mercoledì 27 luglio 2011

SONO SEMPRE LORO,CI ATTACCANO(FELTRI & CO.)

Ecco alcune considerazioni e riflessioni sui tragici fatti di Oslo compiuti da un inumano neonazista con molti problemi di confrontarsi con gli altri,tratti rispettivamente da Julienews,Indymedia Lombardia e Senza Soste,dove nel primo caso si parte dalle parallele riflessioni di un testa di cazzo come Feltri simili a quelle di Breivik(anche Porchezio ha fatto commenti simili)sul come la colpa di tutte queste uccisioni siano da attribuirsi solo ai laburisti(!!??).
Il commento di Indymedia anche se breve è molto interessante e fa eco alle dichiarazioni del presidente norvegese che ha detto che dopo la strage c'è bisogno di ancor più libertà:frase che ha fatto molto discutere perché se da un lato ha ribadito la voglia di democrazia del paese norvegese dall'altro pone quesiti su chi la democrazia la vuole annientare.
Secondo il commento di Indymedia e anche per me si devono individuare queste persone e non dare modo ad esse di poter parlare ed esprimere le loro idee malate in modo da proteggere veramente la democrazia da chi evidentemente non gliene frega niente degli altri visto come ha agito.
L'articolo di Senza soste riporta un articolo che è un colpo duro all'estrema destra norvegese e non,scritto da un autore della stessa nazione residente a Londra,che rimarca il fatto che tutti gli episodi di violenza avvenuti negli ultimi decenni siano stati provocati da merdosi neonazi che hanno fatto dell'odio per il diverso e del razzismo l'arma di diffusione del loro"pensiero"di cervelli ammuffiti.
Appena sotto ecco la foto del titolo di cui avevo parlato nell'ultimo post e che non avevo trovato prima in rete,dove c'era già una prima pagina de"Il Giornale"che tosto aveva accusato il terrorismo islamico,mentre la successiva è uno schema che elenca i nuovi e vecchi partiti nati dall'odio verso gli immigrati ed i diversi in generale(come si può evincere l'Italia non è elencata ma sappiamo che tutta la maggioranza fa parte di diritto ad essere rappresentata di diritto nello schema).
INCREDIBILE EDITORIALE SUL GIORNALE DI OGGI.

La strage in Norvegia? Per Feltri la colpa è delle vittime.

MILANO - Incredibile ciò che è giunto a scrivere oggi nel suo editoriale Vittorio Feltri. Dopo aver cercato inutilmente di accusare direttamente l'Islam della strage di Oslo (su Libero e sul Giornale domenica campeggiava in prima pagina il fatto che si trattasse di una strage degli estremisti talebani, che volevano punire la Norvegia per la sua partecipazione alla guerra in Libia o per alcune vignette satiriche pubblicate su un quotidiano nazionale), poi di accusarlo indirettamente ("il razzismo e il multiculturalismo, quindi l'accoglienza degli islamici) sono due facce della stessa medaglia. Se si vuole eliminare il razzismo, basta eliminare il multiculturalismo", aveva scritto lo stesso Feltri), non restava che dare le responsabilità al singolo attentatore.
E invece no. Oggi il giornalista trova un altro colpevole: le vittime. Infatti, secondo Feltri, visto che sull'isola c'erano 500 persone circa, quando Breivik ha cominciato a sparare e ad uccidere, non ci voleva molto a metterlo fuori combattimento: bastava gettarglisi addosso tutti insieme. Certo, probabilmente una decina o una ventina di persone sarebbero comunque state uccise; ma le altre avrebbero avuto la possibilità di aggredirlo e sopraffarlo con il numero. Non l'hanno fatto, continua il direttore editoriale di Libero, perchè ognuno ha pensato per sè e non hanno fatto fronte comune contro il nemico.
Argomentazione interessante. Quindi, mutatis mutandis, lo sterminio degli ebrei avvenuto sotto il nazismo è colpa degli ebrei: 6 milioni di persone (per non dire i 25 milioni di persone in totale uccisi dai tedeschi nei campi di concentramento, di sterminio e di lavoro, secondo i dati ufficiali) possono ben sopraffare le poche migliaia di SS che si occupavano dei campi di concentramento. E durante la Seconda Guerra Mondiale, perchè gli italiani ci hanno impiegato due anni per liberarsi dall'occupazione nazista? 50 milioni di persone potevano ben sopraffare i circa 120 mila soldati tedeschi che c'erano allora; anche perchè si poteva contare sull'appoggio di una parte dell'esercito italiano. Oppure in questi due esempi che ho elencato (e che possono essere moltiplicati per ogni strage compiuta nel passato, nel presente e nel futuro) cambia qualcosa.
Norvegia - Eccessiva tolleranza. Paletti rigidi per salvaguardare la democrazia.
autore:
Claudio Maffei
In Norvegia si è sottovalutato il terrorismo, però è anche vero che quello considerato dagli osservatori, soprattutto americani, era il terrorismo arabo. Il problema è più ampio e riguarda non solo la Norvegia, ma tutti i paesi democratici, dove vige la libertà di espressione e di fare quasi sempre quel che si vuole. La domanda è se la democrazia può accettare, in nome delle libertà individuali e collettive che circolino idee, informazioni, associazioni che minano i valori della convivenza civile, l’integrità della stato democratico e la sicurezza dei cittadini. E’ come se un oste ospitasse nella propria osteria, dei manigoldi sapendo che stanno tramando per fargli saltare in aria il locale. Questo vale anche per le questioni italiane inerenti terrorismi ed autoritarismi rossoneri. Tornando alla Norvegia, il paese paga lo scotto di un’eccessiva tolleranza, così come li pagano altri paesi nordici. La libertà è una condizione bellissima, ma il mondo non è sufficientemente evoluto perchè possa essere praticata da tutti indistintamente. Bisogna mettere dei paletti rigidi per salvaguardare il sistema democratico. Diciamo per essere espliciti, col rischio di essere brutali: serve la dittatura democratica e nessuna tolleranza per chi sgarra.
Le riflessioni di uno scrittore norvegese sulla tragedia del 22 luglio.

Come qualsiasi altro cittadino di Oslo, ho vagato per le strade e gli edifici attaccati. Ho visitato anche l’isola dove sono stati massacrati i giovani attivisti politici. Condivido il sentimento di paura e dolore del mio Paese. Ma la domanda continua ad essere perché: questa violenza non è stata cieca.
Il terrore in Norvegia non è venuto da estremisti islamici. Nemmeno dall’estrema sinistra, anche se entrambi sono stati accusati una volta o l’altra di costituire una minaccia interna per il "nostro stile di vita". Finora, comprese le terribili ore della sera del 22 luglio, il poco terrorismo che ha conosciuto il mio Paese è venuto sempre dall’estrema destra.
Per decenni la violenza politica in questo Paese è stata privilegio praticamente esclusivo dei neonazisti e di altri gruppi razzisti. Negli anni ‘70 realizzarono attentati con esplosivi contro librerie di sinistra e contro una manifestazione del Primo Maggio. Negli anni ‘80 due neonazisti furono eliminati perché sospettati di aver tradito il loro gruppuscolo. Negli due ultimi decenni, due giovani norvegesi non-bianchi sono morti a causa di aggressioni razziste. Nessun gruppo straniero ha ucciso o ferito persone in territorio norvegese, ad eccezione del servizio segreto di Israele, il Mossad, che ha assassinato per errore un innocente a Lillehammer nel 1973.
Tuttavia, nonostante questi eloquenti precedenti, quando ora ci ha colpito questo devastante terrorismo i sospetti si sono immediatamente diretti al mondo islamico. Erano i jihadisti. Dovevano essere loro.
È stato denunciato senza esitazioni un attacco alla Norvegia, al nostro stile di vita. Non appena si è saputa la notizia, ragazze che indossavano hijab e di aspetto arabo sono state minacciate per le strade di Oslo.
Naturale. Per almeno dieci anni ci hanno raccontato che il terrore viene da Est. Che un arabo è di per sé sospetto; che tutti i musulmani sono marchiati. Regolarmente, vediamo come la sicurezza aeroportuale esamina le persone di colore in stanze separate; ci sono infiniti dibattiti sui limiti della “nostra” tolleranza. Nella misura in cui il mondo islamico è diventato "l’Altro", abbiamo iniziato a pensare che quello che distingue "loro" da "noi" è la capacità di uccidere civili a sangue freddo.
C’è, bisogna dirlo, un’altra ragione perché tutti guardano ad al-Qaeda. La Norvegia ha fatto parte della Guerra in Afghanistan per 10 anni, per qualche tempo siamo intervenuti anche nella guerra in Iraq e ora tiriamo bombe su Trípoli. Quando partecipi a guerre all’estero per tanto tempo, può arrivare il momento in cui la guerra ti viene a far visita a domicilio.
Ma anche se tutti lo sapevamo, quasi non si è citata la guerra quando abbiamo subito l’attacco terrorista. La nostra prima risposta aveva le sue radici nell’irrazionalità: dovevano essere "loro". Io avevo paura che la guerra che stavamo facendo all’estero potesse arrivare in Norvegia. E dopo? Cosa sarebbe accaduto alla nostra società? Alla nostra tolleranza, al nostro dibattito pubblico, e soprattutto ai nostri immigrati e ai loro figli nati in Norvegia?
Ma non è andata così. Ancora una volta, il cuore delle tenebre si annida nel più profondo di noi stessi. Il terrorista era un maschio bianco nordico. Non un musulmano, ma un musulmanofobo.
Appena questo è stato chiaro, la macelleria ha cominciato ad essere discussa come l’opera di un pazzo; ha smesso di essere vista come un attacco alla nostra società. È cambiata la retorica; i titoli dei giornali hanno spostato lo sguardo. Nessuno parla più di guerra. Si parla di un "terrorista", al singolare, non al plurale: un individuo singolo, non un indefinito gruppo facilmente generalizzabile per includervi simpatizzanti o chiunque rientri in una fantasia arbitraria. Il terribile atto è ora ufficialmente una tragedia nazionale. La domanda è: sarebbe andata allo stesso modo se l’autore fosse stato un pazzo, ma di origine islamica?
Anch’io sono convinto che l’assassino è pazzo. Per cacciare ed eliminare adolescenti su un’isola per un’ora, devi aver perso il cervello. Ma come nel caso dell’11 settembre 2001 nel caso delle bombe nel metro di Londra, si tratta di una follia con una causa, una causa che è sia clinica che politica.
Chiunque abbia dato un’occhiata alle pagine web dei gruppi razzisti, o seguito i dibattiti online dei giornali norvegesi, , si sarà reso conto della furia con cui si diffonde l’islamofobia; dell’odio velenoso con cui gli anonimi scrittori sputano contro i "pijoprogres" antirazzisti e contro tutta la sinistra politica. Il terrorista del 22 luglio partecipava a questi dibattiti. È stato un membro attivo di uno dei grandi partiti politici norvegesi, il partito populista di destra Partito del Progresso norvegese. Lo ha abbandonato nel 2006 e ha cercato la sua ideologia nella comunità di gruppi antiislamisti su Internet.
Mentre il mondo credeva che questo fosse opera del terrorismo islamista internazionale, tutti gli uomini di Stato, da Obama a Cameron, dicevano che erano a fianco della Norvegia nella nostra lotta contro il terrorismo. E ora, in cosa consiste la lotta? Tutti i dirigenti occidentali avevano lo stesso problema all’interno delle loro frontiere. Inizieranno una guerra contro il crescente estremismo di destra, contro l’islamofobia e il razzismo?
Alcune ore dopo lo scoppio della bomba, il primo ministro norvegese, Jens Stoltenberg, ha detto che la nostra risposta all’attacco terrorista dovrebbe essere più democrazia e più apertura. Se si paragona con la risposta di Bush agli attacchi dell’11 settembre, c’è motivo di sentirsi orgogliosi. Ma dietro la più terribile esperienza che abbia conosciuto la Norvegia dopo la fine della II Guerra Mondiale, a me piacerebbe andare più lontano. È necessario partire da questo tragico incidente per lanciare un’offensiva contro l’intolleranza, il razzismo e l’odio, in aumento non solo in Norvegia, non solo in Scandinavia, ma in tutta Europa.

Aslak Myhre - The Guardian

(*) Aslak Sira Myhre è uno scrittore norvegese, direttore della Casa della Letteratura ad Oslo ed ex dirigente dell’Alleanza Elettorale Rossa norvegese.
Fonte http://www.sinpermiso.info/textos/index.php?id=4326
Traduzione Andrea Grillo

sabato 23 luglio 2011

CON IL NEONAZISMO IL BUONISMO NON PAGA

Il titolo del post odierno ha voluto palesemente parafrasare quello della cartaculo del quotidiano Libero,unico caso in Italia che ha accusato subito e direttamernte il fondamentalismo islamico come causa del duplice attacco avvenuto ieri pomeriggio in Norvegia e che per ora ha fatto quasi cento vittime.
Persino"Il giornale"in extremis ha cambiato il titolo di testa aggiungendo oltre all'ipotesi del terrorismo internazionale un"e la pista interna"parandosi il culo:evidentemente il giornalismo ed i giornalisti in alcune testate latitano paurosamente.
Ebbene sì,al momento lo stragista che dapprima ha piazzato un'autobomba nei pressi dell'ufficio del primo ministro norvegese Stoltenberg e di alcuni ministeri e che poi ha compiuto una carneficina in un meeting giovanile del partito laburista nella vicina isola di Utoya è un fondamentalista cattolico neonazista e che ha militato nel partito conservatore,tale Anders Behring Breivik.
Mettete dei fertilizzanti che possono fungere da esplosivo e qualche arma in mano a un demente del genere e la strage è compiuta,anche se sembra si stia cercando un secondo"uomo"per la sparatoria di Utoya.
Il primo articolo è preso da Indymedia mentre il successivo è preso da Senza Soste con una cronologia a ritroso dei fatti accaduti ieri di Peace Reporter,dove in un primo momento si pensava ad un attentato di matrice fondamentalista islamica ma che ben presto è stata smentita dalla presenza del vichingo disceso direttamente dal Walhalla per punire un gruppo di ragazzi di sinistra.
Ma questo aggiornamento nella redazione di Libero evidentemente non è arrivato,fatto sta che un'altro nazista supportato da armi costruite per uccidere almeno la mira ce la mette e riesce a far stragi,non è la prima volta speriamo sia l'ultima.
Un grande cordoglio per la morte dei compagni norvegesi è l'unica cosa che posso esternare per ora,davanti a certe tragedie bisogna saper riflettere e trovare la rabbia per cercare di cambiare qualcosa in meglio e per sempre.

Neonazista compie una strage a Oslo in Norvegia.

La persona arrestata per gli attacchi a Oslo e' "un fondamentalista cristiano". Lo riferisce oggi la polizia. Legato ad ambienti dell'estrema destra e con forti sentimenti anti-islamici: questi i tratti distintivi che cominciano a emergere sul 32enne norvegese autore della carneficina compiuta ieri in Norvegia.
Secondo i media locali, l'uomo e' un norvegese biondo, con gli occhi azzurri e molto alto che si chiama Anders Behring Breivik. Gli elementi postati su internet dall'arrestato suggeriscono che "ha alcuni tratti politici che si appoggiano alla destra e che e' anti-musulmano, ma e' troppo presto per dire se questa sia stata la ragione del suo gesto", ha spiegato il commissario di polizia, Sveinung Sponheim.
Secondo la stampa locale, l'uomo era vicino ai circoli dell'estrema destra norvegese e possedeva diverse armi registrate a suo nome, tra cui un fucile automatico. Nel suo profilo su Facebook, che e' stato chiuso, l'uomo si descrive come "conservatore", "cristiano", celibe, appassionato di caccia e di videgames come "World of Warcraft" e "modern Warfare 2". Sul suo profilo di Twitter, un solo messaggio inviato il 17 luglio in cui riportava approssimativamente una citazione del filosofo John Stuart Mill: "Una persona convinta ha tanta forza come 100mila persone che hanno solo interessi".
I suoi scritti sul sito www.document.no testimoniano una visione nazionalista e l'ostilita' a una societa' multiculturale. Ma secondo la tv pubblica NRK, l'uomo aveva anche preso le distanze dal neonazismo.
Nella notte, la polizia ha perquisito tanto l'appartamento in cui aveva a lungo vissuto nella zona occidentale di Oslo, che la sua nuova abitazione vicino Rena, a nord della capitale. Secondo il suo profilo Facebook, Anders Behring Breivik era direttore di Breivik Geofarm, un'azienda agricola biologica che probabilmente gli ha dato accesso alle sostanze chimiche fertilizzanti con cui poi ha fabbricato gli ordigni esplosivi. Le sue dichiarazioni dei redditi, che in Norvegia si possono consultare liberamente, mostrano che non aveva avuto reddito per l'anno 2009 e che, anche negli anni precedenti, aveva denunciato importi estremamente bassi. Il sospetto odiava Gro Harlem Brundlandt Anders Behring Breivik, il 32enne norvegese arrestato ed accusato della strage di Utoya nonche' dell'esplosione di Oslo, un anno e mezzo fa defini' su internet Gro Harlem Brundlandt come "assassina del paese". In un messaggio postato da Breivik il 25 gennaio 2010 sul forum dokument.no e' scritto tra l'altro che "Chiunque non segue le indicazioni dell'assassina del paese Gro Harlem Brundlandts e' considerato razzista". La laburista Brundlandts e' stata primo ministro della Norvegia per tre mandati tra il 1981 ed il 1996. Nel 1993 era in carica quando, il 20 agosto, vennero conclusi ad Oslo gli accordi di pace israelo-palestinese tra Rabin e Arafat. Ieri aveva partecipato al raduno estivo dei giovani attivisti del partito laburista tenendo un discorso poche ore prima che cominciasse la sparatoria che ha provocato almeno 84 morti. Il quotidiano norvegese VG, il piu' diffuso nel Paese, cita oggi un testimone oculare che parla di due killer sull'isola di Utoya. Lo riferisce la Bbc sul suo sito online.
Norvegia: altro che islamici, sono neonazisti.

Quasi 100 i morti nei due attentati. Esclusa la pista jahidista.
Come volevasi dimostrare, quanti pensavano di sfruttare subito la tragedia per rifomentare la stanca (perché non più corrispondente alla realtà) retorica dello 'scontro di civiltà' hanno preso un bel granchio, la realtà dipanandosi piano piano in tutta la sua allucinante consistenza. Il "mostro" è un norvegese adulto, bianco e ben piazzato, un cristiano fondamentalista che "odia gli islamici" e qualunque cosa si tinga di progressismo sociale e politico.
Con tanto dipisacere dei gazzattieri di Libero, Il Giornale e altri sudici fogli di mala-informazione tanto blasonati (come il Corriere della Sera).
Qui sotto, la cronaca di Peace Reporter, utile per ricotruitre passo-passo il disvelarsi dell'amara verità...
L'attentatore è un norvegese di 32 anni, con legami con l'estremismo di destra, che aveva con sè un fucile automatico e una pistola. L'uomo - ha detto la polizia - è sicuramente legato alla bomba esplosa a Oslo. Proprio da quelle parti era stato visto aggirarsi ieri, ha detto il capo ad interim della polizia di Oslo Seinung Sponheim. Sull'isola sono stati trovati molti ordigni inesplosi.
22.30 - La polizia norvegese dichiara che l'attentatore arrestato presso l'isola di Utoya, bianco biondo e alto un metro e novanta, era stato visto nel centro della capitale dove si è verificata l'esplosione.
Le tesi dei fomentatori della "guerra al terrorismo islamico" viene quindi smontata abbastanza rapidamente.
21.30 - La rivendicazione viene smentita immediatamente dallo stesso gruppo, e nel frattempo tra gli investigatori si fa strada l'ipotesi che l'attentato sia da attribuire a gruppi norvegesi.
21.00 - Su alcuni siti jihadisti compaiono rivendicazioni dell'attentato di Oslo.
"L'attacco sferrato oggi, e che avevamo già minacciato in passato, ha colpito una delle più importanti capitali europee, Oslo, che combatte contro di noi perchè ha offeso il nostro Profeta. La Norvegia ha le sue forze in Afghanistan, dove combatte la religione di Allah e uccide i musulmani". Questo il messaggio di un utente sul sito al-Shumuk.
Nel messaggio, intitolato "Oslo è un monito per tutta l'Europa e per i mujahidin in particolare", si legge che: "I mujahidin vi hanno già minacciato, ma voi non avete ascoltato la loro voce e questo è il risultato. Distruzione e morte proseguiranno perchè non abbiamo completato il nostro lavoro". Nel messaggio i terroristi si rivolgono anche ai governanti europei. "Sappiate che la vostra politica stupida non vi porterà da nessuna parte. Sappiate che la vostra guerra contro l'Islam è una guerra contro tutti i musulmani sulla terra - si legge - Come fate a combattere contro un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo?".
Secondo la tv al-Arabiya, la rivendicazione ariverebbe dal sedicente gruppo Misandu al-Jihad al-Alami (Seguaci del jihad globale).
20.50 - Sarebbero oltre 20 le persone morte quando un uomo travestito da poliziotto ha aperto il fuoco in modo indiscriminato in un campo estivo giovanile del partito laburista norvegese. Lo riferiscono testimoni oculari interpellati dai media locali e citati dalla tv al-Jazeera.
20.00 - Almeno quattro persone sono morte quando un uomo travestito da poliziotto ha aperto il fuoco indiscriminatamente ad un campo estivo giovanile del partito laburista norvegese. Lo riferiscono i media norvegesi.
19.56 - La bomba esplosa oggi a Oslo ha causato 7 morti. Lo ha dichiarato la polizia norvegese, aggiungendo che due persone sono state gravemente ferite.
19.45 - Secondo la tv di stato norvegese Nrk, l'autore della sparatoria alla riunione dei giovani laburisti nei pressi di Oslo ha un aspetto chiaramente scandinavo.
19.35 - La polizia norvegese ha arrestato la persona che ha sparato alla riunione dei giovani laburisti vicino a Oslo. Lo riferiscono i media locali.
19.30 - Alla riunione dei giovani laburisti alla periferia di Oslo dove è avvenuta la sparatoria erano presenti circa 650 giovani attivisti del partito laburista (Arbeider Partiet), quello del premier Jens Stoltenberg. Nel primo pomeriggio era intervenuta Gro Harlem Brundtland, che è stata a capo del governo per tre volte tra il 1981 ed il 1996. Secondo quanto riportato da una giornalista della televisione di stato Nrk, ci sarebbero cinque morti ma la polizia non conferma nè smentisce. La giornalista ha riferito che reparti della polizia antiterrorismo sono arrivati sull'isola utilizzando alcune imbarcazioni. Due elicotteri volteggiano sulla Utoya.
19.05 - Secondo la televisione norvegese ci sono stati diversi morti nella sparatoria alla riunione dei giovani laburisti alla periferia di Oslo. La sparatoria sarebbe ancora in corso. A sparare sulla riunione dei giovani labiuristi, dove in precedenza era stata annunciata la presenza del premier Jens Stoltenberg, è stata una persona vestita da poliziotto che ha esploso almeno una decina di colpi, secondo quanto riferito da fonti citate dalla televisione TV2. Per la polizia è ancora troppo presto per collegare la sparatoria, avvenuta su una piccola isola in un lago ad una cinquantina di chilometri a ovest dal centro della capitale norvegese, con l'esplosione che alle 15.26 ha devastato il centro governativo di Oslo.
19.00 - Gli Stati Uniti hanno espresso la loro condanna per il "vile attentato" e si sono detti pronti a fornire assistenza allo Stato norvegese.
18.55 - La Croce Rossa norvegese ha fatto sapere che diverse persone ferite sono ancora intrappolate all'interno degli edifici coinvolti nell'esplosione, e che sono in corso le operazioni di salvataggio.
18.47 - Secondo l'agenzia AFP il primo ministro norvegese Jens Stoltenberg era atteso ad un raduno giovanile del suo partito, il Partito Laburista, sull'isola di Utoya, dove poco fa ci sarebbe stata una sparatoria causata da un uomo armato vestito da poliziotto, che avrebbe provocato almeno 5 feriti.
18.45 - La polizia norvegese ha ordinato ai cittadini di Oslo in diretta Tv di evacuare le aree del centro città. Il capo della polizia, Anstein Gjengedal, ha detto che "non è il momento di essere in giro per strada" e ha raccomandato ai turisti di "restare in albergo". Circa le cause dell'esplosione, ha detto che "si pensa al peggio"
18.27 - La Bbc ha riportato la notizia secondo cui una persona armata con addosso una divisa da poliziotto avrebbe preso d'assalto un meeting giovanile del Partito Laburista, in corso su un'isola nei pressi di Oslo.
18.24 - Il ministro degli Esteri danese Carl Bildt ha diffuso via Twitter il seguente messaggio: "Il terrorismo ha colpito. La polizia ha confermato l'esplosione di una bomba a Oslo. Siamo tutti norvegesi".
18.15 - Gli uffici dell'emittente televisiva norvegese Tv2 sono stati evacuati dalla polizia a causa di un pacco sospetto.
18.10 - La Bbc ha riportato la dichiarazione di un funzionario del governo norvegese, Hans Kristian Amundsen, secondo cui alcune persone sarebbero rimaste intrappolate negli edifici colpiti dall'esplosione.
18.07 - La polizia norvegese, secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa Associated Press, ha fatto sapere che i feriti provocati dall'esplosione sono 15. Molte persone sono rimaste ferite a causa dei vetri delle finestre saltate a causa dell'esplosione.
18.05 - Prime dichiarazioni del primo ministro norvegese, Jens Stoltenberg, che alla Reuters ha dichiarato che la situazione è "molto grave" e che è "troppo presto per affermare che si sia trattato di un attentato terroristico". Tutti i ministri sono al sicuro.
18.00 - L'esplosione ha mandato in frantumi la maggior parte delle finestre dell'edificio che ospita la sede del governo. L'unità di crisi della Farnesina sta verificando, in stretto contatto con l'ambasciata italiana a Oslo, l'eventuale coinvolgimento di cittadini italiani nell'esplosione
17.48 - L'esplosione è avvenuta tra il ministero del Petrolio e il ministero dell'Alimentazione. Gran parte del centro città è stato evacuato e la polizia ha invitato la cittadinanza a limitare l'uso dei telefoni cellulari per non ostacolare i soccorsi. Le prime immagini della città mostrano una massiccia colonna di fumo che si innalza nel cielo. Le autorità stanno valutando di chiudere lo spazio aereo.
17.42 - Confermata la seconda vittima dell'esplosione
17.40 - Le prime ipotesi. Secondo un esperto di terrorismo norvegese sentito dalla Tv di Stato Nrk, si è trattato probabilmente di un attacco terroristico pianificato legato a gruppi affini ad Al Qaeda. La settimana scorsa un procuratore norvegese ha inoltrato una denuncia per terrorismo contro l'iracheno Mullah Krekar. La Norvegia partecipa inoltre alle missioni in Libia e in Afghanistan
17.30 - La polizia norvegese ha confermato che la deflagrazione è stata causata da una bomba. Una grande automobile è stata vista passare sul luogo dell'esplosione pochi istanti prima dell'esplosione, hanno riportato le autorità. Secondo la Tv norvegese Nrkil numero delle vittime sarebbe salito a due
17.22 - Secondo il sito del tabloid VG, vicino alla cui sede è avvenuta l'esplosione, un cadavere penderebbe da una finestra degli edifici coinvolti. La notizia è stata riportata anche dalla televisione di Stato, Nrk. Intanto la polizia sta facendo evacuarele strade.
17.05 - Almeno una persona è rimasta uccisa nell'esplosione avvenuta oggi nel centro di Oslo. Lo riferiscono i media norvegesi. Non è intanto giunta una conferma della notizia di una seconda esplosione nella capitale norvegese.
15.58 - Due fortissime esplosioni, forse causate da autobombe, sono avvenute nel cuore della capitale norvegese, investendo l'ufficio del primo ministro norvegese, Jens Stoltenberg. Gli ordigni sono deflagrati all'interno di un palazzo sede di VG, il più grande tabloid norvegese. La forza dell'esplosione è stata tale da far saltare la maggior parte delle finestre dell'edificio. Sono almeno 8 i feriti accertati al momento. Secondo diversi testimoni diretti, numerose persone sono rimaste ferite, mentre il primo ministro, che in quel momento non si trovava in ufficio, è salvo.

venerdì 22 luglio 2011

LO STRANO CASO DEL DERRY FC

Questa storia calcistico-politica riguardante la città di Derry,seconda città per popolazione del Nord Irlanda,proprio non la sapevo nonostante abbia visitato la città un paio di volte,ricordandomi la faccia del tassista la prima volta quando mi scappò un Londonderry spiegandomi la storia che vuole solo i filobritannici invasori chiamare così la città.
Dal 1985 la squadra principale del Derry Fc è riuscita ad inscriversi al campionato nazionale irlandese ottenendo pure buoni risultati,dopo che la federazione nordirlandese praticamente boicottava gli incontri casalinghi facendoli disputare al di fuori della città e del famigerato(per gli unionisti)stadio Brandywell.
L'articolo preso da Senza Soste dapprima pone l'intervento sulla linea politica ricordando il Bloody Sunday del 30 gennaio del 1972(vedi:http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.com/2010/07/le-seconde-verita-del-governo.html),per poi spiegare la vera e propria scissione del club dal campionato nordirlandese finendo per il quasi fallimento che stava colpendo il Derry Fc dieci anni fa.

La bella favola del Derry FC.

Nella città del Bloody Sunday e della strenue resistenza contro gli invasori unionisti, la locale squadra di calcio ha una storia tutta da raccontare
Derry (per gli irlandesi) o Londonderry (per gli invasori inglesi) è la seconda città per grandezza dell’Ulster (o Irlanda del Nord) e insieme a Belfast quella potenzialmente più calda dal punto di vista politico. Il nome della città è soggetto ad una disputa tra i nazionalisti (filoirlandesi, principalmente cattolici) e gli unionisti (filobritannici, in larga maggioranza protestanti). Assediata dalle truppe unioniste inglesi nel 1688, Derry è nota soprattutto per il Bloody Sunday del 30 gennaio 1972, quando il 1° Battaglione del Reggimento Paracadutisti britannico aprì il fuoco contro una folla disarmata di manifestanti per i diritti civili, colpendone 26. Tredici persone, sei delle quali giovanissime, furono uccise, mentre una quattordicesima persona morì quattro mesi più tardi per le ferite riportate. Due manifestanti rimasero feriti in seguito all'investimento da parte di veicoli militari e cinque vittime inoltre furono colpite alle spalle. L’evento segnò l’inizio dell' anno più terribile della storia dei Troubles in cui morirono 472 persone. La regina d’Inghilterra, anziché punire i responsabili, decorò il comandante dell’operazione, il colonnello Derek Wilford.
Dei circa 90mila abitanti di Derry il 78% è cattolico filoirlandese ed il 20% protestante filounionista. Cuore nazionalista della città è il celebre quartiere del Bogside, nella cosiddetta “free Derry”, dove ha sede lo stadio della prima squadra calcistica locale, il Derry City FC che, come la città che rappresenta, ha una storia tutta da raccontare.
Nonostante la città faccia giuridicamente parte dell’Irlanda del Nord, il Derry City FC gioca dal 1972 nel campionato di calcio irlandese, unico caso nel Nord Irlanda e nell'intera isola. Gli unionisti considerano il club come un simbolo del cattolicesimo nazionalista irlandese e in molte occasioni hooligans protestanti hanno attaccato i supporters del Derry proprio per motivi politici.
Ma andiamo per ordine. Nel 1964/65 il Derry conquista il campionato nordirlandese ottenendo il diritto di disputare la Coppa dei Campioni ma al secondo turno la Federazione calcistica nazionale dichiara che lo stadio di Brandywell non possiede i requisiti minimi di sicurezza. Una decisione che indigna la città: perché nel primo turno nessuno si era posto il problema? Era chiaro che si trattava di una decisione politica contro una città a larga maggioranza nazionalista sotto amministrazione unionista.
Nell’anno 1969 l’Associazione per i diritti civili nell’Irlanda del Nord, nazionalista, inizia una campagna contro il governo che produce uno scontro trentennale tra filoirlandesi e unionisti. Dato che lo stadio Brandywell si trova nel Bogside, molte squadre con tifosi a maggioranza unionista si rifiutano di andare a giocare a Derry. Chi lo fa rischia e non poco: il 12 settembre 1971, al termine dell’incontro casalingo contro il Ballymena United, hanno luoghi tafferugli tra gli abitanti del Bogside e i pochi tifosi ospiti e la squadra del Ballymena, anziché il proprio pullman, non trova che un mucchio di lamiera contorta e plastica bruciata. Al pari di molti altri veicoli parcheggiati nel Bogside quell’autunno del 1971, il bus del Ballymena, club protestante di una città protestante, era stato distrutto dagli abitanti del quartiere. Non passa molto tempo dall’incidente che la squadra del Linfield, protestante, acerrima rivale del Derry, si rifiuta di lasciare Belfast per recarsi a incontrare il Derry nel suo ormai infamato stadio di Brandywell. Parallelamente, la polizia nordirlandese dichiara insicura la città, obbligando il club a giocare la maggior parte della sue partite casalinghe a Coleraine (di maggioranza unionista), a 30 miglia da Derry.
Per 13 anni il Derry è costretto a giocare quasi sempre in esilio fino a quando, grazie all’intermediazione della FIFA, riesce ad affiliarsi alla Lega irlandese. E’ il 1985 e i biancorossi rientrano anche in possesso del loro stadio.
Due anni di serie B e al secondo anno di Premier Division (la massima serie), il Derry fa il grande slam, conquistando scudetto, coppa nazionale e coppa di Lega. L’anno successivo ottiene il diritto di disputare la Coppa dei Campioni, dove viene eliminato al primo turno dal Benfica.
Dall’89 al 2000 il Derry riesce a conquistare un altro titolo nazionale, tre coppe nazionali e ben sei coppe di Lega. Nel 2000 arriva ad un passo dal fallimento, ma un’incredibile risposta popolare dei suoi tifosi riesce ad evitare il peggio. Personaggi celebri di Derry sposano la causa del club e grazie agli incassi derivanti da alcune partite amichevoli di lusso contro Celtic, Manchester United, Barcellona e Real Madrid, la società riesce a salvarsi. Qualche anno per rimettere in sesto i cocci e il club, nella stagione 2006-07, torna a riaffacciarsi in Europa, stavolta in Coppa Uefa. Il Derry sorprende tutti eliminando nei primi due turni prima l’IFK Göteborg e poi gli scozzesi del Gretna. Viene eliminato al terzo turno dal Paris Saint-Germain (0-0 in casa e 0-2 in Francia).
Tito Sommartino
(tratto da Senza Soste n. 33, dicembre 2008)

mercoledì 20 luglio 2011

I MORTI SIETE VOI

Due articoli tratti da Senza Soste e che parlano in maniera differente del G8 di Genova del 2001 e del suo anniversario,spaziando dall'assassinio di Carlo Giuliani alla macelleria messicana di Bolzaneto all'impunità degli sbirri che hanno ammazzato e torturato centinaia di manifestanti.
Oggi sono passati 3650 giorni dalla morte di un ragazzo che oggi avrebbe trentatrè anni,e dire se i fatti di quel tragico 20 luglio fosserro stati altri è inutile:lo sparo c'è stato e la vittima c'è stata,superfluo parlare del destino o di altre situazioni fumose.
Da allora Carlo è un'icona ed un esempio nella lotta contro lo Stato di polizia,contro il fascismo ed i regimi oppressori di tutto il mondo,cosa che forse avrebbe fatto meno ad impersonare ma che è successa e sono sicuro che da dovunque sia ci dia un occhio e una sorta di protezione.
I veri morti di quel giorno sono altri,e sapete a chi mi riferisco.
Links:http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.com/2010/07/carlo-vive.html e http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.com/2009/07/20-07-2001-noi-non-dimentichiamo.html .

20 luglio 2001: Carlo fino all'ultimo è rimasto davanti.

Per Venerdi 20 luglio, il secondo giorno di mobilitazione contro il G8 a Genova, il corteo più grosso e più atteso, è quello dei disobbedienti , con partenza allo stadio Carlini.
Le tute bianche, hanno l'obiettivo di raggiungere la zona rossa per assediarla pacificamente.
Il corteo, composto da almeno diecimila persone si muove intorno alle 2, con i manifestanti alla testa, vestiti di gomma piuma, caschi e bottiglie di plastica legate alla meglio intorno agli arti, che sorreggono scudi per proteggere il resto dei manifestanti.
Intanto la violenza inaudita delle forze dell'ordine, incapaci di gestire l'ordine e mandate evidentemente allo sbaraglio inizia a manifestarsi contro il sit-in delle associazioni presente in Piazza Manin, caricato e gasato dai lacrimogeni all'improvviso.
Stessa sorte tocca al corteo delle tute bianche quando in via Tolemaide un plotone di carabinieri, (che poi si scoprirà trovarsi li per sbaglio), carica e riempie di lacrimogeni la testa del corteo che rimane imbottigliato senza via di fuga. A quel punto i manifestanti reagiscono iniziando violenti scontri con i carabinieri.
L'errore più grande però lo commette un gruppo di carabinieri che intorno alle 17.20 si sposta insieme a due jeep verso Piazza Alimonda per caricare i manifestanti ritrovandosi imbottigliato nella piazza. A quel punto i carabinieri provano ad arretrare ma le due camionette faticano ad invertire la marcia, tant'è che una delle due si incastra tra il muro ed un cassonetto. Da quel defender spunta fuori un braccio che punta una pistola ad altezza d'uomo. Un ragazzo, raccoglie un estintore nel tentativo di scagliarlo contro quella mano assassina, ma viene colpito in faccia da due colpi di pistola.
" ma Carlo fino all'ultimo è rimasto davanti fino ad alzarsi con un estintore in primo piano ci ha insegnato a vedere cos'è un essere umano"
Il ragazzo, è Carlo Giuliani, 23 anni residente a Genova. Quella mattina aveva in programma di andarsene al in spiaggia, ma il clima che si respirava in città gli fece cambiare idea e partecipare al corteo.
"E ora nella dignita' mi specchio, nella dignita' del fratello che era insieme a noi nel mucchio, lui ha lottato,quando ha avuto l' occasione non ha voltato gli occhi e questa é la lezione da insegnare nelle scuole,nei racconti che disegnano le sere cosa sparava in faccia quel carabiniere, io porto con me il nome di Carlo Giuliani, noi facciamo la storia mentre quelli fanno i piani"
La famiglia di Carlo e tutte le vittime dei pestaggi di Genova cercano ancora di avere giustizia a dieci anni di distanza.
Mentre gli sbirri responsabili di ciò tutto ciò che è accaduto a Genova in quei giorni se la cavano con condanne fasulle e continue promozioni.
" e non spegni il sole se gli spari addosso, non spegni il sole se gli spari addosso!"
tratto da www.infoaut.org
20 luglio 2011
Genova 10 anni dopo: repressione, black bloc, no global e tute bianche.

A dieci anni dai tragici fatti di Genova proponiamo e riproponiamo due articoli. Il primo di Pino d'Agostino che ripercorre le strategie repressive e il ruolo della polizia a Genova in occasione del G8 fino ai successivi avanzamenti di carriera per i poliziotti condannati. Il secondo un documento del 2001 di Claudio Albertani sulla composizione politica di quelle giornate dai black bloc agli zapatisti passando per i pacifisti.
Pur non condividendone alcuni passaggi in entrambi i documenti, riconosciamo il valore documentario di una ricostruzione che apre ad una riflessione articolata sulle vicende genovesi e sul movimento dell'epoca. Agli storici, e a coloro che si occupano di storiografia politica, il compito di un lavoro strutturato su questi temi. Senza rancori e rimozioni. red. 20 luglio 2011

G8 di Genova: 3650 giorni dopo. Per non dimenticare la 'macelleria messicana'
G8 di Genova anno 2001, scuola Diaz. “Mi hanno bastonata e presa a calci, si divertivano a sentire i miei gemiti”. Racconta la fuga disperata al quarto piano, l'ultimo piano della scuola Diaz. Era in preda al panico mentre quelli, i “tutori dell’ordine”, sfondavano la porta. Quindi trovò un nascondiglio “in un piccolo locale vicino all'ascensore, una dispensa”. Lei e il suo ragazzo avevano deciso di presentarsi con le braccia alzate se la polizia li avesse trovati. Purtroppo i poliziotti li trovarono, e purtroppo le braccia alzate servirono a poco. Lena Z. ha oggi 34 anni, ne aveva 24 al G8, quando tornò a casa, ad Amburgo, con le costole fratturate e lesioni che comportano tuttora una riduzione della capacità polmonare del 30 per cento. “Nella dispensa - ha raccontato la giovane tedesca rispondendo al pm Enrico Zucca - siamo rimasti pochissimo, poi abbiamo sentito passi pesanti, di stivali, e altri rumori come se la polizia stesse picchiando con i bastoni sul muro. Sono arrivati e hanno aperto la porta. Il mio ragazzo è stato trascinato fuori subito, lo hanno circondato e hanno iniziato a colpirlo con il bastone”. Quel ragazzo fu massacrato da delinquenti in divisa, in soprannumero e a volto coperto. Delinquenti e vigliacchi, e ancor più vigliacchi perché agirono “coperti” e protetti da una divisa. “Io ero rimasta là, nella dispensa. Mi hanno tirata fuori per i capelli, credo di essere caduta quasi subito. Ero sdraiata e mi colpivano con calci alla schiena e bastonate ai fianchi. Ho sentito le mie costole che si fratturavano. Un poliziotto mi ha picchiato col ginocchio tra le gambe. Loro continuavano a picchiarmi e io sono scivolata di nuovo a terra. Avevo la sensazione che si stessero divertendo. Così ho deciso di non gridare più per non invogliarli a colpire ancora. Ero sdraiata contro il muro, mi hanno spinta a calci verso le scale e mi hanno buttata giù, uno mi teneva per i capelli, avevo la testa all'altezza della sua anca e le gambe pendevano indietro. E da dietro altri poliziotti mi picchiavano ancora. Al secondo piano mi hanno gettata su altre due persone già a terra. Non si sono mossi. Mi sono accorta del sangue che scorreva sulla mia faccia, non riuscivo più a muovere il braccio destro. I poliziotti sono passati più volte accanto a me e ognuno di loro si fermava a sputarmi in faccia, alzandosi la visiera e togliendosi il fazzoletto rosso”. Questa era la testimonianza della giovane tedesca la cui foto con il volto coperto di sangue fece il giro del mondo. Pochi le credettero al processo. Poi, a distanza di quasi 6 anni, nel 2007, Michelangelo Fournier, all'epoca del G8 vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, descrisse quello che vide al momento dell'irruzione nella scuola Diaz: "Sembrava una macelleria messicana". Poche parole, agghiaccianti, la cui crudezza dà, più di mille discorsi, il senso preciso di quel che fu quella spietata mattanza.
Eppure la descrizione che Fournier aveva fornito inizialmente era stata ben diversa. Ma gli va riconosciuto e dato onore che fu uno dei pochissimi ad avere la forza di dire, anche se in ritardo, come realmente erano andate le cose. Quelle terribili parole non le dimenticheremo mai. Ma ne disse anche altre Fournier, e altrettanto gravi: "Arrivato al primo piano dell'istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sono rimasto terrorizzato quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: basta basta, e cacciai via i poliziotti che picchiavano. Intorno alla ragazza, per terra, c'erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale". Il dato di fatto è che con il pretesto di una sassaiola inesistente, della presenza di due molotov e di un altrettanto inventato accoltellamento, giustificarono il massacro di sessantuno persone, spaccando milze, teste ed ossa, senza pietà. Per arrestare 93 innocenti, i nostri “guardiani della legalità” arrivarono anche a manipolare le prove, o meglio, a inventarle e costruirle (come le false bottiglie molotov). Dal processo emergono le responsabilità dei superpoliziotti coinvolti nel massacro. Il 22 luglio del 2001, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi dichiara alle telecamere: “Ho avuto questa mattina una telefonata del ministro degli Interni, che mi ha rappresentato il ritrovamento di armi improprie all'interno del Genoa Social Forum e la individuazione di 60 persone appartenenti alle squadre violente che si erano occultate, tra gli esponenti stessi del Genoa Social Forum. […] non c'era una distinzione tra coloro che hanno operato la violenza e la guerriglia e gli esponenti del Genoa Social Forum che, anzi, avrebbero favorito e coperto questa loro presenza”. Degno premier di un paese “democratico” che consente scempi del genere. Lo stesso giorno la Polizia di Stato organizza una conferenza stampa nel corso della quale i giornalisti non possono fare domande, ma solo ascoltare la lettura di questo comunicato: ...”Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. Sono state sequestrate armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Le indagini successive hanno rivelato una verità differente: il Vicequestore Pasquale Guaglione, ha dichiarato ai PM genovesi che quelle bottiglie furono in realtà ritrovate da lui sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente.
Ma il G8 di Genova non fu solo la Diaz. G8 sono stati i Black bloc che attaccano e le forze dell'ordine che li ignorano e preferiscono scagliarsi con cariche e lacrimogeni contro i cortei autorizzati. Nell'inchiesta diranno che si erano sbagliati perché non conoscevano la città. G8 è soprattutto l'assassinio di Carlo Giuliani e il tentativo di attribuire la morte ai suoi compagni: "Siete stati voi a ucciderlo, bastardi, con le vostre pietre". Così urlavano i carabinieri. E per un momento forse tutti ci abbiamo creduto. E poi le torture nel “carcere” di Bolzaneto. Dieci anni fa la città di Genova fu violentata. Le regole della democrazia sospese e calpestate, gli fu sputato addosso. Un ragazzo fu ucciso. Migliaia vennero percossi senza alcuna ragione, senza aver fatto nulla, solo per il fatto che erano lì. Giorni che passano e ferite che ancora non si rimarginano, ed è meglio che sia così, che quelle ferite non si chiudano mai, perché ci costringeranno a non dimenticare. Quel movimento pacifico fece paura e fu stroncato a Genova con una repressione senza precedenti, come forse neanche in un regime dittatoriale sudamericano degli anni ‘70 ci si sarebbe azzardato a fare. Eppure eravamo in Italia ed era il 2001. E i responsabili di tali violenze, pur essendo stati condannati, sono ancora al loro posto, e molti sono stati promossi ai vertici del ministero dell’Interno. E anche il premier di allora, quel presidente del consiglio che tentò di proteggerli, è ancora qui. Strano paese il nostro…
Amnesty International definì quella mattanza la più grave violazione dei diritti umani dal secondo dopoguerra. Non c'è nessun altro Paese al mondo che abbia i vertici delle polizie e dei servizi segreti condannati in appello. E le immagini di quel G8 scorrono ancora davanti agli occhi di tanti di noi. E fanno male, tanto male. Ma non ai nostri occhi, ai nostri cuori e, spero, alle nostre teste. E mi auguro che questo dolore resti lì per sempre, come monito per il futuro.
Mi calo il cappello sugli occhi e mi addormento.
Pino D'Agostino da Interno 18
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Blocchi Neri, Tute Bianche e Zapatisti nel movimento antiglobalizzazione
Tutti i mali che nascono nelle repubbliche si devono alle violente inimicizie che dividono la nobiltà dal popolo perché, mentre l'una vuole comandare, l'altro non vuole obbedire. [Niccolò Machiavelli]

...s'è accesa, a poco a poco, una nuova epoca d'incendi, di cui nessuno di coloro i quali vivono ora vedrà la fine: l'obbedienza è morta. [Guy Debord]
Piu' di mezzo secolo fa, George Orwell scrisse che una societa' perviene ad essere totalitaria quando le sue strutture diventano palesemente artificiali, cioe' quando la classe dominante riesce a sostenersi unicamente grazie alla forza e all'inganno. Una tale societa' non puo' permettersi di essere tollerante, ne' puo' autorizzare un resoconto veridico di cio' che accade.
Oggi il Grande Fratello e' al governo ovunque e combattere le sue menzogne risulta piu' difficile che ai tempi di Orwell. Lo si e' visto in occasione delle manifestazioni contro il vertice dei potenti, tenuto a Genova a fine luglio 2001.
Ci e' parso utile, per ristabilire la verita', provare a ricomporre frammenti di quel resoconto, come strumenti da mettere a disposizione di chiunque intenda liberamente avvalersene.
In quei giorni erano all'opera un numero impressionante - forse centomila - fra microfoni, macchine fotografiche, cineprese e videocamere, la qual cosa, se da un lato ha attizzato la curiosita' malevola dei pubblici ministeri, dall'altro ha reso piu' facili la memoria e il ripensamento critico.
Inoltre, grazie alla creazione di Radio Gap e al suo sito Internet (www.radiogap.net/it ), l'informazione e' circolata in tempo reale ed ha potuto essere seguita in piu' lingue da qualsiasi parte del mondo.
Ci siamo dunque avvalsi di questo materiale e delle testimonianze che coloro i quali sono stati a Genova hanno, in prima persona registrato.
In un'epoca che pare avere perduto ogni certezza, e' molto difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di questo movimento, ma di sicuro, per molto tempo non potremo percorrere la via accidentata della liberazione umana, senza ricordarci di Genova.

1. Genova: un esercizio di democrazia totalitaria
La tradizione degli oppressi ci insegna che lo "stato d'eccezione" in cui viviamo e' la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci stara' davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d'eccezione...
W. Benjamin
In preparazione del vertice, la citta' venne smontata e ricomposta in base a criteri che aggiornavano l'urbanistica controinsurrezionale del barone Haussmann, l'architetto che, dopo la rivoluzione del 1848 aveva demolito interi quartieri di Parigi per prevenire la costruzione di barricate e consentire i movimenti dell'artiglieria.
In bilico fra l'ostentazione del proprio potere e la consapevolezza di una crescente impopolarita', i signori governanti avevano stabilito di asserragliarsi nella «zona rossa». L'accesso rimase consentito solo a residenti – invitati in ogni modo a prendersi una piccola vacanza e diffidati comunque a non stendere antiestetiche mutande (?!) nelle vie proibite - portaborse, funzionari, giornalisti accreditati di un «passaporto interno».
Intorno, a dividere in due la citta', ventimila tra poliziotti, finanzieri e carabinieri, tremila militari, paracadutisti, guardie carcerarie, marines, avieri, incursori, sommozzatori, e specialisti della guerra batteriologica, nucleare e chimica.
Nel contempo la temperatura politica veniva alzata artificialmente grazie a un maldestro remake della strategia della tensione: lettere-bomba, piccoli attentati, falsi allarme. Una mossa prevedibile. In Italia, ogniqualvolta appare un movimento di protesta, i corpi separati dello stato rimestano nel torbido.
Il 19 luglio, Genova aveva ormai assunto l'aspetto kafkiano di una citta' blindata e semi abbandonata: chiuse le stazioni ferroviarie, chiusi il porto e l'aeroporto, chiusa la strada sopraelevata lungo il mare come pure il principale accesso autostradale, chiusi gli accessi alle spiagge, chiusi i posti di lavoro, sospesi i matrimoni, le operazioni chirurgiche, i funerali, capillare ed ossessivo il controllo sul territorio e lo sfoggio di potenza militare. Nemmeno ai tempi dell'occupazione nazista o durante la grande sollevazione del luglio 1960, si era giunti a tanto.
Quel giorno, nel corso di una pacifica manifestazione per la tutela dei migranti (quelli residenti a Genova poco presenti in piazza, per via delle minacce recapitate dalla polizia, casa per casa, nelle settimane precedenti), cio' che si pote' constatare fu l'incompatibilita' della libera circolazione di tutti, e non solo dei clandestini, con la sicurezza dei governanti. Nell'ansia di difendersi dalle migliaia di assedianti giunti dai cinque continenti, e per verificare l'efficacia di nuovi dispositivi di dominio, essi avevano sospeso per decreto la rassicurante cappa della normalita' sociale.
La citta' era a tal punto intasata da reti metalliche barriere, percorsi obbligati e labirinti ossessionanti, che il suo attraversamento a piedi da Ovest a Est – d'abitudine una bella passeggiata per il centro storico piu' grande d'Europa - avrebbe richiesto un percorso di varie ore attraverso i monti!
Il 20 luglio, quando tra calici di vino e linguine al pesto (rigorosamente senz'aglio, per compiacere le idiosincrasie alimentari del satrapo Berlusconi) l'e'lite globale - il senato virtuale del mondo, secondo la definizione di Noam Chomsky - si fu riunita infine a Palazzo Ducale per ragionare amabilmente del destino dell'umanita', poco lontano, al di la' delle barriere protettive, una parte di quell'umanita' decise di riprendere in mano il proprio destino.
La reazione non si fece attendere. Il cielo fu solcato da assordanti elicotteri da combattimento da cui - come nel film Apocalypse Now – si affacciavano, minacciose, le sagome dei gorilla di stato armati fino ai denti. Piu' sotto, squadracce di poliziotti e carabinieri sfogavano i loro istinti sadici contro manifestanti inermi e seminudi, arretrando di fronte ai Black Blocs i quali, altrove, colpivano con efficacia carceri, banche, commissariati e supermercati.
La sera del 21 gli sbirri, ansiosi di scrollare dai manganelli la polvere di troppi anni di quiete sociale, devastavano due scuole dove si trovavano centinaia di manifestanti. In una di esse, aveva sede il centro multimediale del movimento.
Gli arrestati, per la maggior parte sorpresi nel sonno, vennero massacrati al canto di Faccetta nera, la vecchia canzone fascista. Le violenze continuarono negli ospedali, nelle caserme, nelle carceri, scandite da slogan inequivocabili «Un, due, tre, evviva Pinochet, / quattro, cinque, sei, diamo fuoco agli ebrei, / sette, otto, nove, il negretto non commuove».
Piu' ancora di questo misero folklore, se vi e' un elemento nella condotta del governo italiano che davvero richiama il fascismo, e' l'inquietante modo di dare la caccia ai manifestanti, non gia' perche' facessero qualcosa di proibito o si astenessero da qualcosa di obbligatorio (non ci furono ne' intimazioni di sgombero, ne' ordini di scioglimento; la polizia, semplicemente, assali' il corteo), ma, come dei nuovi ebrei, per la semplice colpa di esistere.
Il bilancio fu di proporzioni belliche: piu' di 300 arresti, 600 feriti, decine di teste fracassate, braccia e gambe spezzate, un numero imprecisato di torturati in caserma, forse qualche desaparecido, e l'odore acre del sangue di un morto sull'asfalto ardente.
Fu un esperimento di controguerriglia freddamente pianificato nelle alte sfere dell'e'lite mondiale o, semplicemente, una bravata del centrodestra nazionale ansioso di consumare sui «rossi» la vendetta per la cacciata di quarantun anni prima?
La tempestiva proposta tedesca di creare una forza europea antisommossa, l'insistenza che si leva da ogni parte per la creazione di un'anagrafe internazionale dei sovversivi, farebbero propendere per la prima ipotesi, pero' la questione rimane aperta.
A Genova si trovava riassunto il peggio di due anni di repressioni globali: le torture e i canti nazisti a Praga e a Napoli, la rete metallica a Quebec, il blocco delle vie di fuga ancora a Napoli, l'assalto alle scuole concesse al movimento e i colpi di pistola ad altezza d'uomo a Goteborg.
Mentre Berlusconi non arrossiva proclamando: «Il G8 ha lavorato bene e, per la prima volta, si e' aperto alla societa' civile», da parte sua, il fiammeggiante vice primo ministro, Gianfranco Fini, avvertiva: «il nostro e' uno stato democratico dove nessuno ha il diritto di pensare che vi siano soppressioni di liberta'».
Il messaggio e' chiaro: il nostro e' il migliore dei mondi possibili, nessuno si azzardi a sollevare obiezioni. E, giustamente, il ruolo di polizia del pensiero, i neofascisti al governo – eredi proprio di chi il vocabolo «totalitarismo» lo invento' – lo reclamano per se'.

2. Elogio del provocatore
Carlo Giuliani non era "vestito di nero". Non era un anarchico insurrezionalista. Non era uno squatter. Non era un punkabbestia. Era solo un ragazzo arrabbiato contro questo mondo, che si e' difeso uccidendolo.Non era uno dei pochi, era uno dei tanti.
Genova: pochi o molti? Comunicato firmato Alcuni anarchici 24.7.01
Mentre le polizie ed i governi del mondo - in special modo quello italiano – riesumavano il logoro fantasma dell'anarchico bombarolo, stampa e televisione scoprirono un nuovo filone su cui campare: il misterioso Black Bloc, ultimo antieroe della guerra sociale.
Poiche' la verita' non si annovera tra le aspirazioni dei giornalisti, un elenco delle loro menzogne risulterebbe lungo e tedioso. Con modeste varianti, il ritornello e' questo: da Seattle in poi, gruppi di manifestanti buoni protestano in maniera civile contro la globalizzazione neoliberale. Organizzano seminari, gruppi di studio, incontri. Hanno delle proposte. Vorrebbero essere ascoltati. E magari lo sarebbero anche se alcuni parassiti non ne approfittassero per compiere atti di vandalismo sconsiderato.
Il loro nome e' Black Bloc, vestono di nero e, come ninja, appaiono e scompaiono con grande rapidita'. Silenziosi e misteriosi, vengono da lontano: Stati Uniti, Germania, Inghilterra, Paesi Baschi (e qui si evocava il fantasma di ETA…), Grecia, Europa Orientale.
C'erano tutti gli elementi per costruire il mostro: il cattivo anarchico non e', di preferenza, un prodotto nostrano. Un'idea questa, del male in genere e dell'anarchico in particolare, di chiaro stampo statunitense: il nazionalismo nordamericano contemporaneo si forma, fra l'altro, intorno alla campagna contro i sovversivi stranieri.
«Zanzare agili e veloci, prive di consenso, che rappresentano una disgrazia per tutti» – li definira' la Tuta Bianca Marco Beltrami, portavoce del «Laboratorio del Nord-Ovest», dimenticando che, prima di Genova, in un'intervista con un esponente dei BB americani, la rivista Carta, vicina al suo gruppo, aveva addirittura manifestato un interesse a diventarne l'interlocutore privilegiato in Italia.
Inoltre, in giugno, a Goteborg, Tute Bianche e BB si erano trovati in piazza insieme, senza particolare conflitti. Fu, solo dopo il 20 luglio, che le Tute individuarono nei BB il capro espiatorio ideale.
«Perche' non li hanno fermati alla frontiera?», tuonarono tutti i quotidiani, compresi Liberazione e Manifesto, che fino al giorno prima avevano strepitato a favore della libera circolazione dei manifestanti.
Nelle ore successive alla morte di Carlo Giuliani circolarono tutte le ipotesi, comprese le piu' stravaganti. Hooligans? Infiltrati? Tifosi diffidati cui era stata garantita l'impunita'? Agenti al servizio di interessi oscuri? Di sicuro, comunque, provocatori.
Ogniqualvolta ci si imbatte nella parola «provocatore», emerge inevitabilmente una mescolanza di rabbia e di simpatia. Rabbia perche' chi non abbia interamente abdicato alla memoria non puo' proprio sopportare la riscoperta del linguaggio sinistro – «provocatore anarchico» - che reca l'impronta sanguinosa di Stalin. Simpatia perche', a ben guardare, le esperienze rivoluzionarie piu' significative del Novecento non avrebbero avuto luogo se non ci fossero stati dei «provocatori» a provocarle.
Provocatori furono di volta in volta gli insorti di Kronstadt; gli anarchici e i comunisti libertari nella Spagna del 1937; gli operai in rivolta nei paesi chiamati socialisti, a Berlino, Budapest, Danzica; i ribelli di maggio in Francia e quelli del 1977 in Italia.
Forse non tutti ricordano che, nel gennaio 1994, la medesima etichetta fu affibbiata anche agli zapatisti messicani per essersi azzardati a tagliare, con la loro pretesa di vivere nella liberta' e nella dignita', la fallimentare strada verso il potere della sinistra elettorale.

3. Black Blocs. Demolitori di vetrine. Demolitori di menzogne.
Signori il tempo della vita e' breve, e se viviamo, viviamo per calpestare i re
William Shakespeare
Slogan del Network per i diritti globali
Roberto Bui, ideatore di Luther Blissett, aspirante nuovo leader delle Tute Bianche, scrisse in rete che, «nel momento in cui le pratiche del BB sono state usate contro di noi, dobbiamo dire con forza che queste persone sono politicamente morte. E se avessero un minimo di intelligenza dovrebbero essere i primi a fare l'esame di coscienza e suicidare un'esperienza che si e', di fatto, conclusa a Genova» (23 luglio, Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo).
4. La lunga marcia delle Tute Bianche
"Sapevano cosa volevamo fare e avrebbero potuto permetterci di violare la zona rossa. La verita' pero' e' che sono stati i carabinieri a far saltare tutto"
Luca Casarini, Il Nuovo, 27.8.01
"Non conta aver dato la propria parola. E' a chi l'hai data, che conta"
Dutch – Ernest Borgnine, nel film "Il mucchio selvaggio"
1969, di Sam Peckinpah
Le Tute Bianche amano presentarsi come un movimento di tipo nuovo, creativo, nonviolento. Sebbene provengano da esperienze operaiste ed ultra leniniste piuttosto truculente la cui espressione teorica e' l'opera di Toni Negri, ripudiano adesso l'idea della conquista del potere, rifiutano i modelli monolitici e ostentano l'influenza degli zapatisti messicani e, piu' precisamente, l'influenza del subcomandante Marcos.
L'immagine e' falsa. Infatti, aldila' delle apparenze, le Tute rassomigliano piu' ad un partito tradizionale con tanto di leader – ora chiamati portavoce –, una separazione netta tra dirigenti ed esecutori, un'ideologia che si allontana sempre piu' dalla pratica, un raffinato lavoro di lobbying istituzionale, e perfino candidati a cariche elettive nelle amministrazioni comunali e regionali.
Le Tute Bianche sono violente o nonviolente? Diciamo che difendono violentemente le ragioni della nonviolenza. Mentre, ad esempio, i Black Bloc, attaccano la proprieta', le Tute amano spaccare la testa di coloro che contravvengono le loro regole.
I paradossi non finiscono qui: nonostante l'antipatia sovente manifestata in Italia nei confronti dei libertari e delle loro idee, essi coltivano all'estero la fama di essere anarchici. In Messico, dove hanno fatto molto chiasso, sono considerati degli irresponsabili. Ed in Italia sono riusciti a gettare il discreto sul tentativo, nobile all'inizio, di creare un movimento neozapatista nel nostro paese.
In realta', la pratica delle Tute Bianche nasce all'interno dell'Associazione Ya Basta, creata nel 1996 dall'alleanza di centri sociali definita nella cosiddetta Carta di Milano: il Pedro di Padova ed il Rivolta di Mestre, il Leoncavallo di Milano, il Corto Circuito e il Forte Prenestino di Roma, lo Zapata e il Terra di Nessuno della Liguria e altri ancora.
I centri sociali (spesso menzionati con la sigla CSOA, dove O sta per occupato e A per Autogestito), nati da esperienze locali negli anni 70, nell'area generalmente conosciuta come Autonomia Operaia, costituirono vere e proprie isole di socialita' alternativa strappate al grigiore dei ghetti metropolitani, che si dimostrarono capaci di una certa resistenza al riflusso degli anni ottanta.
Aggiungiamo che non sono mai stati una realta' omogenea, ma piuttosto una serie d'esperienze locali che si sono venute diversificando – a volte contrapponendo - nel corso del tempo.
Verso l'inizio degli anni novanta, una parte di essi prese la decisione, molto criticata, di allacciare rapporti di collaborazione con autorita' ed enti locali, con l'obiettivo di legalizzare il possesso degli edifici, ottenere riconoscimento istituzionale ed accedere a finanziamenti pubblici.
Non e' nostra intenzione scagliare anatemi per questo, ne' entrare nella merito di una storia complessa e accidentata. Il problema non e' trattare con lo stato, ma come e perche' si tratta. In Messico, ad esempio, gli zapatisti hanno mostrato che e' possibile farlo, mantenendo, allo stesso tempo, un ragionevole margine di autonomia e senza venire meno a due principi irrinunciabili: la trasparenza e la verita'.
In quanto all'Italia, la profonda frattura che si era venuta creando all'interno dei centri sociali tra antagonisti e negoziatori venne in parte colmata proprio in seguito alla massiccia ondata di entusiasmo suscitata dalla ribellione degli indigeni messicani il primo gennaio 1994. Si apriva la possibilita' di cominciare da capo e di costruire un nuovo grande movimento, non piu' sul modello della solidarieta', ma su quello, ben piu' appassionante, del coinvolgimento e della condivisione.
Segui' una tappa unitaria, di breve durata, culminata nel Primo Incontro Intercontinentale per l'Umanita' e contro il Neoliberalismo, celebrato in Chiapas nell'agosto 1996, su invito del sub comandante Marcos. Quell'incontro puo' essere considerato come l'atto di battesimo dell'attuale movimento contro la globalizzazione.
I problemi ricominciarono quando, in seguito alla proposta zapatista di organizzare un secondo incontro in Europa, si avviarono i dibattiti sulle modalita' e i percorsi del nuovo appuntamento.
Le future Tute Bianche fondarono allora l'Associazione Ya Basta presentando la proposta di organizzare l'incontro a Venezia con l'appoggio del comune (il sindaco era Massimo Cacciari una persona non certo affine agli zapatisti, ne', ad esempio, alla problematica degli immigrati clandestini), piu' quello di Rifondazione (che allora sosteneva il governo neoliberista dell'Olivo) e de Il Manifesto.
Il viaggio di Bertinotti in Chiapas, insieme con alcuni esponenti del CSOA Corto Circuito di Roma, - organizzato con gran fragore pubblicitario nel gennaio 1997 - siglo' la nuova alleanza, di cui gli zapatisti erano solo un pretesto, mentre cio' che realmente contava erano le dinamiche interne italiane e il difficile equilibrio tra forze molto eterogenee.
Per Rifondazione, partito con un occhio puntato sui movimenti e l'altro sui sondaggi elettorali, era vitale mettere radici in quel grande serbatoio di voti che sono i giovani; e per questi centri sociali era importante proseguire la lunga marcia nelle istituzioni. La coalizione dell'Ulivo, da poco insediata grazie alla somma dei voti degli ex comunisti e degli ex democristiani, offriva nuove, inaspettate, opportunita' all'operazione.
Tanto in Europa come in Italia, pero', il grosso del movimento boccio' la formula veneziana, preferendo la proposta presentata dai collettivi spagnoli di un incontro autorganizzato ed autofinanziato in cinque localita' della Spagna.
A quel punto Rifondazione e Ya Basta scelsero la via dei rapporti diretti e privilegiati con il comando zapatista, boicottando l'incontro spagnolo con il significativo pretesto che gli organizzatori non erano altro che … un mucchio di anarchici, e spedendo in Chiapas Gianfranco Bettin, prosindaco di Venezia, per invitare gli zapatisti a un incontro concorrenziale, messo in piedi in gran fretta per la fine di settembre.
In seguito, gli aderenti a Ya Basta, non esitarono a proclamare se' stessi Comunita' Zapatiste, dando luogo a equivoci grotteschi. Infatti, una cosa e' il proclamarsi ribelle di una comunita' india a partire da una pratica reale di rottura ed autonomia ed un'altra, molto differente, e' che un gruppo di persone si autoproclami «comunita'», senza che a cio' corrisponda nulla di autentico.
Nei mesi successivi, il Messico continuo' ad essere al centro delle preoccupazioni di tutti in Italia. Il massacro di Acteal (23 dicembre 1997) apri' una nuova fase unitaria il cui punto culminante fu la grande manifestazione di gennaio a Roma: 50.000 persone in piazza per protestare contro la politica genocida del governo messicano.
Su iniziativa dei collettivi che avevano sostenuto l'Incontro in Spagna, in febbraio vi fu l'iniziativa della Commissione Civile Internazionale per l'Osservazione dei Diritti Umani.
Poiche' la Costituzione messicana prevede l'espulsione degli stranieri che si intromettono negli affari interni, la commissione si muoveva sul filo del rasoio. Per visitare le zone del conflitto, come a gran voce chiedevano le comunita' maya colpite dalla repressione, era necessario ottenere il permesso delle autorita', il che imponeva evidenti limitazioni. Anche la pretesa di essere degli osservatori «neutrali» era un assurdo, pero' erano in gioco molte vite umane e ne valeva la pena.
L'iniziativa ebbe successo. La Commissione, alla quale parteciparono anche alcuni membri di Ya Basta, riusci' ad intervistare centinaia di persone, scrivendo poi un rapporto dettagliato che fu di grande utilita' per tutti coloro che lavoravano sul Chiapas.
Un paio di mesi dopo, in aprile, Ya Basta torno' in Messico, questa volta senza l'ingombro di altra gente. Se in Italia proseguiva a gonfie vele la politica di avvicinamento al governo di centro sinistra, il Chiapas offriva un terreno ideale per dare sfogo alla spinta rivoluzionaria che continuava a venire dalla base.
Il 6 maggio 1998, 135 militanti di Ya Basta forzarono un posto di blocco tenuto da cinque agenti della polizia di frontiera in piena Selva Lacandona. Seguiti da uno stuolo di giornalisti, essi irruppero nel villaggio di Taniperla, uno dei piu' conflittuali della regione, dove il gruppo paramilitare Movimiento Indígena Revolucionario Antizapatista (MIRA) terrorizzava da tempo la popolazione civile.
Dopo alcuni spintoni e un paio di momenti drammatici, i militanti di Ya Basta tornarono a San Cristobal, non senza rilasciare dichiarazioni incendiarie. Seguirono il rituale dell'espulsione, ed un grottesco viaggio a Strasburgo a bordo di un aereo noleggiato dal governo messicano. È dubbio il beneficio che ne trassero gli indigeni di Taniperla i quali vivevano un dramma autentico. Inoltre, l'incidente servi' da pretesto per ridurre ancor piu' l'erogazione di visti agli osservatori, pero' l'obiettivo di Ya Basta, far parlare di se' e creare scandalo, era raggiunto.
Piu' recentemente, in occasione della marcia zapatista del marzo 2001, le Tute Bianche monopolizzarono la sicurezza dell'EZLN, comportandosi come Hell's Angels a un concerto, ed agendo in maniera violenta ed autoritaria nei confronti degli altri membri della carovana.
Queste prodezze messicane illustrano bene la doppiezza del gruppo: essere intransigenti e rivoluzionari all'estero, ma accettare tutti i compromessi, compresi i piu' disonorevoli, a casa propria.
Anche l'idea della tuta, messa per la prima volta a Milano verso la fine del 98, si ispira esplicitamente agli zapatisti. Infatti, gli «invisibili» metropolitani vestono di bianco, cosi' come gli indigeni del Chiapas si coprono il volto di nero: per essere visti.
Tuttavia, se il fine e' di essere ripresi dai telegiornali, invitati ai talk show e magari stipendiati da qualche istituzione, l'oro delle comunita' diventa piombo volgare, mentre le poetiche immagini dei maya («camminiamo interrogandoci», «esercito di sognatori») si convertono in fastidiosi e vuoti ritornelli.
E, per risultare piu' telegeniche, le contestazioni stesse finiscono per essere concordate con la polizia e gestite come vere e proprie performance teatrali (Guerriglia urbana? Ma vi prego…, Il Manifesto, 1 febbraio 2000). A Milano si e' arrivati al punto di presentare come una grande vittoria la chiusura di un lager per immigrati che era gia' stata decisa dalle autorita'.
In occasione del G8 di Genova, nonostante Berlusconi offrisse una sponda assai meno rassicurante dei governi «amici» che lo avevano preceduto, pare ormai accertato esistesse un accordo piu' o meno esplicito per consentire al corteo dei disubbidienti (altro nome delle Tute Bianche) di operare uno sfondamento simbolico della Zona Rossa in piazza Verdi, seguito da altrettanti simbolici fermi, che sarebbero dovuti cessare la sera.
Ma il nubifragio della notte di giovedi' impose alle Tute di posticipare al mattino successivo la «prova generale» dell'attacco, e di partire quindi con piu' di due ore di ritardo sulla tabella di marcia concordata. Come per Napoleone a Waterloo, la pioggia si doveva rivelare fatale: prima che il corteo potesse infine raggiungere il punto prestabilito, si trovo' davanti «alla violenza della Storia» (Marco d'Eramo, Il Manifesto, 24.7.01).
E cosi' la lunga marcia e' arrivata al traguardo. Partiti dalla contestazione totale e dal brivido voluttuoso del passamontagna di negriana memoria, essi sono pervenuti a pretendere sconti, treni speciali, aerei e alberghi per andare a contestare, esattamente come i sindacati di regime.
Loro li chiamano «rapporti di concretezza con le istituzioni», pero' collaborare non e' lo stesso di trattare. Si tratta quando si e' differenti, mentre quando si collabora si e' omologhi. Ne era ben consapevole, gia' il 23 aprile 1998, un Casarini ancora poco noto che dichiarava al quotidiano Il Gazzettino «Lo Stato non e' piu', d'ora innanzi, il nemico da abbattere, ma l'omologo con cui dobbiamo discutere».
Tale collaborazione, che li ha condotti, di volta in volta, ad intrecciare relazioni con Rifondazione, i Verdi e gli stessi DS (Casarini e' stato consulente retribuito di Livia Turco, ministro degli affari sociali del governo Amato), a ricevere sponsorizzazioni da grandi aziende, a presentare e talvolta far eleggere rappresentanti nei consigli comunali di Venezia, Roma, Milano, ha ormai superato tutti i limiti.
Piu' volte e in differenti luoghi (Bologna, Aviano, Treviso, Rovigo, Roma, Venezia, Padova… ) le Tute hanno fatto le veci della polizia, aggredendo fisicamente anarchici, autonomi, o semplicemente persone che non condividevano le loro indicazioni.
Istruttivo e' anche il loro «breviario della disobbedienza civile», in cui spiccano istruzioni quali: «7. Qualunque iniziativa va concordata con le tute bianche; 8. Non ci deve essere ne' lancio di alcunche' ne' altro che non sia concordato con gli organizzatori; 11. Durante il corteo nessuna iniziativa personale o di gruppo deve essere messa in atto; 12. Si prega di segnalare alle tute bianche qualunque cosa succeda».
Esasperati da questi comportamenti, alcuni anonimi compagni dell'area antagonista diffusero a principio di luglio, un violento documento contro le Tute che recava il titolo significativo di «Pompieri della rivolta» (lista ecn.org).
L'ultimo episodio vergognoso e' avvenuto a Venezia, pochi giorni dopo i fatti di Genova, allorche' un gruppo di Tute appartenenti al CSOA Rivolta di Mestre ha aggredito un gruppo di persone intente a un banchetto di solidarieta' con gli incarcerati.

5. Un nuovo mondo e' possibile: basta farlo. Noi. Oggi.
Dal piacere di creare al piacere di distruggere non c'e' che un'oscillazione,
che distrugge il potere.
Raoul Vaneigem
Il 21 luglio, all'indomani dell'assassinio di Carlo Giuliani, le 300.000 persone sfilate a Genova, nonostante gli evidenti pericoli, hanno risposto affermativamente alla domanda in sospeso fin dai giorni Seattle: questo movimento esiste e, come sottolineano i compagni della rivista Vis-a'-vis, «non cerca legittimazioni di sorta: semplicemente impone la propria presenza, riprende la parola, pratica il proprio rifiuto».
Eppure, quella medesima forza che si e' espressa con tanto vigore ha condotto ad un conflitto preoccupante tra le diverse tendenze che, fin dal principio, convivono al suo interno, seminando profondi interrogativi per cio' che attiene il futuro.
Contro l'opinione di coloro che cercano l'unita' a tutti i costi, bisogna prendere atto che il movimento contro la mondializzazione ha molte anime. Fin dal principio ne e' esistita una pacifista, ed una propensa all'azione diretta, con un'infinita gamma di variazioni intermedie.
La sua forza potrebbe risiedere proprio in questa dimensione plurale e nella molteplicita' delle sue espressioni internazionali. Oggi il mondo e' in subbuglio dal Karnakata alla Tailandia, da Seattle a Genova, dalla Selva Lacandona a Puerto Alegre.
In un intervista recente, il sub-comandante Marcos ha recentemente affermato: «Crediamo sinceramente che a livello mondiale i nostri ‘no' si sommino semplicemente con tutti gli altri che provengono dal resto del pianeta, mentre i ‘si'' debbano ancora essere individuati. (…) Non crediamo che tutti questi ‘si'' possano articolarsi in un unico corpo mondiale. Anzi, non consideriamo questa eventualita' auspicabile. Non crediamo, insomma, che alla globalizzazione si debba opporre una nuova internazionale» (rivista Linus, 6 luglio '01).
Il problema e' che mentre la tendenza radicale non pretende di esercitare egemonia alcuna, ed anzi ammette apertamente la possibilita' di altri approcci, non si puo' dire altrettanto di molti, anche se non tutti, i pacifisti.
Questi hanno sovente criminalizzato i primi, impiegando …la violenza, la calunnia, e perfino la delazione con esiti sono sovente grotteschi. Era gia' accaduto a Seattle ed e' accaduto di nuovo a Genova. Al direttore di Liberazione, Sandro Curzi, che in TV, contestava alla polizia di non avere agito preventivamente contro i violenti, un funzionario ha dovuto rispondere imbarazzato: «dottor Curzi, questo non e' uno stato di polizia, quel che ci chiede noi non lo possiamo fare».
A tutti costoro e' bene ricordare il monito di Orwell: «la differenza importante non e' tra violenza e nonviolenza, ma tra avere o no appetito di potere. Vi sono individui che disprezzano la polizia e l'esercito, ma si rivelano poi molto piu' intolleranti ed inquisitori di coloro che ammettono la necessita' di usare la violenza in circostanze determinate» (Inside the Whale and Other Essays, Penguin Book, 1962, pag. 118).
Sebbene il problema esista, le contraddizioni principali non sono tra violenti e nonviolenti e forse neppure tra chi cerca alternative al capitalismo e chi, invece, vorrebbe semplicemente abbellirlo o limitarne i danni.
La malafede nelle accuse di alcuni autoproclamati portavoce contro chi agisce in maniera indipendente indica che la posta in gioco e', appunto, il potere. Calunniare e' grave: gli stalinisti lo hanno fatto a Barcellona nel 37 ed ogni qualvolta si sono sentiti minacciati nei loro interessi.
Occorre inoltre tenere presente che, come fanno notare i BB la violenza risiede, prima di tutto, nelle relazioni sociali stesse. Chi fu il primo a scatenarla a Genova? Il governo italiano che blindo' la citta'? Le multinazionali che in nome del libero commercio depredano l'umanita' e la madre terra? Gli stati che le proteggono? I Black Bloc? Il carabiniere che sparo'? Carlo Giuliani che gli ributto' addosso l'estintore?
Quanto alla nonviolenza, lo stesso Gandhi affermo' piu' volte che, sebbene la considerasse superiore alla violenza sia da un punto di vista tattico che etico, non si poteva fare di cio' un dogma e che, in ogni caso, era preferibile essere violenti che codardi. La nonviolenza – diceva - e' una scelta valida solo se praticata da chi rinuncia a una violenza che avrebbe la forza di praticare. E non e' certo la pratica del topo che fugge di fronte al gatto.
Oggi una tale pratica corre il rischio di essere immiserita da comportamenti addomesticati e condiscendenti. Se il movimento deve crescere, nonviolenza non puo' voler dire astensione, neutralita' o, peggio, collaborazione, ma disobbedienza, determinazione, azione, costruzione di altro.
Se l'aspetto propositivo della violenza vandalica pratica dai BB, consiste proprio nel mettere in crisi la pretesa neutralita' delle relazioni sociali e nel ricondurre al centro dell'attenzione la loro precarieta' storica, ogni gesto inscritto in questo registro rischia di rimanere prigioniero di una negazione simbolica dell'esistente. «Il fine non giustifica i mezzi», ci mandano a dire gli zapatisti dal Messico. E gli anarchici replicano: «da due secoli lo sappiamo» e non puo' dirsi casuale il numero crescente di bandiere rosse e nere in tutti gli appuntamenti del movimento che cresce.
Con o senza violenza, l'essenziale e' che ciascuno individui la propria strategia e il proprio percorso; perche' la rivoluzione questo e': liberazione, scatenamento dei percorsi, movimento centrifugo, non centripeto.
Non e' necessario, avere obiettivi ambiziosi ne prefiggersi la distruzione del capitalismo per essere disponibili, qui e subito, a lottare contro la barbarie neoliberista. Oggi, non vi e' piu' un palazzo d'inverno da conquistare e il vecchio dibattito tra «rivoluzionari» e «riformisti» appare obsoleto.
Accantonando questa terminologia, molti preferiscono definirsi semplicemente «ribelli», parola che sottolinea l'assenza di un programma compiuto nel senso inteso dai vecchi partiti comunisti. Ed anche per cio' che riguarda i nostri vecchi sperimentati nemici, il capitalismo e lo stato, forse, piu' che di distruzione, converrebbe forse parlare di accantonamento, di dismissione, di soffocamento, di abbandono.
È merito degli zapatisti aver attirato l'attenzione su tali questioni e, in particolare, su quella del potere. Piu' volte essi hanno ripetuto di non essere interessati a governare ne' a sedere in parlamento. Cio' che li distingue dai partiti e dalle guerriglie tradizionali non e' l'impiego (o l'accantonamento) delle armi, ma il tentativo di andare oltre i vecchi modelli tanto bolscevichi come socialdemocratici.
Un tale superamento implica la creazione (non facile) di un terreno nuovo di lotta politica, non certo trasformarsi in un gruppo di pressione o in una lobby.
Fanno sorridere le dichiarazioni del solito Cassen, il quale annuncia, niente meno, l'imminente iscrizione del sub comandante Marcos, senza piu' passamontagna ed in versione «civile» (…e l'EZLN?) ad Attac (La Repubblica, 20 agosto). Cosi', il fuoco della prima rivoluzione del secolo XXI dovrebbe essere spento con lo straccio bagnato della Tobin Tax…
Ancor piu' fanno sorridere le affermazioni del medesimo Tobin il quale, smentisce i suoi discepoli, dichiarando di essere, da sempre, un fervente sostenitore della globalizzazione e di avere proposto a suo tempo, quella tassa…per «favorire il libero mercato», di cui, dice «sono, come tutti gli economisti, un fautore».
Attac e il gruppo di intellettuali raccolti intorno a Le Monde Diplomatique rappresentano oggi l'ultima versione della vecchia e fallimentare utopia socialdemocratica. Coloro i quali pensano di risolvere la disgrazia dei poveri tassando i ricchi non paiono consapevoli di fondare il futuro sulla permanenza precisamente dei ricchi, e dello sfruttamento che li produce, delle produzioni assassine che li alimentano, dello stato che li garantisce.
No, non ci accontenteremo di fare petizioni, ne' diventeremo una Ong con voto consultivo all'Onu. A Seattle, come a Genova e nella Selva Lacandona, la scommessa era un'altra.
«Un nuovo mondo e' possibile: basta farlo. Noi. Oggi.» Questo e' un altro dei tanti messaggi che ci arrivano dalla Selva Lacandona. Oggi l'importante e' creare situazioni di rottura, aprire il cammino a una socialita' diversa, intessere reti, stimolare incontri, favorire l'autonomia dei soggetti. L'apporto di tutti e' necessario, quello dei popoli indigeni, delle loro civilta', della loro capacita' di resistenza, prezioso.
Il movimento e' giovane e non ha ancora obiettivi definiti. Non importa, questi si chiariranno al momento opportuno. L'importante e' non ripetere gli errori del passato, imparare a navigare in acque agitate, tra gli uragani della repressione e le risacche istituzionali.
Il momento e' appassionante. Organismi come l'FMI, la Banca Mondiale o il G8, che prima ritenevano di poter agire indisturbati, sono adesso sulla difensiva e si trovano costretti a organizzare i loro incontri dietro mura invalicabili o in luoghi inaccessibili. Accordi che prima erano discussi in gran segreto e al riparo dalla furia popolare sono adesso sottoposti a dibattito pubblico.
Dopo Genova, meno gente nel mondo crede che la globalizzazione capitalista promuova la democrazia e la distribuzione della ricchezza. Tuttavia questo «stato d'emergenza», questo «momento del pericolo» faticosamente riemersi, non ammettono ripetizioni. Non conviene rincorrere una volta ancora il calendario dei signori governanti, riproponendo semplicemente quello che Tony Blair ha chiamato con spregio «il circo itinerante degli anarchici».
Anche il futuro delle manifestazioni di piazza solleva un gran numero di interrogativi. Il movimento e' oramai, in maniera irreversibile, internazionale: questo fatto che da' corpo come mai prima a centocinquant'anni di sogni e di speranze degli internazionalisti, impone pero' a tutti un grande salto di qualita' dal punto di vista dell'organizzazione e della comunicazione.
Chi ha vissuto l'avventura degli incontri zapatisti del 1996 e 1997, che tanta parte hanno avuto nel condurci dove ora ci troviamo, sa quanta fatica, sia pure entusiasmante, costi comunicare fra persone che non si conoscono, e che neppure parlano la medesima lingua. Il rischio dell'incomprensione, come pure quello dell'appiattimento a slogan di ogni ragionamento e' sempre in agguato.
La bastonata che un BB ha assestato a un compagno dei Cobas che ragionevolmente invitava «non partite ancora, aspettate che tutti siano pronti» puo' certamente essere ascritta in buona misura a questo oggettivo ritardo.
Sgombrato il campo dalle calunnie, il piu' urgente e irrisolto dei problemi rimane: come armonizzare la violenza offensiva di alcuni con la nonviolenza di molti altri?
I Black Blocs, con buona pace dei calunniatori, non sembrano orientati al suicidio, ma nel futuro non sempre sara' loro possibile fare come a Washington o a Quebec City.
Genova mostra gia' ora un salto di qualita' nella strategia repressiva. La scelta da parte delle forze repressive di concentrare gli attacchi sui manifestanti pacifici ha dato buoni risultati ed e' facile prevedere che continuera' ad essere usata, spingendo alla ritirata chi non ama o non ha la possibilita' di battersi e imponendo il terreno dello scontro militare, su cui non potremo, per molto tempo ancora, giocare al rialzo, quand'anche lo volessimo.
Alcuni ripropongono la vecchia piaga dei servizi d'ordine, una soluzione che, oltre a suggerire una spiacevole identificazione con i repressori in uniforme, e' profondamente estranea a un movimento che trae la propria forza dal disordine, dagli innumerevoli approcci della creativita' individuale.
Ne' bisogna avere illusioni sull'orientamento politico dei governi. A Goteborg, un governo socialdemocratico ha ordinato di sparare sui manifestanti e a Genova un governo postfascista ha fatto il morto. A Parigi, in agosto, i CRS di Jospin e Chirac, hanno fermato, identificato e maltrattato i partecipanti a una pacifica manifestazione sui fatti di Genova.
Occorre che tutti, anche coloro i quali per mille legittimi motivi non hanno desiderio di militarizzare la propria azione, ne' di contrapporre la mazza al manganello, o la molotov al lacrimogeno, comprendano che arriva un momento in cui il percorso dell'autonomia individuale e collettiva si scontra inevitabilmente con il potere e con la sua violenza e che le conseguenze di cio' sono spesso tragiche.
A loro volta i «violenti», cui non puo' piu' essere negata la possibilita' di presentare liberamente le proprie tattiche e i propri punti di vista, devono affinare, perfezionare, graduare la portata delle loro azioni per meglio salvaguardare la vita e la liberta' di tutti.
Se di sicuro non e' possibile combattere l'alienazione con forme alienate, non e' possibile neppure cancellare la violenza stupida dei potenti con qualcosa che non sia in certo qual modo un «antiviolenza» le cui forme rimangono in buona misura ancora da inventare con la collaborazione di tutti.
Il futuro di questo movimento sta tutto qui: le sue anime devono imparare ad agire in maniera fraterna. Se no, un'altra occasione sara' perduta…
Claudio Albertani
Parigi, agosto/settembre 2001
Ringrazio i compagni del Comitato di Solidarieta' con la Lotta dei Popoli del Chiapas in Lotta a Parigi; e Paolo Ranieri, vecchio amico, complice, e testimone appassionato degli avvenimenti di Genova.