martedì 23 novembre 2021

I POVERI NON HANNO VOCE

Il discorso del Presidente Mattarella di qualche giorno fa incentrato sul lavoro e sulle disuguaglianze che ricchezza,sete di potere ed avidità comportano,non è stato minimamente preso in considerazione dalla politica visto che pure ai sindacati e entrato in un orecchio per essere uscito dall'altro.
Nel contributo di Contropiano(troppo-avidi-e-troppi-poveri )l'analisi dell'editoriale di un giornale che fa parte della borghesia storica italiana anche se ciclicamente ha avuto la pretesa di sporcarsi le mani(Corriere della sera)che commenta le parole di Mattarella che come ogni Presidente della Repubblica tace per quasi un settennato per poi svegliarsi al tramonto del mandato.
Già recentemente si era parlato di salari vergognosi(madn basta-agli-stipendi-ingiusti )cui vanno aggiunti i disoccupati,i ricattati ed il tragico e sempre attuale discorso sulla sicurezza lavorativa,dove non passa un giorno senza una vittima.

Troppo avidi e troppi poveri.

di  Pasquale Cicalese   

Sul Corriere della Sera, ieri, in prima pagina, c’è un’editoriale di Carlo Verdelli: Lavoro e povertà, il disagio che troppi non vedono. 

Verdelli riporta le parole durissime dell’altro giorno del Presidente Mattarella sul tema del lavoro che, dice Verdelli, non hanno avuto eco sindacale, politico o confindustriale, come se dovesse essere nascosto da tutti.

Verdelli riporta il dato per cui la maggior parte dei nuovi lavori è a tempo determinato, sottolineando, secondo le parole di Mattarella, che precarietà e frammentarietà aumentano le disuguaglianze. 

Inoltre riporta il dato che l’Italia negli ultimi 30 anni è stato l’unico paese europeo i cui salari sono diminuiti del 2,9%, con un ulteriore discesa nel 2020 del 6% dovuta alla pandemia. 

Cita il Commissario europeo al lavoro, Nicolas Schmitt, secondo il quale i salari annui italiani sono “molto bassi”. Ancora, riporta il discorso di Mattarella: “è un dovere inderogabile delle istituzioni, a ogni livello, combattere la marginalità dovuta al non lavoro, al lavoro mal retribuito, al lavoro nero, alle forme illegali di reclutamento che sfociano in sfruttamento, quando non in schiavitù inammissibili“. 

Infine Verdelli ricorda uno degli effetti più criminali di tutto questo: i tre morti sul lavoro ogni giorno. 

Di emergenza povertà parlava ieri, su Repubblica, anche Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa SanPaolo, 1350 miliardi di masse gestite, secondo il quale la prima sfida da affrontare, il problema numero 1, è la povertà. 

Ieri ho scritto dell’immane ricchezza e liquidità derivante dalla posizione finanziaria netta estera positiva per 90 miliardi. Una ragazza così ha commentato: “ci tengono a stecchetto.” 

Già, è proprio questo il problema. Ma ormai il panorama di lavoro schiavistico, di lavoro nero, di bassissimi salari, cozza – oltre che con la “sensibilità” generale – con gli interessi economici di una parte della borghesia italiana, che vorrebbe una modernizzazione socioeconomica all’altezza dei numeri del Paese. 

Mattarella ha un’enorme responsabilità per ciò che è accaduto negli ultimi 7 anni; ossia l’aver lasciato correre “gli spiriti animali” del capitalismo nostrano oltre il dovuto, fino a forme di schiavitù. E questo è ora il bilancio della classe dirigente che lui stesso rappresenta. Non è inutile ricordare che a questo processo regressivo non hanno posto alcun freno neanche i sindacati “complici”. 

Siamo immersi nella liquidità, c’è fin troppa ricchezza concentrata in troppe poche mani. Prendere coscienza di tutto ciò, rifiutare lo stato di cose presenti – quando oltretutto editoriali mainstream sono costretti a rilevare l’assurdità e le disfunzioni di questa situazione – è la prima cosa da fare.

venerdì 19 novembre 2021

L'USO POLITICO DEL MIGRANTE

La discussione sempre con toni molto minacciosi come mai accaduto nel passato recente riguardo la questione dei migranti ammassati ai confini europei sta assumendo connotati sempre più politici e sempre meno sociali giocando sulla pelle dei soliti disperati trattati sia come merce di scambio che carne da macello.
E' da ottusi non vedere e capire che dietro il braccio di ferro tra la Polonia e la Bielorussia ci siano interessi che con i flussi migratori non c'entrano nulla,con l'Ue che ha il fiato sul collo degli Usa che combattono la loro guerra contro la Russia cercando di accerchiarla lungo la linea che passa dal Mar Baltico al Mar Nero,gettando benzina sul fuoco ai confine tra la suddetta Polonia e gli Stati baltici,che negli ultimi anni sono le nazioni più avverse ai russi e per questo aiutate maggiormente per trarne benefici.
Che la situazione presso il confine bielorusso e polacco sia drammatica non è messa in dubbio,ma una reazione così velenosa e minacciosa dell'Europa non c'è mai stata per esempio nei confronti della Turchia o della Serbia e della Bosnia,dove sia come numeri che come trattamento dei migranti se ne sono viste di peggio(vedi:madn che-ci-sia-memoria-per-i-lager-di-ieri e di oggi e madn persone-usate-come-arma-di-ricatto ).
L'articolo di Contropiano(la-crisi-al-confine-europeo-mostra-il-vero-volto-della-ue )non parla direttamente dei fatti di cronaca,del gioco al rimpiattino tra le parti,delle minacce e della segregazione dei migranti e neppure dell'uso della violenza da parte delle polizie,ma fornisce per l'appunto uno punto politico che non sempre viene spiegato dai mass media nazionali che incentrano l'attenzione soprattutto sulla spietata Bielorussia ma anche sull'incapacità europea di trovare soluzione adeguate ad un problema che nei prossimi anni sarà sempre più pressante e potenzialmente tragico.

La crisi al confine europeo mostra il vero volto della UE.

di  Rete dei Comunisti   

La crisi apertasi al confine tra Bielorussia, Polonia e Lituania deve essere compresa all’interno delle dinamiche di accelerazione delle frizioni tra i diversi attori di differente taglia che ne sono coinvolti.

È un tassello di un quadro di più ampio respiro in cui si intrecciano differenti aspetti: la volontà della Russia di rispondere al suo accerchiamento da parte della NATO spalleggiando un proprio alleato, una risposta della Bielorussia ai tentativi dell’Unione Europea di delegittimarne il corso politico – a suon di sanzioni – dopo le elezioni dello scorso anno,  la spinta di parte anglo-americana di forzare l’UE ad un atteggiamento più risoluto nei confronti della Federazione Russa e non da ultimo i vari contenziosi che riguardano la Polonia e l’Unione Europea su un’ampia gamma di questioni su cui Varsavia e Bruxelles non sembrano giungere ad un accordo.

Giova ricordare infatti che la Polonia, insieme agli Stati Baltici, sono i più ostili a Mosca e quelli su cui gli anglo-americani puntano di più per minare la coesione all’interno della UE.

In questo rebus, la competizione rispetto alle risorse energetiche che transitano dalla Bielorussia non è affatto secondaria, ma quello che va colto in sé non è il casus belli particolare ma il contesto di accesa competizione che lo genera,  le dinamiche che sviluppa e le conseguenze nei rapporti di forza in un sistema di relazioni in cui è sempre più difficile, per gli attori in campo, governare le contraddizioni scatenate dalla crisi del modo di produzione capitalista.

In generale possiamo affermare che vi è una linea di faglia sempre più marcata che va dal Mar Baltico al Mar Nero che sarà sempre più teatro di sommovimenti, provocazioni, forzature e crisi diplomatiche per mutare gli equilibri dati, ma che per ora non sembrano cambiare radicalmente, anche se non sono da escludere precipitazioni belliche localizzate. 

L’ipotesi di un conflitto armato in questa linea di faglia che si prolunga in un arco di instabilità che arriva fino all’Asia Centrale e che comprende altri attori, in primis la Turchia, è sempre latente come ci dimostrano la guerra civile ucraina e la più recente escalation bellica tra Armenia ed Azerbaijan.

Naturalmente, come in altre occasioni, in questo caso tale contesa si gioca sulla pelle di una parte di quelle popolazioni che hanno subito la guerra guerreggiata o quella economica portata avanti dall’Occidente e dal suo modello di sviluppo: Iraq, Siria, Libano in primis.

L’unica colpa di queste persone “intrappolate” nei boschi che costituiscono i confini naturali tra i tre paesi coinvolti hanno è quella di avere perseguito un progetto di fuga da quei contesti resi sempre più invivibili anche da quegli Stati occidentali che hanno partecipato all’invasione militare, o alla destabilizzazione, dei paesi di provenienza degli immigrati. 

L’Occidente non si vuole accollare alcuna responsabilità rispetto alla gestione delle sue fallimentari campagne militari, in primis riguardo ai flussi di profughi che vengono ospitati per la maggior parte dai paesi confinanti: si tratti dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Siria…

Naturalmente questo “effetto boomerang” li tange in maniera molto minore, ma ha comunque fornito una arma diplomatica importante a coloro che la usano come strumento di pressione in più sulle cancellerie europee.

Vogliamo concentrare l’attenzione su un aspetto che riguarda l’ulteriore sconfitta “ideologica” dell’edificio politico dell’Unione che non può più nascondere la sua propensione bellicista ed il suo processo di militarizzazione.

Innanzitutto i media nostrani faticano a relativizzare il cortocircuito, innescato dalla spregiudicata tattica bielorussa, tra la narrazione che l’UE da di sé e la realtà fattuale.

L’editoriale dell’“Avvenire” di questo martedì, a firma di Nello Scavo, coglie in pieno il profilo della fortezza Europa dove si pianta filo spinato e si alzano muri.

L’UE ha costruito un quarto dei muri eretti negli ultimi anni a livello mondiale per ciò che concerne il contenimento delle migrazioni forzate, e negli ultimi 30 anni si è dotata di oltre mille km di recinzioni in via di ampliamento. A questi si devono aggiungere i circa 500 chilometri che la Lituania ha deciso di puntellare con pali d’acciaio e filo spinato, mentre la Polonia ha preso la decisione di erigere un muro al confine bielorusso.

L’agenzia della UE Frontex, che però la Polonia ha deciso di non far intervenire con i suoi effettivi ai propri confini orientali, vedrà incrementati i suoi uomini dai 1.500 attuali a 10mila nel 2027, di cui 7mila distaccati dalle forze dell’ordine nazionali, e avrà nel bilancio un budget superiore alla maggior parte delle agenzie dell’Unione Europea: circa 5,6 miliardi di euro fino al 2027.

Tra i principali beneficiari saranno proprio le aziende dell’apparato militare industriale europeo e consociate, che diverranno organicamente la realizzazione di quegli auspicati campioni europei nella produzioni di beni e servizi.

Che la denuncia venga dalla prima pagina di un quotidiano cattolico, è un segnale di come oramai la pistola fumante dell’imperialismo della UE abbia sempre più difficoltà a nascondersi dietro alla retorica della pace e dell’accoglienza, e della supposta superiorità valoriale.

Ma i progetti di sicurezza ai propri confini e la proiezione della propria potenza all’esterno sembrano viaggiare a braccetto.

Infatti nel 2023 la UE darà vita alle sue prime manovre militari, come è stato rivelato dal quotidiano spagnolo “El Pais” questo lunedì,  acquisendo in via confidenziale il documento che è servito da base di discussione per il confronto tra i Ministri della Difesa e dell’Estero della UE per l’orientamento geostrategico dell’Unione nel prossimo decennio.

Nel documento di 28 pagine si può leggere espressamente che: “a partire dal 2023 organizzeremo in maniera regolare manovre, comprese manovre navali”. Questo è uno dei tanti obiettivi che – se il prossimo marzo verrà adottato questo documento dal Consiglio Europeo – guiderà la politica estera e la difesa della UE.

Sempre secondo questo testo, nel 2025 l’UE potrà contare su una forza d’intervento realmente operativa di 5000 militari, che potrà svolgere missioni di combattimento, e non solo di addestramento, e dal prossimo anno svolgerà manovre anche nel campo cibernetico.

In sintesi sono state messe “nero su bianco” le indicazioni emerse con forza dopo la sconfitta in Afghanistan accelerando il processo della difesa europea e di un ruolo più marcato della sua politica estera nella competizioni globale.

Come Rete dei Comunisti ciò che sta avvenendo ed un ulteriore conferma della necessità di una battaglia a tutto campo contro il polo imperialista europeo e la NATO, e la necessità di prefigurare l’uscita del nostro Paese dalla gabbia dell’Unione e dall’Alleanza Atlantica.

mercoledì 17 novembre 2021

SI TORNA AL VECCHIUME POLITICO

 


Sono anni che in parecchi vedono nella nascita del Pd e soprattutto nella sua "evoluzione" un marchio fortemente connotato da un cattolicesimo proprio della Democrazia Cristiana andata in pensione con l'ormai passato scandalo di tangentolpoli,ma che almeno aveva nel logo e nel programma un dichiarato connubio con la chiesa e con tutto quello che ci va dietro(di brutto soprattutto).
Nella succinta analisi presa da Contropiano(il-pd-e-una-dc-scadente )riguardo un intervento televisivo volto a prendere le difese dell'epurato Renzi dal Partito Democratico,la terminologia"il Pd è una Dc scadente"calza proprio a pennello.
Commenti di politici e di sostenitori del Pd che parlano di chiesa,di papi e di materie sempre state capisaldi dei democristiani(da non confondere con i democratici)sono sempre più numerosi e svilenti nei confronti di chi vede accostato il nome Pd alla sinistra,e da questo non fugge nemmeno la città di Crema che ormai ha imboccato la lunga via della campagna elettorale per il prossimo sindaco.
Senza dubbio lo smantellamento della Dc che contava milioni di elettori ha dovuto ingrassare le fila di partiti che sono nati dal cataclisma di Mani pulite,e certamente chi non si è schierato verso i rottami della democristianietà è andato a destra o a meno destra proprio in questi contenitori politici sempre più vuoti e sempre più simili al vecchiume cui eravamo abituati ma vedo non assuefatti.

Il Pd è una Dc scadente.

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)   

Il filosofo Umberto Galimberti è un liberal conservatore, firma di prestigio del quotidiano di John Elkann, che solo nell’Italia squilibrata a destra di oggi può apparire di sinistra. 

Per questo difficilmente persone come noi che, tenacemente e controcorrente, si considerano comunisti possono concordare con lui. Tuttavia bisogna sempre tenere conto della massima del generale DeGaulle: anche un orologio fermo due volte al giorno segna l’ora giusta. 

In una trasmissione di La7 Galimberti ha affermato: Il PD è una DC scadente. 

Definizione davvero perfetta, anche se il suo autore l’ha espressa per difendere Matteo Renzi contro Enrico Letta, cioè nella speranza di avere una DC per noi ancora peggiore. 

Al di là delle motivazioni, comunque resta la validità del giudizio su un partito che ha scelto Renzi e poi lo ha scartato non per contenuti politici, ma per pure ragioni di potere. Da democristiano tra democristiani. Un partito di centrodestra scadente che occupa però il campo della sinistra e che le impedisce di esistere. 

Questo è il problema vero che dobbiamo cogliere dalla definizione di Galimberti, giusta suo malgrado: in Italia c’é un grande bisogno di ricostruire ed affermare la sinistra, ma questo lo si potrà fare solo contro il PD, scadente o efficiente che sia.

martedì 9 novembre 2021

BASTA AGLI STIPENDI INGIUSTI

Non se ne parlerà mai abbastanza delle scarse retribuzioni che la maggior dei lavoratori italiani porta a casa a fine mese,con i politici seduti a Roma che non fanno nulla per questo problema essenziale ed esistenziale che riguarda milioni di cittadini.
E mentre ingrassano le loro tasche e prendono accordi con imprenditori e le dirigenze dei sindacati confederali,l'economia stagna e il potere d'acquisto è sempre più misero,con una povertà diffusa sempre più estesa ed un salario medio tra i più bassi e meno ritoccati al rialzo di tutta Europa.
Nell'articolo di Left(lavorare-sempre-di-piu-pagati-sempre-meno )degli stralci del comunicato di un'organizzazione che lavora per un salario minimo e dignitoso(Up-su la testa)che esula da qualsiasi reddito di cittadinanza e che parla di lavoratori che dati gli ultimi aumenti ed un'inflazione sempre più pesante hanno visto il loro potere di acquisto venire sempre meno.
Gli spunti sono molteplici partendo dal dato di fatto che le aziende(riunifico per esemplificare dalla piccola officina artigiana alla grande industria)vogliono che il dipendente lavori sempre più venendo pagato sempre meno.
Pagato meno in certi casi lavorativi dove il ricatto e la minaccia fa parte della quotidianità e dove il datore di lavoro-padrone gioca al ribasso perché in giro c'è sempre qualche disperato che se la passa peggio di te,oppure pagato sempre lo stesso senza nessun aumento(sia in sede privata che contrattuale)e come detto prima però con il caro paniere sempre più alto.
Da qui alla guerra tra poveri,alla concorrenza e la competizione tra lavoratori il passo è breve,e gongola solamente il padrone che paga sempre meno,offre sempre meno diritti come ferie,malattie e permessi perché questi conflitti giovano al suo gioco,e le regole per fare cambiare le cose non ci sono ancora.
Per non parlare delle delocalizzazioni sia in Italia che all'estero dove costringono chi lavora a emigrare non solo di una manciata di chilometri ma anche di provincia o regione:se non vuoi sei licenziato e vai ad allungare la già lunga lista dei disoccupati.

Lavorare sempre di più, pagati sempre meno.

di Giulio Cavalli

In Italia moltissime persone guadagnano appena quel che basta per dormire, mangiare e spostarsi. Salari da fame significa crescita della povertà assoluta. E pensioni da fame. Ecco quello che certa narrazione non prende in considerazione

“Up su la testa!”, un’organizzazione politica di studenti, lavoratori e cittadini che è nata con l’intenzione di lavorare insieme ad altri gruppi, fare rete, costruire coalizioni e percorsi comuni ed essere uno spazio di discussione e approfondimento (gente che cerca di unire nel disgregato e disgregante mare della sinistra italiana) ha lanciato una campagna per il salario minimo (“Sotto dieci è sfruttamento”) che fotografa perfettamente un pezzo di Paese che trova (furbescamente) poco spazio nel dibattito politico.

«Tantissime e tantissimi di noi – scrivono nel loro manifesto – nonostante anni di esperienza, studi, sforzi, fatica, non sono indipendenti e soddisfatti della propria condizione di vita. C’è chi è costretto a rimanere a lungo in casa con i genitori, chi ci torna dopo anni di tentativi, c’è chi condivide la casa con amici e sconosciuti nonostante siano passati molti anni dalla fine degli studi. C’è chi lavora tante ore con una paga oraria ridicola e c’è chi è costretto a un part-time dietro il quale si nascondono straordinari non pagati, sfruttamento e ricatti, c’è chi non trova lavoro e chi emigra per averne uno, chi lavora per un decennio nella stessa azienda con una partita Iva senza mai avere ferie e contributi, chi passa da uno stage non retribuito a un finto tirocinio sottopagato, chi prende la metà del suo collega di scrivania pur svolgendo le stesse mansioni, chi ha visto aumentare le proprie bollette a dismisura per lo smartworking e chi viene licenziato perché l’azienda delocalizza all’estero».

Si prende atto che moltissime persone guadagnano appena quel che basta per dormire, mangiare e spostarsi. E se è vero che il denaro non dà la felicità è pur vero che la serenità di non vivere aggrappati sempre per un pelo al fine mese dovrebbe essere un diritto dei lavoratori, al di là della retorica sulla nobiltà della fatica. Il salario medio italiano oggi è di 12.400 euro in meno rispetto a quello di un tedesco, l’Italia insieme a pochi altri Paesi ha nel 2019 salari che sono più bassi rispetto a quelli del 2007 e in Italia più di 5 milioni di lavoratrici e lavoratori guadagnano meno di 10.000 euro all’anno.

Come scrivono giustamente quelli di Up «il lavoro povero non è un problema solo della singola persona, ma è una piaga che si abbatte su tutto il Paese. Salari più bassi significa meno consumi, meno investimenti, meno crescita economica. Salari più bassi significa crescita della povertà assoluta. Il lavoro povero non è un problema che riguarda solo l’Italia di oggi, ma anche quella del futuro. Salari da fame oggi significa pensioni da fame domani. Lavorare sotto i dieci euro l’ora facilita la concorrenza al ribasso, la guerra tra poveri, la competizione tra chi lavora, meccanismi tossici che danneggiano le persone comuni a vantaggio di chi trae profitto dalla nostra fatica. Lavorare in condizioni precarie senza adeguati ammortizzatori sociali e  senza una forma realmente inclusiva di  reddito di cittadinanza vuol dire essere tutte e tutti costantemente sotto ricatto. La vittima di questo ricatto è l’intero Paese».

Tutto questo ovviamente viene disarticolato da una certa narrazione che dipinge gli italiani come un popolo di sfaticati intenti al proprio divano (nonostante i 142.000 stagionali di questa estate siano la cifra più alta degli ultimi anni, anche quando non esisteva il reddito di cittadinanza). L’articolo 36 della nostra Costituzione dice che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Mi pare un punto centrale per qualsiasi per qualsiasi Piano nazionale di ripresa e resilienza. C’è qualcuno lì fuori che vuole farsene carico per uscire dalla narrazione di governo? Sarebbe utile saperlo in tempi brevi.

Buon lunedì.

venerdì 5 novembre 2021

RIBELLIONI PER IL PANE?

 

Desta preoccupazione l'aumento vertiginoso che alcuni prodotti agroalimentari hanno avuto nel recente periodo,e quello riguardante il grano è uno dei più incisivi e pericolosi in un paese dove il pane e la pasta la fanno da padrone sulle tavole.
Nell'articolo di Contropiano(boom-dei-prezzi-del-grano-aumenti-per-pane-e-pasta )le percentuali dell'aumento del prezzo dei prodotti finiti sono pazzesche,ai supermercati i rincari riguardano sia quelli derivati da grano tenero per il pane ma in maggior modo da quello duro per le paste.
Al dettaglio in solo un anno il prezzo del frumento tenero è schizzato del 24% e quello duro dell'81% e i motivi vanno dai crolli produttivi di certe zone ritenute granai del mondo come il Canada all'aumento dei prezzo del carburante e del noleggio dei container per la distribuzione del prodotto.
L'aumento del prezzo del pane più volte è stato la causa di rivolte popolari e di rivoluzioni epocali,chissà se anche questa volta ci sarà un sommossa popolare per un motivo per cui valga la pena di lottare o se i pretesti siano quelli cui siamo abituati nelle ultime settimane.

Boom dei prezzi del grano. Aumenti per pane e pasta.

di  Stefano Porcari  

Possiamo dire che per un bene-rifugio essenziale per i settori popolari come quello della pasta e del pane sono tempi pericolosi. I prezzi del grano stanno aumentando vertiginosamente e le conseguenze cominciano ad essere visibili nel carrello della spesa alimentare delle famiglie.

Occorre sapere che il grano 100% prodotto in Italia soddisfa appena il 36% della domanda. Per il resto arriva dall’estero. Quanto al grano duro, che serve per ottenere farina da pasta, oltre all’aumento vertiginoso dei noli dei container iniziato già nel 2020, ci sono altri motivi che hanno spinto i prezzi verso l’alto (+71% tra il settembre 2020 e il settembre 2021): la siccità in Canada, che ha ridotto molto i raccolti e quindi le esportazioni, il calo dei raccolti in Ucraina (nel 2020 il -12,9% sull’annata precedente) e il fatto che la Russia abbia ridotto le esportazioni per contenere il prezzo all’interno dei propri confini.

“Continuiamo a registrare forti aumenti dei prezzi delle farine e dei prodotti energetici: un trend preoccupante, che non aiuta la ripresa dei consumi” spiega Davide Trombini, Presidente nazionale di Fiesa Assopanificatori della Confesercenti. “La saldatura di queste due dinamiche  rischia di bloccare la ripartenza dell’economia e del nostro settore.

Il prezzo delle farine di frumento tenero a settembre 2021 ha avuto un incremento del 20% rispetto a settembre 2020; il prezzo delle semole di frumento duro cresce in un anno del 66%. Se mettiamo a confronto il prezzo della prima settimana di ottobre 2021 con quello di ottobre 2020, le farine di frumento tenero arrivano a 511,50 euro a tonnellata ossia +24% mentre le semole di frumento duro sono schizzate a 731,70 euro a tonnellata ossia +81%.

A contribuire a questa inquietante dinamica al rialzo hanno contribuito l’aumento del prezzo di gasolio e benzina che, rispetto al mese di ottobre del 2020, hanno avuto un incremento del 24% medio con ripercussioni su tutta la catena distributiva, dal momento che le merci viaggiano per quasi il 90% su gomma e i costi della logistica coprono un terzo del prezzo finale dei prodotti agro-alimentari. Non va meglio per altri carburanti come Gpl e Metano che hanno avuto autentiche impennate dei prezzi.

L’Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha confrontato i prezzi di alcuni prodotti alimentari tra marzo di quest’anno (periodo in cui già si registravano alcune tensioni sui costi delle materie prime) e oggi (con ulteriori aumenti dei costi delle materie prime agricole: +22% per il frumento e +79% per l’avena).

I rincari che ne emergono sul versante dei prezzi al consumo sono notevoli (mediamente del +15%) e sforano la soglia del 30% nel caso della farina, del pane in cassetta e della pasta integrale.

L’aumento dei prodotti energetici e di conseguenza delle bollette di luce e a gas e dei generi alimentari di prima necessità, sta riportando in primo piano sia il carovita e il suo perverso rapporto con i salari e pensioni al palo da anni, sia l’inflazione.

Una spirale che anche il mondo capitalista ha conosciuto in passato e che si va ripresentando in forme più acute e feroci, soprattutto per la totale deresponsabilizzazione dei governi e delle istituzioni che continuano a ritenere di dover lasciare fare “al mercato”.