mercoledì 15 aprile 2020
L'ATTUALITA' DI SACCO E VANZETTI
Anche in questi giorni di lotta e di supplizio,di tragedia e anche di speranza,per alcuni(sia singoli frustrati che mass media)fanno più notizia degli immigrati,dei disperati che rischiano la vita in mare pur di arrivare in uno tra gli Stati più colpiti del contagio del coronavirus,che quelle riguardanti ai decessi e agli ammalati del covid-19.
Nel giorno della condanna a morte degli emigranti italiani Sacco e Vanzetti,la cui storia è stata degna di essere oggetto di film,canzoni e di manifestazioni durante la loro detenzione,la loro storia è strettamente attuale riguardo la diffidenza se non l'odio verso il nuovo,il misterioso.
Etichettati assieme agli altri nostri connazionali nel primo grande esodo verso le americhe dello scorso secolo come sporchi,ignoranti,poco più che bestie e portatori di malattie e facili a commettere fatti criminali e delittuosi,questo razzismo è stato anche il pane offerto dalla politica infame e senza strategie se non quella dell'instaurare l'odio verso il diverso(vedi:madn il-razzismo-e-per-gli-stupidigli-idioti.e gli ignoranti ).
Gli articoli proposti parlano in primis di un breve riassunto di un fatto ben più esteso e radicato nella memoria mondiale di questi migranti accusati ingiustamente di duplice omicidio e rapina (tessere.org/15-aprile-1920-sacco e vanzetti )ne 1920 e giustiziati dopo sette anni,facili capri espiatori poiché italiani,anarchici e pacifisti e riabilitati dopo decenni,e il secondo traccia una breve cronistoria proprio di quando noi eravamo migranti in terre straniere e poi nello stesso paese(con risultati simili)arrivando ai giorni nostri con i nuovi disperati in cerca di una vita migliore,con molti di essi che scappano da guerre.
15 aprile 1920
Omicidio: questa è l’accusa che venne pronunciata il 15 aprile 1920 contro Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani. Il processo durò circa un anno e si concluse con la condanna a morte dei due, che morirono sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927.
Sacco e Vanzetti vennero accusati di aver ucciso, durante una rapina in una fabbrica di calzature, un cassiere e una guardia armata. La sentenza destò molti sospetti e fece discutere a lungo perché non vi erano prove accusatorie sicure, e, anzi, un pregiudicato portoghese, Celestino Madeiros, confessò di essere lui l’autore del duplice delitto, ma questo non bastò a scagionare i due anarchici.
I motivi della condanna a morte di Sacco e Vanzetti possono essere ricondotti al clima culturale e politico degli anni Venti negli Stati Uniti d’America: gli stranieri erano visti con sospetto e ostilità, e ogni pretesto era buono per accusare gli immigrati di aver commesso qualche crimine. I due pagarono, anche, per le loro idee pacifiste e anarchiche, mal viste nell’America del Nord del primo Novecento, e per la loro provenienza: la minoranza etnica italiana era profondamente osteggiata e rifiutata.
L’opinione pubblica mondiale si mobilitò in favore dei due italiani, con manifestazioni e appelli, e gli stessi Sacco e Vanzetti ribadirono fino all’ultimo la loro innocenza. Tutti questi tentativi, però, si infransero contro il muro intransigente della giurisprudenza statunitense.
«Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già» disse Vanzetti durante il suo ultimo discorso alla corte.
Non rinnegarono mai le loro idee e i loro valori, e morirono con una dignità stoica che li ha fatti diventare, nel corso degli anni, un tassello importante della storia contemporanea italiana.
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Quando gli immigrati da respingere erano gli italiani.
di Giovanni Cerchia
Tra Accoglienza e Pregiudizio, Emigrazione e immigrazione nella storia dell’ultimo secolo: da Sacco e Vanzetti a Jerry Essan Masslo, pubblicato nella collana studi e ricerche della Fondazione Giorgio Amendola, è un volume che raccoglie anni di studio da parte di diversi membri del Comitato scientifico della Fondazione sul tema dell’emigrazione e dell’immigrazione. Un tema che negli ultimi anni ha assunto una prominenza spropositata nel dibattito pubblico italiano, dominato dall’irrazionalità e dall’allarmismo: due aspetti ricorrenti anche nella complessa vicenda emigratoria italiana e che hanno contribuito in maniera drammatica alla tragica conclusione dei due nostri connazionali, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, giustiziati a Charlestown il 23 agosto 1927.
L’Italia infatti è l’appendice mediterranea dell’Europa, un promontorio asiatico dall’assai vago perimetro geografico. La sua collocazione fisica ne fa un naturale punto d’incontro tra culture, genti, tradizioni, lingue, perfino conflitti scatenati per regolare conti e definire equilibri di potenza. Per tutte queste ragioni, l’Italia è un luogo di mescolanza e meticciato inestricabile, inevitabile, sempre prezioso. Un luogo di partenze, di arrivi, poiché gli italiani viaggiano da prim’ancora che l’Italia esistesse, quando gli si apparteneva semplicemente approdando sulle sue coste: magari in fuga dalla Turchia, da Troia in fiamme e con il padre Anchise sulle spalle, passando per l’ospitalità di una principessa tunisina.
Noi siamo questo. Lo siamo sempre stati. Anche quando, sul finire del XIX secolo, in milioni ci siamo riversati nelle Americhe alla ricerca di fortuna o, decenni più tardi, abbandonavano le campagne del Sud per incontrare la catena di montaggio tra Genova, Milano e Torino. Non abbiamo smesso di esserlo quando, diventati un Paese ricco e industrialmente avanzato, centinaia di migliaia di migranti hanno iniziato a guardare all’Italia come i nostri nonni e padri guardavano al porto di New York, alle banchine di Ellis Island, alla Svizzera, alla Germania o ai cancelli di Mirafiori. La tragedia vera, a cui cerchiamo di porre rimedio raccontando le esperienze dei nostri connazionali emigrati, è che spesso il nostro Paese riserva agli immigrati il terribile trattamento subito dai nostri bisnonni e dai nostri nonni emigrati. Con gli stessi pregiudizi, gli stessi sospetti, le stesse ingiustizie.
Questo libro nasce dunque per riflettere sulla drammatica vicenda di Sacco e Vanzetti, usandola come un pretesto per raccontare questa storia più complessa e larga: la vicenda di un Paese denso di problemi e contrasti, ma da sempre un luogo del dialogo e del confronto, dei benvenuti e degli addii. La migrazione, con buona pace dei vecchi e nuovi costruttori di mura, è uno dei principali elementi costitutivi dell’identità nazionale italiana, se non addirittura il principale contributo per la costruzione di un’Europa finalmente unita e pacificata.
Tutto è iniziato da una mostra promossa dalla Fondazione Giorgio Amendola per rammentare i novant’anni dalla sedia elettrica di Charlestown, usando soprattutto i materiali tratti dagli archivi della Boston public library (Fondo Aldino Felicani, Sacco-Vanzetti Collection 1915-1977). Un manufatto espositivo realizzato con grande passione civile e che ha girato l’Italia anche grazie al sostegno dei consigli delle Regioni che hanno dato i natali a Sacco e Vanzetti (la Puglia e il Piemonte), che ha sollecitato dibattiti, studi, approfondimenti, ricerche, relazioni: il saggio introduttivo a mia cura, quello di Lorenzo Tibaldo dedicato al rapporto tra il fascismo e il processo, l’analisi sull’ambiguo rapporto tra razza e identificazione etnica di Augusto Ferraiuolo (lecturer e visiting scholar presso la Boston University), gli studi sul Rhode Island di Caterina Sabino, l’intreccio tra vecchie e nuove migrazioni proposto a Torino da Eugenio Marino, l’intervento svolto a Bari da Vito Antonio Leuzzi. Un bagaglio di conoscenze e di riflessioni arricchite dagli scritti di Massimilano Amato con la sua analisi sulla vicenda processuale, di Francesco Di Legge sulle Little Italies negli anni 20 e 30 del Novecento, di Joe Moscaritolo della Fitchburg State College and University of Massachusetts e di James Pasto, Master Lecturer presso la Boston University.
È sulla base di questo primo corpo di materiali che s’innestano poi le narrazioni sugli sviluppi successivi, in un Paese come il nostro che cambia pelle, si modernizza, attraversa tragedie, talvolta s’incupisce o riscatta le proprie colpe quando meno te l’aspetti. È il caso dell’articolo di Giuseppe Tirelli con una testimonianza sul campo d’accoglienza italiano di Villa Literno (il primo in Italia, realizzato nell’agosto del 1990), di Alberto Tarozzi e ad Antonio Mancini che aprono lo sguardo sugli odierni (troppo spesso sottaciuti) processi migratori lungo la rotta balcanica, della Flai Cgil che ha autorizzato la pubblicazione della sua indagine sul campo a Borgo Mezzanone (ricavato dall’ultimo Rapporto su agromafie e caporalato). Una indagine che descrive l’esistenza di veri e propri ghetti in cui sono confinati lavoratori stranieri in condizioni che ricordano quella delle campagne dell’800 e fine ‘900 dalle quali scappavano persone come Sacco e Vanzetti, che però ritrovavano – tragicamente – condizioni simili negli Stati Uniti.
Non vuole essere, ovviamente, una riflessione esaustiva e organica, ma solo una sorta di diario di viaggio che offre spunti, prospettive di analisi e di ricerca a partire da punti di vista e con metodologie non sempre omogenee. Quello che tiene insieme gli autori e giustifica il loro progetto è la fede nel confronto, l’apertura al dialogo, la curiosità di fronte al cambiamento, l’ostilità alle idee dei primati e dei sacri egoismi nazionali. Perché vengono prima gli esseri umani, poi le bandiere. Perché abbiamo Riace nel cuore. Perché la nostra patria è il mondo intero. Perché i nostri valori sono quelli della Resistenza e della Costituzione repubblicana.
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