martedì 19 maggio 2020
L'ENNESIMA RICHIESTA DI SOLDI PUBBLICI DELLA LOBBY TORINESE
Come era facile pronosticare è arrivata la domanda di Fca per usufruire di aiuti statali italiani per 6,3 miliardi di Euro,così come è sempre successo nel belpaese l'azienda privata torinese degli Agnelli e ora Elkann ormai da decenni,privatizzando i profitti e socializzando i debiti(vedi:madn lasse-tremonti-marchionne ).
Proprio settimana scorsa(vedi:madn tasse-italiane-allestero )si era parlato dei possibili aiuti forniti ad aziende dal nome e dalla storia italiana che però per i loro comodi hanno spostato le loro sedi in altre parti d'Europa e del mondo dove si pagano meno contributi,ed ecco puntuale la richiesta Fca(sede fiscale ad Amsterdam e legale a Londra)di poter campare nuovamente sulle spalle degli italiani,cosa che va avanti dagli anni settanta,che è ciò riportato nel primo contributo(left fca-ossia-un-prestito-statale-da-6,3-mld ).
Nel secondo(contropiano il-dittatore-dello-stato-libero-di-repubblica )invece ecco in prima persona il nuovo boss Elkann che nelle ultime settimane ha rivoluzionato i comandi delle testate di cui è ormai il proprietario e che fanno da portavoce al business che ha creato dal nulla,effettivamente ha ereditato tutto e non è frutto di certo di qualche sua genio particolare o di un semplice lavoro,il tutto cominciato nel 2016 con le fusioni tra alcuni dei più noti gruppi editoriali italiani(vedi:madn tempi-di-fusioni-editoriali ).
Tutto questo porterà a ricatti cui il governo sarà tenuto ad essere attento,come al guinzaglio perché non sarebbe la prima volta che la lobby delle auto di Torino ora globalizzata minacci di chiudere stabilimenti oppure delocalizzarli(intanto lo hanno sempre fatto lo stesso),quindi Elkann è stato storicamente messo nella condizione del"o lo Stato ci dà i soldi o chiudiamo",nella grande tradizione della famiglia Agnelli.
Fca, ossia, un prestito statale da 6,3 mld nella tradizione degli Agnelli.
di Left redazione
Non si capisce quale livello di garanzia possa offrire una azienda che nei prossimi mesi farà parte di un gruppo con sede all’estero di cui non avrà la presidenza. A fronte di questo prestito miliardario, quale piano industriale potrà pretendere il governo italiano?
Giovedì 14 maggio. «Alla luce dell’impatto dell’attuale emergenza dovuta al Covid-19, Fca congela il pagamento dei dividendi». Un – sospettabile – livello di sensibilità da madre Teresa di Calcutta. La fregatura, infatti, c’è. Seppur nascosta, è tuttavia facilmente smascherabile con un sonoro «Buuu!». Si tratta infatti non di azione da buon samaritano. Procedere alla spartizione avrebbe infatti significato non poter battere cassa, ché non sarebbero state rispettate le clausole contenute nel decreto governativo relativamente alla presentazione di una richiesta di un prestito alla Sace (la società di Cassa depositi e prestiti specializzata nel settore assicurativo e finanziario) che ne garantirebbe l’80% con erogazione da parte di Intesa San Paolo. Nella fattispecie, parliamo di un prestito per un valore che questo decreto, stabilendolo al 5% dei ricavi in Italia, porta la cifra a 6,3 miliardi di euro, cioè oltre il doppio della nuova mancia prevista per il dead man wolking Alitalia. Richiesta che Fca non poteva farsi sfuggire, come avevano insegnato i padri nobili del ramo italico dell’azienda: quella famiglia Agnelli che, storicamente, quando la fabbrica aveva «necessità impellenti» (così le chiamava “il patriarca” Giovanni, cioè il nonno dell’Avvocato) batteva cassa al governo col malcelato sottinteso che un eventuale rifiuto avrebbe significato mettere per strada migliaia di operai, cioè di famiglie: bombe sociali. Una “pressione” cui dovette piegare la mascella più volte perfino l’uomo della provvidenza.
Quel duce del fascismo, che «in una memorabile giornata» in fabbrica, il 30 settembre del 1933, «davanti alle maestranze che spontaneamente lo acclamavano romanamente» – come risulta da sobrie cronache dell’epoca -, fu definito dal “patriarca” dell’azienda, «salvatore della Patria». In quella occasione, “il salvatore” seriale delle patrie aziende grazie alle non casuali munificenze dell’Iri, inizialmente battezzata nel 1933 come “salvatore” delle banche, eliminò un pericoloso concorrente: quella Ford che aveva osato impiantare uno stabilimento a Trieste accordandosi con Isotta Fraschini per penetrare il mercato italiano. Una blasfemia per Agnelli cui provvide il dux chiudendo d’imperio quell’oltraggio. «Il tempo sinistro del sovversivismo distruttore, che da noi culminò con l’episodio tragico dell’occupazione delle fabbriche, è passato per sempre. Sorse Mussolini, il liberatore, il costruttore, e l’Italia che non poteva morire fu tutta con lui»: queste sono invece le parole di Giovanni Agnelli il 14 maggio 1939 all’inaugurazione degli stabilimenti Mirafiori alla presenza del “liberatore” in camicia nera. Camicia nera indossata anche dal “patriarca”, ma che aveva fatto tingere da una bianca a sua moglie, spiegandole che prima o poi avrebbe dovuto ritingerla, quella camicia, nel solco di diversi bucati politici i cui cromatismi, nati nell’età giolittiana, sarebbero proseguiti per molti e molti polli e rampolli successivi. Una tradizione che avrebbe visto gli Agnelli specializzarsi nella mungitura della vacca statale in quella stalla in cui s’insegnava come socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Tradizione cui tiene fede – se non altro per non interrompere così nobili tradizioni di famiglia – l’ultimo rampollo, aspirante presidente, seppur senza comando, alla cui leva saranno i francesi della Peugeot del futuro colosso che nascerà dalla fusione con Fca calendarizzata per l’inizio 2001.
E siccome siamo a poco più di un semestre da quel parto programmato, la puerpera Fca non può farsi sfuggire l’occasione di una flebo da 6,3 miliardi, trattandosi – fra l’altro – non di un prestito, né di un bond, ma di una linea di credito a un tasso agevolato (agevolatissimo). Fin qui i “fatti loro”. Ci sono poi i “fatti nostri”, vale a dire le garanzie che sia io sia gli altri cinquantanovemilioni e rotti di italiani dovremmo pretendere per tramite del governo. E qui si aprono questioni complicate: non si capisce infatti quale livello di garanzia possa offrire una azienda che nel volgere dei prossimi mesi farà parte di un gruppo di cui non avrà la presidenza. A fronte di questo prestito, quale piano industriale potrà pretendere il governo? Altro dettaglio non da poco: Fca ha sede legale ad Amsterdam e fiscale a Londra, cioè nella capitale di quell’UK che sta negoziando la Brexit. Conte, ha “chiarito” che stiamo parlando «di una fabbrica italiana che occupa moltissimi lavoratori italiani» e, a scanso di intuibili e petulanti richieste di spiegazioni da parte della stampa, ha fatto filtrare la “stravaganza” che una azienda beneficiata di cotanti miliardi debba però avere sede fiscale in Italia e sede legale a Torino. Come non bastasse, con un tweet di quelli tosti, Carlo Calenda ha fatto tremare i polsi alle vene Fca (si fa per dire): «La sede legale e fiscale torna a Torino sennò saremmo nel surreale», dimenticando che quando era ministro dello sviluppo economico dei governi Renzi e Gentiloni, graziava di cassa integrazione un’azienda i cui vertici non venivano mai manco convocati. Per rispondere a eventuali – anzi, sicure – prossime obiezioni e richieste di chiarimenti, Fca ha convocato per il 26 giugno prossimo l’assemblea annuale degli azionisti. Ad Amsterdam.
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Il dittatore dello stato libero di Repubblica.
di Redazione Contropiano
Cadono le foglie di fico e si vede tutto. C’è proprio poco, diciamolo subito!
Sotto le giaculatorie sulla “libertà di stampa”, in un Paese in cui ben pochi giornali – in genere molto minori – sono in mano a “editori puri” (imprenditori che fanno dell’editoria il proprio business principale, in termini di fatturato e ricavi), si cela una realtà servile piuttosto squallida.
La situazione è peggiorata – anche se non sembrava possibile – con il doppio salto mortale della proprietà di Repubblica-L’Espresso e La Stampa. Con Debenedetti – da una vita proprietario del giornale fondato da Eugenio Scalfari – che prima compra il quotidiano torinese da sempre proprietà della famiglia Agnelli, poi (sotto la pressione dei figli) rivende tutto… agli Agnelli.
I quali, con la classe che li contraddistingue da sempre, cambiano il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, proprio nel giorno della mobilitazione nazionale in suo favore, minacciato più volte da fascisti rimasti fin qui sconosciuti (bisogna ammettere che la vista della polizia italiana è su questo fronte particolarmente deficitaria…).
Se uno fosse un po’ dietrologo potrebbe sospettare che la sostituzione sia arrivata a coronamento di un’operazione piuttosto spericolata.
Ma lasciamo perdere le malignità, anche se fondate su “coincidenze oggettive”…
John Elkann, principale erede dell’impero dell’Avvocato, mette al suo posto Maurizio Molinari, che fino a quel giorno aveva diretto il quotidiano torinese. Mentre a La Stampa approda Massimo Giannini, onnipresente prezzemolino televisivo del neoliberismo redazionale, cresciuto e allevato proprio a Repubblica. Deve essere una garanzia di fedeltà, crediamo…
Personaggio parecchio controverso anche Molinari, con una vita trascorsa a fare l’inviato in Israele e negli Stati Uniti, senza che nessuno abbia mai potuto registrare un qualche timido accenno di critica verso le politiche di quei due Paesi. E dire che non sarebbero mai mancati fondati motivi…
Anche qui le voci di redazione, da una vita, lo avvicinano ripetutamente al Mossad o alla Cia, con più insistenza sulla prima “ditta”. Ma sono certamente malignità, sapete come sono fatti i giornalisti…
Comunque sia, in un solo mese Molinari ha ridisegnato Repubblica – un giornale di destra liberista, iper-establishment fighettoso, per motivi incomprensibili catalogato tra la “stampa di sinistra” (forse in omaggio a quando L’Espresso bastonava il potere democrisiano, invece di fargli da palo come negli ultimi 40 anni…) – in un fogliaccio para-trumpiano, anti-cinese e anti-russo (lo era anche prima, ma con toni un po’ meno da Pentagono…) e naturalmente confindustriale in stile Assolombarda.
Il tutto in nome della “difesa della democrazia” e della “libertà di stampa”.
Poi accade che ci sia quella scabrosa notizia della Fiat-Fca che, non riuscendo a convincere Banca Intesa – sua storica fiancheggiatrice torinese – a prestarle 6,3 miliardi di euro, si fa venire la brilante idea di chiedere allo Stato italiano di farle da “garante”.
Non serve essere degli economisti sofisticati per capire che significa. Se la Fiat-Fca non dovesse essere in grado di restituire quei soldi a Banca Intesa – cosa quasi certa, visto il precipizio in cui è sprofondato il mercato automobilistico con la pandemia – a Banca Intesa glieli daremo noi. I contribuenti che pagano le tasse (Fiat non lo fa più, ha messo la sede fiscale in Olanda…).
Una sfrontatezza un po’ eccessiva anche per i navigati giornalisti di Repubblica, che si riuniscono in assemblea e approvano un comunicato critico su come il loro giornale sta affrontando il tema (un classico caso di “conflitto di interessi” giornalistico, tra verità e business padronale).
Il Comitato di Redazione (la struttura sindacale) ne chiede la pubblicazione, come previsto dal contratto di lavoro (quello dei giornalisti è un po’ più garantista di quello metalmeccanico o dei braccianti…).
E Molinari mostra la vera faccia della “democrazia” in Uso a Tel Aviv o Washington. E si rifiuta di pubblicarlo.
Punto.
Non si critica il padrone, ma dove vi credete di essere…
Qui di seguito lo stupefatto articolo di Professione Reporter,
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Repubblica, Molinari non pubblica il comunicato del cdr sui 6,3 miliardi alla Fca
Alle ore 15 di lunedì 18 maggio è stata convocata a Repubblica un’assemblea. Ordine del giorno: il caso Fca, ex Fiat e il prestito da 6,3 miliardi che ha chiesto di garantire alla Sace, società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti.
Il comitato di redazione mette sul piatto le sue dimissioni, dopo il rifiuto del direttore Maurizio Molinari a pubblicare un comunicato, così come prevede il contratto di lavoro all’articolo 34.
Repubblica di domenica 17 maggio ha dedicato un richiamo in prima e l’intera pagina 26 alla vicenda, con due pezzi, uno di Paolo Griseri nel quale si spiega che il prestito andrà a beneficio del lavoro in Italia e uno del caporedattore Economia e finanza Francesco Manacorda intitolato “Una formula innovativa che aiuterà migliaia di imprese”.
Qui si racconta che Fca fa un quarto del suo fatturato in Italia, che “paga in Italia tutte le tasse sulla attività nel nostro Paese”, che il settore automotive assicura il 6 per cento del Pil nazionale e il 7 per cento dell’occupazione.
Il cdr protesta, il sindacato interno dei giornalisti ritiene che si tratti di una copertura dell’evento squilibrata a favore dell’azienda controllata dal principale azionista del giornale, la Exor di John Elkann. Chiede di pubblicare un comunicato sul giornale. Molinari rifiuta.
Il cdr convoca l’assemblea (in video) con due punti all’ordine del giorno: ricadute del caso Fca, dimissioni del cdr. Molinari ha dato la disponibilità ad intervenire all’assemblea, per illustrare le sue ragioni.
L’insediamento del nuovo direttore in poco più di un mese ha già vissuto vari momenti di tensione con la redazione.
Sciopero quando il predecessore Verdelli è stato sostituito proprio nel giorno (23 aprile) in cui, secondo i gruppi neonazisti che lo minacciavano, sarebbe dovuto morire.
Polemica sull’istituzione del premio per il miglior giornalista della settimana con 600 euro in palio.
Esodo, per solidarietà con Verdelli e per i mutamenti avvenuti nei contenuti del giornale, di alcuni collaboratori come Gad Lerner, Enrico Deaglio, Pino Corrias. Clamore per la decisione di Molinari di scrivere un fondo ogni domenica sotto quello del Fondatore Eugenio Scalfari.
Ora è la volta del caso Fca e dei 6,3 miliardi di prestito a tasso agevolato da parte di intesa San Paolo con garanzia pubblica.
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