L'analisi a firma di Gennaro Carotenuto racconta il miracolo economico del centro-sudamerica che a differenza della totalità dei paesi di tutto il mondo nonostante il periodo di crisi riescono ad ottenere incrementi percentuali di crescita economica soprattutto per motivi quali forti investimenti pubblici,centralità del mercato interno e un target delle esportazioni molto diversificato geograficamente.
Non tutto è positivo,infatti due paesi sono in calo e se il caso di Haiti era praticamente certo visto il disastroso terremoto quello del Venezuela fa riflettere in quanto parecchi stati che incentrano la loro ricchezza sul petrolio possono subire l'altalenarsi della domanda mondiale oltre che la forte oscillazione dei prezzi del greggio.
Questi ultimi stati dovrebbero secondo l'autore dell'articolo provare a non indirizzare tutti gli investimenti solo sull'oro nero ma anche su altri settori:altro punto buio è la disoccupazione in quanto la maggior parte della manovalanza a basso costo rimane senza stipendio in quanto la crisi non fa aumentare i posti lavorativi nei settori a basso reddito e quindi la maggior parte dei poveri rimane così.
Al contrario crescono le richieste lavorative nei settori dove serve più specializzazione,ed i governi centro-sudamericani per questo stanno aumentando i fondi per l'istruzione in modo da poter far decrescere il tasso di disoccupazione che comunque rispetto agli scorsi anni è ulteriormente calato.
America latina, la crisi non abita qui.
Il continente intero nel 2010 crescerà del 5.2%. Se un tempo un battito d’ali a Wall Street provocava un uragano a Brasilia o a Buenos Aires, l’accelerata integrazione latinoamericana, voluta dai popoli e alla quale in questo decennio hanno dato impulso grandi dirigenti come Nestor Kirchner, Lula da Silva o Hugo Chávez, è stato solo un venticello (-1.9% nel 2009) nel Sud che continua a tessere la tela del proprio futuro da quando ha smesso di prendere ordini dalla Casa Bianca e dal Fondo Monetario Internazionale. Luci e qualche ombra dalla Patria Grande economica. I dati della Comisión Económica para América Latina y el Caribe (Cepal) delle Nazioni Unite sono contundenti nella loro complessità.
Da una parte il dato preoccupante è che la crisi non permette di creare posti di lavoro per settori a basso reddito e bassa educazione, e quindi i poveri nel 2010 sono ancora quasi 190 milioni, un terzo della popolazione totale, nonostante la disoccupazione sia diminuita dall’8.2% del 2009 al 7.8% di quest’anno. Inoltre i settori economici che più sono in crescita sono quelli che meno occupano (e più negativo impatto ambientale hanno), come l’agroindustria esportatrice (addirittura entusiasmante l’export argentino e brasiliano oltre che verso la Cina verso la sempre più presente India). Due soli paesi registreranno un PIL negativo. Haiti non ha alcuno strumento per fronteggiare la crisi e il terremoto di gennaio comporterà una diminuzione dell’8.5% del PIL e solo nel 2011 le commesse della ricostruzione riporteranno il segno positivo. L’altro paese che decrescerà, del 3%, è il Venezuela. Una decrescita tutta o quasi dovuta ad un solo dato, la catastrofica contrazione dell’export petrolifero del 30.4% dovuta alla crisi internazionale. Emerge in questo dato quanto chi scrive segnala da dieci anni. Se il governo bolivariano non punta tutto sull’uscita dalla (ricca) monocoltura petrolifera non riuscirà a mettere le basi per un Venezuela moderno e dall’economia diversificata e per sostenere le conquiste sociali di questi anni pagate essenzialmente con la bonanza petrolifera. Il paradosso è dunque che il paese e il governo che più hanno fatto per l’integrazione del continente oggi è ancora uno dei più sensibili agli alti e bassi internazionali del prezzo e del consumo di greggio. Integrazione, commercio regionale, politiche pubbliche, sono le chiavi. Non è un caso che ai vertici della crescita ci sia la coesione dei quattro paesi del Mercosur: il Brasile cresce del 7.6%, Uruguay, Paraguay e Argentina del 7%. Poco più in basso c’è il Perù e intorno al 5% troviamo Repubblica Dominicana, Panama e Bolivia. Più indietro, ma sempre con un recupero tra il 2 e il 4% gli altri, i centroamericani, il Messico, il Cile, la Colombia, l’Ecuador. Per Alicia Barcena, segretario generale del CEPAL, le ragioni della resistenza alla crisi dell’America latina vanno ricercate nella persistenza di politiche e investimenti pubblici, alla centralità del mercato interno e alla grande diversificazione dei partner commerciali, soprattutto l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa.
tratto da www.giannimina-latinoamerica.it
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