venerdì 9 dicembre 2022

PARTEGGIARE


Questo post più volte rinviato per troppi motivi che non sto qui ad elencare viene dopo un lungo vaglio di poche informazioni obiettive e imparziali,molte di parte(qualsiasi schieramento è stato preso in esame)e quelle che tutt'ora siamo abituati a sentire quotidianamente sia alla televisione che a leggere sui giornali,cioè quelle che indiscutibilmente hanno un senso unico nella stragrande maggioranza dei casi.

Il conflitto che si sta combattendo tra le forze russe ed ucraine per i più è storia recente e iniziate questo febbraio,mentre pochi ma ben informati sanno che la guerra è cominciata sempre a febbraio ma nel 2014,e già da anni le ostilità stavano già fermentando solamente che i mass media internazionali non vi hanno prestato molta se non nessuna attenzione.

Che la maggior parte della popolazione voglia la pace in questo ed in altri scontri è un fatto assodato,è questa anche la mia speranza,ma da che mondo è mondo ci sono degli interessi che pian piano stanno recependo anche chi non è avvezzo a fare ragionare la propria testolina,che vanno al di sopra dell'armonia tra i popoli,persone e nazioni(ma anche delle congreghe di Stati)che hanno bisogno costante di una guerra,di molte guerre.

E' per questo che parlando di conflitto,le cifre attuali discordano tra vere e proprie battaglie con morti e feriti a schermaglie o rivendicazioni,(comunque si parla tra una ventina e una cinquantina di guerre in corso in tutto il mondo)prendo per esempio quello che si offre tutti i giorni quello tra la Russia e l'Ucraina,e come immagine per questo contributo ho scelto la bandiera russa perché è da quella parte che sento di dovere parteggiare.

Ormai in uno Stato e in un occidente che "tifa" per gli ucraini,la mia ricerca personale e la mia raccolta di informazioni,ma anche la mia coscienza nell'evidenza che questo scontro deve comunque avere un vincitore non necessariamente annientando l'altra parte(è quello che mi auguro sinceramente perché dovesse accadere un fatto simile sarebbe una catastrofe planetaria)ma comunque ponendo una bella ridimensionata alle aspettative di una delle parti in gioco,il mio sostegno sta dalla parte della Russia.

Come si evince da quello scritto fino adesso porre come simbolo la bandiera della pace per non parlare dell'inflazionata effige ucraina sarebbe sbagliato,in quanto quest'ultimo vessillo è ciò che non mi rappresenta in maniera assoluta sia come pensiero ideologico che politico,mentre quella che può essere legittima della pace in realtà nasconde numerose lacerazioni ed ipocrisie,dove spesso chi la sventola e la ostenta in realtà non è imparziale ma vuole la sconfitta russa.

Quanti di tutti gli uomini e donne che conosciamo e che hanno postato l'immagine della pace sui social o appeso la bandiera sui loro balconi,nelle abitazioni,nei comuni e nei luoghi di lavoro e nelle varie associazioni perseguono veramente il fine pacifista?Quanti di loro appoggiano partiti e movimenti che foraggiano in Parlamento(anche quello precedente alle ultime elezioni)soluzioni per prolungare la guerra,inviare armi,sancire sanzioni contro la Russia,contro il popolo russo,contro la cultura russa?

E' bene dire che i due governi che si sono avvicendati nel 2022 su questo tema sono sempre stati compatti nelle decisioni russofobe,hanno sempre trovato la quadra senza troppe discussioni e battibecchi,sono sempre stati servili all'Unione Europea,alla Nato ed agli Stati Uniti,che sono i veri vincitori di questa guerra comunque vadano a finire le cose.

Perché l'abbiamo capito tutti che le sanzioni,le multe ed i divieti imposti a Mosca stanno devastando la nostra economia e quella di gran parte del mondo occidentale,miliardi di Euro per armare l'Ucraina mentre milioni di italiani fanno fatica a fare la spesa e a pagare le bollette,razionano il cibo e il riscaldamento per sostenere una nazione governata da pagliacci e nazisti nelle decisioni sia teoriche che pratiche,che per quasi un decennio hanno compiuto atrocità verso i russi che abitano in Ucraina e nel Donbass.

La memoria corta è un patrimonio evidentemente non solo italiano ma di tutte le nazioni che hanno visto in questa guerra una fonte sulla quale speculare e lucrare,ovviamente per una ristretta cerchia di criminali(altro che persone),in una campagna d'odio senza precedenti che ha stufato me già dalle prime settimane di notizie false e servizi di giornalisti prezzolati parziali ed unilaterali,ma ogni giorno che passa le fandonie che continuano a passarci per alcuni diventano sempre più verità,ma fortunatamente per altri restano quello che sono:vergognose falsità.


sabato 20 agosto 2022

LA STRAGE DI AYOTZINAPA FU STRAGE DI STATO

E' giunta quasi come una sorpresa,almeno noi abituati agli standard italiani,la notizia arrivata dal Messico che vede l'arresto dell'ex procuratore generale Karam e quello di altri 64 criminali tra poliziotti,militari e narcotrafficanti del Guerreros Unidos.
Lo stesso Karam era stato messo a capo delle indagini sulla scomparsa di 43 studenti spariti a Ayotzinapa nello Stato del Guerrero nel settembre del 2014 mentre con un pullman si stavano recando per una manifestazione nella capitale Città del Messico(vedi:madn il-voto-messicano sulle elezioni del 2015 in Messico dove i comitato dei genitori e dei parenti dei 43 desaparecidos influirono moto sul sabotaggio di quella tornata elettorale).
Sin dalle prime ore si era pensato ad un sequestro ed alla successiva morte e sparizione dei cadaveri poi bruciati come appurato nelle successive indagini chiuse in fretta e furia da Karam,e dopo "solo" otto anni si è giunti a questo verdetto che ha certificato che la strage di Ayotzinapa è stata ina strage del narcostato messicano.
Articolo preso da Contropiano(la-strage-di-ayotzinapa ).

Messico. Arrestati giudice, militari, poliziotti e narcos per la strage di Ayotzinapa

di R.C.

E’ stato arrestato l’ex procuratore generale nazionale, Jesus Murillo Karam, il giudice incaricato di indagare sulla sorte dei 43 studenti ‘desaparacidos’ nel 2014 ad Ayotzinapa ma che archiviò tutto. Insieme a lui sono stati arrestati anche 64 fra militari, poliziotti e sicari di un cartello del narcotraffico.

Gli arresti sono avvenuti il giorno successivo alla pubblicazione del rapporto della commissione d’indagine sulla strage di Ayotzinapa che parla di “delitto di Stato”, cioè del sequestro e dell’assassinio degli studenti da parte dai narcotrafficanti ma con la complicità di giustizia e forze dell’ordine.

Il caso di Ayotzinapa “è stato un crimine di Stato”, in quanto “tutte le autorità federali, statali e municipali sono state informate” di quanto stava accadendo la notte del 26 settembre 2014 senza intervenire per impedire la “sparizione e l’omicidio” dei 43 studenti della Scuola Normale Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa, Guerrero, ha dichiarato il sottosegretario ai Diritti Umani dell’Interno, Alejandro Encinas, in occasione della presentazione del rapporto della Commissione per la Verità e l’Accesso alla Giustizia sul caso Ayotzinapa.

Quasi otto anni dopo i fatti, Encinas ha sottolineato ai genitori degli studenti che la scomparsa dei loro figli è stata “insabbiata ai massimi livelli”, poiché le autorità dei tre livelli di governo sapevano in tempo reale “del prelievo dei camion, del trasferimento degli studenti a Iguala, del loro arrivo al Rancho del Cura e alla stazione degli autobus di Iguala, del loro arrivo alla stazione degli autobus, della persecuzione e della violenza di cui sono stati vittime” da parte del cartello Guerreros Unidos.

Il giudice arrestato, Murillo Karam nel 2015 (il presidente era Enrique Pena Neto) chiuse l’indagine affermando su di essa la cosiddetta “Verità storica”, che venne respinta e rifiutata dai familiari dei 43 studenti spariti nel nulla la notte fra il 26 e 27 settembre 2014 nello stato di Guerrero dopo aver prenotato dei pullman per partecipare a una manifestazione a Città del Messico.

Da quanto emerso dalle successive indagini, gli studenti furono arrestati da poliziotti corrotti e consegnati alla criminalità organizzata locale del cartello definito come “Guerreros Unidos” che , per motivi non completamente chiariti, li avrebbe uccisi e fatto sparire i cadaveri bruciandoli in una discarica. Solo i resti di tre di essi furono trovati e identificati.

Tutti gli arrestati, incluso l’ex procuratore generale Murillo Karam, sono accusati di “collusione con il crimine organizzato, sequestro di persona, tortura, omicidio e ostruzione della giustizia. La ‘Verità storica’ del 2015 avrebbe omesso la responsabilità di militari corrotti e di altre istituzioni pubbliche, che è stata invece accertata dalla “Commissione per la verità su Ayatzinapa”, messa in piedi dall’attuale presidente messicano, Andrés Manuel Lopez Obrador, e guidata dal sottosegretario agli Interni, Alejandro Encinas.

mercoledì 10 agosto 2022

DAL 2007 CONTRO I LAVORATORI E CONTRO IL POPOLO

Manca poco più di un mese a quelle che saranno forse,quasi certamente fino ad ora,delle elezioni politiche caratterizzate da continui spostamenti sia di personaggi politici che di partiti,con abbracci fraterni subito cancellati da pugnalate alle spalle e non,con le solite promesse mai mantenute e che pur continuiamo a risentire da quasi trent'anni fin da quando è morta la prima repubblica.
Un uso cattivo e spropositato dei termini destra,centro e sinistra,dove personalmente ritengo che le vere forze di sinistra siano ridotte al lumicino sia per candidature che per esposizione mediatica(e va da sé che pure il risultato elettorale sarà proporzionale),dove vedo grandi numeri per la destra estrema e per i partiti vicini mentre il centro galleggia verso una sostanziale sconfitta.
L'analisi proposta dall'articolo di Left da parte dello storico Piero Bevilacqua(breve-storia-del-pd )pur se come evidenziato dal titolo è una piccola parte di quello fatto e soprattutto non affrontato dal Pd dalla sua fondazione avvenuta nel 2007.
Si parla soprattutto del mondo del lavoro tralasciando la scuola e la sanità e accennando qualcosa alla giustizia ed alla politica estera,e tuttavia nella relativamente breve vita di questo partito nato principalmente dalla fusione dei Ds e della Margherita ha avuto parecchi anni di vita al governo del paese(un'intera legislatura con i vari Letta,Renzi e Gentiloni)e quando non è stato direttamente al potere ha comunque suffragato i governi Monti,Conte(il secondo mandato)e Draghi.
I disastrosi risultati portati a casa sono sotto gli occhi di tutti,con un partito che al posto di essere al fianco della classe operaia è suo nemico,che al posto di combattere la povertà combatte i poveri e che nelle decisioni topiche ha sempre aiutato le classi più abbienti soprattutto con le tasse.
Non ci vedo nulla di sinistra in tutto questo,tralasciando i tagli lineari alla sanità e alla scuola pubblica,e vedo nei job acts,nell'abolizione dell'articolo 18 e nella perdita sempre più emorragica dei diritti sindacali(con la complicità attiva e complice delle sigle confederali),per non parlare di personaggi come Minniti che hanno svolto semplicemente una politica di destra riguardo la giustizia sociale.
Nell'ambito lavorativo in tutta Europa siamo quelli che ce la passiamo peggio sia come reddito che non riesce a tenere il passo del carovita che come normative antinfortunistiche e lavoro in nero e ampiamente sottopagato.
Un accenno visto che non se ne parla direttamente nell'articolo lo merita anche la questione ambientale con la transizione ecologica al palo ed un ritorno alle energie non rinnovabile strizzando l'occhio al nucleare ed un consumo di suolo sempre bello presente nonostante le troppe parole spese per fare sembrare il contrario.
Il problema che più si è comunque ampliato e che raccoglie quello descritto qui sopra rimane quello della diseguaglianza sociale ed economica,con la forbice tra il ricco e il povero sempre più ampia e con interventi mirati proprio a far diventare chi se la passa più male a sopravvivere sempre peggio mentre l'abbiente ha sempre più prestigio,con una mano che taglia le risorse al popolo e l'altra che aumenta le spese per la guerra.
Concludo nel citare pure tutti i partiti messi all'angolo e talvolta riesumati per meri accordi elettorali che sono satelliti che saltuariamente(anche in questa campagna elettorale)girano attorno al pianeta Pd salvo poi saltare fuori la disillusione degli elettori(per quanto riguarda i politici qualche poltroncina risulta sempre libera)per accorpamenti morti già prima di nascere.
E così che le varie sigle di questo firmamento alcune ancora presenti altre meno (Rifondazione,Si,Sel,Leu,Pci,le varie campagne per Ingroia,Tsipras,De Magistris)pur nella loro lotta non riescano,se non a carattere locale,ad avere voce in capitolo al governo per fare cambiare l'idea ad un popolo che ritengo sempre più compromesso a livello mentale.

Breve storia del Pd: le sue responsabilità (di ieri e di oggi) per la crisi sociale del Paese.

di Piero Bevilacqua -10 Agosto 2022

Da quando è nato, nel 2007, il Partito democratico si è sempre più allontanato dal mondo del lavoro e dai ceti popolari abbracciando un pensiero neoliberale che ha mostrato tutti i suoi limiti nella difesa dei diritti e nella lotta per la giustizia sociale

Occorre di tanto in tanto fermarsi e guardare indietro, fare un po’ di storia, per capire come siamo arrivati sin qui. E un buon filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della cronaca carnevalesca di oggi è la vicenda del Partito democratico. Nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di sinistra e della Margherita, è stato sino al 2018 il maggiore partito italiano e, con alcune interruzioni, nel governo della Repubblica per quasi 9 anni. L’intera XVII legislatura coperta con i governi Letta-Renzi-Gentiloni. In tutto 15 anni che, per i tempi della politica, per le sorti di un Paese, costituiscono una stagione abbastanza lunga perché sia possibile valutarne le responsabilità.

Comincio col rammentare che, erroneamente, questa formazione è stata sempre considerata l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi, avevano subìto una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura. Tanto Mitterand in Francia, che Schroeder in Germania, Blair nel Regno Unito, D’Alema ( insieme a Prodi e Treu) in Italia, hanno proseguito o introdotto nei loro Paesi le leggi di deregolamentazione avviate dalla Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti. In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni 90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati.

Democratici americani, socialdemocratici ed ex comunisti europei hanno sottratto le politiche neoliberistiche dai loro confini americani e britannici e le hanno diffuse più largamente nel Vecchio Continente. Un compito svolto senza incontrare resistenza, perché gli agenti politici si presentavano ai ceti popolari col volto amico e le insegne delle organizzazioni di sinistra. Hanno cosi impedito ogni reazione e conflitto. Negli anni 90 le élites di queste forze, hanno compiuto un capolavoro politico: hanno abbandonato il loro tradizionale insediamento sociale (classe operaia e strati popolari) e hanno salvato se stesse come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione. Serge Halimi ha ricostruito con copiosa ricchezza di particolari questa vicenda (Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi 2006).

Sarebbe un errore moralistico tuttavia bollare come tradimento tale ribaltamento strategico. Quei gruppi dirigenti, nutriti di cultura sviluppista e privi di ogni sguardo agli equilibri del pianeta, non hanno fatto fatica a convincersi che rendere sempre più libero e protagonista il mercato, togliere lacci e lacciuoli, come ancora si dice, avrebbe accresciuto la ricchezza generale e dunque allargata la quota da distribuire anche ai ceti subalterni. E a questo compito residuale hanno limitato il loro rapporto col mondo del lavoro, ritagliandosi spazio e consenso tra i gruppi dirigenti. Senza dire che nel vocabolario della cultura neoliberista (libero mercato, flessibilità del lavoro, competizione, meritocrazia, ecc) essi hanno trovato il repertorio linguistico per innovare il loro discorso politico, quello più confacente alla loro nuova collocazione. Quella di forze politiche che non dovevano più promuovere e orientare il conflitto sociale, ma ottenere consenso elettorale per politiche di mediazione e di lenimento risarcitorio degli effetti più aspri dello sviluppo derogolamentato.

Dunque le forze che danno vita al Pd non sono gli epigoni dei vecchi partiti popolari, nati dalla Resistenza, sono forze del tutto nuove, indossano il vestito smagliante del vecchio avversario di classe. Ma quello di Veltroni e degli altri nasce come un progetto invecchiato, perché vuole imporre in Italia il bipartitismo in una fase storica in cui esso è al tramonto negli stessi Paesi in cui ha avuto più fortuna.

Qualcuno ricorda quando il Financial Times si scandalizzava per i programmi elettorali dei Tories e dei Laburisti nel Regno Unito, che erano pressoché identici? La stessa cosa accadeva negli Usa, fino a quando Trump non ha incarnato l’estremismo del primatismo bianco. Luigi Ferrajoli ha scritto pagine lucidissime su quei sistemi elettorali nel secondo volume dei suoi Principia iuris (Laterza 2007). Ma il tentativo di trasferire nel nostro Paese il sistema politico anglo-americano è poi velleitario non solo perché non tiene conto delle nostre varie culture politiche. Come se bastasse creare un unico contenitore per due contendenti, lasciando fuori tutti gli altri, per assicurare stabilità al sistema politico e conseguire la tanto agognata governabilità.

La storia non si lascia comprimere dal volontarismo istituzionale. Quella scelta ha contributo col tempo a mettere all’angolo le varie forze di sinistra, Rifondazione Comunista, Sel, Sinistra italiana, ecc (che portano la loro quota specifica di responsabilità), senza tuttavia risolvere i problemi di coesione e stabilità al proprio interno e nel sistema politico. Ma il tentativo nasconde un altro deficit analitico, comune a tutti coloro che ricercano la “governabilità”, accrescendo la torsione autoritaria degli ordinamenti. La fragilità dei governi riflette in realtà quella dei partiti, vuoti di ogni progettualità, privi ormai di forti ancoraggi sociali (tranne in parte la Lega) e trasformatisi in agenzie di marketing elettorale. Essi inseguono gli umori dei gruppi sociali, in parte creati, e non solo veicolati, dai media, protagonisti in prima persona della lotta politica, e perciò sono volatili, scomponibili come giocattoli di Lego.

Ma ciò che quasi tutti ignorano è che nella stagione di euforia neoliberista i partiti hanno consegnato al mercato, cioè al potere privato, non poche prerogative che erano del potere pubblico. E oggi il ceto politico, si ritrova con strumenti limitati di regolazione e controllo, sempre più costretto a subire la spinta del capitalismo finanziario a trasformare lo Stato in azienda. Le procedure di scelta e decisione dei Parlamenti e dei governi appaiono troppo lente rispetto alla velocità dell’economia e della finanza senza regole. Se un operatore può spostare immense somme di danaro con un gesto che dura pochi secondi, all’interno di società capitalistiche in competizione su scala mondiale, è evidente che la struttura degli Stati democratici appare ormai come un organismo arcaico. E senza un vasto ancoraggio con i ceti popolari, senza essere supportati dalla loro forza conflittuale, i partiti sono fragili e i governi instabili.

Dunque il Pd è nato come “forza di governo”, emarginando le culture politiche alla sua sinistra, imponendo o caldeggiando il sistema elettorale maggioritario. Ciò ha prodotto una torsione antidemocratica all’interno dei partiti in cui le segreterie hanno accresciuto il proprio potere sulla scelta della rappresentanza parlamentare, sempre più sottratta ai cittadini elettori. Un colpo alla democrazia dei partiti e a quella del Paese, governato da Parlamenti nominati, frutto di leggi elettorali spesso incostituzionali.

Se poi entriamo nella narrazione storica delle scelte partitiche e di governo compiute in 15 anni di storia nazionale non possiamo non stupirci della capacità manipolatoria dei gruppi dirigenti di questo partito, e della grande stampa, nel celare la sua natura conservatrice, spacciandolo per una forza di centro-sinistra. Si può ricordare il Jobs Act? Alcuni compassionevoli difensori scaricano la responsabilità su Matteo Renzi, quasi non fosse rampollo della stessa casata. Ma dopo di lui il lavoro precario in Italia è dilagato, il Pd non si mai mosso per arginarlo e, meraviglie delle meraviglie, si è insediato anche in ambito pubblico. Nel ministero dei Beni culturali, presieduto per un totale di 7 anni da Enrico Franceschini, siamo al “caporalato di Stato”, con una miriade di giovani che tengono in piedi  musei e siti con contratti a tempo determinato e salari da fame. Non va meglio ai ricercatori della Sanità pubblica, 1290 operatori con una media di 10 anni di precariato alle spalle. Sono i nostri giovani più brillanti, quelli che la Tv ci mostra dopo che sono scappati, quando hanno avuto successo nelle Università straniere. Nel 2021 con la ripresa dell’occupazione del 23%, il 68% è di contratti stagionali, il 35% in somministrazione, e solo 2% a tempo indeterminato.

Ma tutto il mondo del lavoro italiano ha conosciuto forse il più grave arretramento della sua storia recente. «Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%» (D. Affinito e M.Gabanelli, Corriere della Sera, 11 luglio 2022). E siamo ora al dilagare dei lavoratori poveri. Il rapporto dell’11 luglio del presidente dell’Inps Tridico ricorda che «il 28% non arriva a 9 euro l’ora lordi». Tutto questo quando non muoiono per infortuni: nel 2020 1.270 lavoratori non sono tornati alle loro case. Poveri in un mare di miseria, perché oggi contiamo oltre 5 milioni di poveri assoluti e 7 di milioni di poveri relativi. Ma c’è chi sta peggio. Nelle campagne è rinato il lavoro semischiavile comandato dai caporali. La figura dei caporali era attiva in alcune campagne del Sud negli anni 50, poi travolta dall’onda di conflitti del decennio successivo. Negli ultimi 20 anni è risorta, ma si è diffusa anche nelle campagne del Nord.

Dobbiamo ricordare le condizioni della scuola? Renzi ha portato alle estreme conseguenze, secondo il dettato neoliberista europeo, avviato in Europa col Processo di Bologna (1999) e introdotto in Italia da Luigi Berlinguer, la trasformazione in senso aziendalistico degli istituiti formativi. Con l’alternaza scuola/lavoro ha portato la scuola in fabbrica e la fabbrica nella scuola. Ma il processo è proseguito con gli altri governi per iniziativa o col consenso/assenso del Pd e prosegue ancora oggi, grazie all’assoggettamento dei bambini e dei ragazzi a logiche strumentali di apprendistato, perché acquistino competenze, non per formarsi come persone. Gli insegnanti vengono obbligati a compiti estenuanti di verifica dei risultati, sulla base di test e misurazioni standardizzate, quasi fossero dei capireparti che sorvegliano gli operai al cottimo. Essi non sono più liberi nelle loro scelte educative e culturali, trasformati come sono in esecutori di compiti dettati dalle circolari ministeriali. Sotto il profilo culturale, la torsione della scuola a strumento di formazione di individui atti al lavoro, al comando, alla competizione, – di cui il Pd è il più convinto sostenitore – costituisce il più sordido e devastante attacco alle basi del nostro umanesimo, della nostra civiltà.

Ma il giudizio da dare a questo partito non può riguardare solo le scelte di governo. Certo, alcune sono particolarmente gravi. L’iniziativa del ministro Marco Minniti, nel 2017, di armare la Guardia libica per dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo, allo scopo di rinchiuderli e torturarli nelle loro eleganti prigioni, rappresenta forse il più feroce atto di governo nella storia della Repubblica. Dal 2017 sono affogati in quel mare oltre circa 2mila esseri umani ogni anno.

Ma ci sono iniziative meno cruente, non per questo però meno devastanti. La scelta del governo Gentiloni di stabilire “accordi preliminari” con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per avviare i loro progetti di autonomia differenziata è un passo esemplare. Mostra quale visione del futuro del nostro Paese orienta il gruppo dirigente del Pd. Un’Italia abbandonata agli egoismi territoriali delle regioni più forti, la competizione neoliberista portata dentro le istituzioni dello Stato, per disgregare definitivamente un Paese già in frantumi.

Ma occorre mettere nel conto dei 15 anni di presenza politica anche il “non fatto direttamente”, le leggi e le scelte accettate, dal governo Monti nel 2011 a quello Draghi appena concluso. E non abbiamo spazio per elencare le scelte avallate, dalla riforma Fornero all’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. E tuttavia non possiamo dimenticare che il Pd ha sabotato in ogni modo il referendum vittorioso per la publicizzazione dell’acqua, ha taciuto di fronte al continuo sottofinanziamento della scuola e dell’Università, non si contrappone ancora oggi al sostegno pubblico alla medicina privata. Il Pd non ha preso alcuna iniziativa per sanare un territorio devastato dagli incendi d’estate e travolto dalle alluvioni in inverno, ha anzi taciuto e sostenuto, tramite i suoi presidenti di regione e sindaci, la cementificazione selvaggia del Paese, la più totalitaria d’Europa. Il Rapporto nazionale Ispra 2022 denuncia che nel 2021 abbiamo raggiunto il valore più alto  negli ultimi dieci anni di consumo di suolo con la media di 19 ettari al giorno, per effetto di cementificazione, soprattutto per la costruzione di edifici. È una cifra spaventosa, una sottrazione di verde che espone il territorio alle tempeste invernali, accresce la temperatura locale, sottrae ossigeno alle città appestate dallo smog.

Potremmo continuare ricordando che il Pd non ha mai mosso un dito contro le disuguaglianze selvagge che lacerano il Paese, ha votato la riforma fiscale Draghi che premia i ceti con redditi superiori ai 40 mila euro, mentre il suo segretario, con l’elmetto guerriero in testa, ha prontamente accettato la richiesta Nato di portare al 2% del Pil le nostre spese annue in armi, poco meno di 40 miliardi di euro. Un vero sollievo per le nostre brillanti finanze.

Ma non abusiamo della pazienza del lettore. Quanto già scritto mostra ad abundantiam come questo partito ha immobilizzato un Paese che sta su un piano inclinato e quindi se sta fermo scende, quando, con le proprie scelte, non lo ha spinto indietro. Ma la difesa dello status quo oggi, mentre tutto precipita e il pianeta mostra segni di collasso, è una strada rovinosa.

Dunque, al netto degli effetti prodotti dalle scelte dei governi precedenti, è evidente che il Partito democratico, in questi ultimi 15 anni di storia, è il maggiore responsabile del declino italiano. Per tale ragione tutte le rare lucciole di persone effettivamente progressiste che si aggirano disperse nella pesta notte del suo conservatorismo, concorrono, sia pure involontariamente, a nascondere la natura antipopolare di questo partito, i danni storici inflitti all’Italia. Votarlo non è il meno peggio, ma il peggio.

Ne va dunque dell’onore dei giornalisti italiani continuare a pronunciare il nobile lemma sinistra e alludere al Pd. Così come ne va dell’onore, della coerenza e della ragione di Sinistra italiana continuare a ricercare una alleanza elettorale con questo partito, che ha dimostrato, con ampiezza di prove, di essere un avversario di classe.

martedì 9 agosto 2022

IL FONDAMENTALISMO DEI GUERRAFONDAI

Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla nascita della gran maggioranza delle guerre in atto in tutto il mondo ecco che la paternità e pure la maternità di questi crimini insensati è da attribuire agli Stati Uniti che nel corso della storia hanno passato ben oltre il 90% della loro esistenza a fare guerre.
Nel breve articolo(www.storiauniversale.it/bilancio-dell-imperialismo-guerrafondaio-usa )ecco servito in poche righe ciò che gli Usa hanno rappresentato fin dalla loro costituzione nel 1776 con un numero impressionante di conflitti scatenati o in cui hanno messo lo zampino e vi hanno partecipato,dove ogni angolo della terra non è stato lasciato fuori.
E pensare che questo contributo è del 2015 e non vi sono inclusi gli ultimi casi dell'Ucraina(madn nuova-tappa-del-war-world-tour statunitense? )e dei supporti vitali in Israele e le provocazioni in Kosovo,per elencare i casi più recenti dell'ennesimo presidente guerrafondaio made in Usa(madn giusto-esultare-per-biden? ).
Che se volesse davvero manderebbe truppe regolari dell'esercito in posti come Cuba e Venezuela solo per citarne un paio,mentre per la questione Taiwan-Cina se che perderebbe e male in partenza,e con lui andrebbe a fondo quasi tutta l'Europa servile e complice.
Mentre in Italia la stragrande maggioranza dei partiti politici che si stanno dilaniando per il voto del 25 settembre si professano convintamente atlantisti e fieri sostenitori degli Stati Uniti,sarebbe meglio scegliere forze che metterebbero al bando la Nato dal nostro paese e che seguisse per davvero la Costituzione italiana con il nostro paese che ripudia la guerra.

BILANCIO DELL'IMPERIALISMO GUERRAFONDAIO USA

«Siamo un popolo di guerra. Noi amiamo la guerra perché siamo molto bravi a farla. In realtà, è l'unica cosa che possiamo fare in questo cazzo di paese: la guerra. Abbiamo avuto un sacco di tempo per fare pratica e anche perché è sicuro che non siamo in grado di costruire una lavatrice o una macchina che vale un coniglio da compagnia; per contro, se avete un sacco di abbronzati nel vostro paese, dite loro di stare attenti perché noi verremo a sbattere una bomba sul loro viso...». (George Carlin, comico statunitense)

Nel 2015 in un articolo su un blog(29) si tirano due somme che alla luce di quanto riportato finora non stupiscono:

«Gli Stati Uniti sono stati in guerra il 93% del tempo, dalla loro creazione nel 1776, vale a dire 222 dei 239 anni della loro esistenza. Gli anni di pace sono stati solo 21 dal 1776. […] Per mettere questo in prospettiva:

-Nessun presidente degli Stati Uniti è mai stato un Presidente di pace. Tutti i presidenti degli USA che si sono succeduti sono stati tutti, in un modo o nell'altro, coinvolti almeno in una guerra.

-Gli Stati Uniti non hanno mai passato un intero decennio, senza fare una guerra.

-L'unica volta che gli Stati Uniti sono rimasti 5 anni senza guerra (1935-1940) è stato durante il periodo isolazionista della Grande Depressione.

Nella maggior parte di queste guerre, gli Stati Uniti erano all'offensiva, in alcune sulla difensiva […]. Il 95% delle operazioni militari lanciate dalla fine della seconda guerra mondiale, sono state degli Stati Uniti, la cui spesa militare è maggiore di quella di tutte le altre nazioni del mondo messe insieme. Nessuna meraviglia quindi che il mondo pensi che gli Stati Uniti sono la prima minaccia del mondo per la pace.

Eppure ci sono ancora alcuni nord americani (più di quello che sembra) che fanno ancora la domanda: “Perché tutte queste persone nel mondo ci odiano?” E la risposta della propaganda USA è sempre, invariabilmente, la stessa: “...perché sono gelosi di noi, della nostra libertà, della nostra grandezza. Gelosi della nostra cultura...”

Ecco, soprattutto della loro cultura e del loro squisito modo di rapportarsi col prossimo».

Leggiamo ora cosa riporta l'autorevole quotidiano di Confindustria, Il Sole 24 ore(30):

«Gli Usa si sono cimentati in 64 guerre grandi e piccole negli ultimi cent'anni, in 43 dei casi giungendo solo al pareggio. Troppi pareggi, commenta l'ex diplomatico americano e giornalista James Hansen. Tolte anche le nove sconfitte, hanno vinto meno del 20% dei conflitti. Lo dice il Socom, il comando unificato delle forze speciali americane. Il documento delle forze speciali, che comprendono Navy Seals, Delta Force e Berretti Verdi, esamina i nove conflitti cui hanno preso parte gli americani negli ultimi 15 anni con la presidenza prima di Bush junior e poi di Obama: il risultato stilato in termini calcistici è di zero vittorie, due sconfitte e sette pareggi. L'analisi si intitola A Century of war and Gray Zone Challenges e risale al settembre 2015 ma è stata da poco resa nota dal sito TomDispatch.com grazie a una legge che permette di accedere a documenti riservati se chi le detiene non riesce a motivarne la segretezza. […] Vengono esaminati cento anni di interventi militari americani e dei 64 conflitti considerati solo cinque vengono definiti di primaria importanza. Tre sono stati vinti, la prima guerra mondiale, la seconda e Desert Storm in Iraq nel '91, una sconfitta, il Vietnam, e un pareggio, la guerra di Corea negli anni Cinquanta. Nella zona grigia citata nel titolo del documento ricadono i conflitti minori con un bilancio di nove vittorie, otto sconfitte e ben 42 pareggi».

È utile notare che i due conflitti «di primaria importanza» che non sono stati vinti dagli USA hanno visto come oppositori forze comuniste sostenute da Cina e URSS. Sono aperte le scommesse sullo schieramento mantenuto dai paesi socialisti negli altri 59 conflitti.

29. G. Fraschetti, Gli Stati Uniti sono stati in guerra 222 anni su 239 che esistono come Stato, Informare.over-blog.it, 26 febbraio 2015.

30. A. Negri, La superpotenza Usa? In cento anni ha vinto solo il 20% delle guerre, Il sole 24 ore, 7 ottobre 2016.

venerdì 29 luglio 2022

DRAGHI,LAGARDE E IL TPI

Le dimissioni da premier di Draghi sono avvenute nella stessa giornata dove in Europa tramite la Bce presieduta dall'amichetta Lagarde,gha deciso un importante e pericoloso disciplinare fiscale introducendo il Tpi(Transition Protection Instrument)che è il preoccupante scudo anti spread che terrà il nostro paese e le altre nazioni europee(soprattutto quelle più con l'acqua alla gola come la nostra)al giogo sempre più serrato dei poteri forti della finanza.
L'articolo di Contropiano(non-e-successo-niente-draghi-lascia-il-posto-al-suo-pilota-automatico )e scritto da Coniare Rivolta,un collettivo di economisti che non hanno peli sulla lingua nel dire quello che accade,parla prevalentemente degli aspetti economici e non della bagarre politica da eterna campagna elettorale che ci contraddistingue,e dice di avere molta paura per la nostra situazione.
La speculazione di cui il nostro paese soffre già da più di un decennio potrebbe aggravarsi ancor più con la scelta di questa impronta finanziaria da ricatto che la Bce ci ha accollato,e costringe non solo noi ma tutti gli Stati membri ad azioni che non promettono nulla di buono.
Si comincia dalla ferma decisione di non accumulare più debiti e quindi di aumentare tasse e stoppare sul nascere ogni investimento pubblico tagliando sanità,pensioni,scuola e servizi,e allo stesso tempo si pone un netto tetto a un aumento ipotetico dei salari con un'inflazione sempre più grave.
Inoltre sarà la stessa Bce a determinare la soglia del debito pubblico e non l'esecutivo in forza a ogni paese,con parametri alquanto aleatori senza contare il famoso,tanto decantato eppur malfamato Pnrr,che ora come non mai viene fuori per quel che è e per chi non l'aveva ancora capita:un cavallo di Troia di un'austerità che per ora non se ne vede la fine,altro che miliardi di Euro regalati senza poi non presentare il contro di una speculazione sempre più profonda.

Non è successo niente: Draghi lascia il posto al suo pilota automatico.

di Coniare Rivolta *

Con un tempismo straordinario, la crisi di governo che si è consumata negli ultimi giorni ha visto il Presidente del Consiglio Draghi presentare le sue dimissioni definitive esattamente nello stesso giorno in cui la Banca Centrale Europea (BCE), per bocca della sua Presidente Christine Lagarde, ufficializzava delle importanti, e funeste, novità per quanto riguarda la politica monetaria dell’area euro.

La misura più appariscente riguarda un aumento dei tassi di interesse, il primo dopo undici anni e di ammontare doppio rispetto a quanto sembrava nell’aria nelle settimane passate.

Come già avevamo avuto modo di discutere approfonditamente, questo provvedimento ha due precise implicazioni. Da un lato, è un attacco diretto al potere d’acquisto della stragrande maggioranza della popolazione, sacrificato sull’altare della difesa dei profitti. Dall’altro, è un’ulteriore mazzata alla stagnante economia europea, sempre più avviluppata nelle autoinflitte conseguenze economiche della guerra.

Non finisce qui, purtroppo. Contestualmente, la BCE ha anche varato un nuovo strumento di politica monetaria, il Transition Protection Instrument (TPI), ossia il famigerato “scudo anti-spread”.

Il tempismo stupisce, e preoccupa, perché il TPI rappresenta la più aggiornata e rifinita evoluzione del famigerato “pilota automatico”, termine coniato proprio dal Draghi Presidente della BCE per definire quell’insieme di strumenti di disciplina fiscale che avrebbero garantito la rigida applicazione dell’austerità e delle politiche neoliberiste in ciascun Paese membro dell’Unione Europea a prescindere dall’indirizzo politico del governo di turno.

Con il “pilota automatico”, le istituzioni europee hanno dimostrato di riuscire a condizionare la politica economica dei Paesi membri attraverso il ricatto dello spread: qualsiasi governo, di qualsiasi colore politico e indirizzo ideale, sarebbe stato costretto a conformarsi alle prescrizioni della Commissione Europea dalla minaccia dell’instabilità finanziaria, una minaccia che si materializzava non appena la BCE allentava il suo sostegno monetario.

Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e poi Italia hanno dovuto applicare – dal 2010 ad oggi – le rigide agende politiche neoliberiste prescritte dalla Commissione per non ritrovarsi abbandonati dalla BCE in balia della speculazione finanziaria.

Lo strumento tecnico attraverso cui si esercita il ricatto dello spread è rappresentato dagli acquisti di titoli del debito pubblico effettuati dalla BCE: quando questa acquista, ad esempio, i titoli di Stato italiani, ne sostiene la domanda e dunque riduce il tasso di interesse che l’Italia deve pagare ai creditori; specularmente, quando la BCE riduce i suoi acquisti di quei titoli, l’Italia vede crescere il costo del suo debito pubblico e compromette la sua stabilità finanziaria.

Come dicevamo, il 21 luglio, mentre il premier italiano Draghi presentava le sue dimissioni, la BCE introduceva il TPI, un nuovo strumento attraverso cui acquistare titoli di Stato sui mercati finanziari per governare i tassi di interesse nell’area dell’euro.

Il TPI consente alla BCE di acquistare titoli pubblici di uno Stato membro solo a condizione che siano verificate quattro condizioni: a) disciplina fiscale, b) stabilità macroeconomica, c) sostenibilità del debito pubblico ed infine d) rispetto delle condizioni del PNRR e delle altre raccomandazioni della Commissione Europea.

La prima condizione implica sostanzialmente che il Paese in questione non stia accumulando nuovo debito, cosa possibile solo aumentando le tasse e tagliando la spesa sociale, la sanità pubblica, le pensioni ed i servizi pubblici.

La seconda condizione richiede invece l’assenza di quelli che la Commissione Europea definisce “squilibri macroeconomici”, che includono anche – per fare un esempio – un tasso troppo elevato di crescita dei salari: per carità!

La terza condizione prevede una valutazione della BCE circa la sostenibilità del debito pubblico: per capire l’arbitrarietà di questa valutazione, basti pensare che la Grecia venne dichiarata prossima al fallimento con un debito pubblico pari al 120% del PIL e, successivamente, venne promossa a Paese virtuoso con un debito pubblico prossimo al 200% del PIL.

Miracolosamente, la valutazione della BCE era cambiata drasticamente quando la Grecia aveva firmato un memorandum of understanding che ha impegnato i governi che si sono succeduti nel decennio successivo a mettere in ginocchio la società greca attraverso le più rigide politiche di austerità, in quello che potremmo definire come il primo esperimento di “pilota automatico”.

Infine, il quarto requisito di accesso al TPI richiede che il Paese beneficiario degli acquisti della BCE stia rispettando tutti gli impegni assunti nell’ambito del PNRR (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), cioè le famose 528 condizioni capestro, nonché tutte le prescrizioni della Commissione contenute nelle periodiche Raccomandazioni Specifiche per Paese.

Finalmente, e si spera in maniera definitiva, viene messa una pietra tombale sopra alla favola, che ci è stata raccontata negli ultimi due anni, circa le “virtù salvifiche” di questo PNRR, che ci era stato venduto come un “regalo” delle istituzioni europee privo di qualsiasi condizionalità, e che invece si rivela essere l’ennesimo cavallo di Troia dell’austerità: mancare un obiettivo stabilito nel PNRR significa perdere lo scudo della BCE sui mercati finanziari e finire in balia della speculazione finanziaria.

Con il PNRR, dunque, le istituzioni europee sono riuscite ad estendere a tutti gli Stati membri quella camicia di forza che aveva consentito di piegare l’economia greca alle violente politiche di smantellamento dello stato sociale, di attacco alle pensioni e ai salari e di precarizzazione del lavoro.

Difatti, il PNRR non fa che impegnare i Paesi in un’agenda neoliberista a tappe forzate: se una di queste tappe viene mancata, la speculazione finanziaria può scagliarsi contro il Paese “indisciplinato” nella piena certezza che la BCE non interverrà, perché così funziona il TPI, come d’altronde già abbondantemente previsto.

Così, proprio mentre Draghi abbandona Palazzo Chigi sbattendo la porta, la sua spregiudicata agenda politica neoliberista rientra dalla finestra attraverso il nuovo strumento di politica monetaria della BCE.

Davanti al fallimento politico dell’ennesimo governo tecnico imposto al Paese, la classe dirigente europea rispolvera l’arma del ricatto del debito che tanto efficace si è dimostrata, in passato, come strumento di disciplina delle economie europee a suon di spread.

Gli eventi di questi ultimi giorni ci ricordano anche che, quale che sarà l’esito delle elezioni del prossimo 25 settembre, il programma di governo è già pronto ed è scritto nero su bianco nel PNRR, messo appunto dall’esecutivo Draghi e vincolante per chiunque uscirà vittorioso dalle urne per tutta la durata della legislatura, pena l’esplosione dell’instabilità finanziaria sotto la spinta della BCE.

Salvini, Letta e Meloni potranno così azzuffarsi sulle briciole e sulle quisquilie, consapevoli che l’agenda di politica economica e sociale sarà la stessa, chiunque di essi prevalga, perché questa è la naturale e unica conseguenza dell’adesione cieca alla politica del pilota automatico di matrice europea.

E, visto che stiamo entrando in campagna elettorale, è buffo osservare che pezzi degli stessi partiti che hanno sostenuto il governo Draghi ora provino improvvisamente a rimettere i panni barricaderi, con una divisione dei ruoli fra poliziotto buono e poliziotto cattivo che era insopportabile prima ed è intollerabile ora che escono dalla prova del governo.

Noi da parte nostra ripetiamo che niente di buono potrà venire da questi, ma continuiamo a riporre speranza in chi – finora fuori dall’arco parlamentare – in questi anni ha coerentemente individuato il meccanismo europeo quale uno dei fattori di controllo degli interessi della classe lavoratrice.

La strada da fare è ancora molto lunga, ma il cammino è iniziato.

mercoledì 29 giugno 2022

PUTTA*NATO

La due giorni di Madrid,città che ospita il vertice Nato che si presenta come uno di quelli più vergognosi della sua storia,presenta un piano bellico d'indirizzo da qui al 2030 con un ulteriore invasione di militari Usa in Europa e,tralasciando le note vicissitudini ucraine,mette nel mirino la Cina.
L'articolo di Contropiano(vertice-della-nato-a-madrid )ci spiega come la guerra totale contro la Russia sia ormai un punto fermo che va oltre le restrizioni e l'allargamento del Patto Atlantico verso nazioni che se ne sono state alla larga per decenni ma che ora pressate da una campagna menzognera dell'occidente hanno deciso di aderirvi.
Il caso eclatante della Svezia e della Finlandia è di per se un fatto gravissimo in quanto la Turchia ha posto il veto per l'ingresso dei due paesi scandinavi in ottica Nato in quanto come da buon mercenario Erdogan ha ottenuto il via libera all'estradizione di appartenenti al Pkk residenti lì.
Il comportamento da puttana della Nato è ormai un proseguire di azioni che alla luce del sole stanno destabilizzando il mondo,altro che mettere fine ai conflitti,in una successione di eventi che relegano la pace sempre più nell'angolo.

Vertice della Nato a Madrid. Velleità strategiche e “sacrificio” dei kurdi in nome dell’allargamento.

di Sergio Cararo

Accolto sabato scorso da una poderosa manifestazione di protesta contro la guerra, a Madrid oggi si apre il vertice della Nato che durerà fino a domani.

Secondo l’Ispi, il vertice dell’organizzazione che si tiene a Madrid va considerato un punto di svolta: i paesi membri tracceranno gli orientamenti del prossimo decennio e, con essi, le nuove dinamiche di sicurezza del continente europeo.

Per saperne le coordinate principali occorrerrà attenderne le conclusioni, ma qualcosa viene già delineato. In primis la Nato punta “al più importante rafforzamento delle proprie capacità dalla fine della Guerra Fredda” e porterà le forze di intervento immediato “oltre la soglia delle 300 mila unità” ha già fatto sapere il segretario Stoltemberg molto preso nel suo ruolo di “falco” nell’escalation della guerra contro la Russia in Ucraina.

L’Alleanza sarà “rafforzata in tutte le direzioni in ogni ambito: terra, aria e mare”, ha affermato Biden al vertice di  Madrid. “Dispiegheremo capacità aeree aggiuntive e altre capacità in Germania e Italia”, ha già fatto sapere il presidente Usa. Forse non gli bastano le 113 basi militari già presenti in Italia.

Inoltre il nuovo Strategic Concept – il documento di indirizzo strategico verso il 2030 – citerà la Cina come una delle sfide future da affrontare. In realtà lo Strategic Concept della Nato è già in elaborazione dal 2021 ma è inevitabile che dovrà fare i conti con il brusco mutamento delle relazioni internazionali, sia in Europa che nel mondo, a seguito dell’intervento militare russo in Ucraina e della guerra che si trascina da più di quattro mesi.

Secondo Affari Internazionali, tra gli obiettivi della Nato c’è indubbiamente un aumento delle ambizioni di intervento, ben oltre quelle dell’area europea o propriamente atlantiche. L’Alleanza potrebbe e dovrebbe sostenere gli sforzi militari per stabilizzare Nord Africa e Medio Oriente, fornendo supporto in termini politico-militare, di intelligence, e di capacità specifiche che solo la Nato possiede.

Ma l’ipotesi di nuove operazioni militari paragonabili a quelle in Afghanistan o in Libia non sembrano incontrare entusiasmi (visti anche i clamorosi fallimenti di entrambe, ndr), si tratta di una velleità che per la Nato si è tragicamente chiusa tra la ritirata da Kabul il 31 agosto 2021 e le prime bombe russe su Kiev il 24 febbraio 2022.

Ma è evidente, sia come causa e che come conseguenza della guerra in Ucraina, il focus principale della Nato sarà quello a Est. Nel 2022 si è già passati al rafforzamento dei contingenti militari Nato in Bulgaria, Romania, Ungheria e Slovacchia (con responsabilità ben precise della Francia in Romania e dell’Italia in Bulgaria).

Ma se l’attenzione e il rafforzamento militare della Nato è prevalente sulla frontiera Est, qualcuno sottolinea però che questo potrebbe provocare una minore attenzione al fianco sud: quello Mediterraneo.

E’ evidente che in questo quadrante sia cresciuto in modo pesante il ruolo di una potenza Nato come la Turchia.

E questo peso è leggibile anche nel ricatto che Ankara ha posto sul via libera all’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia: l’espulsione  e la consegna alla Turchia dei dirigenti e dei militanti del Pkk curdo rifugiatisi in quei paesi e la cessazione di ogni azione diplomatica a supporto della causa kurda. “Non usateci per negoziare con la Turchia” ha affermato Zubeyr Aidar,  dirigente kurdo rifugiato in Svezia. Ma martedì è venuto meno il veto di Ankara al via libera della Turchia a Svezia e Finlandia nell’alleanza. E’ stato sottoscritto un memorandum che accoglie le richieste turche sulla lotta contro il Pkk e la fine dell’embargo alle forniture militari svedesi e finlandesi ad Ankara. I kurdi usati dalle potenze occidentali come carne da cannone contro l’Isis adesso vengono di nuovo sacrificati, ma questa volta in nome dell’allargamento della Nato.

Tra i punti da dirimere nel vertice Nato di Madrid c’è anche quello dei partenariati con i paesi che chiedono di aderirvi. L’azione militare della Russia ha rimosso l’ambizione dell’Ucraina ad entrare nella Nato, restano le domande di Georgia e Moldavia. La prima già nel 2008 rischiò di scatenare un conflitto tra Russia e Nato simile a quello in corso in Ucraina, la seconda sta subendo pesantemente le onde lunghe della guerra in corso.

Infine, ma non certo per importanza, nel nuovo Strategic Concept della Nato ci sarà un capitolo anche sulla competizione frontale con la Cina. Non si tratterebbe di impegnare apertamente la Nato in operazioni militari nel Indo-Pacifico, ma di rafforzare il vantaggio militare sulla Cina da parte dell’Anzus, in pratica la gemella della Nato nel Pacifico. Non a caso è prevista la presenza al vertice di Madrid dei Primi ministri di Giappone, Corea, Australia e Nuova Zelanda.

martedì 14 giugno 2022

ELEZIONI LEGISLATIVE FRANCESI

Le votazioni legislative avvenute domenica scorsa in Francia,oltre ad avere l'importante risultato di un'astensione al pari con quella italiana,ha visto un testa a testa tra le formazioni del Presidente Macron e del leader di una sinistra unita ed ecologista Mélenchon,con la rappresentativa dell'estrema destra Le Pen al terzo posto ma staccata.
Al contrario del caso italiano la sinistra francese(non le varie coalizioni piddine di casa nostra)guadagna sempre qualcosa e lo fa in una maniera coesa con forze che rappresentano come dice il nome stesso,la Nuova Unione Popolare Ecologica e Sociale(NUPES),improponibile oggi come oggi in Italia dove ognuno ha il suo tornaconto e l'opportunismo regna sovrano tra i partiti che si dicono "progressisti".
L'analisi fatta e presa nell'articolo di Contropiano(il-significato-delle-elezioni-politiche-in-francia )non fa comunque troppi parallelismo con l'Italia a parte il dato dell'astensione,e fa vedere che i giovani sono propensi a votare Mélenchon mentre purtroppo la classe operaia succube anche oltralpe della disinformazione e accecata dall'odio del povero contro povero,vede Rassemblement National come partito di riferimento.
Renaissance,il nome del partito En Marche del Presidente Macron,è il classico partito centrista che strizza l'occhio alla destra e alla borghesia per la maggioranza dei casi salvo rivolgersi alla sinistra in poche occasione come capitò poco tempo fa per il voto per l'Eliseo vinto per poco appunto dal leader di Amiens.
Nel secondo turno i repubblicani(LR),neogollisti e figliocci di Sarkozy,potrebbereo essere l'ago della bilancia in molti casi visto che i sovra citati partiti(NUPES,Renaissance,Rassemblement National)si affronteranno in scontri collegiali gli uni contro gli altri in una sorta di balletto elettorale dove per l'appunto LR ma soprattutto la metà dei francesi che non hanno votato potrebbero cambiare drasticamente le sorti delle legislative 2022.

Il significato delle elezioni politiche in Francia

di Giacomo Marchetti

Domenica 12 giugno si è tenuto il primo turno delle elezioni legislative in Francia.

Le urne hanno sancito la crisi di consensi della formazione dell’attuale presidente Emanuel Macron che potrebbe perdere la maggioranza assoluta, e non è detto che ottenga nemmeno quella relativa. I suoi candidati hanno ottenuto meno voti della NUPES, la coalizione della sinistra radicale guidata da Jean-Luc Mélenchon, che raggruppa gli insoumise.es, il “polo ecologista”, il PS e il PCF.

Il Rassemblent National di Marine Le Pen, si conferma il “terzo polo” ancorandosi nel paesaggio politico francese.

Il primo partito si conferma quello del “non-voto”, il cui orientamento potrà essere decisivo per la sconfitta o meno del “Presidente dei Ricchi”.

Astensione record

Alle urne si è recato solo un francese su due.

Questa tendenza all’astensione, più spiccata tra le classi popolari ed i giovani, ha cominciato ad essere un dato significativo con cui fare i conti circa 30 anni fa e sottolinea una disaffezione alla partecipazione democratica che si è progressivamente ampliata, nonostante la ridefinizione complessiva del quadro della rappresentanza politica.

L’astensione, domenica, è stata del 52,6%, più del doppio di quella registrata al primo turno delle elezioni presidenziali.

Un dato che progredisce inesorabilmente almeno da un ventennio, considerando che nel 2002 – quando è stato cambiato il calendario elettorale “sincronizzando” presidenziali e legislative, “solo” un francese su tre non si recava alle urne.

Secondo le indagini condotte da IPSOS Sopra-Steria, il 69% della fascia d’età compresa tra i 18 ed i 24 anni non sono andati a votare, dato in aumento nella fascia d’età tra i 25 ed i 34 anni, in cui solo una persona su tre ha partecipato al voto.

Se si analizza la professione, coloro che si sono meno recati alle urne sono stati “gli impiegati” – 65% di astenuti – e “gli operai”, per il 62%.

É interessante notare che la NUPES è la più votata tra le fasce giovanili, in particolare quella tra 18-24 anni che si è espressa in suo favore per il 42%.

In generale, più un elettore è anziano meno vota per la NUPES.

L’alta astensione ha condizionato le sorti dei candidati al secondo turno, tenendo conto che solo chi ha ottenuto le preferenze di almeno il 12,5% degli aventi diritto al voto – cioè, in media, più del 25% dei suffragi nei 577 collegi elettorali – andrà al secondo turno. Mentre per essere vincitori al primo turno bisognava avere superato il 50% delle preferenze e con con un numero di voti superiori al 25% degli iscritti alle liste elettorali.

Nonostante questo doppio sbarramento, la NUPES – che ha ottenuto il più alto numero dei voti in assoluto nel primo turno – ha potuto già eleggere quattro deputati che siederanno all’Assemblea nazionale: Alexis Corbière a Seine-Saint-Denis – con il quasi il 63% – , Sarah Legrain, Danièle Obono e Sophia Chikirou.

Adrian Quatemans, candidato della NUPES di LFI, nonostante abbia ottenuto il 52,05%, dovrà aspettare il secondo turno, così come Manuel Bompard – a cui Jean-Luc Mélenchon ha “ceduto” il seggio – che ha ottenuto il 56,04%.

Dati “truccati” dal Ministero dell’Interno?

Nonostante i tentativi abbastanza “farseschi” del ministero degli Interni francese di ritoccare i dati, la NUPES è risultata la formazione più votata, sebbene la coalizione che sostiene Macron sia data avanti – nelle cifre ufficiali – per una manciata di voti, circa 20 mila.

E qui bisogna fare alcune precisazioni, perché il ministero ha “escluso” dal conteggio dei voti quelli andati a candidati sostenuti dalla coalizione della sinistra radicale nei Territori d’OltreMare – dove la LFI aveva “sbancato” al primo turno delle presidenziali – e in Corsica, dove il 40% delle preferenze su tutte le circoscrizioni dell’isola è andato a candidati “autonomisti” o ad altri.

In realtà, lo stesso errore sembra si stato commesso nei confronti di alcuni candidati di Ensemble! – la coalizione che raggruppa l’ex LREM di Macron, MoDem e Horizon – ma il conteggio risulta comunque falsato.

Le Monde, il principale quotidiano francese, ha calcolato che, anche senza contemplare i voti dei candidati in Corsica, alla la coalizione della sinistra radicale sono andati 5.836.202 voti. Meno dei poco più di sei milioni e centomila che NUPES si attribuisce, ma più dei 5 milioni e 400 mila voti che gli attribuisce il Ministero dell’Interno.

Il dato politico non cambia, ma è chiaro che dare la NUPES come “seconda” formazione più votata – invece che prima – influisce non poco sulla percezione, “relativizzando” la sconfitta della coalizione marconista che ha puntato tutto nel de-politicizzare queste elezioni, mentre Mélenchon ha parlato sin dall’inizio di “terzo turno”, riferendosi a quelli per le presidenziali.

Il Rassemblement National nel panorama politico francese

L’estrema destra di Marie Le Pen, nonostante abbia condotto una campagna elettorale decisamente sotto tono, è risultata terza con il 19% delle preferenze, confermando la sua progressione, dopo l’exploit al ballottaggio delle presidenziali, con uno storico 42%.

Con il 19%, l’ex FN ottiene un 6% in più delle scorse elezioni politiche, e sarà presente al secondo turno in più di 200 circoscrizioni, circa il doppio rispetto al 2017. La formazione sembra proiettata verso la concreta possibilità di formare un gruppo parlamentare, mentre prima poteva contare solo su 8 deputati (meno del numero minimo).

Le Pen, che ha ottenuto il 55% dei suffragi nell’11esima circoscrizione di Pas-de-Calais – non ha dato alcuna indicazione di voto là dove sarà esclusa al secondo turno e i seggi saranno contesi tra la formazione guidata da Macron e quella capeggiata da Mélenchon.

Insieme a lei Bruno Bilde, Sébastian Chenu, Caroline Parmentier, Jean-Philippe Tanguy, Philippe Ballard, oltre ad una altra decina, i candidati di RN più votati al primo turno che dovranno andare al ballottaggio.

RN sembra avere consolidato ed ampliato uno zoccolo duro di elettori ed ha un solido ancoraggio in alcuni territori, oltre ed avere catalizzato i voti “alla sua destra”, senza neanche fare accordi con Zemmour, che ad un certo punto della campagna per le presidenziali sembrava poterle “rubare” la leadership a destra.

La NUPES è la formazione più votata tra gli impiegati (il 31%) ed i “quadri” (il 28%), mentre è il RN che fa purtroppo incetta di voti “operai”: il 45% in media contro il 18% della NUPES.

Reconquê di Éric Zemmour esce con le ossa rotte dalle urne. Nessuno dei suoi candidati andrà al secondo turno, nemmeno il suo leader.

Come ha detto a Mediapart Ugo Palheta, ricercatore specializzato sull’estrema destra: “due mesi fa si poteva immaginare che il RN avrebbe avuto più deputati, e la ragione principale di questo fallimento, è che c’è una sinistra unita, egemonizzata da una sinistra di rottura in grado di affrontare il RN sul piano della radicalità e dell’opposizione politica”.

Un punto importante, considerato che il “fronte repubblicano” di cui ha beneficiato Macron per fare barrage contro Le Pen sembra vacillare.

Tutto questo in continuità con le esternazioni piuttosto risibili contro gli “estremismi”, che nelle loro molteplici variazioni sul tema, uscite dalle bocche di importanti esponenti della formazione.

Infatti nel caso dei duelli tra RN e NUPES in varie circoscrizioni, i macroniani non hanno dato una indicazione di voto chiara, manifestando un cerchiobottismo che si rimangia di fatto la retorica del “voto utile”, sfruttata per il secondo turno delle presidenziali contro lo spauracchio Le Pen.

I gollisti: futura sponda di Macron?

I Républicains (LR),riguadagnano terreno rispetto alla pessima prestazione del primo turno delle presidenziali, e conquistano il 12% degli elettori contro il 5% scarso ottenuto da Valérie Pecresse alcuni mesi fa, ma molto meno del 18,7% del 2017.

Sono destinati a perdere lo status di prima forza d’opposizione all’Assemblea nazionale, ma potrebbero giocare un ruolo fondamentale in caso in cui l’Ensemble di Macron non ottenesse la maggioranza assoluta (289 seggi) e fosse costretta a guardare ai gollisti come possibile sostegno all’opera dell’Esecutivo, facendoli diventare di fatto l’ago della bilancia della prossima legislatura.

Per i seggi in cui al ballottaggio non sarà presente un candidato di LR, il presidente della formazione ha affermato che non si pronuncerà per “gli estremi”,  sostenendo implicitamente Ensemble dove sfiderà il RN o la NUPES. Il possibile appoggio a Macron li toglierebbe dalla marginalità politica, e restituirebbe loro la natura di forza abituata a governare. Ma ne minerebbe in prospettiva il peso politico.

Le sfide del secondo turno

Ma guardiamo più nel dettaglio. Ensemble è in testa in 203 delle 577 circoscrizioni, la NUPES in 194.

La coalizione capeggiata da Mélenchon sarà presente al secondo turno in ben 404 circoscrizioni.

Le due coalizioni si affronteranno in un duello elettorale o in “triangolari” in più di 250 circoscrizioni.

La sfida tra Ensemble e RN si giocherà in più di un centinaio di circoscrizioni, e sarà il secondo più frequente tipo di sfida elettorale.

LR contro NUPES, LR contro RN, LR contro Ensemble ci saranno in una settantina di collegi in tutto, mentre saranno appena una manciata gli scontri tra i dissidenti delle formazioni socialista e comunista contro i rappresentanti della NUPES.

Conclusioni

É chiaro che i due fattori chiave saranno la capacità di mobilitare gli astenuti da parte della NUPES e il concretizzarsi di una sorta di “tutti contro Mélenchon”, che potrebbe unire macroniani, gollisti ed estrema destra, Ma va tenuto anche conto che il 60% dei francesi, secondo i sondaggi, non desidera avere un esecutivo capeggiato dalla formazione del presidente.

La NUPES infatti ha già attinto al bacino di voto della sinistra, riuscendo a sommare i consensi precedenti – tranne per la parte dei socialisti più legati agli “elefanti” ed alla parte più “centrista” dei verdi – ed ora deve mobilitare il suo blocco sociale di riferimento su un programma di rottura anti-liberista: giovani, abitanti dei quartieri popolari, cittadini dei territori d’OltreMare e della parte meno conservatrice della Francia “peri-urbana” e rurale.

lunedì 13 giugno 2022

DISASTRO QUORUM PER I REFERENDUM

L'annunciato fiasco dei quesiti referendari sulla giustizia è frutto di un sistema che da bravi italiani almeno il triplo del risicato 20% ottenuto alle urne sa già come risolvere andando da un maggiore numero di firme necessarie per il consulto popolare alla decisione finale senza quorum.
L'articolo di Contropiano(lastensionismo-affonda-i-referendum )parla dell'alta percentuale degli astenuti oltra la fatto che l'appeal dei quesiti sia stato uno dei più mortiferi e difficilmente relegabili ad una mera consultazione che dovrebbe essere discussa in Parlamento,mentre non è che le amministrative comunali abbiano avuto uno slancio di entusiasmo da parte dell'elettorato con una persona su due che è rimasta a casa(a Crema il 55% ha votato).
Di certo l'interesse verso i referendum è scemato dopo che la Consulta guidata da Amato ha reso inammissibili le richieste sul fine vita e l'uso della cannabis,ma difficilmente anche con quelle schede in più il quorum sarebbe stato raggiunto.

L’astensionismo affonda i referendum. Alle comunali vota la metà degli elettori. Oggi i risultati.

di Redazione

L’affluenza per i 5 referendum sulla giustizia si è fermata al 20,95 per cento ben lontano dal quorum richiesto (50 per cento + 1). Secondo il sito del Viminale questi sono i dati definitivi sull’affluenza (7.903 Comuni su 7.903) riferiti alle 23 di ieri sera.

L’ultimo referendum abrogativo, quello contro le trivellazioni, era stato ad  aprile 2016 ed ebbe una affluenza del 23,54% alle 19, e si era poi attestato al 33% alla chiusura delle urne.

Completamente diversi invece i risultati del referendum costituzionale voluto da Renzi a dicembre 2016. Lì, nonostante non fosse necessario il raggiungimento del quorum,  l’affluenza era stata alta (68,48 per cento) dimostrando che la chiamata ai seggi è stata fin dall’inizio un referendum di fatto pro o contro l’esecutivo, era stato capace di mobilitare tutta la popolazione. Il No alla riforma controcostituzionale di Renzi vinse con il 59,5 per cento dei voti contro il 40,4%.

Il silenzio elettorale ieri era stato rotto da Berlusconi (sostenitore del Si al referendum) che era tornato ad attaccare i magistrati e la “giustizia politicizzata” con toni duri, parlando fuori dal seggio dove ha votato nel centro di Milano. Oggetto della rabbia del leader di Forza Italia sul tema della giustizia sono i fatti di Palermo dove, a pochi giorni dal voto, sono stati arrestati due candidati, uno di Fratelli d’Italia e uno di Forza Italia, con l’accusa di scambio elettorale politico mafioso. “Questi arresti di candidati un giorno o due prima delle elezioni, potevano anche aspettare due giorni dopo – ha osservato Berlusconi -. Questa è sempre la storia della giustizia politicizzata che non è morta”.  Insomma il Cavaliere è tornato a insistere sui suoi soliti cavalli di battaglia dando la cifra del significato con cui la destra ha cercato di strumentalizzare i referendum sulla giustizia promossi da nove consigli regionali di centro-destra e non una raccolta di firme nelle strade.

Il “garantismo di scopo” della destra era fin troppo evidente, così come la velleità di sottoporre a referendum quesiti su una materia complessa come la giustizia in cui convivevano questioni serie e richieste strumentali.

Elezioni comunali

Più alta è stata invece l’affluenza nelle città dove c’erano in contemporanea le elezioni comunali che è stata del 54,72%, ma anche qui si registra un calo rispetto a quelle precedenti. Una conferma che l’astensionismo si va ormando consolidando anche nel caso di quelle “elezioni di prossimità” che storicamente vedevano una partecipazione più alta.

Oggi alle 14 inizia lo spoglio delle schede per le elezioni comunali. Gli exit poll danno Genova, Palermo e L’Aquila al centrodestra. Al ballottaggio vanno invece Parma, Verona e Catanzaro con il centrosinistra in testa nelle prime due città. Sulle assenze di un centinaio di presidenti di seggio a Palermo, la Procura sta valutando i reati di interruzione di pubblico servizio e rifiuto di atti d’ufficio.

Sempre a Palermo l’attacco di gruppo hacker al sito del Comune, ha riversato decine e decine di file contenenti dati sensibili. “E’ stata pubblicata la prima parte delle informazioni gentilmente condivise con voi dai rappresentanti di questa società. Ce ne saranno altre domani”, ha scritto il gruppo hacker Vice Society nella giornata di ieri, annunciando la pubblicazione di altre informazioni.

Secondo l’Ansa  nella lunga lista rilasciata dagli hacker c’è un po’ di tutto: relazioni su riscossioni di imposte e tasse, lavorazioni degli stipendi, accrediti al servizio di tesoreria del Comune di multe pagate dai cittadini con nomi e cognomi, ingiunzioni di pagamento, anche in questo caso, con i riferimenti anagrafici dei coinvolti, documenti d’identità di dipendenti Sispi, elenchi del personale coi numeri di telefono segnati accanto. Ma ci sono ancora note interne del comando della polizia municipale, verbali su riunioni di servizio, schede di valutazione di ausiliari dell’Amat e anche l’elenco telefonico del comando della polizia municipale. Su Twitter c’è chi ha pubblicato alcuni screenshot coi nomi dei file sottratti dalla rete di Palazzo delle Aquile.

mercoledì 8 giugno 2022

CULTURA RUSSA

Mentre la pericolosa caccia alle streghe contro il popolo russo continua imperterrita nella maggior parte del mainstream occidentale,anche se si notano alcune defezioni che man mano che il conflitto si dilata nel tempo hanno più voce(o forse è solo una mia sensazione),la disinformazione o se si vuole l'informazione a senso unico non controllata continua a fluire indisturbata nelle case di milioni di italiani ed europei.
E non si toccano solamente Putin e i maggiori pezzi da novanta del governo russo,ma pure personaggi che sono già sotto terra da decine di anni o anche più come i vari protagonisti della splendida letteratura russa degli scorsi secoli,dei musicisti e dei compositori per finire con l'essere presi di mira pure monumenti storici come quelli che compongono il Cremlino.
Lo si evince nell'articolo di Contropiano(no-allembargo-culturale )che parla di questa fastidiosa e vergognosa deriva della guerra che infanga milioni di persone che di questo conflitto ormai non possono più dire nulla,e dello fregio che si fa a tutta la cultura russa con tutte le mille sfaccettature che ciò comporta.
Associando questa guerra mediatica,che però perde colpi giorno dopo giorno,alla capacità mentale e di comprensione di una popolazione come quella italiana,ormai in fondo a tutte le classifiche europee per quanto riguarda la comprensione di una semplice frase,la propaganda antirussa fa breccia proprio verso quelle persone che un minimo di cultura proprio non ce l'hanno.

No all’embargo culturale.

di  Potere al Popolo   

In tre mesi dall’inasprimento del conflitto fra la Russia e l’Ucraina, culminato con l’invasione di quest’ultima da parte della prima, l’Occidente in generale e l’Italia in particolare hanno adottato una politica non volta a cercare a tutti i costi una soluzione diplomatica per arrivare il prima possibile ad un accordo di pace ma, al contrario, una politica belligerante. 

In questo clima di guerra si è cercato in tutti i modi di tracciare una linea fra buoni e cattivi, secondo la quale tutti i russi sono i cattivi. Si dice che le colpe dei padri non debbano ricadere sui figli, però, a quanto pare, quelli dei governanti possono ricadere sulla popolazione e sulla sua cultura.

Stiamo assistendo infatti ad una inesorabile cancellazione della cultura russa, sia quella contemporanea che quella passata. Non risulta chiaro di quali colpe si possano essere macchiati in questa circostanza i vari Puskin, Cechov, Cajkovskij, Dostoevskij, Tolstoj. 

Semplicemente nessuna e infatti le motivazioni addotte sono delle più fantasiose, come per la cancellazione del corso su Dostoevskij alla Bicocca, poi rettificata, poiché mancava il contraddittorio! Sarebbe interessante sapere chi sarebbe dovuto essere mandato a sostenere tale contraddittorio.

Alcuni teatri hanno cancellato le rappresentazioni del Lago dei Cigni che dovevano essere messe in scena da ballerine e ballerini ucraini, adducendo come motivazione quella di voler “tutelare” gli/le artisti/e che avrebbero avuto non pochi problemi al rientro in Patria avendo il governo di Kiev imposto il divieto di interpretare autori russi.

Ma gli stessi problemi non li avrebbero le artiste e gli artisti russi a cui si chiede di prendere parola sulla guerra, pena l’esclusione dalle varie kermesse?

Poco importa: ormai, che siano filo-Putin o oppositori, pro-guerra o contrari ad essa, sono stati messi aprioristicamente dalla parte del torto.

Ecco quindi che il Dublin International Piano Competition ha annullato la partecipazione dei musicisti russi; che nessun film russo potrà gareggiare alla prossima edizione degli Europen Film Award; che Netflix ha cancellato Anna Karenina; che la Philharmonie Haarlem ha cancellato le opere di Ciajkovskij e Stravinsky; che la Biennale di Venezia ha messo al bando le e gli artisti russi, salvo che non siano apertamente oppositori politici; che la Fiera del Libro di Torino ha deciso di boicottare scrittori e scrittrici russe; che la Siae non verserà alla consorella della Federazione Russa il pagamento dei diritti d’autore delle associate e associati russi; dal comitato del Premio Strega è stato escluso, sotto indicazione della Farnesina, Solonovich (esclusione poi rientrata, anche se la vergogna rimane).

E questi sono solo alcuni dei casi più famosi e più eclatanti perché poi esiste tutta la galassia delle piccole etichette discografiche, piccole case di produzione, piccole case editrici che non possono più operare.

Questo non vuol dire che non si possa contestare un artista, cosa che abbiamo anche fatto quando all’Arena di Verona si esibì Polunin (in un evento di ballo extra Arena, nonostante fosse stato dismesso il corpo stabile di ballo proseguendo così nella linea della privatizzazione e precarizzazione del lavoro culturale), lui – sì – così talmente filoputiniano da avere tatuato sul petto la faccia del Presidente della Federazione Russa, oltre che essere omofobo e sessista. Ma allora questi problemi non vi erano.

Questa deriva di totale cancellazione e censura della cultura russa non è un atto volto alla pace, bensì destinato a incrementare una russofobia che nulla gioverà né alla fine del conflitto né alla popolazione ucraina che vive lo scontro armato sul proprio territorio, nelle proprie case.

Se avessimo dovuto seguire questo modus operandi sarebbero innumerevoli le opere. ,le autrici e gli autori di cui non avremmo potuto fruire in questi anni: quelle provenienti dagli Stati Uniti che hanno fatto innumerevoli guerre invadendo paesi sovrani, quelle di Israele che occupa i territori palestinesi massacrandone la popolazione, quelle della Turchia che perseguita i curdi…

Così facendo non avremmo più cultura di cui godere.

Ci sarebbe poi da chiedersi a chi appartiene la cultura. La cultura è universale, e la cultura russa, oltretutto, è parte integrante della cosiddetta cultura europea.

Se veramente si volesse favorire la pace non si escluderebbero le artiste e gli artisti russi, poiché lo scambio culturale è uno strumento fondamentale per prevenire “guerre di civiltà” di cui fanno le spese solamente le classi popolari. La cultura è l’unica arma che andrebbe finanziata.

Pertanto ci opponiamo a questa censura e all’embargo culturale nei confronti di un intero popolo, di una intera storia.

“Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e canoscenza”

NOI NON CI ARRUOLIAMO! NOI NON CENSURIAMO!

giovedì 12 maggio 2022

GLI ORDINI DI BIDEN A DRAGHI

Il tour pancia all'aria del cagnolino Draghi negli States ha riconfermato,se ce ne fosse stato il bisogno,il totale servilismo italiano nell'ambito atlantista e tra i primi schiavi nell'Unione europea,nel giorno in cui altri leader europei hanno ribadito che la Russia non deve essere umiliata ma bisogna trovare al più presto una soluzione pacifica al conflitto ucraino.
Meglio senza l'intervento della Nato e degli Usa che continuano a foraggiare con investimenti e armamenti la nazione del fantoccio Zelensky,mentre altre voci fuori dal coro sempre più insistenti sia in Italia che in Ue non vogliono più aiuti militari diretti e cercano sempre più soluzioni diplomatiche senza sanzionare maggiormente la Russia.
L'articolo di Contropiano(sofferenze-europee-per-la-guerra-a-trazione-usa )parla dell'intervento dall'americano Draghi,che forse vuole un futuro ruolo di prim'ordine nella stessa Nato dopo esserne stato il fido banchiere,che in visita all'amico Joe ha detto quello che tutti si aspettavano,soprattutto gli statunitensi,con maggiori fondi per la guerra e la garanzia del proseguimento di sottomissione atlantista tanto cara a una platea trasversale di partiti politici nostrani.
Non sarà certamente questa legislatura,e nemmeno le prossime future a meno di clamorosi sviluppi,a farci togliere le basi militari dal nostro paese,anzi aumenteremo ancora le spese militari oltre a quelle per il gas Usa da rigassificare(maggiori costi e impatto ambientale),insomma questa scampagnata a spese nostre è un altro suicidio economico per le tasche degli italiani,sempre più vuote,sempre più logore.

Sofferenze europee per la guerra a trazione Usa.

di Dante Barontini

Qualcosa scricchiola nella poderosa “unità occidentale” contro la Russia. Sul piano continentale è evidente la differente impostazione tra Francia e Germania da un lato, e Italia (e paesi dell’Est) dall’altra.

Il giorno in cui Emmanuel Macron e Olaf Scholz si incontrano e delineano una posizione di “attenzione” nei confronti di Mosca (“non umiliare la Russia” pretendendo la sua sconfitta sul campo e il crollo economico), Mario Draghi detto “l’amerikano” sale su un aereo in direzione Washington.

E’ tradizione che i presidenti del consiglio italiani, nelle situazioni complicate, vadano a prendere indicazioni – o ordini – direttamente alla fonte, in modo da non sbagliare mosse e irritare gli Usa. Cominciò De Gasperi, siamo andati avanti così per 70 anni. E certo il più “euro-atlantico” dei premier europei, e sicuramente non un semplice cameriere ma un “consigliori” molto ascoltato, andrà a rappresentare le difficoltà che attraversano in queste settimane l’Unione Europea.

Comincia infatti a prendere corpo il costo spaventoso che la guerra in Ucraina impone all’Europa, troncando da un lato le forniture energetiche – al momento insostituibili, in quelle dimensioni e prezzi – e dall’altro parecchi mercati di esportazione (non solo la Russia, ma in qualche misura anche la Cina).

Non sembra un caso che lo stesso giorno Scholz abbia avuto una riunione in teleconferenza con Xi Jinping, con il leader cinese preoccupato di raccomandare per i due paesi relazioni bilaterali “sane e stabili“, per svolgere un ruolo “di stabilizzazione, costruttivo e di primo piano nella pace globale, soprattutto nel panorama internazionale attuale“.

Problemi che non riguardano – è stato fatto notare da molti – gli Stati Uniti, che al momento possono usufruire di una larga autonomia energetica, al punto da potersi proporre come fornitore sostituivo almeno parziale ma a prezzi decisamente più alti. Anche oltre il 50% in più. Ma che soprattutto – come emerge da sempre più analisti – hanno deciso di “buttare fuori pista” sia Mosca che Pechino e, nello stesso tempo, anche l’Unione Europea.

La quale, a sua volta, si ritrova stretta come il vaso di coccio tra potenze dotate di forte potere politico centralizzato, eserciti rodati nei secoli o almeno decenni, e un più chiaro senso strategico.

Voler partecipare all’”ipercompetizione mondiale” che fa seguito alla stagione della “globalizzazione unipolare” è un’aspirazione che espone a rischi fortissimi, se non si riesce a mettere in campo qualcosa di adeguato.

Vero è che fin dall’inizio «L’Europa sarà costruita sulle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate di fronte ad esse», come aveva scritto Jean Monnet ai tempi della Dichiarazione Schuman, ma non tutte le crisi sono della stessa natura e dimensione. Una guerra in Europa, che gli Stati Uniti vorrebbero lunga quanto basta a vedere “la Russia indebolita al punto di non poter fare il tipo di cose che ha fatto con l’invasione dell’Ucraina”, rischia di essere uno shock troppo difficile da sfruttare per costruire un’unità più drastica.

Si è visto proprio in questi giorni con le reazioni alla proposta di Mario Draghi – guarda caso… – di “superare il metodo dell’unanimità” per assumere decisioni comunitarie. Subito ripresa anche da Macron, von der Leyen e Scholz, perché i paesi più grandi ed economicamente forti “soffrono” la lentezza decisionale a causa dei veti nazionali. Che ostacola – com’è ovvio – la reattività della UE alle sfide dell’”ipercompetizione”.

Ma questo richiede una radicale modifica dei trattati europei, che – in loop – richiede l’unanimità. L’intenzione sarebbe quella di avviare il lungo processo di revisione già a giugno, in occasione del prossimo Consiglio Europeo. Ma, prima ancora di cominciare la discussione su quali temi andrebbero esclusi dall’approvazione all’unanimità, un gruppo di tredici Paesi ha sottoscritto una dichiarazione comune in cui si rifiuta radicalmente questa ipotesi.

Si tratta di Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lituania, Lettonia, Malta, Polonia, Romania, Svezia e Slovenia (ma si potrebbero aggiungere anche l’Ungheria e la Slovacchia). Anche qui, in gran parte, si tratta di quei paesi dell’Est che più sono “sensibili” alle sirene statunitensi; chi per antica “russofobia”, che per motivi assai più concreti, come il margine di autonomia decisionale in materia di bilancio, già ridotta quasi a zero dal Fiscal Compact e dal duo Two Pack-Six Pack (sulle procedure per l’approvazione delle leggi di stabilità nazionali).

Nella loro dichiarazione congiunta questi paesi – non tutti “piccoli”, oltretutto – ricordano che “ciò che conta è affrontare le idee e le preoccupazioni dei cittadini”. Quanto di più lontano immaginabile per i fautori dell’”austerità” che avevano dato forma alle politiche UE fino allo scoppio della pandemia e che mordono il freno per tornare a quell’andazzo.

In pratica, metà dei paesi UE non è disposto a rinunciare al proprio diritto di veto. E non sarà semplice superare questa opposizione nel bel mezzo di una guerra sul territorio europeo e con gli Usa che lavorano tutti i giorni per incentivare quel “divide et impera” che è da sempre il segreto degli imperi.

Ma proprio questa evidente pressione di Washington lavora a dividere, anche sul piano nazionale italiano, le forze politiche di governo da Mario Draghi. Forse è un po’ esagerata (e speranzosa) la copertina che Il Fatto Quotidiano ha dedicato oggi al premieri in partenza per gli Usa – “Abbandonato da tutti, Draghi vola da Biden”, ma certo cresce anche nella più miserabile classe politica del mondo l’insofferenza per una politica eccessivamente sdraiata sugli interessi statunitensi.

Lo avevano fatto capire nei giorni scorsi i lamenti di Confindustria – cone la guerra la produzione industriale a marzo è scesa del 2,9%, quasi del 4 in Germania – al punto che persino “Letta con l’elmetto” ha dovuto moderare il proprio atlantismo smodato e invitare a cercare”le vie del negoziato”.

Gli ideali, come sempre, “c’entrano una sega”… A parte le poche industrie del settore armi, tutte le altre attività imprenditoriali sono sotto minaccia di crisi nerissima. Come anche le borse in questi giorni stanno ricordando…

mercoledì 11 maggio 2022

AMMINISTRATIVE BRITANNICHE

La recente tornata elettorale che ha interessato la Gran Bretagna ha portato alla luce un problema per Boris Johnson con la perdita di parecchio elettorato rispetto alle precedenti amministrative,ma a beneficiare di questa emorragia di voti non sono stati i laburisti ma i liberal democratici ed i verdi,oltre che le formazioni separatiste del Scottish National Party e del Sinn Fein al massimo storico di consensi.
La debacle dei conservatori è avvenuta per un aumento dei costi della vita nonostante le promesse della Brexit oltre che per gli scandali che hanno colpito il premier inglese durante la pandemia e non per ultima la totale adesione alla causa ucraina che ha proiettato l'Uk come attore principale assieme agli Usa nel muovere guerra alla Russia con una campagna di menzogne degna dei tempi iracheni(vedi:madn blair-bliar ).
Sottolineo il fatto che nel Nord Irlanda il Sinn Fein abbia conquistato il miglior risultato di sempre e le dichiarazioni della vice premier nordirlandese Michelle O'Neill guardino con maggiore speranza ad un Irlanda unita anche considerato il fatto che i lealisti del Dup siano entrati in conflitto proprio con Johnson come evidenziato nell'articolo preso da Infoaut(elezioni-in-uk ).

Elezioni in Uk: disastro Boris Johnson, Labour nelle secche. Netta vittoria dello Sinn Fein in Irlanda del Nord.

Le elezioni amministrative nel Regno Unito sono state sotto il segno della confusione. Per conservatori di Boris Johnson si è trattato di un quasi-disastro, ma nonostante ciò il Labour non è riuscito a guadagnare terreno portando a casa un risultato peggiore del 2018. Gli unici ad avere avuto delle performance soddisfacenti sono i Liberaldemocratici e i Verdi. In Scozia lo Scottish National Party si consolida ulteriormente (con dietro il Labour) ed in Irlanda del Nord lo Sinn Fein porta a casa il miglior risultato di sempre.

Per un po’ Boris Johnson dovrà impiegare il proprio tempo a dirimere le beghe di partito scoppiate dopo il crollo dei Tories piuttosto che alimentare con dichiarazioni roboanti l’escalation militare in Ucraina. Il partito infatti ha conseguito un pessimo risultato alle amministrative perdendo anche alcune roccaforti storiche nella città di Londra, come Westminster e Wandsworth, quartieri benestanti di lunga tradizione conservatrice. A determinare la sconfitta secondo quanto sostenuto dai media britannici i ripetuti scandali degli scorsi mesi e l’aumento dei costi della vita.

Ma anche il Labour non naviga in acque tranquille. Infatti nonostante il crollo dei Tories la riproposizione della minestra del New Labour di matrice blariana da parte del nuovo leader Keir Starmer non convince. Il partito conquista posizioni nel cuore benestante di Londra e in generale ha una buona performance nelle zone urbane, ma non riesce a riprendere alcune roccaforti storiche del Red Wall (il cosidetto muro rosso delle Midlands che fino al 2017 ha avuto una guida prevalentemente Labour per poi passare in gran parte ai conservatori). La speranza dei laburisti moderati che governano il partito in questo momento che un crollo dei Tories in automatico significhi la possibilità di tornare alla guida del paese è stata smentita miseramente, anche se probabilmente non ne prenderanno atto.

Il quadro istituzionale Uk continua a frantumarsi ulteriormente sia sul piano territoriale che su quello delle appartenenze politiche. Infatti ad uscirne rafforzati da queste elezioni sono i LiberalDemocratici e i Verdi che hanno convogliato la delusione per i due partiti maggiori. Ad emergere sulla mappa inoltre è l’approfondirsi delle questioni territoriali con il consolidamento dello Scottish National Party e la vittoria dello Sinn Fein in Irlanda del Nord.

Sebbene in questo ultimo caso i conteggi siano ancora in corso sembra abbastanza netta e schiacciante la vittoria del partito cattolico e repubblicano. In tal caso se i risultati fossero confermati lo Sinn Fein potrebbe per la prima volta nominare il primo ministro dell’Irlanda del Nord. A spingere lo Sinn Fein diversi fattori tra cui le conseguenze socioeconomiche dell’hard Brexit, la crescita demografica della popolazione cattolica ed anche la capacità di raccogliere consensi in una minoranza protestante che vede i propri interessi materiali sempre più in conflitto con l’appartenenza storica.

Michelle O’Neill, vicepresidente dello Sinn Fein ha dichiarato che "La riunificazione è lo sbocco naturale per l'Irlanda del Nord. Il futuro sarà migliore con noi: più soldi per i nordirlandesi, più diritti, più lavoro, più opportunità. Siamo il cambiamento”. 

Nel frattempo il DUP, il principale partito lealista che negli scorsi tempi è entrato in rotta di collisione con il Primo Ministro Boris Johnson per via del pasticcio del protocollo della Brexit che pone i confini nel mare d’Irlanda, ha dichiarato che non parteciperà all’esecutivo e che la politica della condivisione dei poteri è finita, almeno fin quando il protocollo non sarà rivisto.

Dunque le contraddizioni si moltiplicano e lo scenario di una riunificazione irlandese non è più un tabù.

Per ora non abbiamo avuto occasione di leggere analisi sul peso della guerra in Ucraina all’interno di queste dinamiche elettorali, ma è significativo comunque sottolineare come la strategia conservatrice di provare a guadagnare consenso interno dopo gli scandali sul fronte dell’esposizione esasperata nel conflitto non sembra aver prodotto risultati, anzi. Il costo sociale della crisi, della pandemia e dell’inflazione sembra essere stato determinante e le spese di guerra, l’ulteriore aumento del costo delle materie prime potrebbero approfondire ancora le contraddizioni all’opera.

Insieme al ciclo elettorale francese (che può ancora riservare significative sorprese) queste elezioni ripropongono un nuovo rimescolamento dei piani su questioni storiche che si mischiano con le dinamiche determinate dalla crisi pandemica e dal progressivo scongelamento della crisi economica.

giovedì 5 maggio 2022

SANZIONI CONTRO NOI STESSI

Il nuovo giro sulle sanzioni alla Russia ci sta mettendo un poco più tempo rispetto alle altre cinque perché alcuni Stati membri dell'Ue hanno forse capito che l'effetto boomerang è molto più grave e sentito di quello che già i cittadini europei stanno subendo.
In poche settimane i prezzi alle stelle per carburanti e gas hanno inciso drasticamente sulle tasche degli italiani(per rimanere a casa nostra)e solo uno stupido o uno in malafede può affermare il contrario(o un politico seduto a Roma),e le briciole che il governo vuole dare e se mai le darà di certo non saranno in grado di risanare i conti correnti dei cittadini,figurarsi i conti dello Stato che tra aiuti in armamenti e ulteriori indebitamenti per foraggiare il ministero della guerra stanno collassando,per non parlare da dove arrivano i tagli.
L'articolo di Contropiano(tutti-hanno-da-guadagnarci-tranne-noi-europei )mostra in maniera lapalissiana il gioco cui stanno giocando i vari protagonisti in campo partendo dagli Stati Uniti che considerano l'Europa poco più di una colonia e sta sguinzagliando la setta Nato a fare proseliti accumulando nuovi adepti.
La Russia di Putin non fa un passo indietro e credo non lo farà mai così come l'Ucraina che rischia uno sterminio per il volere di un megalomane arricchito dalla televisione che manda al massacro la sua popolazione(per quanto riguarda le proprie forze militari il pensiero non mi sfiora).
Parlando di sanzioni la nostra economia già in ginocchio ancora prima della pandemia ora sta crollando letteralmente ed in maniera verticale mentre i nostri politici come pappagalli,assieme ai giornalisti di regime(ricordiamoci che nella classifica per la libertà di stampa siamo scesi dal quarantunesimo al cinquantottesimo posto al mondo)starnazzano quello che Usa,Nato e anche la schiava Unione Europea vogliono inculcare ora dopo ora nelle teste delle persone.
Nessuno più delle parti citate sopra ormai vuole la pace,i negoziati sono sterili e chi vende armi sta facendo guadagni colossali mentre i politicanti fantoccio europei vogliono praticamente l'Ucraina in ogni dove:Ue,Nato,che se la prendano gli Stati Uniti come cinquantunesimo Stato.
Per ultima l'inversione di tendenza sugli approvvigionamenti energetici che stanno sempre più ammalando la Terra e stiamo giungendo al punto di non ritorno,mentre si demonizza un'intera nazione e si fa la corte a nazioni dove la dittatura è la vera forma di governo e la libertà è una parola letta solo nei dizionari:meritiamo l'estinzione.

Ucraina, nessuno intende negoziare: tutti hanno da guadagnarci. Tranne noi europei.

di Loretta Napoleoni *

Ormai è chiaro che né l’Ucraina, né la Russia, né gli Stati Uniti hanno intenzione di negoziare. Per la prima vige il principio che per la patria e per la libertà da Mosca ci si fa trucidare e si resiste fino alla distruzione totale della nazione e della popolazione.

La seconda è saldamente in pugno a Putin, che non conosce la parola sconfitta e per quanto riguarda gli Stati Uniti – gestiti dal partito democratico, notoriamente guerrafondaio – hanno tutto da guadagnare dal prolungamento della guerra.

Basta menzionarne i vantaggi economici: si pensi solo ai carichi di metano liquefatto che venderanno a noi europei; senza parlare del trionfo della Nato, creazione loro, che ormai ingloberà anche la pacifista, o meglio ex pacifista, Svezia, la ex diplomatica Finlandia e forse anche la ex neutrale Svizzera.

Gli unici che da questa guerra hanno solo da perdere siamo noi, gli europei. Avete dato un’occhiata alle bollette energetiche o fatto il pieno di benzina, e che dire dei prezzi dei biglietti aerei per le tanto desiderate vacanze estive…?

E poi c’è l’inflazione alimentare, i tassi d’interesse che salgono, la stagflazione dietro l’angolo, più di quattro milioni di ucraini da sistemare, da aiutare. La lista è ben lunga.

Certo l’industria delle armi gongola, ma non è certo un volano per l’economia del vecchio continente. La stragrande maggioranza dei fondi di investimento non la toccano, come non investono nell’industria del tabacco.

Ma non basta essere tartassati dalle conseguenze negative di una guerra che si poteva e si doveva evitare con la diplomazia, adesso al vecchietto Biden è stato dato un nuovo copione da recitare da chi gestisce il potere in America, e cioè il partito democratico e chi lo dirige, probabilmente la Clinton e il suo seguito. Nel copione c’è scritto di spingere la Nato a entrare nel conflitto.

La scorsa settimana Victoria Nuland, la poco diplomatica e nota guerrafondaia Under Secretary of State for Political Affairs, ha ufficialmente dichiarato che la Nato deve intervenire per salvare gli assediati dell’acciaieria di Mariupol.

Alla Nuland, talmente imperialista da far apparire Dick Cheney come un agnellino, dell’Europa interessa poco. Per lei noi siamo una colonia, esiste solo l’America e il nemico, che al momento si chiama Russia. I nemici si combattono con le guerre per procura: quella in Corea, in Vietnam, in Afghanistan, e adesso in Ucraina.

Un intervento della Nato ci farebbe entrare in guerra. Lo sanno tutti: da Boris Johnson, di nuovo alle corde per le feste durante i lockdown, fino a Ursula von der Leyen che, infilatasi il giubbetto antiproiettile, ha incitato l’Ucraina a combattere fino alla vittoria e ha consegnato a Zelensky il questionario per entrare nell’Ue pur non avendo i requisiti per farne parte (il peggior peccato che un euroburocrate possa commettere).

Lo sa pure Mario Draghi, che per far vedere che esiste manda armi e chiede l’embargo sul petrolio russo.

Tutta questa gente gioca con il fuoco, è bene che i lettori lo sappiano. Tante, troppe guerre sono scoppiate per questo motivo. Pensare che questa guerra finirà con la vittoria di Kiev grazie all’eroismo dei suoi cittadini e alle armi che gli stiamo dando è un’illusione pericolosissima che solo chi non conosce la storia può coltivare.

Siamo insomma nella politica dell’assurdo: mentre sbandieriamo l’importanza della libertà, facciamo affari con i dittatori africani come Al Sisi. Il motivo è punire il super-dittatore Putin.

Così facendo paghiamo il doppio per le nostre bollette, accettiamo che con le nostre tasse si producano armi e contribuiamo al surriscaldamento della Terra (molte centrali a carbone hanno ripreso a funzionare). Ma che bravi, noi sì che siamo liberi e democratici!

Ogni sera giornalisti semi-mummificati intervistano colleghi ed esperti altrettanto fossilizzati che ci ripetono questo mantra: “è la cosa giusta da fare”. Accettiamo che tutto ciò che è russo venga cancellato dal mappamondo, persino gli atleti non possono partecipare agli incontri internazionali. Anche lo sport è entrato in guerra.

Politica e informazione sono a senso unico, proprio come negli anni Trenta in Germania, le voci fuori dal coro vengono stroncate e tacciate di essere a favore di Putin.

Forse la Nuland ha ragione, siamo una colonia degli Usa. Noi europei non ci siamo mai ripresi dal trauma della Seconda guerra mondiale: con i soldi del piano Marshall l’America ci ha chiuso in un recinto dal quale non siamo mai riusciti a uscire.

Tutti i tentativi di rifiutare i valori, i modelli – vedi il neoliberismo – che arrivavano dall’altra sponda dell’Atlantico sono stati inutili. La riprova? Il crollo della sinistra europea. Che fine ha fatto quella svedese? E quella italiana? Per non parlare dei laburisti inglesi.

Dove sono finiti gli intellettuali che difendevano i veri valori della libertà, quelli dell’informazione senza propaganda, della libertà di pensiero, di parola, di opinione? Ma soprattutto la libertà di scegliere la pace?

* da IlFattoQuotidiano