venerdì 27 agosto 2021

A KABUL E' GUERRA TUTTI CONTRO TUTTI

Di attentati anche più sanguinosi della serie che c'è stata ieri a Kabul ce ne sono stati a bizzeffe in tutto il territorio afgano ma anche in Iraq per non parlare in Africa,ma con gli occhi del mondo puntati sull'Afghanistan ha destato molto più clamore ed attenzione.
Infatti gli attacchi sono stati multipli e nell'arco di alcune ore ed hanno toccato la zona dell'aeroporto che da domani difficilmente vedrà altri voli della"speranza"per i profughi,ed i circa cento morti tra civili,talebani e militari Usa sono il frutto del lavoro che l'Isis ha fatto per infiltrarsi nel cuore del paese come un parassita dopo che questa congrega di folli islamici era stata quasi eradicata dalla terra.
Quest'ultima frangia denominata Isis-k per via della rivendicazione di un territorio ad est dell'Iran al confine col Turkmenistan e l'Afghanistan,come in altre zone mediorientali ha fatto breccia in territori devastati dalle guerre come in Siria,con il mondo occidentale a far guerra ad Assad mentre quest'ultimo aiutato dai russi e dai curdi cerca tutt'ora di debellare questa invasione con buoni risultati.
L'articolo di Contropiano(con-lattentato-di-kabul-lisis )parla della situazione afgana in continua evoluzione con appelli e minacce da tutti i fronti,in una guerra di tutti contro tutti,Usa contro talebani,Isis contro praticamente l'umanità in un contesto esplosivo e pronto a nuovi sviluppi.

Con l’attentato di Kabul l’Isis ipoteca i futuri assetti dell’Afghanistan.

di  Sergio Cararo  

La rivendicazione dell’attentato a Kabul da parte dell’Isis  è arrivata sul canale Telegram di Amaq, l’agenzia di stampa ufficiale dello Stato islamico, viene fornito anche il nome dell’attentatore: Abdul Rahman al-Logari. I morti nei tre attentati di ieri sarebbero saliti a 95 (oltre 100 secondo il Wall Street Journal) di cui 13 sono militari statunitensi e 28 miliziani Talebani.

Per gli Usa il bilancio è particolarmente grave, anche perchè è come se tutti i “mostri” che hanno contribuito a creare ed armare in questi decenni (dai mujhaeddin afghani all’Isis) e che poi hanno abbandonato e combattuto, si stiano scatenando tutti insieme e tutti nello stesso posto, per ora.

Sempre che, i miliziani del’Isis non vengano nuovamente utilizzati per condizionare i Talebani una volta che le truppe statunitensi non avranno più gli scarponi sul terreno.

L’attentato, anzi gli attentati, di ieri all’aeroporto di Kabul erano stati annunciati in anticipo dai servizi di intelligence britannici. Le agenzie stampa di tutto il mondo avevano aperto ieri mattina annunciando che in giornata ci sarebbe stato l’attentato e che a realizzarlo sarebbe stato l’Isis. Eppure tutto è andato come abbiamo visto. Un durissimo colpo è stato inferto sia alle truppe occidentali che alla credibilità dei Talebani nel saper assicurare l’ordine su un Afghanistan senza più presenza di soldati stranieri.

Con l’attentato di ieri, per il clamore, il luogo e il numero di vittime provocate, l’Isis ha lasciato intendere che gli assetti del futuro Afghanistan dovranno fare i conti anche con la sua inquietante presenza nel paese. Un messaggio brutale ma politicamente chiarissimo.

In pratica appena la strategia del caos degli Usa provoca un “buco” – come in Iraq e Siria- le milizie dell’Isis sembrano approfittarne per insediarsi.

Le prima notizie sulla presenza dell’Isis in Afghanistan – in particolare in quello orientale – risalgono al 2014 . Si definisce Isis del Khorasan o Isis-K facendo riferimento ad una regione e ad un regno islamico annientato in quello che il mondo musulmano definisce la prima fase de “l’Olocausto mongolo” (la seconda avvenne trenta anni dopo nel 1257).

Il Khorasan è una regione storica dell’Asia centrale, comprendente territori che oggi appartengono a Iran, Afghanistan, Pakistan, Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan. Il Khorasan fu un regno con ambizioni di impero che ebbe massima estensione e importanza dopo la conquista islamica e durante il califfato. Ma è stato sempre rivale del califfato di Baghdad.

Nel 1221 fu distrutto dall’invasione dei mongoli. L’ultima resistenza dei guerrieri del Khorasan contro i mongoli avvenne proprio in Afghanistan, ma anche qui furono sconfitti dall’intervento in persona di Gengis Khan nella spedizione inviata ad annientarli.

L’Isis-K ha subito iniziato a scontrarsi con i talebani afghani per il controllo alcune aree della provincia di Nangarhar, al confine con il Pakistan. Nel 2017 l’aviazione Usa ha bombardato pesantemente una postazione del’Isis-K ad Achin, nell’Afghanistan orientale.

L’Isis-K ha organizzato attentati anche a Kabul e in altre città afghane contro obiettivi militari e governativi, senza alcuno scrupolo di colpire anche i civili. Attacchi suicidi sono stati condotti anche contro la minoranza sciita presente nell’Afghanistan orientale (al confine con l’Iran). L’ISPI, citando i dati della missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, parla di almeno 77 attacchi terroristici rivendicati dallo Stato islamico del Khorasan nei primi quattro mesi del 2021; nello stesso periodo del 2020 erano stati 21.

Inizialmente attivo solo in alcune zone al confine con il Pakistan, l’Isis del Khorasan è poi riuscito insediarsi anche nelle province settentrionali dell’Afghanistan come Faryab e  Jowzjan. E’ composto soprattutto da pakistani ma anche da uzbeki e afghani tra cui ex Talebani.

Secondo Frank Gardner, l’esperto in materia della BBC, le relazioni tra Isis-K e il mondo dei Talebani passano attraverso quella che viene definita la “rete Haqqani”. Khalil Haqqani è il capo dei Talebani responsabile della sicurezza a Kabul. Pare che i suoi uomini insieme a quelli dell’Isis-K siano quelli che hanno liberato i prigionieri dal carcere di Pul-e-Charki dove c’erano molti detenuti ritenuti di Al Qaida e dell‘Isis.

A luglio 2019, si riteneva che il leader dell’Isis-K fosse Malawi Abdullah, noto anche come Mawlawi Aslam Farooqi. Aveva sostituito Hafiz Saeed Khan ucciso nel 2016 da un bombardamento di droni statunitense. Il 5 aprile 2020, le forze di sicurezza afghane avevano arrestato Farooqi che adesso è stato liberato.

In Afghanistan l’Isis-K combatte sia contro le truppe occidentali e le istituzioni statali sia contro i talebani ritenuti musulmani “apostati”. E’ bene ricordare che molti dei Talebani sono studenti delle scuole islamiche di ispirazione deobandi (un ceppo dell’islam di origine indiana) mentre l’Isis nel suo complesso fa riferimento al ceppo wahabita (saudita). Lo Stato islamico del Khorasan presta molta attenzione a rimarcare le differenze con i talebani, accusati di aver abbandonato la via del jihad per negoziare la pace con gli Stati Uniti e di perseguire una visione “etnica” e non universale dell’Islam.

martedì 24 agosto 2021

L'IMPERIALISMO USA IN CADUTA COSTANTE

I duri scontri che gli Stati Uniti stanno vivendo al loro interno con il redivivo Trump,il fautore del ritiro delle truppe Usa in Afghanistan che sembra essersene dimenticato,che attacca su più fronti la politica di Biden e che con le sue parole fomenta l'odio ultranazionalista statunitense,stanno decretando il tramonto per l'imperialismo americano per come lo abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi decenni.
Nell'articolo di Infoaut(global-crisis )si prendono in considerazione diversi aspetti dell'importanza globale Usa,una caduta che anno dopo anno fa perdere sempre più importanza agli "esportatori della democrazia nel mondo".
Un aspetto rilevante lo ha avuto il crollo dell'Urss e del blocco comunista europeo che era stato visto come un trionfo ma che si è rilevata un'arma a doppio taglio perché gli Usa puntavano molto,quasi tutto,sulla lotta ideologica che hanno portato avanti per decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale col capitalismo ed un rinnovato imperialismo che hanno portato più danni che altro in molti territori.
I richiami col Vietnam che si sono fatti(Trump in primis)sono più iconografici che appartenenti ad un contesto storico e bellico distante anni luce,con la carneficina dei militari statunitensi in tredici anni di guerra vera e le poche centinaia di morti di questi vent'anni che è stata occupazione.
Altro tema affrontato è quello della volontà propria della maggior parte degli afgani di sentirsi meglio sotto un governo di talebani e che le migliaia di dissidenti in fuga o nascosti o che faranno bella faccia a cattiva sorte cercheranno di adattarsi o proseguire nella loro fuga,ed il cui destino è pieno di ombre e di tragedie non come quella dei profughi di comodo che si stanno aiutando a sfollare(vedi:madn i-profughiil-nocciolo-della-questione afgana ).
Si parla,e qui si va a finire proprio nel bersaglio del titolo del contributo,all'influenza sempre maggiore della Cina nello scacchiere internazionale con la Russia a rimorchio,che sono state anche le due più importanti nazioni ad avere avuto contatti con la diplomazia talebana:inoltre la Cina ha grandi interessi ed investimenti in Pakistan che dovrebbe essere lo Stato moderatore in questi mesi.
Si fa un accenno anche alla politica estera italiana che davvero conta poco al mondo e che anche di conseguenza a Kabul,nonostante un notevole impiego di risorse in vent'anni,non ha voce in capitolo a parte quella di starnazzare sui diritti umani come se già nei nostri confini non ci siano problemi di questo tipo senza guardare a settemila chilometri di distanza.

Afghanistan: Ennesima frattura nell’Impero? 

A distanza di 20 anni dall’11 settembre e dall’invasione promossa e guidata dagli USA, i talebani si riprendono il paese con una breve e vittoriosa marcia giungendo in una Kabul “arresa”.

Indignazione e sgomento stanno invadendo la stampa e le televisioni mentre lo spettro di un secondo emirato talebano diviene realtà.

L’imbarazzo della politica statunitense e occidentale è evidente, come altrettanto chiara è la goffaggine comunicativa, ma anche pratica, della ritirata in corso.

Di seguito proviamo ad evidenziare alcuni nodi che ci sembrano centrali per avviare un ragionamento sul significato del disimpegno americano dal paese e alcune prime considerazioni sulle conseguenze geopolitiche.

La fine della stagione unipolare? 

Nei vent’anni trascorsi dal lancio della dottrina Bush della “guerra preventiva”, le battute d’arresto della leadership statunitense sono state molteplici ed hanno riguardato diversi ambiti dell’ordine internazionale da loro creato.

Crisi finanziaria globale 07-08, stallo delle guerre mediorientali, ascesa cinese, il Covid-19, conflitti interni sono solo alcuni macro-temi che hanno sottratto consenso e creato minacce alla guida USA.

La cosiddetta “egemonia liberale” è entrata in crisi in ciascun suo ambito: dalla fornitura del bene “sicurezza” (dal pericolo sovietico), al funzionamento scorrevole del libero mercato globale, e infine, al rispetto delle leggi internazionali e delle istituzioni multilaterali.

Questo paradigma di governo globale, lontano dall’incarnare reali principi di cooperazione, sviluppo complessivo, e autodeterminazione per i popoli, ha rappresentato un delicato equilibrio tra gli USA e i propri alleati, funzionale nel corso degli anni ’60-70-80 nel temperare le spinte rivoluzionare interne ed esterne all’ordine incentrato su Washington.

Il primo aspetto di questo delicato equilibrio che è entrato in crisi è stata la fine della minaccia che imponeva la fornitura di una “sicurezza”. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha cambiato la natura stessa dell’ordine fondato dopo la Seconda Guerra.

Il passaggio da un’sistema bipolare ad unipolare ha cambiato radicalmente la combinazione di consenso e comando con il quale gli USA si proponevano di guidare i propri alleati e il mondo.

Come già evidenziato da Immanuel Wallerstain nel 1993, “il collasso del blocco comunista ha rappresentato un disastro geopolitico per gli Stati Uniti, in quanto ha eliminato l’arma ideologica con la quale essi impedivano alla Comunità Europea e al Giappone di portare avanti i propri interessi”.

L’avvento della “war on terror” costrinse i paesi dell’ordine liberale a far quadrato intorno alla leadership americana.  

In quest’ottica, le invasioni di Iraq e Afghanistan, mal digerite dai vassalli UE e Giappone, possono essere lette come l’apice del delirio unipolare a stelle e strisce.

Se l’Afghanistan era stato riconosciuto dalle risoluzioni ONU come problema di carattere globale per la diffusione di cellule jihadiste sul proprio territorio, la guerra in Iraq, iniziò senza alcun mandato internazionale se non la volontà americana di abbattere il regime di Saddam.

Le norme internazionali erano il perimetro nel quale gli altri attori dovevano muoversi, non gli USA.

Con l’attuazione di un’efficace politica militare di “regime change” gli Stati Uniti miravano a conseguire sinteticamente due scopi: mostrarsi simbolicamente e materialmente vincenti sul fondamentalismo islamico, designato come nuovo male dal quale “proteggere” il mondo dopo la dissoluzione sovietica e, in secondo luogo, assicurarsi ampie zone ricche di giacimenti petroliferi e minerari in un’area fondamentale in quanto ponte tra Cina, India e Medio oriente.

Lungo questi vent’anni gli equilibri del gioco tra le grandi potenze sono notevolmente cambiati.

Con intensità e ambizioni differenti, Russia, Cina, ed Iran svolgono un ruolo più proattivo e hanno maggior peso nei propri affari regionali.

La Turchia, membro NATO, ha intrapreso un proprio percorso egemonico regionale nel mediterraneo, tra l’altro con una forte connotazione religiosa.  

L’economia globale è sempre meno imperniata sull’occidente e l’accumulazione, soprattutto per le classi medie occidentali, è fortemente minacciata da almeno tre grandi tensioni: concorrenza dell’Asia orientale, una stasi di sovrapproduzione (approfondimento qui), infine dall’inestricabile volontà capitalista di creare monopoli che fuggano concorrenza e competizione per massimizzare i profitti.

Tutto ciò non può certo essere unicamente attribuito alle invasioni di Iraq e Afghanistan, ma è indubbio che esse si siano rivelate dei boomerang economici e geopolitici.

Per quanto concerne il primo aspetto, basti pensare che la spesa USA nel solo conflitto afghano si aggira intorno al trilione di dollari.

Buona parte finanziata con i pagherò del tesoro americano che prosegue ad indebitarsi tramite l’infinita (?) espansione monetaria (emissione di moneta), che sta caratterizzando tutto il XXI secolo.

In secondo luogo, vale la pena ricordare che in Iraq, la destituzione del dittatore sunnita Saddam Hussein ha innescato otto anni di guerra civile, conclusi con la costituzione di un esecutivo espressione della maggioranza sciita.

Il forte sentimento anti-americano nelle popolazioni di ogni confessione ed etnia ed il “naturale” avvicinamento dei vertici sciiti verso l’Iran sono solo due elementi che mostrano chiaramente l’arretramento degli interessi americani nell’area.

A questo proposito è necessario menzionare come la “risoluzione” del conflitto civile siriano iniziato nel 2011 stia procedendo con gli Stati Uniti che recitano un ruolo secondario se non marginale.

Essi infatti sono assenti dal tavolo di trattative di Astana, dove prendono parte Turchia, Iran, Siria di Assad, Russia, e forze sunnite para-jihadiste ancora sparse per la Siria orientale.

Gli sceriffi del globo sono stati pressoché espulsi da un’area del pianeta.

Il delirio unipolare, così come concepito nel corso degli anni ’90, sembra essersi evoluto verso una nuova postura “isolazionista”. Tuttavia, con questo termine non si intende un arretramento delle ingerenze americane e/o un disinteresse per le questioni globali, ma l’interruzione di cooperazione internazionale e sottrazione dagli ambiti multilaterali quando questi non sono limpidamente garanti del perseguimento dell’interesse USA. Il caso recente del de-finanziamento dell’organizzazione mondiale della Sanita (OMS) può essere un buon esempio.

Dire che non ci saranno altri Afghanistan sarebbe ingenuo, tuttavia tesoro e opinione pubblica statunitense difficilmente supporterebbero e sopporterebbero altre débâcle.

Le guerre in medio-oriente “americane” devono finire non solo per la manifesta inadempienza ad ogni promessa di risultato umanitario ma anche per la necessità di allocare risorse economiche e militari su nuovi fronti.

Il fronte della transizione ecologica, con la riconfigurazione della ricerca estrattiva, potrebbe essere il nuovo terreno di confronto “fisico” della lotta inter-capitalista globale.

Torniamo alla domanda iniziale del titolo. L’Afghanistan rappresenta una nuova frattura nell’impero USA?

Da una certa angolatura, la risposta non può essere che si.

Tuttavia, delineando le difficoltà e i contraccolpi subiti dalla leadership statunitense si rischia sempre di cadere nella trappola che Susan Strange, definiva come “il persistente mito dell’egemonia persa dagli Usa.” (The persitent myth of lost hegemony).

L’autrice marxista, già nel 1987, sosteneva che l’egemonia statunitense poteva nutrirsi anche del caos da essa stessa scatenato, l’insicurezza e le minacce globali sarebbero servite a rinsaldare le fila degli alleati e aumentare il potere strutturale degli Usa, sia esso militare sia esso monetario tramite il dollaro.

La capacità degli Usa di continuare a governare la civiltà mondo-capitalista rimane una domanda centrale che continuerà a rappresentare un asse focale del sistema che affrontiamo.

Non possiamo ancora farci abbagliare dall’avvento di un secolo “cinese”, dicotomia atta ad alimentare una coesione interclassista contro il pericolo “giallo”, ma dobbiamo indagare cosa ci imporrà l’attuale frattura tra il potere economico dell’Asia orientale, e non della Cina, e lo strapotere militare degli Usa.

Non è Saigon.

Com’è noto, le condizioni per avviare l’invasione dell’Afghanistan nascono con l’attentato del 11 settembre. Meno di un mese dopo, l’aviazione USA e inglese inizia i bombardamenti sulle maggiori città afghane alla ricerca delle basi di Bin Laden e Al Qaeda. A novembre dello stesso anno, la spedizione occidentale conquista il paese.

Bastano queste poche righe ad evidenziare quanto le immagini della farraginosa ritirata di oggi dell’aeroporto di Kabul e quelle di Saigon del 30 aprile 1975 siano assimilabili solo da un punto di vista fotografico.

In Vietnam, le forze militari americane, come ampiamente riconosciuto nei famosi “Pentagon Papers”, non hanno quasi mai avuto la possibilità di respingere la riunificazione del Vietnam guidata dalle forze comuniste di Ho Chi Minh.

Il conflitto, dall’ingresso americano (1962), si è protratto 13 anni unicamente per la volontà americana di non conseguire una sconfitta militare e per paura di innescare un “effetto dominio” che desse slancio alle miriadi di movimenti comunisti sparsi per il mondo.

In Afghanistan, gli occidentali hanno vinto la guerra in poche settimane, per poi ritrovarsi per le mani un paese utile solamente a riaffermare il proprio dominio sull’area, senza nessuna idea o volontà di investire nella ricostruzione o di aumentare il benessere di trenta milioni di persone che vivevano costantemente in guerra da 30 anni (oggi 40).

Anche per quanto concerne l’opinione pubblica americana, il ritiro da Kabul e quello da Saigon sono molto distanti.

Nel conflitto vietnamita morirono 60 mila soldati americani appartenenti ad un esercito di leva, e gli Stati Uniti dovettero fronteggiare un imponente movimento pacifista interno. Mentre nei 20 anni di occupazione afghana i morti americano sono stati 2000 (3000 quelli dell’intero contingente).

Le vittime afghane sono state 243 mila.

Il “teatrino” Afghano

Il teatrino alla ricerca di Bin Laden e dei covi di Al Qaeda è andato avanti per anni, mentre il paese viveva una condizione di occupazione dove il celebre “state-building” veniva espresso da una corruzione diffusa e tramite una continua concertazione con le forze jihadiste sul campo.

Molte aree periferiche dell’Afghanistan hanno continuato a vivere seguendo la legge islamica lungo tutto il conflitto sottraendosi alle istituzioni e alle dinamiche di Kabul.

A questo proposito è sempre necessario menzionare come il territorio che oggi costituisce l’Afghanistan “moderno” sia il risultato degli scontri imperialistici lungo il XX secolo, tra Russia zarista e sovietica, ottomani e britannici.

Una terra che è stata crocevia di culture e migrazioni per millenni, con le conseguenti profonde differenze etniche e religiose tra le differenti regioni del paese, province tra loro “frammentate” dalla presenza dei più grandi massicci montuosi del pianeta (Hindu Kush).  

Una terra e i suoi popoli che da decenni risultano essere un enigma per tutti gli invasori, sovietici compresi.

Prendere Kabul non vuol dire prendere l’Afghanistan, ma d’altronde nessuno voleva veramente prenderlo.

Questo rende più semplice comprendere come i talebani da almeno dieci anni abbiano ricominciato a costruire relazioni e accantonare forza nell’attesa dell’inevitabile ritiro occidentale.

Il confine con il Pakistan è un confine poroso, nel sud-est del paese, i talebani hanno atteso e organizzato il loro rientro in scena.

Russia e Cina: pericolo “giallo” e scontro di civiltà. 

Scaricare le responsabilità per ogni insuccesso “occidentale” su Russia e Cina sarà la narrazione comunicativa dei politici e della stampa occidentale per gli anni avvenire.

Nel contesto pandemico, i vaccini prodotti da Russia e Cina, che sembrano avere bene o male le stesse problematiche e utilità di quelli made in USA, sono stati bollati come veleno al cianuro.

Le dichiarazioni dei capi di Stato sull’emergenza climatica trattano sempre meno nel merito il problema delle emissioni e sempre più il fatto che la Russia, la Cina, e bisogna aggiungere l’India in questo caso, boicottino le iniziative multilaterali per salvare il pianeta.

Ovviamente, le responsabilità sono ben condivise tra tutte le élite nazional-capitaliste ma ogni attore tenta di scaricarle verso l’esterno. In Cina, ad esempio, l’ingerenza statunitense viene sempre più sbandierata dai media nazionali per rafforzare una coesione identitaria che anestetizzi le tensioni sociali interne.

Per quanto riguarda la “ritirata afghana”, si tenta di narrare la rapida avanzata talebana come il risultato di un favoreggiamento promosso in concertazione da Putin e Xi Jinping.

Falsità che la Russia e Cina rispediscono al mittente sottolineando di aver anche supportato in principio l’invasione americana.

Nel lontano 2001, la Cina, ben lontana dal rappresentare il compitor di oggi, supportò anche in sede di consiglio di sicurezza dell’ONU (risoluzione 1386) l’idea della guerra al terrorismo islamista.

Da una parte, è necessario menzionare che quella votazione avvenne appena 9 giorni dopo l’accettazione cinese all’interno dell’organizzazione mondiale del commercio (11 dicembre 2001).

Non è speculazione pensare che l’allineamento cinese fosse necessario nell’ottica di mostrarsi un player affidabile per i capitali occidentali.

Dall’altra parte, Il Partito Comunista Cinese ha sempre considerato un problema la presenza delle minoranze turcomanne islamiche nelle zone occidentali del proprio paese.

Il popolo Oiguro, gli abitanti dello Xinjiang, sono sempre stati duramente repressi e discriminati da Pechino che ha ultimamente rincarato la dose nell’ottica di aumentare il numero di infrastrutture nelle province interne: la celebre “nuova via della seta”.

Ad oggi, che la Cina sorrida per l’ennesima figuraccia statunitense non c’è dubbio. Ogni danno al “consensus” di Washington può migliorare l’immagine di Pechino.

Lavrov e Wang Xi, rispettivamente ministro degli esteri russo e cinese, hanno incontrato delegazioni talebane.

La stessa cosa che stanno facendo da anni gli americani nell’ambito dei tavoli diplomatici di Doha (Qatar) dove lo scorso anno (29 febbraio 2020) Donald Trump ha firmato accordi per il ritiro delle truppe americane entro 14 mesi al quale sarebbe seguito un ritorno al potere dei talebani.

Lo stupore delle cancellerie occidentali è una farsa.

Tuttavia, la postura cinese non è assolutamente disinteressata e a differenza del mondo occidentale, Pechino ha già le idee chiare su cosa farsene di un Afghanistan nella propria sfera d’influenza.

Ci sono almeno due aspetti da sottolineare:

In primis, un accordo con i talebani permetterebbe ai cinesi di indebolire il “nemico interno” oiguro tagliando a questi ultimi i legami con degli alleati storici, che a breve saranno nuovamente in possesso di una terra franca per l’internazionale jihadista.

In secondo luogo, i cinesi stanno cercando attraverso “la nuova via della seta” e la Asian Investment and Infrastructure Bank (AIIB) di dotare di infrastrutture l’intera area centrale della piattaforma asiatica attraverso la creazione di corridoi stradali, gasdotti e oleodotti che garantiscano al paese l’indipendenza energetica senza la necessità di transitare per l’oceano indiano, dove lo strapotere navale statunitense è ancora netto.

In Italia

Concludiamo con qualche battura sul solito circo della politica italiana.

La politica italiana è divisa tra chi fa a gara a strillare contro i profughi in arrivo, che al momento si trovano a circa 7.000 km dai nostri confini, e chi è già vedova dell’invasione più fallimentare di sempre.

Oltre la guerra, sul corpo delle donne afghane, si sta perpetrando la strumentalizzazione della loro condizione per stimolare lo sdegno di una paternalista comunicazione giornalistica.

Non esistono talebani moderati così come non esistono teocrazie non patriarcali.

In Afghanistan si tornerà ad applicare una legge islamica simile a quella del nostro alleato Saudita.

Eppur per l’Arabia si parla di “Rinascimento”.

Draghi si dà un tono con telefonate ai leader che contano per aggiornare l’agenda dei G7 e G20, quest’ultimo in programma a Roma.

Sulle colonne del Corriere della Sera, il Professor Angelo Panebianco, noto guerrafondaio suprematista occidentalocentrico, scomoda Huntington e “lo scontro di civiltà”, paventando all’orizzonte un’alleanza tra Jihadismo, Comunisti cinesi e Russi pronto a distruggere il “mondo libero”.

Ogni ulteriore peggioramento delle nostre condizioni di vita verrà sempre più intimamente legato all’ascesa di altri paesi e dei movimenti islamisti al fine di creare una coesione identitaria mortifera per un riscatto globale e il superamento della società capitalista.

Così come loro, anche noi dobbiamo tornare ad aggiornare la nostra agenda, a rifiutare la guerra e le dicotomie narrative della controparte siano esse Usa contro Cina, o talebani versus eserciti stranieri.

venerdì 20 agosto 2021

LA NUOVA PRESCRIZIONE

C'è stato uno stallo per quanto riguarda le notizie sulla riforma della giustizia voluta dalla ministra Cartabia che dopo qualche mese di vita di quella voluta dall'ex ministro Bonafede rimette molto in discussione e della quale si è già parlato in quanto a detta degli addetti al lavoro favorirebbe maggiormente chi delinque(vedi:madn istigazione-delinquere ).
Il lungo articolo e anche un poco difficile da capire almeno per me in quanto ricco di arzigogolare proprio degli avvocati,parla soprattutto della prescrizione e dell'incostituzionalità della proposta di legge che praticamente è stata già approvata(left macelleria-giudiziaria )
Ma ci sono anche altri temi come gli appelli,la digitalizzazione telematica,le priorità e le indagini preliminari oltre che pene sostitutive e querele,ma è la prescrizione che secondo la ministra non significa impunità che è il tema forte trattato nel contributo.
Come paventato saranno comunque i più abbienti a districarsi alla meglio nelle maglie delle nuova giustizia riformata,che potranno vedersi assolti ancora in più breve tempo e che usufruiranno tramite i loro avvocati di tutti i privilegi cui hanno da sempre attinto.
Del resto non si parla molto delle condizioni disperate delle carceri e di chi è dentro,sia condannati che lavoratori,e nemmeno di tutte le persone che lavorano nei tribunali e che sono oberati di lavoro e costretti ad una burocrazia che dicono verrà snellita ma c'è già chi ha forti dubbi a proposito.

Macelleria giudiziaria

di Left Redazione

Per ridurre la durata dei procedimenti - invece ricorrere per es. al potenziamento dei riti alternativi e delle depenalizzazioni - la "riforma Cartabia" conferma l'accanimento contro la prescrizione, uno degli istituti che garantiscono i cittadini dall’uso della forza da parte dello Stato

Anche l’ultimo studente di diritto sa che la prescrizione è un correttivo e un contenimento al potere repressivo dello Stato, e anche l’ultimo degli operatori del diritto sa, invece, che la prescrizione è il pungolo per accelerare i procedimenti evitando che si neutralizzino nella estinzione per l’eccessivo decorso del tempo.

Eppure la riforma del processo penale arrivata alla Camera nel luglio scorso (ovvero il Ddl 2435/21 recante la “delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”), che si propone di ridurre del 25% la durata dei procedimenti ricorrendo al concetto di “improcedibilità”, conferma l’accanimento contro l’istituto della prescrizione, dal momento che ormai l’opinione pubblica è stata indotta ritenere che sia il fulcro di tutte le ingiustizie, il punto debole dell’intero apparato normativo e giudiziario, e che, risolto quello, tutto il resto può essere annoverato tra le quisquilie risolvibili. Gli emendamenti introdotti dalla Cartabia sul ddl di Bonafede non sono migliorativi di una pessima riforma e deprimono il sistema giudiziario su aspetti ancora più preoccupanti.

Ogni volta che un processo con imputati eccellenti si è concluso con la pronuncia di prescrizione, anche grazie alla complicità di un giornalismo d’accatto, l’opinione pubblica è stata indotta a credere che la prescrizione fosse un istituto giuridico inserito nel sistema processuale per salvare i potenti dalle responsabilità, sicché la “riforma Bonafede” entrata in vigore l’1 gennaio 2020, oltre a rafforzare questa miope interpretazione, ha avuto come conseguenza quella di distogliere le persone comuni da una seria riflessione sulla responsabilità dello Stato e sulla necessità di intervenire con efficienza sul funzionamento dell’intero sistema giudiziario.

La “prima” riforma della prescrizione voluta da Bonafede è servita a dare soddisfazione alle “pulsioni” giustizialiste di magistrati in cerca di telecamere, alla frustrazione di masse forcaiole, e soprattutto all’ambizione di politici in malafede, mentre i dati sullo stato comatoso dei procedimenti penali non subiranno significative variazioni. I dati tratti dal ministero di Giustizia dicono che circa 125mila procedimenti l’anno si risolvono con prescrizione, ovvero circa il 12% dei procedimenti, di cui 56mila si prescrivono perché le procure arrivano in ritardo a formulare le imputazioni.

Quasi tutti i 125mila procedimenti riguardano reati minori, ed hanno come protagonisti persone comuni che sono incappate nelle maglie della giustizia per reati non gravi, spesso legati a situazioni di disagio economico e sociale, ma spesso legati anche ad azioni di protesta e dimostrative, e che a causa della lentezza della macchina giudiziaria, restano appesi ad un processo per anni.

La prescrizione nel nostro ordinamento è un diritto che non è legato in maniera semplicistica ai meccanismi che regolamentano il processo, perché la prescrizione non ha valenza processuale, ma sostanziale, e come tale è legata al principio di legalità. Il principio di legalità è un principio cardine di tutti gli Stati democratici e garantisce i cittadini dall’uso della forza da parte dello Stato. Se si considera che il diritto penale di per sé è repressivo, il principio di legalità è fondamentale per impedire gli abusi da parte del potere esecutivo, ed eliminare la prescrizione significa legittimare l’abuso repressivo dello Stato.

Smantellare la prescrizione è stato uno dei molteplici passaggi, messi in atto da tempo, per smantellare le garanzie democratiche con il consenso popolare. Abbiamo già leggi repressive, abbiamo già carceri fatiscenti e oppressive, abbiamo forze dell’ordine addestrate alla tortura, abbiamo le maggiori organizzazioni politiche (Lega, PD e Fratelli d’Italia, con il M5S in via di dissolvimento dopo aver fatto da stampella alle altre) sodali delle cd. lobby finanziarie e imprenditoriali, pronte a svendere i nostri diritti come se fosse l’unica loro missione.

Ebbene, di fronte a tutto questo diventa puro masochismo condividere lo smantellamento delle garanzie del sistema penale. Quando viene sbandierato l’esempio di come funziona la prescrizione negli altri Paesi, come sempre accade, la comparazione diventa un fuor d’opera, posto che negli altri Paesi i processi durano un terzo del tempo medio dei processi celebrati in Italia. Il profilo di incostituzionalità generale – che sfugge ai pentastellati ma non solo – risiede nel fatto che ogni persona, in uno Stato di diritto, deve conoscere il tempo entro il quale sarà giudicata la sua responsabilità penale, e non è concepibile, soprattutto in un contesto di grave lentezza nella celebrazione dei processi come quello italiano, inserire un meccanismo che si traduca in un “fine processo mai”.

La riforma Bonafede, monca nell’inquadramento sistematico, e pregna di finalità di basso profilo, ha avuto una prima modifica dopo meno di un anno sicché l’interruzione del decorso della prescrizione al termine del primo grado del giudizio è stata esclusa per le sentenze di assoluzione, rimanendo solo per le sentenze di condanna, maturando in questo caso, un ulteriore e diverso profilo di incostituzionalità per le conseguenze differenti che si determinerebbero in appello.

Per eliminare le storture dei tempi lunghi dei processi, con la “nuova” riforma del processo penale si sarebbe dovuto agire sul diritto penale e su quello processuale all’interno di una coerente riforma complessiva, con il potenziamento dei riti alternativi e delle depenalizzazioni, e non certo andando ad incidere su singoli istituti giuridici con il fine apparente di accorciare i tempi dei processi ma con la finalità sottesa di elidere le garanzie di difesa, tanto invise a pubblici ministeri in favore di telecamere.

I tecnicismi contenuti nella riforma Cartabia sulla domiciliazione dell’imputato assente, sull’acquisizione delle videoregistrazioni delle dichiarazioni delle persone informate sui fatti, sulla digitalizzazione e sugli adempimenti telematici, non incidono in maniera significativa sulla durata dei processi, anzi è assai probabile che le fasi di transizione renderanno i tempi ancora più lunghi.

Il disegno di legge dell’ex ministro Bonafede ha annoverato criticità rozze ma ha spianato la strada agli emendamenti presentati dal governo il 14 luglio scorso attraverso la ministra Cartabia che non si è fatta scrupolo di assestare un bel colpo alle garanzie dell’impugnazione in appello. E questo è forse politicamente l’aspetto più pretestuoso dell’intera operazione di riforma portata avanti dagli ultimi due ministri di Giustizia, dal momento che vi sono stati inseriti inutili tecnicismi, come ad esempio il mandato specifico al difensore per la proposizione d’appello, volti a rendere più difficoltosa la difesa per chi, generalmente, si affida a difensori d’ufficio, occasionalmente incaricati, e dunque parliamo di persone generalmente in fragilità sociale.

Altro passaggio critico della “riforma Cartabia” è la ghigliottina della improcedibilità che dovrà essere dichiarata dai giudici delle Corti d’Appello ove il procedimento non si concluda in due anni, e dalla Cassazione ove il procedimento non si concluda in un anno, con tempi prorogabili in determinati casi, e che comunque non sembra essere espressione di organicità e razionalità, quanto piuttosto una sforbiciata nel mucchio.

Un istituto inutile sarà sicuramente l’udienza filtro, un altro escamotage di cui non si stenta, sin da ora, a dichiararne l’inutilità con inevitabile allungamento dei tempi. Resta però il nodo più pericoloso e più demolitore del nostro sistema, inserito in sordina come necessità emergenziale, ma in realtà è il cavallo di Troia per la demolizione della tripartizione dei poteri. La rappresentanza, intesa come suprema espressione della sovranità popolare, è stata già neutralizzata con la riduzione del numero dei parlamentari mentre il potere legislativo è stato neutralizzato, di fatto, con la decretazione emergenziale dell’esecutivo. Il potere esecutivo si è già sovrapposto al potere legislativo, e ora, con questa riforma, si appropria anche del potere giudiziario attraverso un codicillo di cui, ovviamente, non si parla.

Tra gli emendamenti proposti dalla ministra Cartabia è stata inserita la proposta di affidare al Parlamento, che in questo passaggio sarà inevitabilmente condizionato dall’esecutivo, di stabilire i criteri generali di priorità dell’esercizio dell’azione penale, mandando a farsi friggere il principio democratico della obbligatorietà della azione penale.

Si affida dunque alle maggioranze parlamentari di turno l’indicazione di quali reati perseguire e quali no, in una deriva che, lungi dall’incidere sui tempi dei processi, in realtà va a minare l’attuale assetto dei rapporti tra i poteri dello Stato, sottomettendo la magistratura al potere esecutivo.

In questo pasticcio normativo, le conseguenze saranno scaricate sull’avvocatura che però non riuscirà a ridimensionare gli esiti nefasti di questa pessima riforma, scontando una farraginosità rimasta intatta, a fronte di norme che rendono più difficoltosa la difesa dei più deboli.

Quando nel 2020 è stata introdotta la riforma Bonafede che ha inserito nel diritto penale l’obbrobrio giuridico dell’interruzione del decorso dei tempi di prescrizione dal termine del primo grado di giudizio, tutti hanno gridato “olè” come quando il toreador infilza il toro morente. Solo che il toro doveva essere salvato e non ucciso, e il toreador in realtà era un brutale macellaio.

Torna alla mente Dick, il macellaio rivoluzionario che nell’Enrico VI di Shakespeare profetizzava: “Per prima cosa ammazzeremo tutti gli avvocati”, ma non riuscì nell’intento perché morì per primo, insieme ai suoi seguaci.

– L’autrice: Carla Corsetti è avvocato e segr. naz. Democrazia atea

giovedì 19 agosto 2021

I PROFUGHI:IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE AFGANA

La situazione in Afghanistan,dalle testimonianze che arrivano principalmente da Kabul e da poche altre località,pare che stia precipitando verso un abisso sempre più profondo dopo che ormai i talebani sono giunti al potere dopo poche settimane dalla partenza del contingente americano e di quelli delle nazioni soggiogate ad essi(vedi:madn i-talebani-verso-il-potere-in afghanistan ).
Quello che trapela dall'informazione occidentale che è differente da quello che arriva dalle altre parti del mondo,Russia e Cina comprese,martella sull'esodo di centinaia di migliaia di afgani che in fondo è il nocciolo del problema dell'occidente.
Considerato il fatto che il paese è ricco di terre rare,l'unico interesse economico già in parte sfruttato assieme alla coltivazione del papavero d'oppio,fondamentalmente del destino delle donne e dei bambini e delle persone che non vogliono vivere sotto una dittatura islamista non gliene frega a nessuno:quello che il mondo occidentale non vuole è un'altra invasione di profughi,chiaro e netto.
Nonostante la maggior parte degli Stati europei e del Nord America sia disposto ad accettare rifugiati dall'Afghanistan,soprattutto quelli raccomandati che viaggiano in aereo da Kabul,la grandissima maggioranza di chi vorrebbe fuggire hanno davanti loro un'impresa mostruosa fatta di pericoli e di miserie,di tragedie e di morte,ma anche su questo chi lucra si sta fregando le mani.
L'articolo di Left(commuovetevi-ma-da-lontano )parla del dramma umano e soprattutto di cosa la politica italiana sta parlando e proponendo,con un Pd e il vecchiume(Berlusconi)che hanno sostenuto la guerra per vent'anni e che ne vogliono uscire con una nuova verginità,e la solita destra che non vuole l'ennesima invasione confondendo sempre il rifugiato-profugo con l'immigrato lavoratore-clandestino.
I talebani dichiarano come se fosse una barzelletta di un nuovo governo inclusivo,con anche le donne sempre secondo le regole islamiche,praticamente un ossimoro,e sono curioso sul fatto che vogliano liberare la nazione dalla droga,dall'oppio su cui ci sono accordi internazionali con tutti i paesi(Usa compresi,anzi i maggiori interessati)e che consiste in una delle voci principali dell'economia afgana.
La situazione comunque si evolve giorno dopo giorno in un contesto dove le colpe e le accuse si sprecano così come le parole di preoccupazione e di cordoglio,in una vicenda dove il mondo occidentale ha influito in maniera devastante e dove una buona fetta della popolazione è dalla parte dei "cattivi".

Commuovetevi ma da lontano.

di Giulio Cavalli 

Il tempo della commozione è finito. «Nessuno ci venga a parlare di accogliere decine di migliaia di afghani», dice Matteo Salvini. E qui si torna al punto di partenza: le regole di quest'epoca impongono di empatizzare solo con quelli che non possono turbare il nostro quotidiano

Piaciuta la scenetta della commozione per gli afghani? Ognuno alla sua maniera, com’è nelle cose. Ci sono Salvini e Meloni che si sono subito schiantati contro i talebani “tagliagole” (con quella loro solita narrazione da favola raccontata sempre con personaggi improbabili perfino per una favola) ma si sono dimenticati che i “tagliagole” sono gli amici del loro amico Putin. Ma Salvini e Meloni, si sa, si sbriciolano già al secondo grado di separazione. Nel centrosinistra si sono dimenticati di avere sostenuto questa inutile guerra solo per 20 anni (ve lo ricordate Rutelli come la rivendicava?), Berlusconi si è perfino dimenticato di essere stato proprio lui a mettere la fiducia sulla guerra mentre era presidente del Consiglio. Comunque, piaciuta la scenetta della commozione per gli afghani? Tenetela bene a mente, salvatevi le foto perché è già finita.

Ieri il presidente Mario Draghi e Angela Merkel hanno deciso sulla protezione umanitaria di quanti hanno collaborato con le istituzioni italiane e tedesche in questi anni. «Proteggeremo chi ha lavorato con noi», ha detto Draghi, perché evidentemente non si riesce proprio a dismettere questo vizio di considerare i disperati mica per la loro disperazione ma sempre in base alle classiche domande del “chi ti manda? di chi sei amico? cosa hai fatto o cosa puoi fare per noi?”. Poi hanno corretto il tiro dicendo che si occuperanno anche «delle categorie più vulnerabili, a partire dalle donne afghane». Tutto bellissimo se non fosse che di donne afghane in Europa a cui è stato negato lo status di rifugiate (quindi tecnicamente che dovrebbero essere riportate su un vassoio nella bocca dei talebani) ce ne sono negli ultimi 12 anni 30mila donne adulte, 21mila bambine e 4mila ragazze tra i 14 e i 17 anni. Il 76% di loro è ancora in Europa (eh sì, perché il 24% è stato rimandato lì dove ora incombe l’orrore) e forse sarebbe il caso di cominciare pensando a loro, subito.

Ma quindi? L’accoglienza e l’aiuto di cui tutti parlavano fino a qualche ora fa? Dall’Anci fanno sapere che «i sindaci italiani sono pronti a fare la loro parte nell’accogliere le famiglie afghane». Matteo Biffoni, delegato Anci per l’immigrazione, spiega che «non c’è tempo da perdere, sappiamo bene come i civili che hanno collaborato con le nostre missioni in Afghanistan oggi siano in forte pericolo, soprattutto donne e minori. Il governo si sta muovendo per salvare vite umane, attraverso l’azione delle prefetture sul territorio e i sindaci mettono a disposizione la propria esperienza, per questo abbiamo scritto al ministro dell’Interno Lamorgese e abbiamo avvisato il ministero della Difesa». E specifica: «Dobbiamo essere molto concreti. Sarà la storia  a dare un giudizio su questi ultimi vent’anni di presenza militare in Afghanistan, oggi siamo consapevoli che è il momento di aiutare il governo a mettere in salvo vite umane». E sapete chi ha risposto all’Anci? Naturalmente Matteo Salvini che tuona: «Accogliere in Italia alcune decine di persone che hanno collaborato con la nostra ambasciata mi sembra doveroso, ma che nessuno ci venga a parlare di accogliere decine di migliaia di afghani. In Italia abbiano già accolto 35mila clandestini, gli altri Paesi europei facciano il loro». Gli sciacalli hanno dismesso i panni dei piangenti e sono tornati nelle loro vesti. Facile, prevedibile, liscio.

Del resto è comodo lanciare appelli, poi c’è sempre il tempo per farli intiepidire. Commuovetevi ma solo da lontano: nel Mediterraneo friggono sotto il sole 488 persone a bordo delle navi ResQ People e Geo Barents. Sono qui, a poche miglia dalla costa. Qui e ora. E sono i disperati che vomiterà l’Afghanistan nei prossimi mesi, sono della stessa pasta, dello stesso dolore. E qui si torna al punto di partenza: le regole di quest’epoca impongono di commuoversi e empatizzare solo con quelli che non possono turbare il nostro quotidiano. Un distanziamento affettivo, oltre che sociale, come quello che abbiamo imparato con il virus. Così si rimane tutti disinfettati. Deve essere una nuova forma di sovranismo: il sovranismo della commozione. Ci si commuove solo per quelli che non hanno modo di suonare il nostro citofono. Se arrivano sotto casa sono colpevoli di non essere morti e quindi ci siamo commossi per niente.

Buon mercoledì.

martedì 17 agosto 2021

SERVE URGENTEMENTE LA LEGGE CONTRO LE DELOCALIZZAZIONI

Una delle pagine delle cronache estive italiane riguarda sicuramente,anche se in secondo o addirittura in terzo piano,quello delle aziende che chiudono o che vorrebbero farlo un poco in tutto il paese,con una maggioranza rilevante di industrie con un cospicuo numero di addetti e che vogliono delocalizzare i loro impianti anche se in positivo.
Per via degli operai salariati queste fanno da cassa di risonanza anche per le altre centinaia di piccole industrie che hanno decine di lavoratori o giù di lì che non hanno la possibilità di farsi sentire a livello nazionale.
Quelle di cui si sente parlare maggiormente sono la Whirpool di Napoli e la Gkn di Campi Bisenzio e sono numerose le richieste di molte parti politiche per una legge chiara e risolutiva contro le delocalizzazioni verso altri stati con manodopera più addomesticabile e senza molte pretese salariali.
Nello specifico l'articolo(contropiano la-lezione-del-caso-florange-in-francia )suggerisce all'esecutivo come non agire tenendo conto del caso delle legge Florange francese che voleva essere un chiaro ammonimento,quasi una minaccia,nei confronti soprattutto delle multinazionali estere che investivano in Francia con accordi stipulati nero su bianco,e che man mano che l'iter burocratico è passato ha perso importanza ed è divenuta una legge edulcorata e facilmente assecondabile tanto da salvare numerose aziende approfittatrici.
Vi sono elencati vari casi e varie transizioni del testo legislativo,da promesse elettorali mai mantenute a continue concessioni parlamentari alla destra passando a tradimenti di accordi a migliaia di licenziamenti e vere e proprie truffe pagate dallo Stato.

Una legge contro le delocalizzazioni? La lezione del caso Florange in Francia.

di  Potere al Popolo   

Pubblichiamo questo breve riassunto della storia della cosiddetta “Legge Florange” francese. Si tratta di una legge varata nel 2014 dal governo di centrosinistra francese volta a frenare le delocalizzazioni delle multinazionali. 

E’ su questa legge che il Governo Draghi vorrebbe basarsi per rispondere alle delocalizzazioni come quelle di Whirlpool a Napoli o della GKN a Campi Bisenzio in provincia di Firenze. 

Conoscere la storia di questa legge serve a chi oggi lotta contro le delocalizzazioni e contro la distruzione dell’occupazione e del tessuto produttivo in Italia per capire cosa c’è dietro la proposta del Governo, evitare di cadere nei vecchi errori e contribuire cosi alla definizione del “che fare” comune a noi lavoratori e lavoratrici.

*****

1. Febbraio 2012. Durante la campagna presidenziale, l’allora candidato socialista François Hollande promette ai lavoratori degli altiforni dell’acciaio della Arcelor-Mittal di Florange, minacciata di chiusura, di salvare la loro fabbrica se verrà eletto.

Sacrificati sull’altare della redditività dal gigante mondiale dell’acciaio, l’indiano Lakshmi Mittal, almeno 629 i lavoratori rischiano di ritrovarsi disoccupati.

2. Poco dopo l’elezione di Hollande alla presidenza della repubblica però, nell’inverno 2012-2013, l’allora primo ministro Jean-Marc Ayrault decide di favorire i negoziati con Mittal, il multimiliardario che raramente ha mantenuto degli impegni presi nei confronti degli Stati. Sconfessa così Arnaud Montebourg, il suo ministro per la ripresa produttiva, che aveva sostenuto una nazionalizzazione temporanea del sito, e causa una grave crisi ai vertici dello Stato.

3. Dicembre 2012. Finiti i negoziati con il governo, un accordo sociale è concluso tra il governo e la direzione della multinazionale e firmato dai sindacati cfdt e cfe-cgc. Le confederazioni cgt e fo, più a sinistra, rifiutano di firmare l’accordo preparato del governo e l’azienda, che prevede la chiusura degli altiforni per il 2013, la ricollocazione dei 629 operai e investimenti di Arcelor-Mittal nel resto del sito di Florange e nella ricerca strategica per la modernizzazione della siderurgia.

4. Per tentare di rimediare a quella che viene vista dalla maggior parte dell’opinione pubblica come un tradimento, oltre che per tentare una risposta legislativa al dissanguamento del tessuto produttivo francese (si stimano a mezzo milione i posti di lavoro persi dell’industria francese tra il 2006 e 2015), il governo si mette a lavorare su un progetto di legge che mira a impedire le delocalizzazioni.

La Loi Florange — “legge per ridare delle prospettive all’economia reale e all’occupazione industriale” — viene adottata a febbraio 2014 dal parlamento francese. La maggioranza ha abbandonato l’idea iniziale di obbligare le aziende a cedere le loro unità di produzione.

Le aziende di più di 1000 dipendenti sono solo obbligate a “cercare un acquirente in caso di un piano di chiusura di uno stabilimento” e ad informare adeguatamente i dipendenti. Tuttavia, possono rifiutare tutte le offerte di acquisizione, a condizione che giustifichino per iscritto che mettono in pericolo “la continuazione dell’intera attività” dell’impresa. Una soglia inoltre alta, quella di 1000 salariati, che esclude secondo i sindacati l’85% delle imprese che subiscono questo tipo di chiusure.

5. Nel caso il proprietario non si impegnasse a trovare un acquirente, la legge inizialmente prevedeva sanzioni per l’impresa, che avrebbe dovuto pagare fino a 20 volte il salario minimo annuo (ossia 28000 euro) per ogni lavoratore licenziato, nei limiti di 2% del fatturato annuo dell’impresa.

A fine marzo 2014, però, il consiglio costituzionale francese censura quest’ultima disposizione, affermando che essa sia “contraria alla libertà d’impresa e al diritto di proprietà” iscritte nella costituzione. Questa sentenza contribuisce a svuotare la legge dal suo senso originale e di renderla del tutto inefficace a lottare contro le delocalizzazioni e “ridare delle prospettive all’economia reale e all’occupazione industriale”.

Rimane solo la possibilità per l’amministrazione dello stato di avviare procedure di risarcimento nel caso in cui l’impresa in questione abbia beneficiato di soldi pubblici durante i due anni precedenti.

6. Di fatto la legge Florange ha costituito solo un freno relativo alle delocalizzazioni in Francia. Innanzitutto perché impone a tutte le grandi aziende che intendono chiudere uno stabilimento ed effettuare licenziamenti collettivi di cercare un nuovo acquirente, ma non di trovarne uno.

Ben lo sanno gli 870 dipendenti della Ford di Blanquefort, che nell’agosto 2019 ha cessato la produzione: la multinazionale americana ha fatto il minimo legale, svolgendo semplicemente ricerche formali, senza esiti positivi, per poi delocalizzare legalmente nel quadro della legge Florange.

7. Si potrebbe pensare, tuttavia, che la situazione abbia un esito positivo quando la multinazionale che delocalizza trova un nuovo acquirente e presenta un progetto di reindustrializzazione.

Prendiamo l’esempio di Whirlpool, che Il 24 gennaio 2017 annuncia la chiusura del sito di Amiens. Dopo un anno e mezzo di lotte e contrattazioni tra azienda, governo e sindacati, l’acquirente si trova, si chiama Nicola Decayeux, imprenditore e presidente della Confindustria locale. Decayeux riceve subito 2,5 milioni dallo Stato, che ne promette altri 1,5 a verica del “buon stato di salute economica” della WN, e 7,4 milioni di euro dalla Whirlpool, che arriva perfino a pagare pur di scaricare il barile nelle mani di altri. 

Il governo si affida ingenuamente a simili uomini di affari. Risultato: nasce una nuova azienda che dovrebbe riconvertire lo stabilimento ormai Ex Whirlpool e mantenere 164 operai su 282. Tra i più di 100 licenziati erano compresi tutti i sindacalisti e gli operai più combattivi che hanno guidato la lotta negli anni passati.

Ma le cose in fabbrica non vanno come dovrebbero. Lo stabilimento non produce, i 164 operai superstiti non sono messi nelle condizioni di lavorare. Dopo un anno, la nuova azienda (la WN) dichiara fallimento. I 7,4 milioni di euro scompaiono in paradisi fiscali, la riconversione si rivela una truffa. Tutto ciò nel quadro legale della legge Florange. 

Questo caso ci ricorda quelli tristemente noti in Italia della Ex Embraco di Riva o della Blutec di Termini Imerese.

venerdì 13 agosto 2021

GINO STRADA

Ha raggiunto il termine terreno la vita di Gino Strada,che senza retorica e senza mandarla mai a dire si è sempre prodigato per gli ultimi,una vita passata in zone disastrate dalle guerre e dalle calamità naturali,luoghi dove la morte la faceva da padrona e lui con la famiglia sempre più allargata di Emergency la combatteva sul campo,in prima linea(vedi:madn chi-aiuta-e-chi-ammazza ).
E non solamente col suo lavoro di medico ma anche con i suoi interventi politici,sempre e solo di sinistra ma quella vera,non quella di altri surrogati che ne piangono la dipartita e che praticamente non hanno mai ascoltato i suoi appelli contro l'insensatezza della guerra e dei miliardi di euro e di dollari spesi per la grande fabbrica della morte oltre che la privatizzazione della sanità pubblica e molto altro.
L'articolo di Left(gino-strada-litalia-ripudia-la-guerra-ma-siamo-in-guerra-da-oltre-ventanni )ripropone un'intervista esemplificativa del pensiero e dell'uomo Gino Strada,il grande inascoltato,in un contesto storico recente(luglio 2019)quando non c'era ancora il coronavirus ma comunque sembra che si parli di qualcosa molto simile a ieri,con gli sbarchi dei migranti,ius soli e tutto quello che lui amava fare,agire e non solo a parole,praticamente l'opposto di quello che propagandano e pensano le destre:ci mancherà molto Gino Strada.

Gino Strada: «L’Italia ripudia la guerra ma siamo in guerra da oltre vent’anni».

di Giulio Cavalli 

Una larga fetta del Paese rifiuta l’odio xenofobo diceva Gino Strada in questa intervista per poi aggiungere: «Ma c’è bisogno di un nuovo soggetto politico. Spero che nasca»

Cosa rispondere a chi ancora continua con la retorica dell’invasione?

Risponderei di informarsi. Qui non c’è nessuna invasione, sembra che il problema dell’Italia non siano i trecento miliardi e passa lucrati dalle mafie, i centocinquanta miliardi di evasione fiscale, altri centinaia di miliardi di corruzione ma sembra che il problema siano quaranta migranti fuori dal porto di Lampedusa. Su questo si è costruita una narrazione fasulla. In Italia in questo momento sono più i giovani che se ne vanno di quelli che arrivano. Certo, gli stranieri vengono qui per ragioni diverse rispetto a chi emigra poiché l’Italia è un Paese mediamente ricco. Ma dov’è questa invasione? Calcoliamola in termini demografici: è una follia, non esiste, è una cosa costruita ad arte perché bisogna alimentare l’odio verso il diverso. Diverso che può essere declinato in vari modi: può essere il rom, il sinti, l’ebreo o il nero. Ma è un odio che si riversa sempre su chi sta al di sotto nella scala sociale. Come se la responsabilità dei problemi, anche drammatici, che vivono gli italiani, come la crisi economica e la difficoltà di arrivare a fine mese, fossero colpa degli ultimi e non colpa di chi invece sta più in alto nella scala sociale. E questa è una pazzia tipica della mentalità fascista.

Però molte persone dicono: «Non ho rappresentanza politica, non ho molti mezzi, sono un cittadino normale, cosa posso fare?». Come gli risponderesti?

Io sono tra quelli che non hanno rappresentanza politica. “Nel mio piccolo” è sempre la domanda più grande su cosa possa fare una persona. Io credo che di cose da fare ce ne siano tantissime. Cominciando dall’informarsi e dal capire l’entità reale dei problemi e delle questioni. Fino al continuare ad esercitare delle pratiche alternative, delle pratiche di resistenza e ce ne sono tantissime. Non c’è soltanto Riace, c’è una solidarietà diffusa molto importante. Poi il cittadino normale non ha spesso altri modi per dire le sue opinioni se non votando. Fino a quando non ci saranno più le elezioni, che, attenzione, non significano per forza democrazia: a volte è un esercizio tecnico e poi quando si va sui tecnicismi elettorali si vede che in realtà di possibilità di scelta il cittadino non ne ha. Però si potrebbe iniziare prendendosi l’impegno di non votare per nessuno che non ripudi sul serio la guerra. Io non voterei mai un partito che non mi garantisce che non farà mai la guerra in nessun caso, tranne ovviamente il caso di subire un’invasione militare ma non mi sembra il nostro. Io credo che il primo compito della politica sia quello di rispettare la Costituzione e i suoi principi fondamentali tra cui il ripudio della guerra e invece abbiamo una classe politica che delinque tranquillamente contro la Costituzione, senza nessun problema, e nessuno glielo fa notare.

L’Italia ripudia la guerra…

Sì, ma siamo in guerra da oltre vent’anni. O ce lo siamo dimenticati? Ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan. Certo si possono fare le solite operazioni di trasformismo: se un mio avversario compie un gesto di violenza è terrorismo mentre se lo compio io è un atto umanitario. Dobbiamo fare sparire queste nebbie, chiamare le cose con il loro nome: la guerra è guerra. L’Afghanistan è l’esempio più lampante: siamo andati lì con una decisione presa un mese dopo l’inizio dell’attacco americano e siamo ancora lì, abbiamo avuto tanti morti, abbiamo speso miliardi. C’è qualcuno che mi sa dire una ragione per cui noi siamo in Afghanistan al di là del servilismo verso gli Usa? Puro servilismo. Diciamo che siamo una colonia. Abbiamo 70 testate nucleari americane sul nostro territorio, la nostra politica estera non esiste, si prendono solo ordini. Perché oggi siamo nella Nato? Perché siamo in un’alleanza militare? Queste domande ormai non si possono nemmeno più fare, si dà per scontato che siamo una dependance degli Usa. I nostri politici fanno ridere, non hanno nemmeno quella dignità e quell’orgoglio nazionale che tra l’altro tanto vantano.

L’argomento del momento è la vicenda della Sea-Watch e la decisione presa della sua comandante…

Al di là dei dettagli tecnici mi pare che qui sia in gioco un principio: si tende a criminalizzare chi aiuta. Questa cosa è intollerabile, inaudita, perfino inaspettata nella sua rozzezza, nella sua stupidità. E questo purtroppo è un processo che va avanti da qualche anno, dal governo precedente: la guerra alle Organizzazioni non governative è iniziata con il governo a guida Pd e Minniti ministro dell’Interno.

Improvvisamente sembra che una parte degli italiani sia diventata legalitaria, tutti rispettosi delle leggi e tutti pronti a crocifiggere Carola Rackete, che ne pensi?

Vedo che siamo in un periodo in cui tutti urlano, tutti gridano, c’è gente che parla di cose che non conosce, sembra che l’incompetenza sia diventata la regola. Però io non ci credo che a questo schiamazzo di una politica ormai vergognosa corrisponda un vero sentire degli italiani. Credo che molta gente, probabilmente la maggioranza, stia mal sopportando questo clima. Per questo credo che la situazione sia ancora reversibile almeno nel nostro Paese. È vero che c’è una macchina propagandistica pazzesca e che c’è un’assenza delle più alte cariche dello Stato. Che non ci sia nessun commento sul fatto che ormai la politica si faccia con i tweet e il dibattito si faccia con gli insulti, se non con i pestaggi, è preoccupante. Un membro del Parlamento che si permette di dire «affondiamo la nave»… sono cose che erano impensabili alcuni anni fa. Però io non credo che tutto questo sia il sentire degli italiani.

Quindi sei ottimista?

Io vedo un Paese dove c’è molta solidarietà. Un Paese dove ci sono migliaia di organizzazioni, di associazioni, piccole o grandi o medie che siano, che si danno da fare comunque per migliorare la vita delle persone. Questa cosa è incompatibile con la politica attuale. Se pensassi che veramente gli italiani la pensano come Salvini dovrei concludere da medico che ci sia stato un cambiamento genetico e antropologico degli italiani. Tutta questa società civile, una volta si chiamava così, credo che vorrebbe un mondo diverso, più equilibrato, più giusto, più sereno, meno carico di odio. Credo che questa sia una brezza che c’è già e che spero diventi vento forte.

Un fischio?

Sì. Non c’è bisogno che urli una bufera però, insomma…

Però è vero che sembra che questa parte d’Italia non trovi da una parte una rappresentanza politica e dall’altra una narrazione sui media aderente alla realtà…

Questo è sicuro. Basti pensare che qualche giorno fa l’ex ministro della Difesa (Pinotti, Pd, ndr) ha emesso un comunicato di solidarietà alla Guardia di finanza e questa dovrebbe essere l’opposizione. Poi si chiedono perché perdono i voti. Ma questi sono loro. Non c’è dubbio che ci sia bisogno di un nuovo soggetto politico, non ho il minimo dubbio su questo. Credo che il Pd sia morto, sepolto e purtroppo non prenderanno mai la decisione di sciogliersi che sarebbe un grande passo avanti per l’Italia. C’è bisogno di un nuovo soggetto politico che ridefinisca le regole del vivere associato. Spero che nasca.

mercoledì 11 agosto 2021

I TALEBANI VERSO IL POTERE IN AFGHANISTAN

Con il ritiro annunciato in maniera ufficiale delle truppe Usa proclamato a metà aprile l'Afghanistan sta vivendo momenti tribolati ed incerti dovuti al fatto che i talebani stanno conquistando territori su altri in maniera diffusa,veloce e senza incontrare particolari resistenze.
Nonostante il fatto che Biden confermi di abbandonare il paese dopo vent'anni(madn afghanistanmissione-fallita )di inutili soprusi,ed i risultati si vedono ora,il presidente Usa ha confermato il fatto che i militari governativi sono in possesso di armi e nozioni per potere affrontare tranquillamente i ribelli talebani che poi occupano ben più della età dell'Afghanistan.
I casi sono due,o gli insegnamenti statunitensi coadiuvati dalle"intelligence militari"di altri alleati tra cui gli italiani non sono stati poi così ben recepiti,oppure lo stesso esercito al servizio di un presidente fantoccio non vedono poi così male i talebani e la loro riconquista del territorio.
L'articolo di Contropiano(afghanistan-a-doha-gli-usa )parla degli incontri di Doha tra gli Usa e Kabul che vedono anche Cina e Russia per motivi geopolitici e il Pakistan perché migliaia di profughi stanno scappando dai talebani,presenti alle discussioni,con un elenco di territori e capoluoghi di provincia ocupati che si sta sempre più allungando.

Afghanistan. A Doha gli Usa cercano di mettere una pezza al loro disastro.

di  A.A.   

L’avanzata dei Talebani nel nord del Paese prosegue inesorabile mentre a Doha continuano gli incontri tra le delegazioni dei Talebani e governo di Kabul a cui partecipano gli inviati speciali degli Usa ma anche di Cina, Pakistan, Russia.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, pur ribadendo il suo sostegno all’Afghanistan ha affermato ieri in una dichiarazione ai giornalisti: “di non rimpiangere la decisione di ritirare le nostre truppe dall’Afghanistan”.

Secondo quanto affermato dalla portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, Biden è ancora fiducioso che sia possibile evitare che i talebani possano conquistare Kabul o l’intero Afghanistan. “Il presidente Biden è stato molto chiaro quando a maggio ha annunciato la sua decisione. Dopo 20 anni di guerra è tempo di riportare le truppe americane a casa”, ha dichiarato la Psaki citando l’annuncio del ritiro delle forze Usa dall’Afghanistan. “Le forze di sicurezza afgane hanno l’addestramento e l’equipaggiamento per combattere i talebani per rafforzare la loro posizione in fase negoziale. Pensiamo che il processo politico sia l’unica strada in grado di portare con successo pace e stabilità nel Paese”, ha aggiunto.

La situazione della sicurezza in Afghanistan “non sta andando nella giusta direzione” ha però affermato il portavoce del dipartimento della Difesa Usa, John Kirby, in riferimento agli ultimi sviluppi nel paese in concomitanza con il ritiro delle forze statunitensi. Kirby ha evidenziato che gli Stati Uniti sono profondamente preoccupati per la tendenza in atto, ma che a loro avviso le forze regolari afghane hanno la capacità di combattere il gruppo di insorti. Il presidente Joe Biden ha dato ordine di usare i bombardieri strategici B-52 “Stratofortress” e le cannoniere volanti AC-130 “Spectre” a sostegno delle forze regolari afghane  contro i Talebani.

Ma sul campo i Talebani hanno conquistato anche la città di Faizabad, capoluogo della provincia del Badakhshan, nel nord dell’Afghanistan, portando così a nove il numero di capoluoghi di provincia conquistati durante l’offensiva avviata nei giorni scorsi. Ad annunciare la presa di Faizabad è stato il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, in un messaggio sul suo profilo Twitter. La conquista di Faizabad segue quelle di Pul-e-Khumri e Farah, conquistate sempre nella giornata di ieri, e che si aggiungono ai capoluoghi già caduti nelle mani dei Talebani nelle ultime settimane: Kunduz, Sar-e-Pul, Taloqan, Zaranj, Sheberghan e Aybak.

Il presidente-fantoccio dell’Afghanistan Ashraf Ghani è giunto questa mattina nella città di Mazar-e-Sharif, nella provincia di Balkh, dove le Forze armate stanno cercando di respingere gli attacchi dei talebani. Ghani è accompagnato dal consigliere per la sicurezza e gli affari politici Mohammad Mohaqiq e dall’ex comandante dei mujaheddin Juma Khan Hamdard. Sul posto era già giunto ieri sera l’ex vicepresidente Abdul Rashid Dostum. Oggi è previsto un incontro per studiare una strategia volta a respingere i talebani dalla provincia di Balkh e avviare un coordinamento tra tra le Forze armate e le milizie popolari che si formate in queste settimane con compiti di autodifesa.

lunedì 9 agosto 2021

DOMANI E' GIA' TARDI

C'era da aspettarselo ma il rapporto sul clima redatto dall'Ipcc(Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico)del'Onu ha fatto dichiarare agli scienziati una situazione allarmante e più che tragica,usando toni duri per fare capire che il discorso del surriscaldamento della terra è un tema da affrontare ora.
Perché omettere ancora interventi per limitare i danni causati dall'uomo significherebbe un punto di non ritorno per l'esistenza umana e per l'ambiente visti i dati che parlano di un pianeta che sta bruciando,in maniera globale e sempre più in modo devastante e veloce.
Nell'articolo di Contropiano(il-rapporto-onu-sul-clima-parla-chiaro )tutta l'attenzione che viene richiesta da questi ricercatori che non vengono mai ascoltati ma che dovrebbero esserlo anche in vista della prossima riunione del Cop 26 di Glasgow,per quella data le informazioni saranno ancora più dettagliate visto che questo rapporto Ipcc sarà completato nel giro dei prossimi mesi.

“Agire ora o prepariamoci al peggio”. Il Rapporto Onu sul clima parla chiaro.

di  Sergio Cararo   

E’ stato reso pubblico oggi il primo capitolo del Rapporto sul clima del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (Ipcc) delle Nazioni Unite. Il rapporto completo verrà reso noto il prossimo anno.

Ma a novembre a Glasgow è prevista la riunione della Cop 26 ossia la conferenza internazionale sui cambiamenti climatici e l’anticipazione del primo capitolo del rapporto serve a mettere sul tavolo le urgenze non più rinviabili sul come intervenire per impedire una catastrofe climatica sul pianeta.

Il comunicato stampa che presenta e accompagna il Rapporto, il contenuto inviato per i lavori alla Cop26 è piuttosto esplicito: “forti e costanti riduzioni di emissioni di anidride carbonica (CO2) e di altri gas serra limiterebbero i cambiamenti climatici. Se, da una parte, grazie a queste riduzioni, benefici per la qualità dell’aria sarebbero rapidamente acquisiti, dall’altra, potrebbero essere necessari 20-30 anni per vedere le temperature globali stabilizzarsi”.

Alla Conferenza di Glasgow il primo punto dell’agenda sarà proprio verificare lo stato di avanzamento delle azioni intraprese dagli stati per rispettare l’impegno di tenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 ºC e proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 ºC. Uno sforzo, si legge nel Rapporto dell’Ipcc, che deve essere globale e non più prorogabile.

“Non possiamo permetterci di aspettare due, cinque o 10 anni: questo è il momento, o si agisce ora o non avremo più tempo” ha dichiarato il presidente della Conferenza mondiale dell’Onu (COP26) sul clima, Alok Sharma. Il capo del vertice in programma a novembre a Glasgow, in Scozia, ha avvertito che il rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) in uscita oggi, mostrerà che il mondo è sull’orlo di un potenziale disastro.

La ricetta per riportare il termometro in equilibrio consiste nel dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030 e portarle a uno zero netto entro il 2050. Se non si inverte la rotta, evidenziano gli scienziati, nel 2030 potremmo arrivare a 3 gradi e nel 2.100 fino a 4.

Al Rapporto dell’Ippc hanno lavorato 234 scienziati appartenenti a 195 Paesi che dal 26 luglio sono riuniti a porte chiuse e collegati online per scrivere  parola per parola, le previsioni degli esperti Onu sul clima che aggiornano le ultime stilate sette anni fa.

Intanto nel nostro pianeta si susseguono disastri naturali in larghissima parte dovuti ai cambiamenti climatici, dalle inondazioni in Germania e Cina alle anomalie termiche e ai maxi incendi in Europa e Nord America. I fatti, come al solito, hanno la testa dura.

venerdì 6 agosto 2021

MILIARDI DI EURO REGALATI DALLO STATO AI PRIVATI

Tra una notizia sul Covid e una olimpica la questione dell'acquisizione di Unicredit della parecchio in difficoltà Monte dei Paschi di Siena tiene banco in un acceso dibattito che di politico non ha molto in quanto il governo sta decidendo,nelle persone del premier Draghi e del Ministro dell'economia e delle finanze Franco,senza avere nessun dibattito all'interno del Parlamento ma solamente attraverso le commissioni deputate all'argomento.
Mps è allo sbando da anni(madn mps-ad-un-passo-dal-baratro )ed i continui crolli in Borsa sono stati mitigati negli ultimi giorni dal sempre più vicino accordo con il colosso di Unicredit pronto all'acquisto ma con forti iniezioni di denaro pubblico con lo Stato garante per quel che riguarda i debiti mentre la parte buona dell'affare se la tengono i privati in un sistema già ben avviato del socializzare i debiti e privatizzare i guadagni(vedi:madn banchesocializzare-i-debitiprivatizzare i guadagni ).
Questo sistema tanto caro,nei decenni passati ma anche ai giorni nostri,alla Fiat,prevede mosse finanziare dove i boss delle varie banche sostenuti dalla politica cadono sempre in piedi,mentre a rimetterci sono i lavoratori che nei piani presentati subiranno pesanti tagli come detto nell'articolo di Contropiano(cessione-di-mps-a-unicredit-un-regalo-di-stato-che-esautora-la-politica ).
Detto questo le parti politiche fanno la loro campagna elettorale su questo e non è detto che quelli più infami dicano cose sbagliate,solo che bisognerebbe ricordare loro che fanno parte dell'esecutivo e quindi del problema.

Cessione di Mps a Unicredit, un regalo di Stato che esautora “la politica”.

di  Alessandro Perri   

“Non vi sono le condizioni per mettere in discussione la cessione”. Si conclude così l’informativa tenuta dal ministro Franco davanti alle Commissioni Finanze di Camera e Senato riunite ieri sera in Parlamento sul dossier Unicredit-Mps.

Un’affermazione categorica che dimostra, una volta di più, quanto “la politica” e le sue istituzioni tradizionali stiano subendo una rapida quanto profonda trasformazione di fronte all’incedere della competizione tra potenze economiche e poli imperialisti a livello internazionale.

Nella fattispecie, “maggioranza e opposizione” avevano richiesto con urgenza al ministro di riferire in Parlamento sull’operazione portata avanti dal Mef, la quale, a dispetto della sbornia da doppio oro olimpico nei 100 metri e nel salto in lungo, bucava l’opinione pubblica come un “regalo” per l’istituto di piazza Gae Aulenti.

La risposta di Franco, braccio destro di quel Mario Draghi con cui l’Unione europea vuole adeguare il sistema-Italia alle sfide che verranno, è imperativa e in piena continuità con il corso del governo in carica: i soldi li muoviamo noi (riforme della giustizia, concorrenza, fisco), a voi, “partiti tradizionali”, triturati da anni di pilota automatico, le gazzarre (a costo zero) buone per la finta contrapposizione in chiave elettorale, ma in questo gioco non toccate più palla.

I “due governi in uno” si mettono in riga e marciano spediti, con buona pace dei Salvini di turno – fai fatica ad attaccare in modo credibile il governo se sei il governo – e soprattutto della classe lavoratrice, che anche da questa operazione subirà, per stessa ammissione del ministro, licenziamenti a grappoli.

Il resto sono i dettagli che emergono anche dai maggiori organi d’informazione. Il piano di uscita del Tesoro da Mps (titolare ad oggi del 64,2% della banca senese) era in origine previsto per il 2022, e quella data deve essere rispettata, onde evitare esposizione a “rischi ed incertezze considerevoli e a seri problemi di competitività”.

La strategia di sviluppo della banca “ha obiettivi non conformi a quelli stabiliti dalla Commissione europea”, che prevede la riduzione costi fissata al 51% dei ricavi, mentre in base al piano si prevede il 74% nel 2021 e ancora il 61% al 2025. 

Da qui, l’annuncio dei 2.500 esuberi su un parco dipendenti di poco più di 20.000 unità, numero di licenziamenti che potrebbe addirittura aumentare (raddoppiare, secondo alcuni analisti) “nel caso probabile in cui la Commissione Ue ponesse un obiettivo più ambizioso” nel rapporto costi-ricavi.

Dunque, che cessione sia, con tutta la tipica sottomissione delle istituzioni pubbliche/statali ai voleri della classe dominante – nella fattispecie, la borghesia transnazionale europea.

Già nel 2017, il ministero di via XX settembre aveva messo sul piatto 5,4 miliardi di denaro pubblico per salvare il Montepaschi, di cui 3,9 per il 64,2% delle azioni, crollate a circa 700 milioni di valore di mercato ai prezzi odierni.

Per rendere appetibile Mps serve allora una nuova iniezione miliardaria, la cui cifra esatta sapremo solo tra un mese e poco più, ma che Il Sole 24 Ore stima tra i 5 e i 10 miliardi di euro, tra crediti d’imposta (ossia mancate entrate fiscali per le casse statali) a favore di Unicredit (2 mld?), aumento di capitale a carico dello Stato (2,5 mld?), penali assicurative (1 mld?), oneri dei licenziamenti, cause legali.

In cambio, il Tesoro potrebbe ricevere una quota delle azioni di Unicredit, che nel caso di soluzione ritenuta più favorevole dalla banca potrebbe arrivare al 4-5%, un pacchetto considerevole, ma ininfluente sulla governance del gruppo.

Su cosa verte la contrattazione? Sui famigerati 4 miliardi di non performing loans, o Npl, acronimo che indica i crediti deteriorati, ossia quei debiti che molto difficilmente saranno onorati.

Di questi, Unicredit non vuole neanche sentir parlare, per cui la parte della banca senese che dovrebbe finire nella pancia del gruppo con sede a Milano è, guarda caso, solo quella buona, con valore di mercato. Gli Npl invece dovrebbero finire ad Amco, Spa controllata al 100% dal Mef specializzata proprio nella gestione e nel “recupero” dei crediti deteriorati.

Sull’operazione arriva anche il “benestare” dell’altro grande gruppo bancario operante in Italia, Intesa Sanpaolo, che per voce dell’ad Carlo Messina ha dichiarato che non opporrà “nessun ostacolo” all’eventuale acquisizione.

E ci mancherebbe, la concentrazione e la centralizzazione del capitale permette la formazione di quegli oligopoli in grado di aggirare il meccanismo concorrenziale su cui, formalmente, si muove il capitalismo, e di questi oligopoli Messina rappresenta una delle due facce della medaglia (l’altra è proprio Unicredit).

Tendenza al monopolio, avrebbe scritto un saggio filosofo, guidata proprio dalla concorrenza nel “passaggio al suo negativo”. Quella concorrenza che in questi giorni ha inondato le analisi del paese e non solo, rilanciata dalle parole di Biden, e su cui comunque l’antitrust dell’Ue giura di vigilare per i mesi avvenire sugli aiuti di Stato.

Nel frattempo, tutto sembra mettersi in posizione per l’ennesimo regalo di Stato. Che i partiti si adeguino.

giovedì 5 agosto 2021

BATTAGLIE NAVALI

Da qualche giorno la zona tra il Golfo Persico e il Golfo dell'Oman è teatro di strani incidenti alle navi che vi transitano,soprattutto petroliere,e si parla di attacchi di pirateria,voli di droni ed esplosioni di mine,di sequestri e successive liberazioni e di navi che spariscono e riappaiono,e nell'articolo di Contropiano(guerre-navali-nel-golfo-persico )che sinceramente è molto fumoso l'unica certezza è l'accusa di Israele nei confronti dell'Iran.
Che di navi iraniane ce ne siano parecchie è un fatto geografico visto che la metà del Golfo Persico bagna le coste dell'Iran mentre quello dell'Oman è equamente diviso con quelle dello Stato che da il nome al golfo,ma sappiamo che Israele ha parecchi conti aperti contro la Repubblica islamica e ono decenni che soffia sul fuoco della guerra(tra gli altri vedi:madn verso-la-terza-guerra-mondiale ).
La zona poi è armata direttamente dagli italiani da anni visto che i nostri mercantili approdano nei porti a esportare armi(madn litalia-in-giro-spacciare-armi )e la vicinanza sempre più stretta e discussa(e aggiungerei molto discutibile)con l'Arabia Saudita(vedi madn ma-chi-ferma-i-veri-stati-canaglia e relativi links)potrebbe farci avere voce in capitolo che poi nessuno starebbe a ragione a sentire.

Guerre navali nel Golfo Persico. Preoccupante escalation.

di  A.A.   

Schizza alle stelle la tensione nel Golfo Persico. Il 29 luglio era stato segnalato un attacco a una petroliera israeliana, attribuito da Tel Aviv ad un drone iraniano, nel quale hanno perso la vita due membri dell’equipaggio. Si tratta della nave cisterna Mercer Street di proprietà giapponese ma gestita dalla compagnia Zodiac Maritime dell’imprenditore israeliano Eyal Ofer.

Adesso è stato lanciato un allarme decisamente anomalo secondo cui almeno sei petroliere nelle scorse ore hanno avvertito di “non essere sotto controllo” al largo della costa emiratina di Fujairah e una di esse, la panamense Asphalt Princess, sarebbe stata sequestrata da almeno otto uomini armati che avrebbero preso in ostaggio l’equipaggio, secondo quanto riferito da fonti dell’intelligence britannica,. La Lloyds List Maritime Intelligence ha confermato alla Bbc che la nave, che era partita da Khor Fakkan (Emirati) ed era destinata a Sohar (Oman) è diretta verso l’Iran.

Non è chiaro cosa sia accaduto alle altre cinque imbarcazioni. Secondo i media israeliani la Golden Brilliant, battente bandiera di Singapore, sarebbe stata colpita da una mina. Il Washington Post, riferisce che, secondo quanto comunicato da un ufficiale a bordo, la Golden Brilliant non sarebbe stata danneggiata ma avrebbe visto un drone volare a bassa quota nei suoi pressi. Entrambe le navi ora risultano in movimento, così come la vietnamita Abyss e la Queen Ematha, battente bandiera della Guyana.

In compenso la Asphalt Princess – ritenuto ieri dirottata  nel Golfo di Oman è stata rilasciata ed è attualmente al sicuro. È quanto riferito dal dipartimento per le operazioni commerciali marittime del Regno Unito (Ukmto). “Gli occupanti hanno lasciato la nave. La nave è al sicuro. Incidente concluso”, ha riferito l’Ukmto in una nota, emettendo anche una raccomandazione alle navi di “esercitare estrema cautela durante il transito in quest’area”.

Tra le petroliere che nelle scorse ore avevano segnalato problemi risultano ancora “non sotto controllo” risultano esserci l’indiana Jag Pooja e la Kamdhenu, battente bandiera delle Isole Cook ma, in mancanza di ulteriori informazioni, non è possibile al momento escludere che abbiano incontrato semplici problemi tecnici.  Nessuna delle petroliere coinvolte risulta legata a interessi israeliani o britannici. Un aereo delle forze armate dell’Oman sta monitorando l’area a bassa quota.

Le autorità iraniane hanno negato ogni coinvolgimento e bollato le accuse come un tentativo di creare un pretesto per “azioni ostili” contro l’Iran. Un portavoce del ministero degli Esteri di Teheran ritiene “sospetto” l’accavallarsi di tanti incidenti in poco tempo e ha ribadito la disponibilità dell’Iran alla cooperazione. Il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, ha avvertito che Israele è pronto ad “agire da solo” contro l’Iran.

mercoledì 4 agosto 2021

BEIRUT UN ANNO DOPO

Nel primo anniversario della devastante esplosione che ha semidistrutto la capitale del Libano Beirut in una manciata di secondi e le cui immagini hanno impressionato tutto il mondo,numerose persone si sono raggruppate per gridare la loro rabbia in quanto non si è ancora fatta nessuna chiarezza in merito alle responsabilità e alle eventuali conseguenze per i colpevoli(evidentemente in Libano sono molto più avvezzi ad avere tempi ristretti in materia giustizia quando si parla di stragi,non come da noi che dopo 41 anni si è ancora lì a girarsi i pollici).
Le 2750 tonnellate di nitrato d'ammonio sequestrate sei anni prima e stoccate presso il porto libanese sono esplose in maniera accidentale anche se ci sono dei colpevoli sia dal lato della capitaneria di porto che da parte del governo vista la precarietà dello stoccaggio e l'elevata pericolosità del materiale.
Per come l'esplosione abbia devastato tutta la zona attorno nel giro di centinaia di metri le circa duecento vittime sono un numero contenuto,oltre a migliaia di feriti e 300 mila persone che hanno perso la loro casa.
Anche i danni economici poi sono stati devastanti a causa della perdita di più della metà delle merci presenti al momento del porto comprese le scorte di grano,e viste anche le impennate dei prezzi delle derrate alimentari che si sono avute negli ultimi dodici mesi assieme ad un crollo verticale del Pil nazionale hanno portato la percentuale dei poveri nel paese,la maggioranza vive con un dollaro al giorno,ad aggravarsi ancor più.
Inoltre il numero dei rifugiati siriani e palestinesi che fanno del Libano lo Stato al mondo con la presenza pro capite di persone fuggite dalle guerre maggiore al mondo,assieme alla pandemia e alla cronica irreperibilità di medicinali e di ossigeno,fanno sì che Beirut e l'intero paese stiano vivendo il loro momento peggiore dalla fine della guerra civile.
Articolo di Left:i-fantasmi-di-beirut .

I fantasmi di Beirut.

di Francesca Annetti

Ad un anno dalla tragedia, ancora nessuna chiarezza è stata fatta sulle dinamiche dell’esplosione, ed anzi secondo la denuncia di Amnesty International le autorità libanesi continuano ad ostacolare la ricerca della giustizia.

204 ritratti affissi lungo l’arteria principale del quartiere di Downtown, Beirut. È così che l’artista Brady Black ha voluto ricordare le vittime della tremenda esplosione che il 4 agosto 2020 ha sventrato il porto della capitale libanese, lasciando dietro di sé, oltre alle centinaia di morti, più di 7.000 feriti, 300.000 sfollati e interi quartieri e infrastrutture distrutti. Ad un anno da quella tragedia, ancora nessuna chiarezza è stata fatta sulle dinamiche dell’accaduto, ed anzi secondo la denuncia di Amnesty International le autorità libanesi continuano ad ostacolare la ricerca della giustizia. Il primo anniversario dell’esplosione si prospetta quindi incandescente: centinaia di persone si sono date appuntamento per scendere nelle strade e protestare in quella che non potrà che essere una giornata di profonda rabbia. Una rabbia che però non è legata solamente alla commemorazione di quella giornata di lutto, ma che raccoglie i sentimenti di frustrazione, disperazione e collera che la popolazione libanese sta vivendo a causa della grave instabilità sociale, politica e economica che attanaglia il paese da più di un anno. Da mesi infatti il Libano è attraversato da molteplici crisi che si rafforzano a vicenda, in quello che si configura come il periodo più buio dai tempi della lunga guerra civile. Da un lato il paese soffre gli effetti della crisi siriana: secondo le stime sono più di un milione e mezzo i rifugiati siriani che hanno fatto ingresso nel paese e che, andando ad unirsi alla già cospicua popolazione rifugiata, in primis palestinese, presente in Libano, fanno di questo la nazione con il maggior numero di rifugiati pro-capite al mondo. A questa, si aggiungono le conseguenze della drammatica crisi economica e finanziaria che non accenna a migliorare.

Secondo il Lebanon economic monitor, l’attuale crisi economica libanese è fra le tre peggiori crisi registrate a livello globale dalla metà del Novecento. La moneta locale ha perso più del 90% del suo valore e il tasso d’inflazione è in costante crescita, anche a causa della fortissima dipendenza dell’economia libanese dalle importazioni. Secondo il Wfp, il prezzo dei beni alimentari ha subito un incremento di oltre il 400%: se prima l’insicurezza alimentare colpiva quasi esclusivamente la popolazione rifugiata, ad Aprile 2021 il 47% delle famiglie libanesi dichiarava di avere difficoltà nell’accesso al cibo. Secondo le stime di Unescwa, più del 55% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, mentre il tasso di persone in condizioni di povertà estrema è triplicato passando dall’8% del 2019 al 23% del 2020. Persino carburante ed elettricità sono divenuti beni difficili da reperire; le luci che un tempo rendevano scintillante lo skyline di Beirut sono solo un lontano ricordo, mentre le lunghe file alle pompe di benzina sono oramai parte dello scenario quotidiano. Anche il Covid-19 non ha risparmiato il Libano, ed alla crisi sanitaria legata alla pandemia si uniscono le difficoltà nell’approvvigionamento di molteplici farmaci, per la maggior parte importati e quindi sempre più scarsi a causa della perdita di valore della moneta libanese. In questo contesto divengono ancora più profondi gli effetti della crisi politica e dello stallo istituzionale protratto in cui versa il paese. A seguito dell’esplosione del porto le proteste della popolazione, che già a Ottobre 2019 avevano invaso le piazze per 100 giorni nel corso della Thawra, rivoluzione politica, segnando un punto di rottura fra la società e la leadership politica libanese messa sotto accusa per le modalità di gestione clientelare e confessionale e per l’elevato livello di corruzione, si sono riaccese e il primo ministro Hassan Diab si è dimesso, ma ancora oggi le trattative per la formazione di un nuovo esecutivo sono bloccate dalle rivendicazioni settarie dei partiti e pertanto nessuna risposta viene data alle gravi problematiche che colpiscono il paese. Come conseguenza di questa situazione, si acuisce in Libano anche una profonda crisi sociale che porta con sé un aumento delle diseguaglianze nella società e l’accendersi delle tensioni sia tra le varie confessioni religiose presenti all’interno della popolazione libanese, che tra quest’ultima e la popolazione rifugiata.

Nel grande vuoto lasciato dalla politica e dalle istituzioni libanesi, è la società civile che prova a far fronte alle crescenti necessità delle persone. Mothers’ Cooking per esempio è un’impresa sociale che si occupa di supportare l’empowerment economico delle donne dando la possibilità a madri disoccupate di accedere al reddito attraverso la preparazione e la vendita di pasti tramite app. Attraverso il progetto “Wee.Can! Women Economic Empowerment: comunità ospitanti e rifugiate siriane per creare nuove opportunità di sussistenza” finanziato dall’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e implementato da Oxfam Italia, Cospe e Mais, ha ricevuto una sovvenzione a fondo perduto grazie alla quale ha contribuito insieme all’organizzazione Berrad El Hay alla distribuzione di pasti quotidiani alle persone rimaste sfollate dopo l’esplosione del porto. Nel 2019 Berrad El Hay ha infatti installato tre frigoriferi per lo stoccaggio e la distribuzione di pasti per le persone in condizione di povertà rispettivamente a Junie, città nel distretto del Monte Libano, e a Mar Mikhael e Achrafiye, due dei quartieri di Beirut maggiormente colpiti dalla tragedia del 4 agosto 2020. Nei mesi successivi all’esplosione, parte dei pasti preparati dalle donne di Mothers’ Cooking sono stati donati a Berrad El Hay e distribuiti attraverso questi frigoriferi alle famiglie colpite. Secondo Reema e Mirna, operatrici dell’organizzazione, se prima della deflagrazione l’associazione distribuiva in media circa 200 pasti al giorno, successivamente il numero è salito a quasi un migliaio.

Durante la visita alla loro sede, la voce di Reema diventa rotta e dalle sue parole si percepisce chiara la frustrazione mentre ricorda: «La mia casa è stata colpita dall’esplosione, eppure nessun rappresentante delle istituzioni si è presentato per offrirmi del supporto; sono stati i miei vicini a bussare alla mia porta per offrirmi il loro aiuto, e lo stesso ho fatto io con loro. L’unica risposta è la solidarietà, per questo anche un piccolo gesto come la donazione di 25 pasti giornalieri da parte di Mothers’ Cooking è fondamentale».

L’importanza della presenza della società civile viene sottolineato anche da Ahmad, presidente di Urda, l’organizzazione locale partner del progetto Wee.Can!, che specifica come attraverso le attività di micro credito per donne sia libanesi che siriane attivate dal progetto sia stato possibile supportarle in questo momento di grave instabilità economica. Ma Ahmad sottolinea anche come i bisogni della popolazione, sia locale che rifugiata, siano in costante aumento in tutti i settori: dall’accesso all’istruzione a quello alla sanità, dall’incremento dei casi di violenza di genere a quello della criminalità e delle tensioni settarie.

Il 4 agosto 2021 quindi non solo segna il primo anniversario dell’esplosione del porto di Beirut, ma mette in risalto il continuo deterioramento delle condizioni economiche, sociali e politiche dell’intero Paese, caduto in una spirale negativa dalla quale al momento non si prospetta ancora una via d’uscita.