hanno limitato le spese per visite ed accertamenti.
Nel contempo la spesa farmaceutica non sostenuta da Sistema Sanitario Nazionale e, quindi, a carico delle famiglie è arrivata al 40,6%.
Tutto questo fa il paio con l’aumento della mortalità, 50mila in più nel 2015 rispetto al 2014, 35mila in più nel 2017 rispetto al 2016, picchi analoghi a quelli registrati nel corso della seconda guerra mondiale e della crisi del 1929 (Fonte: rapporto 2018 Fondazione Banco Farmaceutico Onlus). Altro che aumento delle aspettative di vita. I dati forniti dalle autorità sono taroccati e funzionali solo a mantenere un sistema pensionistico infame e ingiusto.
La situazione della sanità, ci parla poi di liste d’attesa infinite, di sempre più farmaci a carico dei pazienti, di sempre più privatizzazione dei servizi sanitari e di calo di qualità dei servizi pubblici.

Fermare questa caduta libera della situazione sociale del paese sta diventando una emergenza. I pannicelli caldi annunciati dal governo sono risibili, e non spezzare i diktat della gabbia dell’Unione Europea significa, nella migliore delle ipotesi, accompagnare questa caduta non fermarla. Per questo occorre un cambio di passo e di mentalità politica, dall’alto e dal basso, rompendo i vincoli imposti da Bruxelles e facendo saltare la camicia di forza dei Patti di Stabilità a tutti i livelli: europeo, nazionale, locale. Prima lo si fa, meglio sarà per tutti.

mercoledì 19 dicembre 2018

ORBAN,IL POPULISTA SENZA POPOLO




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Il nazionalpopulista Orban,primo ministro ungherese,continuando nelle sue politiche xenofobe e sovraniste alla fine ha tirato troppo la corda ed il popolo si riversa nelle strade per protestare contro le nuove decisioni del suo esecutivo.
In una nazione dove la televisione pubblica è accondiscendente e prona ai governanti e ai potenti,le migliaia di persone hanno manifestato in massa lo hanno fatto proprio sotto la sede della tv di Stato,e le immagini ed i servizi giornalistici hanno fatto il giro del continente.
L'articolo di Left(in-ungheria-il-populismo-non-ha-piu-il-popolo )parla della nuova legge che innalza a 400 ore il tetto delle ore straordinarie che i lavoratori sono costretti a fare,avvantaggiando i padroni che possono pagare tali lavori extra in tre anni.
Ci sono anche altre tematiche importanti come la giustizia che fanno preoccupare gli ungheresi,divisi tra un'estrema destra e quella di Orban,anch'essa comunque razzista come si è visto nella campagna contro gli immigrati supportata anche da altri personaggi come il ministro del tutto Salvini(vedi:madn i-nuovi-mostri ).

In Ungheria il populismo non ha più il popolo.

di Giulio Cavalli
Ne parlano poco perché si sa, Viktor Orban dovrebbe essere il modello di autorevolezza a cui qualcuno dalle nostre parti aspira, l’uomo che respinge i migranti senza se e senza ma, colui che secondo alcuni assicura l’ordine nonostante “l’ordine” sia solo il sinonimo marcio della perdita della libertà.

Bene: in Ungheria da giorni protestano lavoratori e sindacati per una legge che alza a 400 ore il tetto di straordinari e che spalmano il pagamento delle ore in più in tre comodi anni per il datore di lavoro. Una legge “del più forte” che è un favore a chi, da imprenditore, può tenere sotto scacco i lavoratori con un ritorno agli anni 60 in tema di diritti. Stupisce? No, per niente.

Tra le riforme contestate tra l’altro c’è anche quella che riguarda la giustizia (ma va?) e che affida al governo il controllo su materie come le gare d’appalto pubbliche e i contenziosi elettorali. Sì, avete letto bene, i contenziosi elettorali.

Sotto l’occhio della protesta sono finiti anche i media pubblici, accusati di essere supini alla volontà di Orban e del suo governo. Anche in questo caso stupisce che ci si stupisca: la libertà di stampa da quelle parti è considerata come libertà di scegliere come assoggettarsi al potere. Nient’altro.

Nei giorni scorsi due deputati del partito d’opposizione LMP, Ákos Hadházy e Bernadett Szél, hanno provato ad entrare nella sede della televisione pubblica per leggere un appello e sono stati buttati fuori dall’edificio con la minaccia di una condanna “a 10 anni”.

Il governo che si vanta di avere chiuso le frontiere ha perso dal 2010 (anno di insediamento di Orban) qualcosa come seicento mila ungheresi espatriati all’estero, in particolare i più istruiti. Le aziende ungheresi intanto (tra cui anche quelle italiane che hanno delocalizzato in nome di un sovranismo che non vale evidentemente dal punto di vista fiscale) hanno seri problemi di manodopera: così il populista Orban ha deciso bene di spremere i lavoratori rimasti. Alla grande, direi.

La vicenda però racconta perfettamente un concetto essenziale: Orban è riuscito a erodere i diritti e le libertà finché i suoi ungheresi potevano avere la tranquillità di un reddito e di un lavoro, tranquilli nella propria quotidianità e addirittura soddisfatta del respingimento dei diritti degli altri, ma alla fine la lenta erosione della libertà arriva inevitabilmente per tutti, sempre. E quando ci si accorge che sta accadendo è quasi sempre già troppo tardi.

Historia magistra vitae, dicevano i latini. Già.

Buon mercoledì.

martedì 18 dicembre 2018

IL TRIBUNALE CONDANNA IL COMUNE DI LODI NEL CASO MENSE


Come previsto il"caso Lodi"che aveva fatto il giro dell'Italia per via della mensa negata ad alcuni  bambini stranieri delle scuole comunali della piccola città lombarda,è arrivata in tribunale e la sentenza è che il comune ha adottato una condotta discriminatoria.
Da tutto il paese erano stati raccolti spontaneamente i soldi necessari per il pagamento dei pranzi di questi bambini,rei solamente di essere non italiani,anche se la maggior parte di loro nati qui,e di omissioni avvenute da parte dei genitori per documentazioni difficilmente reperibili durante la compilazione della dichiarazione Isee.
Articolo di Contropiano:lodi-il-tribunale-condanna .

Lodi. Il Tribunale condanna la discriminazione contro i bambini stranieri nelle mense.

di  Redazione Contropiano 
Il Tribunale di Milano ha accertato la “condotta discriminatoria del Comune di Lodi” sul caso del servizio mensa dal quale sono stati esclusi di fatto alcuni bambini stranieri e ha ordinato di “modificare il ‘Regolamento per l’accesso alle prestazioni sociali agevolate’ in modo da consentire ai cittadini non appartenenti all’Unione Europea di presentare la domanda di accesso” alle stesse condizioni degli italiani. La sentenza del Tribunale è avvenuta sulla base di un ricorso dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione e del Naga.

Nelle scuole comunali di Lodi circa 200 bambini di origine straniera erano stati esclusi dalla mensa perché nella compilazione dell’Isee i genitori non avevano presentato la documentazione prevista dal nuovo regolamento comunale e che riguardava la denuncia eventuali redditi nei paesi di origine, documentazione di difficilissima produzione. Non esistono infatti convenzioni o leggi nazionali che lo prevedano.

Il Comune di Lodi (leghista) lo aveva introdotto circa un anno fa, il 4 ottobre 2017 infatti era stata approvata la delibera di consiglio comunale che andava a modificare il regolamento comunale per l’accesso alle prestazioni sociali. Le nuove disposizioni sono entrate in vigore il 23 ottobre successivo, anche se le prime ripercussioni concrete si sono materializzate solo con l’inizio di questo anno scolastico.

sabato 15 dicembre 2018

IMPRENDITORI ASSASSINI


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Questo non è il primo caso e purtroppo nemmeno l'ultimo di un lavoratore in nero ucciso ed abbandonato,capita soprattutto nel mondo dell'edilizia ed in quello dell'agricoltura,e la fine del giovane moldavo Vitali Mordari è frutto dello schiavismo e del capitalismo imprenditoriale che sfrutta in questo caso fino alla morte i lavoratori.
Nel ricco nord est ecco che un imprenditore senza scrupoli viene avvisato del grave infortunio dell'operaio che ha avuto la testa colpita da un cavo tranciato di una piccola teleferica usata per trasportare il legname.
Ancora agonizzante è stato spostato di qualche centinaio di metri dal luogo dell'incidente e avvenuto il suo ritrovamento da subito si è capito che qualcosa non andava:infatti in poche ore il padrone assassino viene riconosciuto come responsabile della morte ma non è finito in carcere essendo stato denunciato per omicidio colposo e truffa.
Una vergogna che forse rimarrà tale grazie alla politica di sfruttamento aumentata paurosamente col decreto Salvini che nei prossimi mesi farà aumentare il numero di clandestini e di conseguenza sia un possibile incremento di criminalità ed un sicuro più ampio sfruttamento di questi disperati disposti a fare di tutto in cambio di pochi Euro.
Articolo di Contropiano:litalia-dellorrore-imprenditore .

L’Italia dell’orrore. Imprenditore schiavista butta nel burrone il corpo del lavoratore ucciso.

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo) 
Una storia di ferocia imprenditoriale, di quel mondo che sicuramente fa parte dell’Italia che piace al leghista Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del consiglio.

Un padrone di Belluno assumeva clandestini in nero per tagliare i boschi nel trentino e uno di loro é stato ucciso dall’ennesimo incidente sul lavoro per mancanza di sicurezza. A questa feroce normalità quotidiana il padrone ha poi aggiunto la sua lurida infamia: per nascondere le sue responsabilità ha buttato il corpo del povero operaio morto in un dirupo.

Vitali Mordari ha concluso così la sua giovane vita, ucciso e poi gettato via come un ramo secco. Se questo è un uomo.

Questo porco padrone alla fine è stato scoperto, però é stato solo denunciato a piede libero, per omicidio colposo e truffa. Eh no! questo è un assassino che ha nascosto il cadavere della vittima del suo sfruttamento schiavista, questo imprenditore andava messo in galera.

Ma la realtà é che nell’Italia di oggi la ricerca del massimo profitto giustifica tutto, anche infierire sul povero corpo di una persona uccisa sul lavoro. E anche i magistrati finiscono per far propria questa vergognosa attenuante di mercato; e così derubricano questo delitto orrendo, come se fosse un incidente stradale senza assicurazione.

Non troverete traccia di questo assassinio nella fiera degli orrori ospitata sui social del ministro Salvini, questa é riservata solo a chi ha la pelle scura. Il delitto contro un immigrato di un bianco, in più veneto, in più imprenditore, non rientra certo in ciò su cui il leader leghista è solito urlare. E poi il Decreto Sicurezza non solo ignora la prima sicurezza violata in Italia, quella sul lavoro, ma alimenta lo schiavismo.

Decine di migliaia di migranti diventeranno clandestini grazie a quel decreto e quindi padroni come l’assassinio dei boschi di Trento avranno altre persone da sfruttare con il ricatto: o fai lo schiavo o ti denuncio. Ricatto che sicuramente sarà stato esercitato anche sui compagni del povero boscaiolo ucciso. Per farli tacere.

Alla fine grazie al Decreto Salvini padroni della peggior specie potranno continuate a fare gl imprenditori nel solo modo che conoscono: quello schiavista. E sicuramente di questo lurido regalo mostreranno riconoscenza elettorale.

Questa è l’Italia che non ci piace, anzi ci fa orrore.

venerdì 14 dicembre 2018

SFORAMENTI SI,SFORAMENTI NO


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Un piccolo risultato i gilet gialli francesi l'hanno ottenuto con le loro proteste che durano da un mese e che hanno provocato paralisi nei trasporti e violenti scontri a Parigi e in altre città:vedere il Presidente Macron con la coda tra le gambe in televisione dire di aumentare i salari minimi e alcune diminuzioni delle tasse,come le accise sui carburanti che hanno scatenato il tutto,non è cosa che si vede tutti i giorni in questi anni di crisi.
Infatti le misure di austerità introdotte dal governo d'oltralpe hanno visto la gente ribellarsi e scendere per le strade,non come in Italia dove gente senza palle e governanti pagliacci,come giustamente scritto nell'articolo proposto(contropiano la-francia-sfora-il-deficit-lue-approva )che evidenzia il fatto che i soldi utilizzati per salari e detassazioni verranno presi andando in debito con l'Europa,mossa che ha fatto infuriare i politici italiani visto che lo sforamento concesso ai francesi da Moscovici sarà aumentato al 3%.
Invece da noi si continua a pescare dalle tasche del proletariato(madn la-vocegrossadel-padrone)senza che nessuno faccia niente,e l'esempio da imitare ci è dato sempre dai francesi che grazie alla loro lotta sociale non delegano la politica a mera amministrazione e show televisivo.

La Francia sfora il deficit, l’UE approva…

di  Salvatore Prinzi 
Che cose incredibili fa la lotta di classe! Faccio un breve riepilogo e poi dico secondo me cosa dovremmo fare.

In Francia, di fronte all’ennesima misura del Governo Macron che penalizza attraverso la tassazione le classi popolari, nasce un mese fa il movimento dei gilet gialli. Un movimento cominciato da lavoratori autonomi e piccola borghesia impoverita che si estende poi ad altri segmenti di società (studenti, reti sindacali e politiche, fasce di proletariato marginale), che scende in piazza con forza e traduce la propria particolaristica rivendicazione in elementi politici ancora spuri ma più generali (ritorno alla sovranità, redistribuzione della ricchezza etc).

Blocchi, manifestazioni, pesanti scontri con le forze dell’ordine nel salotto buono degli Champs Élysées, fanno saltare weekend di shopping e creano un clima sfavorevole ai profitti.

Grazie a questa lotta – e sì, anche alla violenza che mette in campo – il Governo Macron, finora arrogante e teso solo alla repressione – deve andare in tv con la testa bassa a proporre una trattativa.

In realtà Macron mette poco sul piatto, ma mette qualcosa: piccoli aumenti di salario, detassazioni etc. Dove trovare però i soldi per finanziarie queste misure? Chiaramente non tassando i ricchi, che sono i suoi azionisti di maggioranza, ma drenando risorse dalla collettività attraverso la fiscalità generale e andando in debito. Una mossa da vecchia DC, insomma. Si calcolano 8-10 miliardi, che farebbero andare il rapporto deficit/PIL oltre il 3%, da sempre cifra indiscutibile per l’UE.

Incredibile a dirsi, l’UE sembra essere d’accordo ad allentare i cordoni della borsa: pur di tacitare la lotta di classe ed evitare che si contagi ad altri paesi, meglio dare il contentino e sperare nel Natale!

(Dunque non esiste qualcosa che è possibile o impossibile per decreto: il campo di possibilità è sempre aperto dalle lotte, da quello che fanno e inventano gli esseri umani liberi!)

Ovviamente la cosa non sfugge al Governo Italiano, che prova ad approfittarne: “ci state facendo due palle così sul 2,4% e ora alla Francia concedete il 3%? Allora sforiamo anche noi!”.

Potenza delle lotte in un modo di produzione economico ormai integrato! La mobilitazione del popolo francese – anche se non è consapevolmente internazionalista – ricade immediatamente sull’Italia e dà in teoria un assist per strappare meno austerità.

Ma l’UE se ne sbatte: sia perché da noi la mossa da vecchia DC di andare in debito per dare qualche briciola alle classi popolari senza toccare i profitti è stata fatta per 30 anni e ha prodotto debito altissimo, dispersione, corporazioni etc. Sia perché da noi non esiste un livello paragonabile di scontro sociale, ma solo un popolo passivo e un governo di buffoni.

Morale della favola: il governo italiano, al di là delle sceneggiate, si piegherà come al solito. Scordatevi quindi che un miglioramento delle nostre condizioni verrà da Lega e 5 Stelle, che non hanno alcuna intenzione di rompere con le politiche precedenti di centrodestra e centrosinistra.
Ma più in generale, scordiamoci che un miglioramento delle nostre condizioni possa avvenire senza scontro sociale, senza il ritorno a una generale conflittualità di classe.

La politica, senza spinta sociale, è soltanto o amministrazione o teatro. Se non ci prendiamo le strade e facciamo come in Francia, nulla cambierà. Ma le esplosioni non avvengono a caso: sono il frutto di accumulazioni carsiche, di processi culturali e materiali, anche di provocazioni del potere. Quindi se prima non ci organizziamo scientificamente sui territori, sui posti di lavoro, per accumulare forze, nessun cambiamento si potrà mai produrre, e ogni scintilla si spegnerà da sola.

Inoltre questo governo di buffoni non ha ancora bruciato il suo capitale di aspettative, i nodi non sono ancora arrivati al pettine agli occhi delle masse. Non è detto che accada subito: possono continuare a promettere e a rinviare dicendo “è colpa degli altri” ancora per un po’, inventarsi nuove elezioni politiche etc.

Ma proprio per questo dobbiamo approfittare di questi mesi per radicarci e costruire organizzazione, per farci trovare pronti a trasformare la delusione delle masse in protesta e consapevolezza politica.

Proprio per questo dobbiamo sostenere il movimento francese e renderne leggibili agli italiani temi e pratiche, spingere attraverso il gilet giallo un immaginario di rivolta intorno al tema della redistribuzione della ricchezza, creare connessioni europee.

E anche per questo come Potere al Popolo saremo in piazza a Roma il 15 dicembre, insieme a braccianti, badanti, richiedenti asilo, alle fasce di proletariato e sottoproletariato più sfruttate di questo paese, al sindacalismo conflittuale.

giovedì 13 dicembre 2018

DOPO BARI LE DOBBIAMO CHIUDERE TUTTE


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La decisione della chiusura della sede dei decerebrati Cagapovndisti a Bari dovrebbe essere la naturale conseguenza del rispetto delle regole della Costituzione mentre sembra che sia stata accolta come la notizia di una mosca bianca.
Gli amici di Salvini,idioti quanto il ministro di tutto,si erano resi protagonisti di un agguato verso un corteo di antirazzisti lo scorso settembre(madn agguato-bari-dopo-una-manifestazione.antirazzsta ),e trenta di loro sono stati indagati per aggressione e ricostruzione del partito fascista.
Una cosa ovvia e che in Italia viene aggirata senza neanche proteste dei partiti che si sono alternati al governo in questi anni,forse il ruolo decisivo del sindaco ha dato la scintilla perché accadesse quello che è giusto,ma nel futuro prossimo vedremo se in altre città le sedi di Ca$$a Povnd verranno chiuse,articolo di ecn.org(antifa/chiusa-la-sede-di-casapound-a-bari ).

Chiusa la sede di Casapound a Bari: 30 indagati per aggressione e ricostituzione del partito fascista ·
Estrema destra, chiusa la sede di Casapound a Bari: 30 indagati per aggressione e ricostituzione del partito fascista

Il provvedimento del tribunale di Bari al termine dell'indagine della Digos dopo l'attacco 'premeditato' ai manifestanti del corteo anti Salvini. La Procura: concreto rischio di nuovi agguati di stampo fascista

 11 dicembre 2018

 Ricostituzione del partito fascista. Oltre alle aggressioni ai manifestanti del corteo anti Salvini, compresa l'europarlamentare Eleonora Forenza, e ad alcuni carabinieri. Il tribunale di Bari ha disposto la chiusura della sede di Casapound, 'partito politico di estrema destra' scrivono i pm al termine di una lunga indagine coordinata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi.

Trentacinque le persone indagate nella prima inchiesta sull'estrema destra a Bari. La Procura contesta a 30 di loro di "aver partecipato a pubbliche riunioni, compiendo manifestazioni usuali del disciolto partito fascista e di aver attuato il metodo squadrista come strumento di partecipazione politica". E sottolinea il 'concreto' pericolo di nuove aggressioni.

I fatti partono dalla manifestazione del 21 settembre scorso quando, al termine di un corteo di protesta contro il ministro degli Interni, Matteo Salvini, organizzato dai ragazzi e le ragazze dell'ex Caserma Liberata nel quartiere Libertà, quattro persone furono aggredite da alcuni militanti di Casapound che si erano dati appuntamento proprio per la manifestazione nella loro sede di via Eritrea.

Le indagini erano andate subito in direzione dell'attacco premeditato. E il lavoro dei poliziotti della Digos, coordinati dal dirigente Michele De Tullio, ha confermato quella sensazione: secondo quanto ricostruito dalla procura, i militanti di Casapound si erano dati appuntamento proprio per 'affrontare' i ragazzi dei centri sociali. Tra loro, cinque antifascisti sono indagati per violenza e minaccia a pubblico ufficiale per i momenti immediatamente successivi all'aggressione.

Trenta militanti del movimento di estrema destra rispondono invece di 'riorganizzazione del disciolto partito fascista' e 'manifestazione fascista' e dieci di loro di aver materialmente compiuto l'aggressione. A incastrare i militanti di Casapound sono state le immagini delle telecamere di sorveglianza. E quanto ritrovato nelle perquisizioni: dai manubri da palestra al busto di Benito Mussolini, dalla bandiera della X Mas al Mein Kampf di Adolf Hitler. A casa degli indagati sono stati trovati libri su Hitler e lo squadrismo, cartoline raffiguranti Mussolini e altre bandiere con l'aquila fascista.

Secondo la ricostruzione il 21 settembre dieci militanti di CasaPound, dinanzi alla sede di via Eritrea, "in esecuzione di un medesimo disegno criminoso giustificato dalla ideologia fascista" con "sfollagente, manubri da palestra, manganello telescopico, cintura dei pantaloni" e con premeditazione, hanno causato lesioni personali ad almeno quattro manifestanti.

Quella sera nella sede barese di CasaPound, "solitamente frequentata da poche persone" erano giunti militanti da tutta la regione, da Foggia, da Lecce e da Brindisi. Si sarebbero dati appuntamenti "nel luogo e all'orario coincidente con il transito del corteo", per poi "schierarsi a braccia conserte di traverso alla via" come ad attendere i manifestanti. Il gip Marco Galesi nel provvedimento di sequestro preventivo parla di "spedizione punitiva", "azione violenta unilaterale", di "feroce esplosione di violenza ai danni di persone inermi e del tutto incapaci di qualsiasi reazione".

Dopo l'aggressione squadrista la risposta della città non si è fatta attendere. Prima con una manifestazione antifascista convocata nei giorni immediatamente successivi, con 3mila persone in piazza, alla quale è intervenuto anche lo studioso e filologo di fama mondiale Luciano Canfora.
Bari, la lezione di Canfora ai 3mila antifascisti in piazza: "Siamo caduti in basso, così si dice basta"

Poi a prendere una posizione forte è stato proprio il sindaco di Bari, Antonio Decaro, che durante la commemorazione per la morte di Benedetto Petrone, il 18enne ucciso in un agguato fascista il 28 novembre 1977, ha chiesto la chiusura delle sedi fasciste in città.

"L'indole violenta e aggressiva legata a ragioni di estremismo ideologico e politico" dei militanti di CasaPound fa "ritenere concreto il pericolo che, ove si presentino occasioni analoghe, legate a manifestazioni di pensiero a loro 'sgradite', possano tornare a usare la sede come base operativa per sferrare simili aggressioni organizzate". Lo scrive ancora il gip Galesi nel decreto di sequestro preventivo della sede barese di Casapound, che era aperta dal maggio 2016.

I militanti di estrema destra identificati e indagati sono 30, di cui due donne, due minorenni e il 41enne Giuseppe Alberga, responsabile della sede di Casapound sequestrata. Altri cinque indagati (e non sette come si era appreso in precedenza), accusati di minaccia e violenza e pubblico ufficiale, sono militanti del centro sociale 'Ex Caserma Liberata'.

https://bari.repubblica.it/cronaca/2018/12/11/news/bari_sequestrata_sede_casapound-213963957/?ref=RHPPBT-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1

Aggressione corteo: sigilli alla sede di Casapound a Bari
Pm contesta la riorganizzazione del partito fascista, 35 gli indagati

11 dicembre 2018

Su disposizione della magistratura barese è stata sottoposta a sequestro preventivo la sede di CasaPound a Bari. L'indagine riguarda l'aggressione del 21 settembre compiuta da militanti del movimento di estrema destra nei confronti di manifestanti che avevano appena partecipato ad un corteo antifascista e antirazzista.
Nell'aggressione rimasero ferite tre persone: Giacomo Petrelli di Alternativa Comunista, Antonio Perillo, assistente parlamentare dell'eurodeputata Eleonora Forenza (anche lei presente al momento dell'aggressione) e Claudio Riccio di Sinistra Italiana.
Le indagini della Digos di Bari sono state coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi che contesta agli indagati anche i reati di riorganizzazione del disciolto partito fascista e manifestazione fascista. In particolare, si contesta di "aver partecipato a pubbliche riunioni, compiendo manifestazioni usuali del disciolto partito fascista e di aver attuato il metodo squadrista come strumento di partecipazione politica". Sono indagate 35 persone: 28 militanti del movimento di estrema destra rispondono di 'riorganizzazione del disciolto partito fascista' e 'manifestazione fascista' e dieci di loro di aver materialmente compiuto l'aggressione; sette manifestanti antifascisti sono invece accusati di violenza e minaccia a pubblico ufficiale.

Stando alle indagini della Digos, coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, la sera del 21 settembre dieci militanti di CasaPound, dinanzi alla sede di via Eritrea, "in esecuzione di un medesimo disegno criminoso giustificato dalla ideologia fascista" con "sfollagente, manubri da palestra, manganello telescopico, cintura dei pantaloni" e con premeditazione, hanno causato lesioni personali ad almeno quattro manifestanti. Dopo l'aggressione un gruppo di manifestanti antifascisti, compagni delle vittime, avrebbero minacciato e colpito con calci, pugni e spintoni poliziotti e carabinieri intervenuti per sedare gli animi e contenere il tentativo di sfondamento del cordone".

 http://www.ansa.it/puglia/notizie/2018/12/11/aggressione-corteo-sigilli-a-casapound_19b63404-287d-4cb6-bc65-fb48958adebf.html

mercoledì 12 dicembre 2018

SIGARO

L'immagine può contenere: una o più persone e testo

Oggi è un post un poco differente tra quelli che caratterizzano questo blog perché parla della morte di Angelo Conti,per tutti Sigaro,anima della Banda Bassotti,una scomparsa a causa di una malattia che ha reso tristi migliaia di compagni e compagne sparsi in tutta Italia e in tutto il mondo.
Perché il messaggio suo e di tutto il gruppo italiano più famoso e conosciuto di combat rock,la solidarietà e l'impegno attivo in prima persona non si è limitato solamente alla lotta al fascismo,alla difesa degli ultimi,alle denunce sociali e politiche e alla lotta al diritto della casa e del lavoro in Italia.
La loro militanza ha toccato vari luoghi del mondo,vicini e lontani,per fare emergere problematiche ma anche popoli dignitosi e combattenti che non hanno voce,dal Centro America ai Mapuche,dal Donbass agli amati Paesi Baschi.
Ho avuto modo di conoscere personalmente Sigaro in compagnia dei miei amici più cari,in trasferte più o meno lunghe a volte epiche,visto innumerevoli concerti dove si incontravano amici di ogni dove sempre con immenso piacere.
Mitiche le gite come le chiamiamo,più che altro avventure come quelle di Genova in ricordo di Spagna,a Roma dove giocava in casa,a Livorno,a Rovato e Bergamo,a Rozzano per Dax e Bologna per omaggiare Joe Strummer fino ad Alsatsu in Euskal Herria e per i Mondiali Antirazzisti e tante altre.
Una voce unica,testi di una poetica fine unita a messaggi di amore e pace,ma anche di legittimo odio per chi calpesta i diritti altrui,soprattutto di quelli più emarginati e indifesi:tristezza mista a dolci ricordi che col proseguire del tempo rimpiazzeranno questo stato di impotenza di fronte alla morte.
Chissà se andrai oltre tutto,seguendo le orme di Juri Gagarin volando verso l'infinito e l'ignoto,so solamente che hai lasciato il segno assieme ai tuoi compagni nel cuore e nell'animo di tutti noi,addio avanzo de cantiere,un saluto a pungo chiuso.
Qui sotto il redazionale di Contropiano in memoria di Sigaro:e-morto-sigaro-figlio-della-nostra-stessa-rabbia .

E’ morto “Sigaro”, figlio della nostra stessa rabbia.

di  redazione
I funerali di “Sigaro” si terranno giovedì 13 dicembre alle 12.30 al Tempietto Egizio al cimitero Verano di Roma

La notizia si è diffusa nel pomeriggio come una mazzata. Angelo Conti detto “Sigaro” chitarra e voce della Banda Bassotti è morto oggi, a 62 anni, a causa di una malattia. “Sigaro” è stato tra i fondatori della Banda Bassotti.
 Il gruppo che ha segnato il combat rock e lo ska militante in Italia e nel mondo nasce nel 1981 nella estrema periferia di Roma tra gli operai nei cantieri edili romani. I Bassotti e Sigaro con loro erano  “pontisti”  misero la loro esperienza sul lavoro a disposizione come brigata di lavoro per progetti di solidarietà internazionale in Nicaragua e in altri paesi in lotta contro l’imperialismo . Nonostante i successi, ha sempre mantenuto una caratterizzazione operaia e proletaria, rifiutando la scelta del professionismo musicale, “Figli della stessa rabbia”, con cui tutti noi vogliamo ricordare con affetto e stima Sigaro.

Ciao Sigaro, compagno, operaio, artista, rivoluzionario, la terra con te sarà sicuramente lieve

la redazione di Contropiano

martedì 11 dicembre 2018

UNA CARTA FONDAMENTALE E SPESSO CALPESTATA


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I richiami verso l'Italia per l'inosservanza di molti articoli presenti nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo proprio nel giorno del settantesimo anniversario della sua promulgazione fa nascere alcune domande racchiuse nell'articolo preso da Left(ma-la-firmerebbero-oggi ).
E soprattutto quella fondamentale se la firmerebbero anche oggi fa discutere,in un paese,il nostro,dove razzismo e xenofobia stanno aumentando sempre più accompagnati da politiche che ne esaltano le nefandezze.
Una Carta sempre più trattata come straccia,come la nostra Costituzione,calpestata e infangata,sempre a rischio di cambiamenti strutturali e ormai per certi versi non più consultata soprattutto per quel che riguarda il capitolo dei diritti e della giustizia.

Ma la firmerebbero oggi?

di Giulio Cavalli
Dico la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, quella che ieri un po’ tutti hanno agitato come un feticcio, quella che ormai è diventata un Colosseo sotto vetro da agitare per sollevare la neve finta e illudersi di essere a Roma.

«Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo», lo firmerebbero oggi, quelli che governano? Riuscirebbero a pronunciare famiglia umana oppure esploderebbero le teste dei sovranisti dallo sguardo largo quanto il loro cortile? Davvero, per sapere.

«Considerato che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo», lo firmerebbero oggi? La libertà dal timore non è proprio l’esatto opposto delle fondamenta di tutta questa propaganda che proprio sul timore ha costruito il suo successo? Dai, non scherziamo su.

E poi.

«Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti», lo firmerebbero? E se sì, lo spedirebbero poi controfirmato a quel Al Sisi regnante d’Egitto che ci parlò di Giulio Regeni come di un ragazzetto coinvolto in un incidente stradale? Ma davvero?

E poi.

«Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge». Ma sul serio? Come i bimbi della mensa di Lodi? Come i richiedenti asilo che non hanno diritto al normale dibattimento di un altro qualsiasi processo?

E poi.

«Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese». E su questa non c’è nulla da aggiungere. È già agghiacciante letta così.

Le convenzioni internazionali non si sventolano e non si tengono sulla giacca come se fossero stellette. Si praticano, semplicemente. Oppure almeno la dignità di tacere. Per pietà.

Buon martedì.

giovedì 6 dicembre 2018

PIANETA TERRA CHIAMA KATOWICE


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In principio furono gli Stati Uniti a fregarsene dei patti firmati a Parigi durante la conferenza mondiale sul clima di Parigi del 2015,figlia del protocollo di Kyoto del 1997 sul surriscaldamento globale,e poi a ruota anche altri paesi,soprattutto asiatici come Cina,Giappone e India,a pensare e oggettivamente anche con i fatti,ad accantonare ciò che era stato sottoscritto.
L'articolo di Infoaut(katowice-cop24-l-ennesima-farsa-globale-sull-ambiente )parla di questi giorni durante i quali a Katowice in Polonia i potenti di una terra sempre più malata stanno litigando per le sempre più fuoriuscite di paesi che incentivano l'uso di combustibili fossili,in primis il carbone,aggravando lo stato delle cose che possiamo toccare con mano ogni giorno,con aria irrespirabile ed un innalzamento delle temperature sempre più evidente.
Parlando del piccolo orticello in confronto alla grandezza del mondo in Pianura Padana stiamo da anni respirando merda,e le cifre impietose sulle morti causate dal cambiamento climatico dovuto ad un inquinamento sempre più opprimente sono scritte nero su bianco(madn la-politica-dei-proclami-danni-avvenuti ).
Si approfondisce naturalmente il fatto che la corsa ad un capitalismo sempre più spietato e sfrenato,la produzione tutta e subito in barba all'ambiente,l'assenza di solidarietà dei paesi più ricchi nei confronti di quelli emergenti e poveri,sono tutti fattori che incidono in maniera fatale verso la distruzione del pianeta terra.

Katowice, COP24: l'ennesima farsa globale sull'ambiente

Ha aperto ieri i suoi lavori a Katowice, Polonia, la ventiquattresima edizione della Conferenza Internazionale sul Clima delle Nazioni Unite.

Obiettivo prioritario del meeting è, in teoria, la definitiva implementazione delle linee guida previste dall'accordo sui cambiamenti climatici, raggiunto a Parigi nel 2015. Sono molte le ombre che aleggiano però sulla possibilità di una risoluzione a livello globale di un problema sempre più evidente. Ma che semplicemente cozza con l'imperativo unico del sistema capitalistico: il raggiungimento del profitto a tutti i costi.

Andando con ordine. In primis, a boicottare ogni possibile esito positivo è la volontà americana di non rientrare nell'accordo da cui Washington si è ritirata qualche mese fa. Un accordo che già era molto riduttivo rispetto alle reali esigenze di salvaguardia dell'ambiente. Trump, noto negazionista climatico, è determinato nella sua posizione, dato il sostegno che gli hanno assicurato le lobby del carbone nella campagna elettorale del 2016.

Ciò nonostante lo scorso 23 Novembre tredici agenzie federali americane abbiano pubblicato i risultati di uno studio secondo il quale gli USA rischierebbero, in assenza di politiche adeguate sul tema, una contrazione di circa il 10% dell'economia del paese da qui alla fine del secolo.

Inoltre, l'elezione alla presidenza di Bolsonaro in Brasile rischia di portare anche il paese latinoamericano fuori dall'accordo, dati gli interessi delle grandi lobby del paese in merito alla deforestazione dell'Amazzonia e allo sfruttamento di massa delle risorse energetiche nel sottosuolo del paese. Ma pure in Unione Europea non si scherza nel predicare bene e razzolare male.

Basti pensare che la delegazione che ospita il vertice ha affermato al termine della prima giornata di lavori che la Polonia “non può fare a meno del carbone”. Va aggiunto ai problemi sul tavolo anche l'aumento del consumo e della produzione di combustibili fossili da parte di paesi in rapido sviluppo come Cina, India, Vietnam, Indonesia. Perfino il segretario Onu Guterres ha parlato di un mondo “completamente fuori rotta”.

Per alcuni studi, se non si interviene entro 20 anni con politiche aggressive in materia, le centinaia di morti che al giorno d'oggi sono dovute ai cambiamenti climatici potrebbero diventare milioni. Di fatto una strage invisibile, che porterà a movimenti migratori ancora più imponenti di quelli che si stanno registrando in questi anni. Con mercenari della politica ai quattro angoli del globo pronti a sfruttarli nei termini che ben conosciamo. Ma tra le conseguenze ci sarà anche lo scaricamento della crisi ecologica sui subalterni nelle società, ad esempio rispetto all'accesso a risorse come l'acqua.

L'inazione degli Stati sul deterioramento dell'ambiente non è altro infatti che una strategia politica. Come riportato su una scritta muraria in Francia in queste settimane di mobilitazione, la crisi climatica non è altro che una guerra contro i poveri. La distruzione dell'ambiente viene sempre affrontata, nella migliore delle ipotesi, con il suggerimento di tenori di vita inferiori, con l'abbassamento delle aspettative di vita di chi è già in una posizione sfavorevole.

E' proprio contro questo far pagare ai meno abbienti il costo dello sviluppo capitalistico che si stanno ribellando, tra le altre cose, i gilet gialli. Ed è questo che hanno suggerito anche le migliaia di persone che hanno sfilato domenica in piazza a Bruxelles il giorno prima dell'apertura del vertice. Il problema è che serve un cambio di sistema, per affrontare il cambiamento climatico.

L'accordo di Parigi finora è stato ratificato da 183 paesi. A differenza del Protocollo di Kyoto, suo predecessore, non prevede obiettivi vincolanti per i paesi firmatari. L'obiettivo dell'accordo è di mantenere l'innalzamento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. Cercando allo stesso tempo di non farla esondare oltre il grado e mezzo. Non è una eventualità semplice: dovrebbe infatti verificarsi una diminuzione di circa il 45% delle emissioni da qui al 2030. E' oggettivamente impossibile aspettarsi qualcosa dai paesi riuniti a Katowice, che rappresentano i grandi capitali nazionali e internazionali che dalla distruzione dell'ambiente lucrano ogni giorno.

Nel meeting si dovrebbe discutere da un lato dei piani nazionali singoli di riduzione delle emissioni, con ogni paese tenuto a rendere conto su base quinquennale dei propri piani di transizione energetica. Dall'altro, si dovrebbe mettere in campo una discussione in merito agli aiuti da parte dei paesi più industrializzati e sviluppati a quelli meno. Questo al fine di offrire ai paesi in via di sviluppo una possibilità di ridurre il loro impatto energetico, finanziando programmi energetici a bassa intensità di combustibili fossili.

Ma le tensioni sulla stabilità economica internazionale e il clima ultrasovranista anche in tema energetico di fatto rendono ridicola questa road map. Secondo quanto previsto a Parigi, ai paesi in via di sviluppo dovrebbero essere consegnati aiuti per circa 100 miliardi di dollari annui, ma sia nel 2016 che nel 2017 la cifra complessiva è stata ben al di sotto di questa cifra. E possibili nuovi venti di crisi potrebbero fare addirittura scendere in futuro questa cifra.

Obiettivo sarebbe un cambio radicale nelle politiche ambientali in direzione dell'eliminazione dei combustibili fossili. Nel 2017, però, il consumo di carbone è aumentato dopo due anni di calo, e tre quarti del consumo mondiale è relativo all'Asia dove abita più o meno la metà della popolazione mondiale. La Cina sta costruendo nuove centrali a carbone in 17 paesi, e anche il Giappone dopo i fatti di Fukushima ha ripreso ad utilizzare il carbone nella sua dieta energetica.

Senza un accordo globale, il deterioramento del clima potrebbe diventare irreversibile. Ma al grande capitale, interessato solo al profitto nel minor tempo possibile, va evidentemente bene così.

mercoledì 5 dicembre 2018

LA MORTE DI UN GUERRAFONDAIO


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A commemorazione finita dell'ex Presidente Usa G.H.Bush,uno dei più grandi assassini di massa della storia umana,un guerrafondaio come nella grande tradizione dei statunitensi,ecco un articolo che ne ricorda le infamie compiute durante tutto l'arco della sua lunga vita(contropiano se-ne-andato-bush-padre-piange-tutta-la-cia ).
Dagli esordi in politica dalla parte dei repubblicani alla direzione della Cia fino alla vice presidenza sotto Reagan ed alla presidenza tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta,periodo della prima guerra del Golfo.
Dopo aver foraggiato Saddam Hussein per liberarsi degli iraniani ad inizio anni ottanta dopo l'invasione del Kuwait(petrolio-dollari)gli Usa hanno voluto liberarsi di quella presenza ormai ingombrante con la prima guerra in diretta televisiva,avvalendosi successivamente di Osama Bin Laden(amici di famiglia con i Bush)per poi proseguire con la guerra del Golfo bis e quella ad Al Qaeda in Afghanistan costruita per la paura di inesistenti armi di distruzioni di massa la prima e per eliminare l'altro ex socio di affari e guerre anche lui diventato ingestibile.

Se n’è andato Bush padre, piange tutta la Cia.

di  Redazione Contropiano 
George Herbert Bush è morto e, nella nostra tradizione, ci guardiamo bene dal rispettare il comandamento ipocrita del parce sepulto. Una carogna è una carogna è una carogna, e l’essere andato all’altro mondo – destino comune di tutti i viventi – non cancella le infamie commesse in vita.

Media mainstream e telegiornali ne hanno tessuto le lodi come guerriero, petroliere, capo della Cia (!), ambasciatore, presidente degli Stati Uniti “purtroppo” per un solo andato, causa la crisi che lo costrinse ad infrangere la sua unica – e perciò famosa – promessa elettorale: “basta aumenti delle tasse”. Omettono di ricordare che fin lì, nella tradizione anglosassone, in campagna elettorale non era “appropriato” parlare di tasse, per il buon motivo che tutti sono capaci di prometterne la diminuzione, ma è poi la congiuntura economica che ti obbliga a fare quel che si può.

Il tono mieloso e vagamente infame con cui viene ricordata la prima guerra del Golfo (una trappola fatta scattare per Saddam – storico alleato Usa nella guerra per procura contro l’Iran – che aveva praticamente ricevuto il via libera da Washington per l’invasione del Kuwait, reo di fregargli il petrolio dai giacimenti sul confine), il ruolo giocato nella “fine della guerra fredda” e successiva caduta dell’Urss, ha messo sullo sfondo altre imprese del fu presidente amerikano.

Una su tutto merita di essere ricordata nel giorno della morte, perché sia è trattato della sua sconfitta più dura contro il nemico sulla carte più debole. Cuba.

Nessuno degli zerbini redazionali che hanno riempito colonne di piombo in queste ore ha infatti ritenuto opportuno di ricordare diverse “imprese” che ne avrebbero ridimensionato non poco la “grandezza”.E magari sollevato qualche dubbio sulla sua rapidissima santificazione.

Ci sembra perciò obbligatorio ricordarne alcune.

Quella più indicativa riguarda il suolo ruolo come co-organizzatore del fallito attacco a Cuba passato alla storia come Baia dei Porci. Uno sbarco messo in atto da cubani anticastristi addestrati, finanziati, e supportati dalla Cia (di cui era ai vertici, pur gestendo già una propria compagnia petrolifera denominata “Zapata”). L’attacco avvenne utilizzando truppe “terze” per non scatenare la reazione sovietica (allora infatti c’era l’Urss, e vigeva “l’equilibrio del terrore”).

Cuba rimase un suo incubo, ma per quanto si sia ingegnato sta ancora lì.

La seconda concerne invece il suo ruolo nel consolidamento dei rapporti economici e politici con la famiglia saudita Bin Laden (di seguito, in fondo a questo articolo), un cui rampollo divenne decisamente famoso all’alba del nuovo millennio come fondatore e capo di Al Qaeda, organizzazione terroristica messa su insieme alla Cia per combattere – con successo, stavolta – l’Urss in Afghanistan e poi “rivoltatasi” contro i vecchi padrini.

La storia dei Bush è parzialmente ma istruttivamente ricostruita in quest’altro reportage. E, nel momento in cui tutti ricordano che, pur essendo un repubblicano di destra, non ha mai sopportato Donald Trump, sembra utile ricordare anche le non poche ombre che lo hanno circondato a proposito dell’omicidio di John Fitzgerald Kennedy (suo presidente proprio all’epoca della Baia dei Porci).

Un “personaggetto” niente male, insomma, difficile da santificare…

*****

Bush e Bin Laden, soci d’affari e amici per la pelle

di Francesco Piccioni

Quel vecchio pirata di Prescott Bush sarebbe veramente contento di vedere fino a che punto i suoi discendenti hanno assimilato il suo spirito. Lui che nel 1918 guidò un’incursione in un cimitero Apache per prendersi il teschio di Geronimo e farne il trofeo della sua società di studenti, la Skull & Bones (teschio e ossa). Lui che negli anni ’30 – e nei primi ’40 – trafficava con la Luftwaffe fino a vedere tre società di cui era azionista importante sanzionate per aver commerciato col nemico (violando il Trading with Enemy Act). Lui che pranzava quotidianamente con Allen e Foster Dulles (capo della Cia al momento dell’assassinio di John Kennedy) e che aveva convocato il capo della nazione Apache per una cerimonia di restituzione del teschio di Geronimo; finita male, perché provò ad affibbiargli un teschio qualsiasi, offendendolo a morte.

Era certamente contento del primogenito George Herbert, petroliere di scarsa fortuna ma agente della Cia in grado di scalarne la vetta (fu nominato direttore nel ’76) nonostante il non esaltante risultato dello sbarco nella Baia dei Porci, a Cuba, di cui era il coordinatore. Però dimostrò di tenere alle radici texane, al petrolio e alla famiglia, chiamando le tre navi da sbarco Houston, Zapata (la sua prima e scalognata società petrolifera) e Barbara (la moglie). Deve aver sorvolato su quella strana liason del figlio, negli anni ’60, con un costruttore arabo che ogni tanto veniva in Texas e cercava di introdursi nell’alta società locale. In fondo, quel Muhammad Bin Laden lì, non durò poi molto: cadde col suo aereo mentre attraversava il cielo sopra i pozzi che così poca soddisfazione davano al suo prediletto. Era il ’68, il mondo pensava ad altro.

George W., all’inizio, deve avergli dato parecchi grattacapi. Un asino a scuola (la media del “C”, a un passo dalla bocciatura), ultimo all’esame di ammissione alle forze aeree della Guardia Nazionale (giusto per schivare il Vietnam), assiduo frequentatore di bottiglie di bourbon e piste di cocaina. Ma finalmente, anche lui, si lanciava nel business del petrolio. A metà degli anni ’70 fonda la Arbusto (bush, in spagnolo) Energy, raccogliendo come soci un po’ di amici paterni (la Cia ha molti amici). Il suo compagno di scuola e di servizio militare, James Bath, gli procura investimenti da parte di Khaled Bin Mafouz e Salem Bin Laden, il figlio maggiore di Muhammad e nuovo capo della famiglia. Personaggio notevole, il Mafouz. Banchiere della famiglia reale saudita, sposo felice di una sorella di Salem e Osama, gran capo di Relief e Blessed Relief, le due “ong” arabe accusate di essere una copertura per l’organizzazione di Osama.

George, negli affari, è sfortunato. La Arbusto fallisce, si trasforma in Bush Exploration, poi in Spectrum 7. Immancabile arriva sempre la bancarotta. Ma Salem non gli fa mai mancare il suo generoso appoggio. Il successo pare arridergli quando la Harken Energy rileva la Spectrum pagando la sua quota azionaria ben 600.000 dollari. Che corrobora con un contratto di consulenza da 120.000 dollari l’anno. In breve si mette in tasca un milione, mentre la Harken ne perde decine. Ma procura un contratto di trivellazione in mare da parte del Bahrein, battendo Amoco e Esso. E’ il ’91, la guerra del Golfo sta per scoppiare, Bush padre è il presidente; e lo sceicco locale, Khalifa, preferisce non rischiare. Del resto sono anche vecchi amici di famiglia. Khalifa, Bin Mafouz, Salem Bin Laden erano nel board della Bcci quando passavano immensi movimenti di denaro per l’affare Iran-Contra.

Del resto quando, alla fine dell’80, i repubblicani si incontrano segretamente a Parigi con i khomeinisti moderati per ritardare il rilascio degli ostaggi americani a Teheran e fregare così Jimmy Carter alle elezioni, George padre raggiunge di corsa il summit a bordo dell’aereo di Salem Bin Laden. George W. è sfortunato, con i suoi soci. Su quello stesso aereo, nell”88, Salem trova la morte (anche lui) mentre attraversa il cielo sopra i pozzi del Texas. La coincidenza sembra a molti eccessiva, ma l’inchiesta fu molto accurata. Le conclusioni, infatti, non furono mai rese note. Nel frattempo un altro protagonista dell’incontro di Parigi, Amiram Nir – agente del Mossad – muore in un incidente aereo. Nessun sospetto, però: cade in Messico, mica in Texas.

La sfortuna perseguita anche i giornalisti che si occupano dei Bush. Danny Casolaro sta lavorando a un libro (“Untanglig the Octopus”) che ricostruisce la rete degli scandali grandi e piccoli della presidenza paterna. Prima di finirlo, però, decide di suicidarsi “come un incapace”, racconta Steve Mizrach. Stessa sorte per James H. Hatfield, 43 anni, che è riuscito a pubblicare “A fortunate Son: George W. Bush and the making of an American President“. Una biografia non autorizzata che, nel ’99, rivela come George abbia tenuto nascoste le sue frequentazioni con la cocaina. Per la legge del contrappasso, viene trovato morto per overdose in un albergo di Springdale, Arkansas, il 18 luglio di quest’anno.

Ora tocca a Osama, naturalmente. Sodale non d’affari, ma di operazioni targate Cia. Forse gli altri 52 fratelli avranno qualcosa da obiettare. Ma, direbbe Prescott, in una guerra mondiale c’è spazio a sufficienza per risolvere le beghe tra vecchi soci.

Da “il manifesto”, 25 settembre 2001

martedì 4 dicembre 2018

LA VOCE(GROSSA)DEL PADRONE


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La manica di gioppini vestiti con lo stampino presenti a Torino ieri durante la riunione delle maggiori dodici associazioni italiane dall'industria all'artigianato passando per il commercio e l'agricoltura,hanno alzato la voce in particolare con Boccia presidente di Confindustria(madn un-presidente-da-bocciare )nell'insistere non solo a completare la Tav ma a seguire la strada delle infrastrutture a tutti i costi,con i benefici per i padroni ed i costi per il resto dei contribuenti.
E fa la voce grossa e mette in chiaro il fatto che comandano loro rappresentando il 65% del Pil nazionale,e che il resto conta niente o peggio,ed il suo appello al governo di cambiare la manovra,fatto auspicato appunto da questa congrega e dalle opposizioni Pd e Forza Italia a braccetto,è un ultimatum più che un suggerimento.
Sia ben lampante che queste dichiarazioni siano di una gravità colossale,ma anche di una verità assoluta,quella del capitalismo schiacciasassi e persone,l'1% che detiene la maggioranza dei beni nel mondo(madn essere-l1-o-il-99 )e la palese potenza di questi che altro non sono che sfruttatori delle vite di milioni di uomini e donne.
L'articolo proposto(www.finanza.com )parla della lotta tra Boccia ed il governo,di come la pazienza degli italiani(qui gli industriali)sia finita,ovviamente un sito che parla di finanza riposta dichiarazioni che portano acqua al mulino a questi ceffi,ma è di sicuro interesse.

Ultimatum Confindustria a governo, Boccia sbotta: 'Conte convinca vicepremier su manovra o si dimetta'.

di Laura Naka Antonelli
MILANO (Finanza.com)

Chiaro e netto l'ultimatum che Confindustria, per voce dello stesso numero uno Vincenzo Boccia, lancia al governo M5S-Lega, in particolare al premier Giuseppe Conte. L'associazione degli industriali italiani sbotta, puntando il dito contro il caos manovra, le tensioni con Bruxelles, e lo spread.

Così Boccia, in occasione della manifestazione per la Tav alle Ogr, le ex Grandi Officine Riparazioni di Torino, dove si riparavano i treni dalla metà dell'800.

"Questa manovra quota 41 miliardi di euro, di cui 18 per pensioni e reddito di cittadinanza. Dall'Europa ci chiedono solo 4 miliardi. Conte chiami i vicepremier, è questione di 2 miliardi a testa e ne usciamo subito. Se non lo fanno, nei panni di Conte mi dimetterei e denuncerei subito chi non vuol fare un passo indietro".

Dichiarazioni pesanti, con tanto di ultimatum direttamente lanciato in direzione del presidente del Consiglio.

Boccia non si ferma qui, e rivolge due messaggi ai due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini, nei confronti dei quali non fa nulla per nascondere la sua insoddisfazione:

"Faccio una promessa a Di Maio: se ci convoca tutti e dodici il 5 dicembre noi non lo contaminiamo", ha detto il numero uno di Confindustria, riferendosi all'incontro con il vicepremier sulla Torino-Lione, a cui sono invitati i rappresentanti delle associazioni imprenditoriali locali.

A Salvini Boccia dà invece un consiglio: "Si occupi e preoccupi dello spread", visto che la Lega è stata votata da molti industriali.

La pazienza degli industriali italiani è ormai agli sgoccioli: "Se siamo qui è perché la nostra pazienza è quasi limite, per mettere insieme 12 associazioni tra cui alcune concorrenti tra loro. Se siamo qui tra artigiani, commercianti, cooperative, industriali, qualcuno si dovrebbe chiedere perché. La politica è una cosa troppo importante per lasciarla solo ai politici".

Boccia parla a nome di quei tremila imprenditori che sono arrivati da tutta Italia: presenti dodici associazioni d'impresa, che complessivamente rappresentano 13 milioni di lavoratori e oltre il 65% del Pil. Presenti i presidenti nazionali di Confindustria, Casartigiani, Ance, Confapi, Confesercenti, Confagricoltura, Legacoop, Confartigianato, Confcooperative, Confcommercio, Cna e Agci.

Il numero uno di Confindustria rincara la dose contro il governo più volte, bocciando la manovra: "Siamo contro questa manovra, perché non ha nulla della crescita. Serve un equilibrio tra le regioni del consenso e quelle dello sviluppo".

E ancora: "La stagione degli alibi è finita, ora serve uscire dalla dimensione della perenne campagna elettorale".

Non può non mancare, nel giorno in cui un report Goldman Sachs paventa chiaro e tondo il rischio recessione a inizio 2019 per l'Italia, il riferimento alla possibile contrazione dell'economia:

"Proprio perché si parla di recessione dobbiamo reagire, la decrescita non porta bene a nessuno. Vedere una fabbrica chiusa è come avere un lutto in famiglia, significa avere poca occupazione. Quindi è necessario tornare alla politica delle missioni, darsi un obiettivo grande, aumentare l'occupazione, avere un grande piano di inclusione dei giovani".

Insomma, "il rallentamento dell'economia globale, il rallentamento della Germania e i dati italiani ci devono fare riflettere su una manovra che deve essere più equilibrata e deve andare verso lo sviluppo e non guardare solo al contratto di governo".

Detto questo, "a noi imprenditori non interessa fare l'opposizione al governo. Non è questo il nostro compito anche se la debolezza dell'opposizione politica è un problema per la nostra democrazia. Il mondo della produzione sa che non può più stare zitto. Lanciamo un allarme: senza crescita rischiamo di finire dentro un'altra recessione".

PIERRE MOSCOVICI: UE NON CONCENTRATA SU RIFORMA PENSIONI, MA SU CONTI

Intanto, arriva l'ennesima dichiarazione sulla legge di bilancio da parte del Commissario agli Affari economici Ue, Pierre Moscovici.

Moscovici precisa che nella Commissione europea non si sta mettendo in discussione la riforma sulle pensioni che l'esecutivo giallo-verde vuole lanciare, smontando la riforma Fornero - come ha detto fino a ieri Salvini - pezzo per pezzo. Quella riforma, sottolinea il commissario, attiene infatti alle "scelte politiche italiane".

Piuttosto, la Commissione vuole che il governo punti al "rispetto del Patto di stabilità e di crescita" e che venga dunque assicurata "la compatibilità del bilancio italiano con le regole del Patto".

In un'intervista rilasciata ad Avvenire, il premier Conte sottolinea dal canto suo che con Bruxelles è in corso "un negoziato vero", che ha come obiettivo quello di "evitare all'Italia una procedura d'infrazione che fa male al nostro Paese e rischia di far male anche all'Europa".

La proposta che l'Italia intende fare all'Ue è una questione di ore: Arriverà 'ad horas', precisa il presidente del Consiglio, facendo anche riferimento alle misure chiave del contratto di governo:

"Ho alcune prime proiezioni sull'effetto economico di quota 100 e Reddito di cittadinanza. Ciò può darmi un margine di manovra da spendere e utilizzare nel negoziato".

Sulla riduzione del target sul deficit fissato nel NaDef al 2,4%, Conte afferma che, "se recuperiamo delle somme, ragionevolmente ci potrà essere. Ma in questo momento non fornisco nessun numero. Perché il negoziato riesca occorre riservatezza".

giovedì 29 novembre 2018

QUATTRO CARABINIERI CONDANNATI PER IL CASO MARRAZZO


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Più che di mele marce l'arma dei carabinieri è un cesto quasi pieno visti i numerosi fatti di cronaca che vedono imputati militari appartenenti a questo corpo in questi ultimi mesi,dopo un lungo periodo di silenzio sulle loro malefatte.
E non confondiamo questo aumento di casi sottoposti alla mercé mediatica con un altrettanto incremento di condanne perché le statistiche non sono parallele,ma nel caso proposto oggi grazie al contributo di Contropiano(caso-marrazzo-condannati-quattro-carabinieri )si parla di pene che vanno dai tre ai dieci anni per il caso dell'ex Presidente della regione Lazio Piero Marrazzo.
Oltre alla cronaca dei fatti accaduti nel 2009 quando il giornalista ed ex politico Pd venne pizzicato da quattro carabinieri con un transessuale e ricattato con un video che non venne mai reso pubblico per l'intercessione di Berlusconi,si parla dell'arretratezza della scelta delle persone che giungono a svolgere questa mansione.
Ebbene si sono avute queste condanne,anche pesanti in relazione al fatto che assassini conclamati se la siano passata con molto meno(almeno per il momento)e per il fatto che ormai il dio carabiniere ormai è un personaggio da favole(madn consip-e-armaun-cesto-pieno-di-mele marce ).

Caso Marrazzo, condannati quattro carabinieri. Altre mele marce da dimenticare il prima possibile.

di  Alessio Ramaccioni 
Quattro carabinieri condannati, per reati che vanno dalla concussione alla rapina: sono quelli coinvolti nell’ “affaire” Marrazzo, l’ennesima eccezione alla regola per quel che riguarda forme di devianza all’interno di apparati dello Stato italiano.

Ricordate la vicenda? L’allora governatore del Lazio sorpreso da quattro militari insieme ad una transessuale e poi ricattato. Una vicenda scabrosa e piena di strani retroscena, che ha avuto il suo esito giudiziario.

Dieci anni di reclusione per i carabinieri Nicola Testini e Carlo Tagliente, sei anni e mezzo a Luciano Simeone, tre anni ad Antonio Tamburrino.

Per Testini, Tagliente e Simeone è scattata anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; solo di cinque anni quella di Tamburrino. Tutti e quattro dovranno risarcire i ministeri dell’Interno e della Difesa.

La condanna è riferita ai reati di concorso in concussione e rapina; per Tamburrino anche quello di ricettazione.

Quattro criminali in divisa: questo dunque ha dichiarato il Tribunale. Non abbiamo dubbi, nei prossimi giorni leggeremo ed ascolteremo commenti ormai consueti. Ve ne anticipiamo addirittura un paio: “hanno disonorato la divisa che indossano”, “erano mele marce”.

Il che è vero, sia chiaro. Ma non è forse il caso che un numero così alto di “mele marce” faccia venire il dubbio che forse esiste un problema alle radici, tanto per proseguire con le metafore “vegetali”? In un paese normale sarebbe già avviato da tempo un confronto sul modello di selezione e formazione dei membri delle forze dell’ordine. Ma, ormai è chiaro, la normalità è qualcosa di molto distante da noi, purtroppo.

mercoledì 28 novembre 2018

USA ED UE ANCORA IN DIFESA DELL'UCRAINA


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La difesa ad oltranza di quasi tutto il mondo occidentale nei confronti dell'Ucraina,ribadisco zeppa di nazisti instauratisi dopo violenze degne pienamente di appellativi come crimine di guerra,sta proseguendo in queste settimane dopo i continui bombardamenti nelle zone di confine di Donetsk e Lugansk e per ultimo la crisi del Mare d'Azov.
L'articolo di Contropiano parla principalmente di quest'ultima sfida ucraina nei confronti della Russia(mar-dazov-provocazione-ucraina-anche-a-fini-interni )e della concreta possibilità che si scateni una guerra ancor più pesante di quella in corso negli ultimi anni e che ha provocato diecimila vittime.
Gli enormi affari che girano attorno ai principali porti di questo settore nord del Mar Nero sono il principale soggetto delle controversie,e la zona dello stretto di Kerc è quella attualmente più presidiata dalla marina russa che già da tempo sottopone le navi mercantili ucraine a rigorosi controlli mentre domenica c'è stato un vero e proprio attacco partito da Kiev con delle piccole unità militari.
Risultato di questo il sequestro di tre battelli che hanno violato le acque territoriali russe e il fermo dei marinai a bordo delle imbarcazioni ucraine,mentre Usa ed Ue come al solito hanno condannato Mosca e la Nato per ora sottovoce sta facendo intimidazioni verso i russi.
Da sottolineare pure il fatto che l'ipotesi di legge marziale presentata nell'articolo è stata attuata(contropiano mar-dazov-sara-legge-marziale-in-ucraina )su tutto il territorio dell'Ucraina,fatto che avvantaggia l'attuale presidente Poroshenko che in vista delle prossime elezioni presidenziali ha percentuali in crollo,voto che con questo stato di militarizzazione sarebbe rinviato,aiutando pure le oligarchie di Kiev ad intraprendere la lotta armata per la difesa dei propri interessi(così come quelli delle oligarchie russe)in un paese sempre più affamato ed in crisi(madn il-crollo-dellucraina ).

Mar d’Azov: provocazione ucraina, anche a fini interni.

di  Fabrizio Poggi 
Dunque, per ora, la provocazione navale ucraina nel mar d’Azov sembra rientrata, anche se i tre battelli “Berdjansk”, “Nikopol” e “Jany Kapu”, che domenica mattina hanno violato le acque territoriale russe, sono tuttora trattenuti a Kerč, insieme ai 23 uomini d’equipaggio. Secondo il consigliere presidenziale ucraino Jurij Birjukov, le unità di Kiev avrebbero aperto il fuoco, cui hanno risposto le motovedette russe. Tre marinai ucraini feriti leggermente sarebbero stati ricoverati all’ospedale di Kerč.

La tensione nel bacino chiuso di Azov sta salendo da tempo, con reciproci sequestri di pescherecci e naviglio mercantile, ma quella di ieri è stata la prima vera provocazione armata con l’intervento di piccole unità militari. Al momento, la conseguenza meno improbabile, sarebbe l’introduzione della legge marziale in Ucraina, proposta dal segretario del Consiglio di sicurezza, Aleksandr Turčinov nel corso della seduta del “gabinetto di guerra” della notte scorsa,

Secondo la Russia, le unità ucraine avrebbe violato i punti 19 e 21 della Convenzione ONU per il diritto marittimo, tanto che Mosca ha chiesto la convocazione straordinaria del Consiglio di sicurezza ONU per questo pomeriggio. RIA Novosti scrive infatti che i battelli ucraino sono stati intercettati e fermati alle coordinate di 44 gradi nord e 23 gradi est, cioè a circa 20 chilometri dalla costa russa e 50 km a sudovest del normale transito attraverso lo stretto di Kerč.

La marina russa ha trattenuto le unità ucraine che, non riconoscendo lo status della Crimea e delle acque circostanti, non avevano risposto all’intimazione russa di invertire la rotta. Mosca ha poi bloccato l’accesso al mar d’Azov anche ai vascelli non militari, ancorando una grossa unità mercantile sotto l’arcata centrale del ponte sullo stretto di Kerč.

Appena la scorsa settimana l’ex vice Capo di stato maggiore ucraino Igor Romanenko aveva parlato della probabilità di una “guerra di grossa portata” tra Russia e Ucraina in caso di chiusura del mar d’Azov alle navi di Kiev. I clan oligarchici ucraini (e anche russi) detengono non pochi interessi nell’area e già nei mesi scorsi il Ministro degli esteri golpista Pavel Klimkin aveva annunciato la prossima denuncia da parte di Kiev del trattato sul mar d’Azov, in base al quale tale bacino e lo stretto di Kerč sono considerati acque interne di due paesi, con conseguente libero accesso del naviglio di Russia e Ucraina. Poi però, la primavera scorsa, Kiev aveva sequestrato l’unità da pesca russa “Nord” e la petroliera “Pogodin” e da allora la guardia costiera russa controlla tutte le unità ucraine, con tale meticolosità che portano via anche diversi giorni.

Anche se è difficile immaginare qualche passo – qualunque passo – della junta nazigolpista di Kiev, intrapreso senza ordine d’oltreoceano; e pure se negli ultimi tempi Washington e Bruxelles hanno fatto di tutto per spingere il alto la tensione nell’area, pare che per il momento, mentre si attendono reazioni ufficiali della Casa Bianca, la NATO non abbia particolare fretta di intervenire e consiglia anzi a Kiev di non inasprire la situazione.

Mentre USA, Gran Bretagna e anche Danimarca assegnano all’Ucraina (rimasta praticamente all’asciutto di propri mezzi navali) proprie vecchie unità in disarmo, Mosca ribadisce che non permetterà di trasformare il mar d’Azov, il cui accesso è praticamente sbarrato dalle penisole di Taman e di Kerč, in un’ulteriore zona di tensione. In risposta, NATO e UE insistono nell’ordinare alla Russia di cessare le “ispezioni eccessive” delle navi ucraine.

E’ così che, da tempo, il mar Nero e specificamente il porto di Odessa sono diventati teatro di presenza pressoché permanente di squadre navali USA e britanniche, tanto che il Ministro della difesa di Londra, Gavin Williamson, lo scorso 21 novembre, ha annunciato la realizzazione entro il 2019 di una propria base navale a Odessa, che ospiterà vascelli e fanteria di marina.

Kiev ha annunciato l’intenzione di costruire a Berdjansk una base militare per motovedette corazzate. Nelle scorse settimane, tirando un po’ il freno, Kiev aveva rinunciato alle previste manovre navali con la NATO nello stesso bacino d’Azov; ma la solita Federica Mogherini aveva comunque minacciato “concrete misure” della UE, ovviamente contro Mosca e a sostegno delle regioni ucraine interessate alla questione del bacino. In risposta, Mosca sta accelerando il concentramento nell’area di naviglio costiero, motovedette e corvette, sottratte alle flotte del Baltico, del Caspio e, con navigazione interna, anche dal lago d’Aral.

Stamani la situazione non è perfettamente chiara, dato che Porošenko continua a richiedere a Mosca il rilascio delle tre unità ucraine scortate al porto di Kerč, ma RIA Novosti scriveva già ieri che i tre battelli avevano fatto rientro alla base di Berdjansk.

Il senatore russo Aleksej Puškov si è detto sicuro che l’ordine di sconfinamento sia giunto alle unità ucraine direttamente da Petro Porošenko, in risposta all’incontro Putin-Erdogan della settimana scorsa e la posa del primo tratto subacqueo del “Turkish stream”. Petro cercherebbe inoltre ogni mezzo per tentare di sollevare il proprio rating interno che, quando mancano pochi mesi alle presidenziali previste per la primavera, è crollato al 5%, contro il 21% di Julija Timošenko.

Non a caso, una delle prime conseguenze dell’introduzione della legge marziale proposta dal Consiglio di sicurezza, insieme al rinvio a tempo indeterminato delle elezioni presidenziali, potrebbe essere la messa fuori legge anche di partiti pienamente filo-occidentali quali, per l’appunto, “Patria” della Timošenko, che più direttamente insidia le posizioni di Petro.

Nel corso della seduta notturna del “gabinetto di guerra”, Porošenko avrebbe dichiarato di aver concordato con lo speaker della Rada, il nazista Andrej Parubij, il sostegno del parlamento all’introduzione della legge marziale per 60 giorni su tutto il territorio ucraino e le notizie parlano della possibile adozione del provvedimento già nella giornata di oggi. “La legge marziale non significa che l’Ucraina condurrà azioni offensive; noi difenderemo il nostro territorio. E non significa nemmeno l’inasprimento della contrapposizione nell’est dell’Ucraina” avrebbe dichiarato Porošenko, mentre le artiglierie naziste bombardavano, con una intensità non usuale per gli ultimi tempi, la stessa periferia di Donetsk. Petro ha aggiunto che la legge marziale non significa l’immediata mobilitazione della popolazione, che permetterebbe di portare l’esercito a 1 milione di uomini nel giro di due giorni, ma “solo” la messa in allarme “della leva di prima linea”.

Cosa comporterebbe l’approvazione della legge marziale? Pieni poteri speciali al Presidente; rinvio di ogni elezione; obbligo del lavoro – senza paga anche per studenti e disoccupati – e sua militarizzazione, per le esigenze dell’industria di guerra; coprifuoco generale, a partire dalle aree delle regioni di Donetsk e Lugansk controllate da Kiev; regime speciale di ingresso e uscita dal paese. Inoltre, controlli a tappeto su tutto e tutti, su media e tipografie, più di quanto non stia avvenendo da cinque anni: a questo proposito, nella riunione notturna del “gabinetto di guerra”, Porošenko avrebbe insistito particolarmente nel ricordare a giornalisti e pubblicisti “i doveri” imposti dal momento. Prevedibile anche la proibizione di ogni azione di protesta; sequestro di beni: locali, mezzi di trasporto e generi alimentari, ecc.

Durante la legge marziale, non è possibile sciogliere il parlamento o dichiarare l’impeachment per il Presidente. Non è però detto che alla Rada si raggiunga la maggioranza per il voto sulla legge marziale, dato che non sono pochi gli aspiranti alla successione a Petro, che non desiderano affatto il rinvio delle presidenziali. In caso di voto contrario del parlamento, Petro Porošenko non avrebbe quindi fatto altro che confermare l’assunto del grande Mao a proposito di tutti i reazionari.

martedì 27 novembre 2018

BERNARDO BERTOLUCCI

Risultati immagini per bertolucci e la sinistra
Dopo una lunga malattia il regista Bernardo Bertolucci è morto a settantasette anni lasciando un vuoto culturale che sarà difficile colmare,soprattutto perché il suo mestiere è sempre stato al passo coi tempi e con poche probabilità tematiche sociali e introspezioni nell'animo umano saranno trattate come lui sapeva fare magistralmente.
Nell'articolo preso da Il Manifesto(il-desiderio-e-rivoluzione )c'è scritto molto di quello che ha diretto dagli esordi fino alla fine della carriera,e tutto quello che si poteva ambire come trofeo nel mondo del cinema l'ha conquistato,non che un bel film debba proprio per forza essere condito da premi e riconoscimenti.
La sua vicinanza al mondo della sinistra,almeno quella di una volta,il sapere adattarsi a fare cinema sia con budget ristretti che con investimenti hollywoodiani non hanno mai tolto il suo impegno personale,la sua intima poesia che è riuscita a trasmettere sulla pellicola i sentimenti provati.

Il desiderio è rivoluzione.

Addio Novecento. Scompare a 77 anni Bernardo Bertolucci, i suoi film hanno raccontato il sentimento della modernità. Il ’68 di «The Dreamers», l’Italia del «Conformista» fino alla cantina di «Io e te», una reinvenzione del mondo nell’immaginario.

di Cristina Piccino 
È sempre difficile affrontare una notizia che ti coglie impreparato. È vero, era malato da tempo Bernardo Bertolucci però nonostante questo continuava a fare progetti, a lasciare porte aperte, «vita al lavoro», con un nuovo film in scrittura che contava di girare, forse «piccolo» come il precedente e magnifico Io e te (2012) e altrettanto spiazzante, con una energia imprevista e imprevedibile che mentre lo guardavo pensavo: sembra il film di un ragazzo. Ma lui lo era, un ragazzo…Invece all’improvviso non c’è più, ed ecco che il tempo corre, scrivere, dire qualcosa, ripensare tutti i film, nel rewind che è anche quello della vita in cui quei film sono entrati con prepotenza delicata diventando una «guida» irriverente per lo sguardo.

COSA ci ha insegnato il cinema di Bertolucci? Cosa ci insegna e ci insegnerà? Il desiderio e la rivoluzione,la sensualità della macchina da presa e quel «Non si può vivere senza Rossellini» (in Prima della rivoluzione) quasi un «Non si può vivere senza Bertolucci» anche se nel nostro cinema lui è rimasto una singolarità. E non si tratta soltanto di inquadrature o mise en scene o storie. È qualcos’ altro, molto di più, molto diverso, lo spazio dell’immaginario, il piacere di filmare, la scoperta del mondo insieme alla sua invenzione. E poco importa se avviene in una cantina (Io e te) o nella Città proibita della Cina imperiale all’inizio del secolo scorso (L’ultimo imperatore), le sue «scene madri» – citando il libro di Enzo Ungari, che è stato tra gli autori proprio di L’Ultimo imperatore – restituiscono la trama complessa della realtà e del suo tempo in un sentimento universale, libero e critico, che scuote le certezze, interroga la propria materia senza mai mettersi al riparo di una «ideologia». E quella capacità di trasportare nel mondo le radici, di aprire il cinema a una dimensione mondiale che, al di là della circostanza produttiva, continua però a portare in sé la propria impronta.

TUTTI i film di Bertolucci vivono su un confine, un gioco di specchi tra interno/esterno, la messa in campo di un punto di vista consapevole di sé che dichiara la presenza dell’autore con la sua esperienza trasformata in narrazione, la sua cinefilia più atto d’amore che citazione, gli amici, i miti, l’infanzia a Parma. Le scene di ballo anche queste passaggio «obbligato» nel deserto o in un oriente dei film amati o ancora nella villa in Toscana dove vive il suo romanzo di formazione una giovane americana (Io ballo da sola, 1996) – ma in fondo lo sono un po’ tutti i suoi film romanzi di formazione. Lui è lì, con le sue storie che amava raccontare, narratore raffinato che non ci si stancava mai di ascoltare, aggiungendo ogni volta qualche variante.

AVEVANO messo al rogo – letteralmente – Ultimo tango a Parigi nell’Italia clericale e ipocrita del 1972, privando Bertolucci dei diritti civili per cinque anni; era indigesto quel film per come capovolgeva la rappresentazione della sessualità, i rapporti uomo e donna dentro alla visione Nouvelle Vague di unire il cinema europeo e americano… E a distanza di decenni la polemica continuava con le accuse di avere devastato – psicologicamente – Maria Schneider nella scena del «burro». Eppure lei, il suo personaggio di ragazza che vive due vite, una dentro e l’altra fuori quell’appartamento gli è molto vicina, forse persino più di quello di Brando, l’icona di un cinema americano contrapposta ai fantasmi della Nouvelle vague, il tremore per quel desiderio (ancora e sempre) di trasgressione che stride col mondo oltre le pareti di Passy ove avvengono i loro incontri.
Novecento (1976) venne attaccato dal Pci – almeno dalla generazione più vecchia – che lo accusava di essere non realista, mai un figlio di contadini poteva essere amico col figlio dei padroni come accade tra Olmo (Depardieu) e Alfredo (De Niro) nati entrambi il 27 gennaio del 1901, il giorno della morte di Verdi. Ma la fonte era la sua infanzia nella campagna emiliana – Bertolucci era nato a Parma nel 1941 – quando da ragazzino giocava coi figli dei contadini e, come amava ricordare, aveva scoperto la parola «comunista». Lui, Bertolucci, non ne occupa il posto, al contrario mantiene la coscienza del suo essere borghese e questo gli permette di passare dalla realtà come è all’utopia della rivoluzione. E del cinema. Questa è la sostanza politica delle sue immagini incomprensibile alla critica italiana del tempo che metteva avanti il «contenuto». Ma Bertolucci guardava altrove, viaggiava nel tempo e nello spazio, si immergeva nell’inconscio per cogliere i conflitti, l’io e il noi.

IL ’68 era Pierre Clementi (protagonista di Partner, scritto insieme a Gianni Amico) che portava il pavet parigino tra i sanpietrini romani – «Aspettavano le sue storie» diceva Bertolucci. E saranno poi i ragazzi di The Dreamers, chiusi anche loro in un appartamento per uscire infine in strada e scegliere nel confronto con la realtà diverse posizioni separati per sempre – nella sinergia tra Bertolucci e il biondo Michael Pitt – sognatori che uniscono ancora una volta l’immaginario e il vissuto in un unico respiro.

CINEMA, desiderio, rivoluzione. La memoria di una notte sussurrata sulla spiaggia di Sabaudia (dove era la sua casa) con la Madre – nello struggente melò che è La luna – e il seno che succhia bimbo L’ultimo imperatore. Ma l’inconscio è sempre quello dell’umano, di un Paese, della storia. Del Novecento e del contemporaneo. Non a caso Bertolucci nella famiglia alle prese col rapimento del figlio forse mai avvenuto – La tragedia dell’uomo ridicolo – è l’unico regista italiano che nell’81 illumina con precisione lo spaesamento della politica, della sinistra di fronte alla lotta armata, il grande tabù del nostro immaginario.

ALL’INIZIO c’era stato Pasolini (con cui scrive il suo esordio, La commare secca, 1962), una foto li ritrae insieme entrambi con la giacca e la cravatta (la moda per i giovani non c’era ancora) Bertolucci ricciuto e bello. Tra le sue storie c’era quella del loro primo incontro, quando Pasolini era venuto a cercare il padre, il poeta Attilio, a casa, mentre riposava. E Bernardo lo aveva tenuto sulla porta un po’ brusco. Il padre lo aveva molto rimproverato, e da lì era iniziato un legame profondo, una trasmissione anche se con visioni del mondo diverse. «Pier Paolo raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell’Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli che quell’innocenza contadina che lui riteneva sparita c’era ancora» diceva Bertolucci ancora a proposito di Novecento.

E POI? Ci sono nove premi Oscar (L’ultimo imperatore), una dimensione sempre più internazionale data non solo dal lavoro con attori di tutto il mondo, la passione e la curiosità, l’eleganza e le storie, ma soprattutto l’amore per il cinema. Che non è mai fine a sé stesso, mai presunzione del filmare, pure se l’occhio di Bertolucci riesce a comporre la spettacolarità in ogni dettaglio, ma sentimento della modernità. E la scommessa nelle sue variazioni di essere ancora capace di sorprendersi.