domenica 30 novembre 2014

MORTO UN TIFOSO DEI RIAZOR BLUES

Stamattina prima della gara valida per la Liga spagnola tra Atletico Madrid e Deportivo La Coruña un tifoso antifascista facente parte del gruppo dei Riazor Blues è stato picchiato e gettato nel fiume Manzanarre da parte di supporters del Frente Atletico,noto gruppo fascista dei colchoneros.
I violenti scontri accaduti a Madrid in più quartieri per tutta la mattinata sono più di incidenti accaduti tra opposte fazioni di ultrà,ma sono stati veri e propri scontri politici tra antifascisti,infatti erano presenti anche altri gruppi antirazzisti del Rayo Vallecano e dell'Alcorcón dopo essere stati avvertiti di un possibile agguato dei madrinisti.
Col beneplacito in stile Italia della Policia Nacional gli aggressori fascisti sono riusciti a fare un'altra vittima dopo la morte del compagno basco Aitor Zabaleta ucciso sempre da quelli del Frente Atletico nel 1998:per la cronaca la partita prevista a mezzogiorno si è giocata lo stesso.
Francisco José Romero Taboada detto Jimmy,il tifoso galiziano ucciso,aveva 43 anni e molti suoi compagni,in altro perfetto stile italiano,sono stati arrestati e fermati mentre per il momento le solerti indagini della sbirraglia fascista spagnola non hanno ancora individuato gli assassini di Jimmy.
Articolo preso da Contropiano(http://contropiano.org/internazionale/item/27826-madrid-i-fascisti-del-frente-atletico-assassinano-un-tifoso-galiziano ).


Madrid: i fascisti del Frente Atletico assassinano un tifoso galiziano.


Si chiamava Francisco José Romero Taboada, noto come Jimmy, il tifoso del Deportivo de la Coruña di 43 ucciso stamattina nella capitale Madrid dai fascisti del Frente Atletico, organizzazione di estrema destra della curva dell’Atletico Madrid.Le due squadre si sarebbero affrontate alle 12 allo stadio Vicente Calderòn e in città erano arrivati parecchi supporters del Deportivo dalla Galizia. Nonostante la morte all’ospedale San Carlos della vittima, stroncata da un infarto, le autorità sportive hanno deciso di far giocare comunque la partita il che ha scatenato polemiche a non finire.


Intorno alle 8.40 di questa mattina un nutrito gruppo di appartenenti al Frente Atletico ha atteso l’arrivo dei pullman dei tifosi galiziani, in particolare quelli del gruppo antifascista dei Riazor Blues, nei pressi dello stadio e a quel punto l’aggressione è diventata una vera e propria battaglia campale con centinaia di persone coinvolte. Tra queste anche alcuni membri delle tifoserie antifasciste dei Bukaneros (Rayo Vallecano) e dell'Alkor Hooligans (Alcorcon) arrivati sul posto per dar man forte ai galiziani una volta diffusasi la voce che ad accoglierli ci sarebbero stati i membri del Fronte Atletico.
Jimmy è stato picchiato e gettato dagli aggressori nel fiume Manzanarre ed è stato ripescato dai sommozzatori del corpo dei pompieri ma a causa dell’ipotermia, del trauma cranico e dell’arresto cardiocircolatorio sofferti non ce l’ha fatta nonostante gli sforzi dei medici.
Secondo le autorità sanitarie almeno 11 tra aggressori e aggrediti hanno dovuto far ricorso alle cure mediche, tre di loro per ferite da coltello ed altri tre con ferite alla testa.
Fino ad ora, ha informato il prefetto di Madrid, Cristina Cifuentes – del Partito Popolare – quindici persone sono state arrestate (molti di loro appartengono al gruppo degli aggrediti) e novanta membri del gruppo di ultrà galiziani dei Riazor Blues sono stati identificati e immediatamente rispediti a La  Coruña.
La direzione dell’Atletico Madrid ha condannato ‘energicamente’ quella che i media iberici chiamano rissa tra tifosi ma in pochi ricordano che l’8 dicembre del 1998 gli ultrà neonazisti del Frente Atletico – in particolare l’estremista Ricardo Guerra - in un’analoga aggressione assassinarono il tifoso basco antifascista Aitor Zabaleta, arrivato a Madrid da Donosti per seguire la Real Sociedad.
Secondo alcuni testimoni questa mattina l’aggressione nei confronti dei tifosi del Deportivo sarebbe avvenuta grazie alla ‘passività’ delle unità antisommossa della Policia Nacional presenti in zona. E salta agli occhi lo scarso numero di ultrà neofascisti dell'Atletico Madrid arrestati dalle forze dell'ordine.
Da segnalare che mentre si stava svolgendo la partita a La Coruña sei incappucciati hanno aggredito alcuni tifosi dell'Atletico Madrid all'interno di un bar della città galiziana. Due i feriti.

sabato 29 novembre 2014

SONO UN PO' STANCHINO E FASCISTELLO

Il redazionale di Contropiano di ieri(http://contropiano.org/politica/item/27786-grillo-traiettoria-sbagliata )parla dell'espulsione dei due parlamentari pentastellati Artini e Pinna scelta dalla larga maggioranza democratica degli adepti di Grillo,più o meno gli aventi diritto di voto di una piccola città come Crema ma a livello nazionale,con una frettolosa consultazione on line come ormai è prassi nel movimento.
L'articolo non parlava ancora delle manifestazioni di protesta sotto casa Grillo,nè tantomeno della decisione di nominare un direttivo di cinque membri parlamentari,ovviamente scelti dallo stesso Grillo e da Casaleggio,per affiancare il leader nelle sue decisioni che recentemente hanno sollevato un polverone tra i propri seguaci.
Ovviamente questo in un periodo dove vi sono scontri interni in ogni partito italiano,partendo dalla Lega al Pd arrivando a Forza Italia e Sel oltre che i gruppi extraparlamentari sia di destra che di sinistra e sottolineo questo per evitare di essere considerato uno che fa le pulci in casa di altri.
Ma il caso delle epurazioni in casa Cinque Stelle che continua a sterminare i dissidenti che si scostano anche solo per qualche pensiero da quello del capo supremo,e stavolta si è trovata la scusa di un mancato pagamento di una parte dello stipendio dei due ultimi allontanati da versare nel fondo per le piccole e medie imprese(fatto che secondo i diretti interessati non è assolutamente vero ma questo poco importa se corrisponda a verità o meno,è la forma della cacciata che conta).

Grillo,traiettoria sbagliata.


Altre due espulsioni da un movimento non farebbero notizia se non riguardassero il Movimento 5 Stelle, ovvero il tentativo più notevole di costruzione di un consenso antipolitico organizzato sul terreno politico. Espressione contraddittoria? Non per colpa nostra, ammettetelo.
Ormai saprete fino alla noia che i deputati Massimo Artini e Paola Pinna sono stati espulsi per "mancata rendicontazione" della destinazione dei loro emolumenti come parlamentari. I due, sembra, venivano annoverati  da qualche tempo nelle file dei dissidenti, e quindi deve esser sembrato facile "prendere due piccioni con una fava": li accusano di non aver rispettato il regolamento del movimento, quindi di non aver versato parte del loro stipendio parlamentare nel fondo creato dai gruppi parlamentari cinquestelle a favore delle Pmi.
Il blog di Grillo ieri mattina ha chiamato al voto la non enorme platea dei "militanti certificati" chiedendo perentoriamente: "Sei d'accordo che Pinna e Artini NON possano rimanere nel M5S? Vota ora!".
Il pensiero binario non consente grandi distinguo né varianti sul tema. Quindi, a sera, quasi il 70% dei 27mila votanti aveva dato l'ok all'espulsione. L'autodifesa dei due parlamentari è altrettanto scontata, all'interno di quell'universo di pensiero: "Quello che dice il blog non è vero" e invitano a controllare sui loro siti personali quanto hanno restituito finora.
A noi, naturalmente, non interessa granché se sia vero o no che due parlamentari grillini si siano messi in tasca o no qualche migliaio di euro in più del pattuito col movimento. Mentre la modalità stessa dell'espulsione rimanda a problemi seri di "regolamentazione interna" in un movimento che si identifica con un "marchio registrato" di proprietà personale di un leader. Sia detto tra parentesi: erano molto più democratici i partiti comunisti d'oltrecortina, che - se non altro - facevano riferimento a una "proprietà collettiva" e non individuale della "ragione sociale".
Ci interessa invece constatare come stia svanendo velocemente un enorme equivoco politico che ha catturato, negli ultimi due o tre anni (sembra un secolo, vero?) l'immaginario "alternativo" in  questo paese, sottraendo consensi a destra e sinistra, e unendoli in una miscela acida che sta squagliando anche il contenitore.
Anche perché riconosciamo tranquillamente che gli eletti del Movimento 5 Stelle hanno provato seriamente a fare il proprio dovere di oppositori in Parlamento. Con tutte le difficoltà e le ingenuità imputabili sia all'inesperienza che all'assenza di un progetto politico di trasformazione che andasse oltre le questioni puramente formali (onestà, risparmi, denuncia dlela casta, ecc).
Non solo. Si è parlato da parte loro di "referendum sull'euro". Tema ovviamente interessante per chi, come noi, Ross@, parte del sindacalismo di base, settori crescenti di movimento, ha da tempo individuato nella "rottura dell'Unione Europea" un obiettivo di medio periodo necessario per riaprire una possibilità di trasformazione sociale radicale. Ricordiamo di aver promosso e depositato alla Camera - con Ross@ - una raccolta firme per un referendum di indirizzo su tutti i trattati che tengono insieme l'Unione Europea, quindi anche sulla moneta. La proposta di referendum del M5S è seria, se ne può discutere, e semmai con chi bisogna ragionarne per farlo davvero?
Le questioni di fondo sono insomma, ahinoi, sempre le stesse. Può esistere una "politica" indipendentemente da interessi sociali identificabili? Può esiste un "benessere del paese" identificabile con la "buona amministrazione", l'"onestà", la riduzione della sfera pubblica? Si può davvero "cambiare un paese" in crisi sulla base del "taglio delle spese della politica"?
No, naturalmente. Se è quello l'orizzonte (sul punto dell'"onestà" attendiamo le indagini della magistratura, che già stanno sfoltendo le fila dei fedelissimi al segretario-premier), Renzi va bene lo stesso. E chiunque altro, dopo di lui, possa agire in uno scenario istituzionale devastato: senza più una Costituzione antifascista e democratica, senza più corpi intemedi (partiti "partecipati", sindacati, associazionismo), senza più equilibrio tra i poteri (parlamento ridotto a passacarte dell'esecutivo, magistratura "normalizzata"). La riduzione a zero dello Stato è da anni programma del capitale multinazionale e finanziario, tanto da aver promosso una lunga era di "trasferimento della sovranità reale" (la possibilità di autodeterminare il proprio destino economico e politico) a vantaggio di istituzioni sovranazionali impenetrabili per la "volontà popolare" (Unione Europea. Fondo monetario internazionale, Bce, le stesse agenzie di rating, ecc).
Aver pensato di poter cavalcare quest'onda reazionaria epocale è l'intuizione che accomuna Berlusconi, Renzi e Grillo. I primi due con forti agganci nella "costituzione materiale" fatta da banche, imprese, società segrete o palesi, con gembiulino o senza; il terzo - a quanto se ne sa - in quasi completa libertà, alla Masaniello. Non stupisce dunque che il Cavaliere sia durato venti anni, che Renzi stia ridisegnando la scena del teatro politico e il terzo si stia spegnendo come una candela.
Potremmo infierire a lungo su sciocchezze come i referendum in rete per risolvere problemi o domande che richiedono scienza e studi (molto) approfonditi; sui sistemi di selezione del personale "proveniente dalla società civile" (al confronto il casting imbastito da Renzi sul modello berlusconiano è certamente più efficace: tira fuori cloni di robot con tutti la stessa espressione, lo stesso frasario, lo stesso tic per il sorriso stereotipato, la stessa improntudine e indifferenza per l'argomentare altrui, la stessa fedeltà canina ai boss che ti hanno elevato allo scranno o al laticlavio, e che possono decidere del tuo destino in un attimo.
Il problema che ci resta - tutto da risolvere - è quello delle forme della rappresentanza politica in questo scenario devastato da tre leader extraparlamentari (e da un presidente della Repubblica decisamente "creativo" rispetto alle regole scritte della Costituzione). Sappiamo che esiste anche chi, davanti a un problema complicato, è abituato a girare la testa dall'altra parte, quindi a rifiutare il concetto stesso di rappresentanza (in questo, possiamo dire, ragionando da "grillino ante litteram"); ma non ci sembra interessante questa versione postmoderna della volpe alle prese con l'uva.
Lo sfarinamento del M5S crea insomma un vuoto di rappresentanza politica che, come in ogni sistema naturale (e anche i raggruppamenti umani lo sono) verrà certamente riempito da qualcun altro. La domanda che poniamo alla compagneria è insomma semplice: ci diamo forme di collaborazione tali da unire il massimo delle forze possibili nell'organizzazione della resistenza della nostra gente (lavoratori sotto ogni forma contrattuale, disoccupati, senza casa, migranti, pensionati, studenti, ecc) o continuiamo a bearci dei nostri piccoli collettivi "omogenei" mentre la destra fascioleghista conquista i nostri territori sociali?

venerdì 28 novembre 2014

LA SORTE DEGLI EX DIRIGENTI CGIL AL GOVERNO

Ci sono notizie che a volte si stenta a crederle per davvero,e non quelle di tipo scoop perché non è quello che si tratta oggi in quanto è un fatto già risaputo,tanto per la storia alle spalle di chi si parla nell'articolo preso da Contropiano(http://contropiano.org/interventi/item/27767-lo-scandalo-degli-ex-cgil-contro-lo-statuto ) e che parla degli ex dirigenti della Cgil ora in Parlamento.
Questi che già nel loro recente passato avrebbero dovuto difendere i diritti dei lavoratori,ora che sono al governo si accaniscono contro lo Statuto degli stessi votando a favore del job act renziano,un ulteriore affossamento del già penoso stato sociale dei lavoratori tutti.
Si parla nello specifico degli ex sindacalisti Epifani,Damiano e Fedeli ora nelle file del Pd,ma anche se fosse stata Forza Italia o Lega o M5stelle sarebbe stato lo stesso,che una volte elette e a differenza di altre realtà come la Gran Bretagna dove i sindacalisti eletti portano avanti le battaglie della working class in Parlamento,fanno i comodi del padronato e praticamente della destra.


Lo scandalo degli ex Cgil contro lo Statuto.


Ci sono comportamenti che non possono essere ascritti alle diversità di ruoli e funzioni. La Cgil chiederà a milioni di lavoratori il 12 dicembre di fare a meno di 8 ore di prezioso salario per scioperare contro il jobsact. Tutti gli ex dirigenti della Cgil eletti con il PD han votato a favore di quella legge contro la quale i loro ex rappresentati scenderanno in lotta.
Guglielmo Epifani è stato il predecessore e anche colui che ha costruito l'elezione di Susanna Camusso, Cesare Damiano é stato vice segretario della Fiom, Valeria Fedeli, vice presidente del senato, è stata segretaria generale dei tessili. Assieme a loro molti altri dirigenti di categorie e strutture confederali meno conosciuti, in qualità di parlamentari del PD oggi votano il jobsact. È un fatto politico rilevante, un danno enorme per la Cgil, altro che lobby dei sindacalisti in parlamento.
Nella tradizione laburista britannica i dirigenti sindacali che diventano deputati portano nelle istituzioni gli interessi della loro organizzazione. Da noi i parlamentari di provenienza Cgil non fanno neanche obiezione di coscienza di fronte ad un provvedimento che provoca dolore e rabbia nei loro ex rappresentati. Cioè coloro, per essere ancora più chiari, a cui qualcosa dovrebbero, visto che stanno dove stanno proprio in virtù delle lunga carriera sindacale.
E proprio qui sta il punto. Il comportamento di Epifani e di tutti gli altri porta acqua al mulino di chi associa il sindacato alla casta e alla degenerazione della politica. In questo essi sono perfettamente e utilmente renziani. Nell'ultimo congresso della Cgil, la nostra piccola minoranza aveva chiesto che si ponesse una regola al conflitto d'interessi nelle carriere dei dirigenti sindacali. Avevamo chiesto che non si potesse passare immediatamente da un importante ruolo nell'organizzazione ad un altro nelle istituzioni. E a maggior ragione che ai dirigenti Cgil non fosse permesso, pena risarcimenti verso gli iscritti, di saltare la scrivania delle trattative sindacali diventando manager aziendali. Chi viaggia in treno e parla con qualche ferroviere sa quanto abbia nuociuto alla credibilità stessa della Cgil, il fatto che Mauro Moretti sia passato direttamente dalla segretaria del sindacato trasporti alla direzione delle ferrovie. Bisognava pensarci e capire che nell'Italia di oggi, che non é certo quella di Di Vittorio, lo sbocco politico e aziendale delle carriere sindacali avrebbe fatto danno. Invece queste nostre richieste sul conflitto di interessi son state respinte con sufficienza e fastidio, con quella stessa chiusura ottusa che si è opposta al nostro avviso di prepararsi in tempo allo scontro con Renzi. Contro cui ora la Cgil è costretta a fare lo sciopero generale, mentre i suoi ex dirigenti stanno dall'altra parte.
No, non se la cava Susanna Camusso ignorando il voto in parlamento di colui che chiamava capo quando era in Cgil. E neppure può risolverla dicendo che adesso Epifani fa un altro mestiere. Perché nell'Italia di oggi non sarebbero pochi quelli che penserebbero che chi proclama gli scioperi oggi, li tradirà domani quando troverà una collocazione migliore.
No, far finta di niente aggrava solo un danno che il gruppo dirigente attuale della Cgil ha una sola via per contenere. L'attuale segreteria deve dichiarare la rottura politica e morale con gli ex che han votato il jobact e fare di questo atto un momento di una più profonda ricollocazione della Cgil. Una ricollocazione in una posizione indipendente dagli schieramenti elettorali e contro il Pd renziano. Altrimenti già il 13 dicembre la Cgil inizierà una rovinosa ritirata.

giovedì 27 novembre 2014

VERSO LA DISOCCUPAZIONE GLOBALE

Il sito di Senza Soste propone un'interessante intervista all'avvocato e consigliere generale associato Damon Silvers dell'Afl-Cio,la più grande centrale di sindacati statunitensi che ha tredici milioni di iscritti e che fortunatamente per loro portano a casa spesso risultati rilevanti nonostante gli Usa siano un paese dove l'attività sindacale è molto più dura che noi.
Domande e risposte sull'accordo commerciale tra Usa ed Europa(Ttip)che sarà dannoso per entrambe le parti soprattutto per certi settori come l'agricoltura,dove ci sono forti presagi di un continuo della crisi a livello globale con provate possibilità di avere milioni di disoccupati soprattutto in Europa all'inizio e poi negli Stati Uniti più avanti.
Il succo del trattato è avere sempre più una manodopera a costo minimo e con meno diritti sindacali,e la prima a pagare questo accordo sarà l'Europa che ha salari al momento maggiori che negli Usa e che va detto ha anche prodotti con maggiore qualità.
Come già sta facendo Marchionne con la Fiat che ora è Fca,si sposta la produzione,e questo vale per tutti i rami industriali di tutti i settori di lavoro,verso gli Stati Uniti che come già detto hanno costi del personali minori rispetto all'Ue,per poi rivendere i prodotti qui da noi.
Ma a questo punto che cosa potranno comprare milioni di persone disoccupate o in cassa integrazione che non hanno più nessun potere d'acquisto?Quindi di conseguenza la produzione si fermerà pure in Usa con un susseguirsi di crisi economiche a livello globale,un cane che si mangia la coda.
Per non parlare dei prodotti agricoli con eccellenze soprattutto italiane che vedranno entrare in crisi le proprie attività in quanto l'abbattimento dei costi di lavoro dei prodotti made in Usa(dove ci sono aziende con estensioni grandi come province italiane)porteranno sulle nostre tavole cibi di scarsa qualità e soprattutto prodotti Ogm insicuri per la salute umana.


Silvers (Afl-Cio): "Il Ttip? In Europa significherà disoccupazione e agricoltura in crisi"
Ttip, Damon Silvers: Incentiva il modello Fca
L'intesa di libero scambio potrebbe spingere gli europei a delocalizzare in America. Dove i costi sono più bassi. Il capo dei sindacati Usa a Lettera43
da Bruxelles -
Mira a creare la più grande area di libero scambio del mondo. Promette di portare benefici per tutti: aumento dell’occupazione, degli investimenti, sviluppo.
Il Ttip, l'accordo di partenariato transatlantico tra Usa e Ue, è uno dei temi più caldi della legislatura europea, ma i negoziati tra Washington e Bruxelles hanno messo in luce numerosi punti di disaccordo, al centro del dibattito anche del Consiglio Affari esteri del 21 novembre dedicato al commercio.
TTIP, I SOCIALISTI FRENANO SULL'ACCORDO. Gli europarlamentari, a cui spetta il compito di monitorare le trattative tra la Commissione e gli Stati Uniti e votare l'accordo, hanno già iniziato a dare segnali di insofferenza.
Nel mirino, in particolare, la clausola Isds (ovvero la risoluzione delle controversie tra Stato e investitori che prevede la possibilità per questi ultimi di ricorrere a collegi arbitrali terzi in caso di violazione delle norme di diritto internazionale): «Deve essere lasciata fuori dal Ttip», ha avvertito l'eurodeputato socialista tedesco Bernd Lange, presidente della commissione per l'Industria, la ricerca e l'energia. «Gli americani e l'esecutivo europeo devono tenere in considerazione le nostre opinioni, perché senza i socialisti il parlamento non avrà il via libera su questo accordo».
SILVERS: «L'UE RISCHIA UN AUMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE». Per fare luce sul Ttip, il gruppo S&D ha invitato a Bruxelles Damon Silvers, avvocato e direttore politico dell'Afl-Cio, la più grande Confederazione sindacale degli Usa (formata da 57 sindacati nazionali e internazionali, rappresenta 13 milioni di lavoratori, ndr), il quale ha illustrato le possibili conseguenze di un accordo siglato nei termini sbagliati.
«L'obiettivo del Ttip è delocalizzare le produzioni dei brand europei negli Usa dove la manodopera costa meno, e poi rivendere i prodotti in Ue», spiega Silvers a Lettera43.it. «Un po' come sta succedendo con la Fiat-Chysler. Ma se noi vi rubiamo il lavoro perché offriamo alle aziende salari più bassi, voi che cosa fate? I disoccupati. Che non comprano più nulla perché non hanno soldi». E così, avverte, «non sarebbe solo la vostra economia a soffrire, ma quella mondiale». Il Ttip, ricorda, «potrebbe invece riguardare l'integrazione di due diverse società basandosi su un modello che punta a rafforzare le norme sociali».
DOMANDA. Usa e Ue presentano il Ttip come un accordo vantaggioso per tutti. Lei sembra pensarla diversamente.
RISPOSTA
. Sinora la volontà di inserire nell'accordo l'Isds, l'intento annunciato di limitare il potere degli enti europei per regolare la privacy e la sicurezza alimentare a favore del business statunitense, e le pressioni del mondo finanziario per annullare le riforme finanziarie negli Usa, sembrano un chiaro esempio che i veri interlocutori del Ttip non sono i governi.
D. E chi?
R.
Gli interessi economici da un lato e la società civile dall'altro. Il governo degli Stati Uniti e l'Ue non sono le squadre che stanno giocando questa partita, ma il campo di gioco.
D. Qual è la prima regola che deve essere messa in campo?
R.
Il riconoscimento delle norme fondamentali del lavoro dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), tra cui il diritto di sciopero. Ricordo che oggi gli Stati Uniti non sono firmatari di tali norme internazionali di base. E per quanto queste siano sottoscritte dai membri dell'Ue, in pratica sono già messe sotto attacco dalla Troika in gran parte dell'Europa del Sud.
D. Quindi il rischio è di perdere quello che di buono ha ancora l'Ue?
R. Dico semplicemente che quando voi parlate degli Stati Uniti in relazione al Ttip dovete tener conto che vi dovrete interfacciare con tre diverse politiche economiche e sociali.
D. Quali?
R.
Una basata su una politica di salari elevati, nel Nord degli Usa e sulla West coast, e due con salari bassi con gravi divisioni sociali e una tradizione di politica autoritaria a livello locale, nel Sud e Sud-Ovest. Gli Stati Uniti sono una democrazia a livello internazionale, ma non lo sono nel vero senso della parola in molte aree locali, dove c'è ancora un sistema politico controllato dai datori di lavoro senza spazio per la voce dei dipendenti.
D. Ed è su questi ultimi che il Ttip potrebbe ripercuotersi?
R.
Non lo sappiamo. Ma quello che è prevedibile è che ci sarà uno sforzo da parte delle aziende americane, che sfruttano il vantaggio di avere salari più bassi, a produrre ed esportare prodotti a prezzi competitivi in Europa.
D. Per questo le norme comuni sul lavoro sono così necessarie?
R.
Sì, ma per ora l'argomento non è ancora stato affrontato seriamente.
D. E voi avete provato a sollecitare il dibattito Oltreoceano?
R.
L'American labour movement non è abbastanza forte per ottenere qualcosa da questo accordo. Soprattutto per quanto riguarda il commercio, non abbiamo potere. Da soli non possiamo fare nulla.
D. Chi può fare qualcosa?
R.
I vostri sindacati e i socialisti democratici. Anche perché sono i sindacati e i lavoratori europei a essere minacciati dal Ttip, sono loro che dovranno affrontare il problema di trovarsi in competizione con i salari americani più bassi nel settore manifatturiero e dei servizi.
D. Per non parlare di quello agricolo.
R.
Sì. L'agricoltura statunitense è sempre più centralizzata, governata da grandi aziende che lavorano su larga scala con regole diverse da quelle europee. Abbiamo a disposizione un Paese enorme, norme ambientali diverse e una produzione agricola organizzata a livello industriale.
D. Quindi?
R.
Saremo capaci senza dubbio di avere prezzi molto più bassi rispetto a quelli di una piccola media azienda del Sud Italia.
D. I sostenitori del Ttip invece dicono che saranno proprio i piccoli produttori europei a guadagnarci.
R.
Assolutamente no. Basta pensare che ogni Paese che ha siglato un accordo di libero commercio con gli Usa negli ultimi 25 anni ha visto distrutto il proprio settore agricolo rappresentato da piccole aziende.
D. Quindi bisogna dire no al Ttip?
R.
Dipende tutto da che tipo di settore agricolo volete nel vostro futuro. Se volete preservare un tessuto fatto di Pmi, che lavorano ancora a livello artigianale, non potete farle sopravvivere con il Ttip.
D. C'è chi punta ai consumatori americani di prodotti di qualità.
R.
Negli Usa c'è una sorta di revival per le piccole produzioni di qualità, ma non penso che anche un aumento della domanda possa bastare a sostenere l'economia agricola dell'Ue, che anzi con il Ttip potrebbe peggiorare.
D. Si spieghi meglio.
R.
Negli Stati Uniti puoi trovare i pomodori italiani e americani. Io per esempio compro quelli italiani perché sono più buoni, ma quelli americani sono più venduti perché sono meno costosi. Se un domani con il Ttip anche gli europei si troveranno al supermercato i pomodori americani a un prezzo basso, magari li compreranno anche loro. E sarebbe la fine dell'industria italiana del pomodoro.
D. Insomma è un Ttip molto pro-Usa?
R.
Uno potrebbe pensare di sì, grazie alla manodopera a basso costo e alla nostra tradizione industriale potremmo capitalizzare le attività economiche che non stanno andando avanti in Europa, e fare crescere così i nostri livelli di occupazione. Per esempio i tedeschi fanno le migliori macchine? Noi potremmo farle fare qui a prezzi inferiori. Sarebbe perfetto.
D. Ma?
R.
Il problema è per quanto. Se noi vi rubiamo il lavoro perché offriamo alle aziende salari più bassi, voi che cosa fate? I disoccupati. E i disoccupati non comprano più nulla perché non hanno soldi. Così non sarebbe solo la vostra economia a soffrire, ma quella mondiale.
D. E voi non avreste più consumatori a cui vendere i vosti prodotti...
R.
Esatto, la nostra paura è quella di scatenare una guerra al ribasso che alla fine colpisce tutti. Se noi abbassiamo i salari, con il Ttip anche i vostri saranno tagliati per mantenere le produzioni in casa. Le offerte di lavoro saranno però sempre più al ribasso. E alla fine diventeremo tutti poveri.
D. Intanto però nei primi anni ci guadagnereste.
R.
Alla fine perderemo comunque. Il modello sociale europeo è un buon modello e noi non vogliamo distruggerlo. Per questo i vostri lavoratori e governi dovrebbero chiedersi: che cosa rischia di diventare il Ttip per l'Ue?
D. Ci risponda lei.
R.
Un accordo che permette alle aziende europee di trasferirsi a produrre negli Usa perché ci sono norme ambientali meno stringenti e salari più bassi. E prima di delocalizzare il proprio stabilimento automobilistico tedesco il datore di lavoro dirà all'operaio: «Il tuo salario è di 17 euro, ma in Mississippi è di otto. Certo tu sei uno specializzato, sei molto produttivo, quindi non devi prendere otto euro ma 12. Se però non vuoi lavorare per 12, spostiamo la fabbrica in Mississippi».
«Il piano? Un modello Marchionne su scala transatlantica»
D. Insomma dopo la Cina, arriva l'America?
R. Sì, ma nessuno ci pensa. Oggi un eurodeputato mi diceva: ho davvero paura della Cina, non voglio che l'Ue diventi così, per questo abbiamo bisogno del Ttip. Dobbiamo avere un grande mercato e non farci fagocitare dai cinesi. Non possiamo farci imporre il loro modello sociale.
D. Forse crede ancora nell'American dream...
R.
Il problema è che questo deputato non aveva capito che il modello di cui stava parlando in realtà non è cinese, ma è cino-americano. È la partnership commerciale tra Usa e Cina ad averlo prodotto: consumatori e produttori insieme.
D. Il capitalismo cino-comunista a stelle e strisce?
R.
Sì. Quando i cinesi dicono di voler aumentare i salari perché così la gente non è felice, non sta bene, sono i produttori americani a opporsi e minacciare i cinesi che se lo faranno porteranno le produzioni altrove. Se io produco in un posto e so che il prodotto sarà venduto in un altro non mi preoccupo del salario del lavoratore, non mi preoccupo se non potrà comprarsi qualcosa, perchè tanto io faccio i profitti con un'altra clientela. Capitali americani, forza lavoro cinese e mercato americano. È questo il mix micidiale.
D. E ora vogliono fare lo stesso con l'Ue?
R.
Non esattamente. Gli Stati Uniti non sono interessati all'Unione europea come una risorsa produttiva, ma al suo mercato di consumatori. Vogliono i clienti europei, non i lavoratori europei.
D. E i loro brand?
R.
Forse sono anche interessati a comprare alcuni marchi europei perché sono buoni, ma quello che vogliono è avere la possibilità di vendervi i loro prodotti.
D. Invece a Bruxelles il Ttip viene descritto come l'occasione per vendere prodotti made in Europe al mercato americano.
R.
Non è così, questo punto non è in agenda. In passato la politica commerciale europea ha cercato di fare degli accordi in Sud America, Asia e Africa per vendere i propri prodotti agricoli, i materiali, le manifatture. E in cambio comprava le materie prime offerte da quei Paesi. Ma ora con il Ttip non è questo che si sta negoziando.
D. Cosa si sta negoziando allora?
R.
Vogliono delocalizzare le produzioni dei brand europei negli Usa dove la manodopera costa meno, e poi rivendere i prodotti in Europa. Un po' come sta succedendo con la Fiat-Chysler.
D. Il modello Marchionne su scala transatlantica?
R.
Questo è il piano, quello che vogliono fare. Non lasciare più niente.
D. Sì ma per una Torino che muore, una Detroit rinasce: i sindacati americani non dovrebbero essere contenti?
R.
No, io ho una visione a lungo termine. Noi dell'Afo-Cio sappiamo già come finisce la storia, che cosa succederà.
D. Qual è la prima cosa da fare allora per evitare di avere un parternariato dannoso?
R.
Fermare l'Isds, che darebbe alle imprese il potere di impugnare le decisioni prese da governi e chiedere un risarcimento nei casi in cui quelle decisioni abbiano effetti negativi sui propri profitti.
D. L'europarlamentare socialista Lange ha già fatto questa richiesta, ma il commissario Malmström ha detto che la clausola è solo «congelata».
R.
Invece deve essere eliminata. In America a livello politico funziona così: solo se mostri di avere potere la gente capisce che hai potere. E solo allora puoi chiedere qualcosa in maniera educata. Ma la Commissione non crede che la sinistra europea abbia davvero il potere e l'abilità per bloccare l'Isds.
D. Se invece ci riuscisse?
R.
Allora la prossima volta che la sinistra chiederà di cambiare qualcosa del Ttip, sarà ascoltata più seriamente.
D. Magari sulla pericolosità del pollo al cloro?
R.
Quello non è un tema fondamentale, viene dopo. Se tu perdi la battaglia sui diritti dei lavoratori, perderai anche quella sul pollo al cloro. È una questione di equilibrio di potere tra società e business: se non ci sono diritti nel mondo del lavoro, le aziende avranno molto più poteri e faranno quello che vogliono.
D. Dice che i diritti dei lavoratori sono a rischio?
R.
Dico che molti non capiscono cosa sta per succedere. Ogni volta che parlo con qualcuno nel Nord Europa: Svizzera, Svezia, Danimarca, Olanda, Germania sono tutti convinti di essere molto più efficienti e avere operai specializzati di così alto livello che vinceranno la competizione con chiunque. E da un lato può essere vero.
D. Dall'altro?
R.
Alla fine tutti cercano il prodotto che costa meno. Negli Stati Uniti ogni cosa arriva ormai dalla Cina, perché produce a basso costo, anche le scarpe di lusso. Solo un'azienda è rimasta a produrre calzature in Massachussets.
D. E ora il Ttip potrebbe lasciarne una sola in Europa...
R.
Il Ttip potrebbe incoraggiare questa competizione al ribasso, ovvero quanto meno puoi pagare le persone, non certo la protezione sociale. Ha bisogno di consumatori, non di lavoratori. E questo bisogna tenerlo presente, perché è una separazione disastrosa.
D. Insomma il Ttip non s'ha da fare?
R.
È presto per dirlo. Non se alla fine questo accordo porterà davvero all'innalzamento del tenore di vita o a un ulteriore abbassamento dei salari. Per questo dobbiamo restare vigili, lottare tutti insieme, Usa e Ue, per ottenere la tutela dei diritti dei lavoratori e opporci se il Ttip risulta incomprensibile. Come diceva il rabbino polacco Nachman:  «Tutto il mondo è un ponte molto stretto, la cosa fondamentale è non avere paura di nulla».
21 Novembre 2014

mercoledì 26 novembre 2014

L'ITALIA E L'UE PRONTE PER INTERVENIRE IN LIBIA


Secondo quanto riporta l'articolo di Contropiano(http://contropiano.org/internazionale/item/27738-l-italia-si-prepara-ad-un-intervento-militare-in-libia-ce-lo-chiedera-l-europa )l'Europa sarebbe intenzionata da mesi ad un intervento anche senza mandato dell'Onu in Libia,e l'Italia sarebbe l'ariete della guerra nonché lo Stato principale in azione.
Anche se il ministro degli esteri Gentiloni per ora non si sbilancia troppo perché aspetta il beneplacito delle Nazioni Unite,è sicuro il futuro intervento italiano se dovesse esserci una seconda guerra in territorio libico dopo quella di tre anni fa,visto che quest'ultima ha fatto molto più danni che benefici.
Dopo la morte di Gheddafi lo Stato nordafricano si è riempito di fanatici islamici guerrafondai organizzati in bande e truppe che si sono spartiti la nazione,gestendo il traffico internazionale degli sbarchi e scendendo per ora a patti con l'Italia che può sfruttare ancora le risorse naturali del sottosuolo libico.
Ovviamente se questo non dovesse accadere più o se verrebbe ostacolato ci sarebbe un ulteriore motivo per il quale l'Italia potrebbe scendere in campo più convinta che mai...se poi lo chiede l'Europa...

L'Italia si prepara ad un intervento militare in Libia?Ce lo chiederà l'Europa!

L'Italia sarebbe in prima linea per un eventuale intervento militare in Libia. A confermarlo è oggi il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, intervistato da Repubblica, ha detto che in Libia l'Italia interverrebbe sicuramente in una missione di peacekeeping, ma “rigorosamente sotto l'egida dell'Onu”. “La Libia”, ha precisato Gentiloni, “rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico… Non a caso manteniamo aperta a Tripoli la nostra ambasciata che fornisce un supporto logistico insostituibile alla mediazione dell’Onu”. Nella regione mediorientale sottolinea il ministro degli esteri “Non potremo più delegare gli americani, peraltro strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente”.
Che i paesi della Nato – e soprattutto l'Italia e altri paesi europei – stiano preparando un intervento militare in Libia, era nell'aria da tempo. Il New York Times dell'11 novembre riporta che il professore Vandewalle, studioso statunitense noto anche in Italia per libro di storia della Libia, ha di recente proposto che l’Unione europea invii una forza militare in quel paese con il compito di proteggere le istituzioni legali uscite dalle elezioni del 25 giugno scorso, le infrastrutture e la produzione di petrolio così da rafforzare il governo e accendere una speranza di stabilità. Interessante e inquietante la motivazione secondo cui dovrebbero essere la Ue e non l'Onu a intervenire militarmente in Libia, Vandewalle indica infatti l’Unione Europea perché nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Russia certamente si opporrebbe. “I paesi dell’Ue potrebbero decidere di intervenire anche senza mandato, ma sempre sotto il crisma della legalità internazionale qualora percepissero l’urgente necessità di proteggere la popolazione libica e si inducessero perciò a esercitarne la relativa responsabilità.”
L'ultima newsletter di Affari Internazionali (molto vicina agli ambienti Nato) riferisce inoltre che la mediazione avviata dalle Nazioni Unite in Libia, basata sul riconoscimento delle istituzioni uscite dalle elezioni, è stata affondata dalla sentenza della Corte Suprema libica che le ha invalidate il 6 novembre scorso. Quindi non ci sarebbero alternative ad un “intervento stabilizzatore” degli stati occidentali. Il prof. Vandewalle sembra, tra l'altro, aver previsto ogni aspetto e ogni possibile contestazione a tale scenario, spiegando che “Se l’Unione Europea beneficiasse di una solidarietà di politica estera il modo di intervenire, anche senza un mandato dell’Onu, potrebbe essere quello di raccogliere la richiesta delle istituzioni libiche che hanno vinto le elezioni”.
A questo clima di crescente eccitazione interventista in Libia, non sembrano affatto estranei i doppi colloqui tra l'Italia di Renzi e l'Egitto di Al Sisi, prima al Cairo mesi fa e in questi giorni a Roma. La convergenza di interessi tra Roma e il Cairo per sostenere il “governo libico di Tobruk” (filo egiziano e filo occidentale) contro la fazione jihadista che controlla il resto del paese, potrebbe rientrare nella più vasta escalation contro l'Isis sulla quale l'Egitto conta molto. Anche nella visita di questi giorni in Italia, Al Sisi ha insistito che la lotta contro i Fratelli Musulmani e i gruppi jihadisti nel Sinai e la “stabilizzazione della Libia” sono parte integrante della campagna contro l'Isis. Su questo Egitto e Italia hanno un interesse strategico convergente e obiettivo. Non certo casualmente, Al Sisi dopo la visita in Italia è andato in Francia, altra potenza europea con enormi responsabilità e interessi su quanto è accaduto in Libia.
Come noto e come ribadito anche dal ministro degli esteri italiano Gentiloni, la posta in gioco sulla sponda sud del Mediterraneo è sempre grossa. In Libia infatti, nonostante il caos e gli scontri, la produzione petrolifera – quella che interessa le multinazionali e gli Stati imperialisti – è tornata a crescere, con alti e bassi vorticosi ovviamente, ma è tornata a crescere. L' Aspo, associazione per lo studio del picco petrolifero, ha confermato l’ aumento della produzione libica nel 2014. Dopo il colpo di stato contro Gheddafi e la guerra civile nel 2011, c'era stato un crollo, nel 2013 la produzione era ritornata ad un milione di barili il giorno, c'era stato un nuovo crollo nel primo trimestre del 2014, scendendo a 200.000 barili/giornalieri, risalito poi gradualmente  fino a 900 mila b/g  proprio nei mesi del 2014 in cui lo scontro tra le due principali fazioni si radicalizzava. E' la conferma che la destabilizzazione e la disgregazione degli Stati produttori o esportatori di materie prime – sistematicamente perseguita dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea – porta sì alla dissoluzione degli Stati più deboli ma assicura il flusso delle risorse, facilitando la “contrattazione” con soggetti più divisi, deboli e con meno potere negoziale di uno Stato.
Ha un bel dire Roberto Aliboni, consigliere dell'Istituto Affari Internazionali, che un intervento militare sarebbe sconsigliato e sarebbe meglio privilegiare il terreno diplomatico. Le forze e gli interessi che spingono per un intervento militare europeo ed italiano di “stabilizzazione” della Libia, sembrano avere più carte da giocare. Prepariamoci al peggio. Ce lo chiede l'Europa.

martedì 25 novembre 2014

FERGUSON COME FERRARA,ROMA,FIRENZE,MILANO...

Poche parole di commento all'articolo preso da Infoaut che parla dell'assoluzione del poliziotto statunitense che ha ammazzato il diciottenne Micheal Brown scambiato per un ladro che aveva commesso un furto e crivellato di colpi senza essere stato in possesso di un'arma.
Nell'ultima settimana negli Usa altri due episodi simili sempre contro afroamericani,a Cleveland ucciso un dodicenne,in un clima di tensione che è sfociata in disordini in tutti gli Usa e soprattutto nella citta di Saint Louis,di cui Ferguson è un sobborgo.
L'omicidio,avvenuto ad inizio agosto,aveva già provocato proteste per parecchi giorni proprio all'indomani dell'omicidio,e la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata proprio ieri quando il Grand Jury ha deliberato l'impunità dello sbirro Darren Wilson...un po' come accade ciclicamente in Italia.


Ferguson,ingiustizia è fatta.La rabbia travolge gli Usa.


L’America brucia: New York, Seattle, Los Angeles, Chicago, Cleveland, Oklahoma City, Oakland e Pittsburg e, ovviamente, Ferguson e i sobborghi di St. Louis, sono attraversati da proteste, cortei e riot da tutta la notte dopo l’annuncio del Grand Jury secondo il quale il poliziotto Darren Wilson non è colpevole dell’omicidio del 18enne afroamericano Micheal Brown.
La sentenza arriva dopo giorni di attesa snervante, durante i quali le istituzioni si erano avvicendate per far passare sottotono una sentenza che, probabilmente, era già scritta da tempo. Già dalla scorsa settimana, infatti, era stato emanato il coprifuoco nella città di St. Louis, e l’arrivo della Guardia Nazionale non poteva che fare presagire il peggio.

I reparti speciali della polizia hanno alzato gli scudi non appena il magistrato ha iniziato a parlare: un segnale inequivocabile, la trasposizione nella realtà del muro che divide il paese reale dai burocrati di palazzo.

A Ferguson sono decine le auto date alle fiamme e i negozi presi d’assalto da centinaia di manifestanti, e ad ora si contano almeno 29 arresti. A Los Angeles decine di persone sono scese in corteo bloccando la superstrada 110 che va da Pasadena a Long Beach; a New York i ponti di Brooklyn, di Manhattan e di Triborough sono stati chiusi al traffico dai manifestanti e si conta almeno un arresto. Scontri a Seattle, dove la polizia ha impedito ai manifestanti di occupare l’autostrada, mentre cortei e manifestazioni si contano a decine in tutto il paese, in quella che sembra essere una lunghissima nottata.

Suonano dunque tremendamente ipocriti gli appelli alla calma di Obama, che non memore della rivolta di quest’estate è riuscito in una gestione disastrosa della crisi di Ferguson, contribuendo ad alimentare la sfiducia e la rabbia in tutti gli USA, specialmente in quella fetta di popolazione che lo ha votato con maggiore entusiasmo (le comunità nere e latinoamericane). E sono proprio queste contraddizioni, palesi e radicate nel tessuto sociale americano, ad avere contribuito all’epilogo di questa notte; solo nell’ultima settimana, infatti, abbiamo assistito all’uccisione da parte della polizia di un giovane disarmato a New York e, addirittura, di un bambino che giocava al parco a Cleveland.

Episodi come questi ci restituiscono l’immagine quanto mai reale di un’America divisa e segregata, nella quale le contraddizioni di un presunto “odio razziale” (sbandierato senza cognizione di causa dai media di tutto il mondo) si intrecciano strettamente le contraddizioni del capitalismo, queste sì valide ad ogni latitudine: i poveri, gli sfruttati e gli emarginati da un lato, i ricchi, i garantiti e i padroni dall’altra.

La polizia, non ci sarebbe nemmeno bisogno di ricordarlo, fa parte di questi ultimi, e la sentenza di oggi ce lo conferma ancora una volta. Darren Wilson è un omicida a piede libero, la sua impunità è l’impunita di tutti i colleghi che lo hanno coperto e che non esiteranno un minuto di più a comportarsi da pistoleri del west durante la prossima pattuglia. L’impunità è totale, tanto da permettere all’agente di esternare dichiarazioni abominevoli un secondo dopo la sentenza: Mike Brown sembrava un “diavolo”, per questo l’ho ammazzato. Una frase che ricorda tanto le motivazioni dell’assoluzione per gli assassini di Stefano Cucchi, secondo le quali una persona con problemi di tossicodipendenza può ben essere degradata a ruolo di rifiuto della società, e per questo indegna di un trattamento umano.

E allora ben vengano gli assalti alle caserme, gli incendi e i saccheggi. La resistenza è un dovere degli oppressi, e mai come oggi c’è bisogno di alzare la testa sopra le barricate per dare alla società americana il giusto buon giorno dopo troppi anni di assopimento autoindotto.

La rivolta di Ferguson, come abbiamo già scritto, ha avviato un processo ricompositivo delle comunità afroamericane, gli avvenimenti di stanotte ci dicono come la sollevazione di un ghetto nel Missouri possa diventare la sollevazione di tutta l’America.

 

"When we revolt it’s not for a particular culture. We revolt simply because, for many reasons, we can no longer breathe" - Frantz Fanon

lunedì 24 novembre 2014

LA MOZIONE RUSSA CONTRO IL NAZISMO PRESENTATA ALL'ONU

Le varie risposte alla mozione presentata venerdì scorso dalla Russia all'assemblea generale delle Nazioni Unite in merito alla condanna ai tentativi di glorificare l'ideologia nazista ha destato scalpore nel mondo e cosa ovvia la notizia in Italia nei principali organi di disinformazione non è stata nemmeno data.
Il testo del documento che esprime"profonda preoccupazione per la glorificazione in qualsiasi forma del movimento nazista, neo-nazista e degli ex membri dell’organizzazione "Waffen SS", anche attraverso la costruzione di monumenti e memoriali e l’organizzazione di manifestazioni pubbliche"ha addirittura avuto il voto contrario di Canada,Ucraina e Usa mentre l'astensione di tutta l'Unione Europea ha delineato uno scenario in cui non solo il nazismo dopo settant'anni dalla sua sconfitta è tollerato ma purtroppo è rivalutato e propagandato.
L'articolo di Contropiano(http://contropiano.org/internazionale/item/27681-l-onu-condanniamo-il-nazismo-l-ue-si-astiene-usa-e-ucraina-votano-contro )spiega quello accaduto lo scorso settimana e ne analizza l'estrema gravità di questo che è un precedente vergognoso per alcuni stati membri dell'Onu.

L'Onu:"condanniamo il nazismo":l'Ue si astiene,Usa e Ucraina votano contro.


Probabilmente in Italia la notizia passerà inosservata,eppure è significativa del clima generale in cui è immerso il nostro pianeta.
Come ogni anno da qualche anno a questa parte, ieri l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una mozione presentata della Russia che condanna i tentativi di glorificazione dell’ideologia del nazismo e la conseguente negazione dei crimini di guerra commessi dalla Germania nazista.
La risoluzione esprime "profonda preoccupazione per la glorificazione in qualsiasi forma del movimento nazista, neo-nazista e degli ex membri dell’organizzazione "Waffen SS", anche attraverso la costruzione di monumenti e memoriali e l’organizzazione di manifestazioni pubbliche". Il documento rileva anche l'aumento del numero di attacchi razzisti in tutto il mondo.
Una iniziativa sacrosanta, si dirà, visti i continui rigurgiti fascisti e nazisti ai quali si assiste sempre più spesso in diversi quadranti del globo.
E invece no. Perché solo 115 dei paesi rappresentati alle Nazioni Unite hanno votato a favore della mozione, mentre in passato il numero dei si era stato assai più consistente, ad esempio 130 due anni fa. Incredibilmente ben 55 delegati si sono astenuti e 3 rappresentanti – quelli di Stati Uniti, Canada e Ucraina - hanno addirittura votato contro.
Ma come, l’antifascismo e l’antinazismo, seppure di facciata e di maniera, non è patrimonio di quei governi che hanno partecipato alla sconfitta dell’Asse negli anni ’40, a costo di enormi sacrifici in termini di morti e distruzione? Evidentemente no. Ed in effetti l’asse Stati Uniti-Canada-Ucraina che hanno votato no con i paesi dell’Unione Europea che si sono astenuti evidenzia la scelta da parte dei blocchi occidentali di sdoganare il fascismo come nemico numero uno dell’umanità, rimpiazzandolo con un estremismo islamico prima impersonificato con Al Qaeda ed ora con il ben più pericoloso Stato Islamico. Con una buona dose di ipocrisia e doppiogiochismo, visto che come era avvenuto con i fascisti e i nazisti, anche i jihadisti vengono ampiamente utilizzati dai governi che li definiscono il ‘male assoluto’ contro i paesi nemici e i governi da destabilizzare in Medio Oriente.
La Russia ha deciso di scrivere un documento che rendesse applicabile in modo universale la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione Razziale, approvata negli anni ’60 del secolo scorso ma rimasta in parte lettera morta.
Sorvolando sull’ampia libertà di movimento e sulla relativa impunità sulle quali i movimenti neonazisti e razzisti possono godere nel paese di Putin, una iniziativa sicuramente lodevole. E che ha messo a nudo un cambiamento di paradigma da parte dell’Unione Europea che ai più sembrava essere sfuggito. I governi degli Stati Uniti non hanno mai esitato a utilizzare i gruppi e i partiti nazisti per ottenere i propri scopi, sostenendo da sempre dittature militari di estrema destra in America Latina oppure gruppi fascistoidi in Africa contro i movimenti di liberazione nazionale o i movimenti anticoloniali. Si spiega quindi il ‘no’ esplicito di Washington e del suo satellite canadese alla mozione russa. Migliaia di gerarchi nazisti e fascisti furono salvati dalla punizione che meritavano alla fine della Seconda Guerra Mondiale e inseriti negli apparati di intelligence delle nuove ‘democrazie’ occidentali in fuzione antisovietica. Ma non era mai successo, finora, che i governi europei si associassero così direttamente agli Stati Uniti per sostenere un colpo di stato fascista in un paese dello spazio europeo come l’Ucraina. Che, guarda caso, è il terzo paese che si è schierato contro la condanna della glorificazione del nazismo. D’altronde non è un segreto che alcuni dei leader politici e delle organizzazioni attualmente al potere a Kiev praticano quella rivalutazione e celebrazione del nazismo, dei suoi simboli, dei suoi ‘valori’ e dei suoi leader storici – uno fra tutti Stepan Bandera – che la mozione russa intende condannare.
Che i paesi dell’Unione Europea si siano astenuti è assai significativo, e la presunta neutralità espressa con l’astensione suona come una presa di posizione inquietante e intollerabile.
Vedi anche: http://contropiano.org/editioriali/item/27692-l-europa-non-rinnega-piu-il-nazismo

venerdì 21 novembre 2014

IL NUOVO PRESIDENTE DELLA ROMANIA ED IL FEELING CON LA GERMANIA

All'articolo di oggi preso da Contropiano(http://contropiano.org/internazionale/item/27615-un-tedesco-di-destra-presidente-della-romania )vorrei dedicare solo un breve commento in quanto l'elezione a Presidente della Romania di Klaus Iohannis è stata pianificata da tempo dalla Germania in modo da sottrarre lo stato dell'est europeo ad altre ingerenze internazionali.
Il neopresidente ha ribaltato il risultato elettorale al ballottaggio superando il candidato del centro sinistra Victor Ponta:Iohannis ha puntato sul rigore delle proprie politiche,alla lotta alla corruzione ed al favorire l'ingresso di capitali stranieri.
Ovvero,su quest'ultimo punto,gettare un'ombra scura sui lavoratori rumeni in quanto attrarre investitori esteri equivale a vedersi decurtati gli stipendi già bassi ed avere zero potere contrattuale e sindacale.


Un tedesco,di destra,presidente della Romania.


Una volta Berlino si ‘limitava’ a imporre ai paesi della periferia europea uomini di provata fiducia. A colpi di lettere segrete della Bce, di picchi dello spread e di minacce neanche tanto velate negli ultimi anni a guidare i governi e i parlamenti di vari paesi ‘non in linea’ con i parametri dettati dalla troika sono stati paracadutati dei veri e propri commissari eterodiretti o fortemente condizionati da Berlino. Basti citare Mario Monti ed Enrico Letta, solo per rimanere in patria.
Poi, quando si trattava di destabilizzare il governo ucraino per imporne uno più fedele, la signora Merkel non si è limitata a foraggiare e sostenere politicamente e diplomaticamente un vasto arco di forze nazinaliste e di destra che poi avrebbero dato vita ad EuroMaidan e partecipato al golpe. La Cdu tedesca, tramite la Fondazione Adenauer, si è addirittura inventata un partito politico ucraino, Udar, affidando la sua creatura a un ex campione di pugilato che aveva il doppio pregio di condividere “i valori europei” e di avere anche la cittadinanza tedesca e la residenza in una splendida villa in Germania.
Ma a vedere i risultati delle recenti elezioni presidenziali in Romania, non si può notare un nuovo salto di qualità nell’intervento dei poteri forti tedeschi nella gestione dell’Unione Europea in quanto polo attivo della competizione globale e dei singoli paesi della periferia.
E così, incredibilmente, a vincere il ballottaggio di domenica che vedeva favorito l’esponente di centrosinistra Victor Ponta è stato invece “il tedesco” Klaus Iohannis. Tedesco per due motivi: in quanto esponente della minoranza tedesca che vive nei territori della Transilvania - e su questo nulla da ridire, anzi - ma soprattutto perché di fatto Iohannis è un pupillo di Frau Merkel e un ammiratore delle politiche di rigore e conservatrici della Cdu tedesca. Se prima a Berlino bastava controllare il telecomando, oggi pare proprio che la classe dirigente tedesca si stia adoperando per manovrare direttamente il guinzaglio.
Un particolare, l’identità etnica e politica del nuovo presidente romeno, così eclatante che non è sfuggito neanche alla normalmente distratta stampa italiana. L’esponente della minoranza tedesca ha fatto della lotta alla corruzione e dell’apertura del paese agli investitori stranieri (che naturalmente richiedono stabilità, agevolazioni fiscali, basso costo del lavoro e zero conflittualità sindacale) i suoi cavalli di battaglia, sbaragliando al ballottaggio un Victor Ponta che al primo turno lo aveva battutto con ben dieci punti di differenza, 40% contro 30%. Il suo piglio prussiano e la denuncia delle inefficienze del governo socialdemocratico che stavano impedendo a molti emigrati romeni di poter votare all’estero ha mobilitato un gran numero di elettori in patria (l’affluenza è passata dal 53% del primo turno al 63,5% del ballottaggio) permettendogli di ribaltare il risultato della prima tornata delle presidenziali.
Ora il fisico 55enne, sindaco di Sibiu e protestante (in un paese in cui il 90% degli abitanti è cristiano ortodosso) dovrà tentare di portare ordine in un paese economicamente allo sbando, governato da un premier socialdemocratico debole, uscito dalla inaspettata sconfitta delle presidenziali e oggetto di forti contestazioni politiche e sociali. Soprattutto, Iohannis dovrà tentare di riportare Bucarest sotto il pieno controllo della Germania e dell’Unione Europea, sottraendo il paese alle fortissime influenze degli Stati Uniti.