Comunque un buon viatico per il futuro,il contrario di quel che dice quel rosicone assassino del premier israeliano Netanyahu che ha mal digerito(usando un eufemismo)questa decisioni supportata addirittura dal voto dell'Italia,cosa che mi ha largamente stupito in quanto anche il paventato astensionismo avrebbe comunque spezzato una lancia in favore di Israele.
L'articolo comunque non nega che questo sia la fine dei problemi della Palestina,ma adesso c'è una tangibile speranza che possa far sì che lo Stato mediorentale possa avere più amici rispetto a prima,con buona pace di Israele e Usa.
Palestina, voto storico, promossa "Stato osservatore delle Nazioni Unite"
Cisgiordania e Gaza hanno festeggiato per tutta la notte, in un incessante sventolio di vessilli e tra assordanti inni nazionalistici, il voto dell'Assemblea generale delle Nazioni unite con 138 voti favorevoli e appena 9 contrari hanno accolto la richiesta di adesione come «osservatore» dello Stato di Palestina presentata dal presidente Abu Mazem. Una festa alla quale hanno preso parte anche i rabbini di Naturei Karta, una setta ebraica antisionista da sempre vicina alla causa palestinese.
Un discorso pronunciato in una data carica di significato: il giorno della solidarietà internazionale con il popolo palestinese, l'anniversario del voto che alle Nazioni unite nel 1947 approvò il piano di spartizione della Palestina, nello Stato di Israele e in uno Stato palestinese che invece non è mai nato. Abu Mazen, rivolgendosi alla platea, ha ricordato tutto questo, ha riaffermato la sua volontà di negoziare e chiesto al mondo di non negare ai palestinesi la libertà dopo decenni sotto occupazione israeliana. Frasi accompagnate da applausi scroscianti.
In queste ore gli interrogativi sono tanti e immediati dopo l'iniziativa lanciata al palazzo di Vetro da Abu Mazen. Occorre ricordare che è stato mancato l'obiettivo dell'adesione piena alle Nazioni unite, richiesta dal presidente palestinese il 23 settembre 2011. A causa delle minacce di veto degli Stati uniti nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite non è passata inosservata la passività, durata diversi mesi, dell'Olp sui tavoli della diplomazia internazionale mentre la popolazione voleva una campagna massiccia di sostegno al progetto, a maggior ragione dopo l'accoglimento della Palestina nell'Unesco.
Ora che lo Stato di Palestina occupa (senza diritto di voto) un posto alle Nazioni unite cosa faranno i dirigenti dell'Olp per trasformare un successo simbolico in risultati concreti a sostegno delle aspirazioni del loro popolo? Useranno i loro diritti acquisiti per avviare, come si è detto, procedimenti volti ad incriminare Israele per le sue politiche di occupazione, a partire dalla colonizzazione di Cisgiordania e Gerusalemme est? Oppure si asterranno dal farlo sotto la pressione di Stati uniti e di alcuni paesi europei? Abu Mazen ha predisposto un piano per il contenimento di possibili ritorsioni israeliane?
Infine, e non certo per importanza, è lecito chiedersi se Abu Mazen sia pienamente consapevole che lo Stato di Palestina «osservatore» rischia di trasformarsi in una trappola letale per il suo popolo se non sarà avviato un progetto nazionale palestinese di opposizione politica e diplomatica alla strategia di colonizzazione ed annessione territoriale che Israele porta avanti in Cisgiordania. Già ora le aree autonome palestinesi, figlie dei falliti accordi di Oslo, appaiono come bantustan. E non ci vuole tanta fantasia per immaginare un futuro stato indipendente palestinese senza sovranità, senza controllo delle sue frontiere e del suo spazio aereo. E se a ciò aggiungiamo la cooperazione di sicurezza tra servizi israeliani e dell'Anp, ormai in atto da anni, i sostenitori della soluzione dello stato unico, per ebrei e palestinesi senza differenze, non possono che trovare continue e sempre più valide motivazioni alle loro tesi.
Non è marginale in questo ragionamento l'ingresso in campo del premier israeliano, Benyanim Netanyahu, uscito ieri allo scoperto in anticipo sul discorso di Abu Mazen all'Onu. «Sul terreno non cambierà nulla - ha avvertito il primo ministro - anzi, questo voto allontanerà la nascita di uno Stato palestinese». Di fronte alla possibilità concreta del successo dell'iniziativa lanciata dal presidente palestinese, Netanyahu ha voluto riaffermare le condizioni alle quali non rinuncerà mai. «Non sarà costituito uno stato palestinese - ha detto - senza il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico; non sarà costituito uno Stato palestinese senza la proclamazione della fine del conflitto; non sarà costituito uno Stato palestinese senza provvedimenti di sicurezza reali che difendano lo Stato di Israele e i suoi abitanti...Come primo ministro di Israele non consentirò che una nuova base terroristica dell'Iran venga a costituirsi nel centro di questa terra, nella Giudea-Samaria (Cisgiordania, ndr) a un chilometro da qua», ossia da Gerusalemme, dove teneva il discorso. «Nessuna forza al mondo potrà obbligarmi a fare compromessi sulla sicurezza di Israele», ha concluso.
Torna con prepotenza la questione del riconoscimento palestinese di Israele quale «Stato ebraico», Stato degli ebrei. Una richiesta che persino il moderato presidente Abu Mazen fa fatica ad accettare poichè teme che questo riconoscimento significhi l'annullamento di fatto della risoluzione dell'Onu 194 che sancisce il ritorno dei profughi del 1948 nella loro terra d'origine (oggi in buona parte territorio israeliano), e apra la strada a provvedimenti tendenti a limitare i diritti della minoranza palestinese in Israele (1,6 milioni sono gli arabi israeliani). E non solo gli Stati Uniti ma anche quei paesi europei che ieri si accingevano a votare a favore dell'iniziativa di Abu Mazen - a cominciare dall'Italia costretta, per evitare l'isolamento in Europa, a votare «sì» al Palazzo di Vetro con grande disappunto di Tel Aviv - sono schierati apertamente con Netanyahu sul riconoscimento di Israele quale Stato ebraico e contro il ritorno dei profughi. Posizioni con le quali presto Abu Mazen dovrà fare i conti, che vanno ben oltre il simbolismo delle Nazioni Unite e che rischiano di lacerare ulteriormente le principali forze politiche palestinesi.
Ieri le bandiere verdi di Hamas sventolavano un po' ovunque, da Ramallah a Gaza, assieme a quelle gialle di Fatah e rosse del Fronte popolare e delle altre formazioni della sinistra. A Gaza City, per la prima volta dal 2007 - anno in cui Hamas ha preso il potere nella Striscia - Fatah ha partecipato ad una manifestazione insieme a sostenitori del movimento islamista. Un piccolo segnale di unità, frutto della recente offensiva israeliana contro Gaza e dell'iniziativa dell'Olp alle Nazioni unite sostenuta anche dal leader del movimento islamico Khaled Mashaal.
A Tel Aviv 250 persone hanno preso parte a una manifestazione - organizzata da gruppi israeliani di sinistra e per i diritti umani - per sostenere la richiesta palestinese all'Onu. «Israele e Palestina, due Stati per due popoli», scandivano i manifestanti. Ma quello palestinese dovrà essere uno Stato vero, non solo un inno e una bandiera su un pennone.
Un discorso pronunciato in una data carica di significato: il giorno della solidarietà internazionale con il popolo palestinese, l'anniversario del voto che alle Nazioni unite nel 1947 approvò il piano di spartizione della Palestina, nello Stato di Israele e in uno Stato palestinese che invece non è mai nato. Abu Mazen, rivolgendosi alla platea, ha ricordato tutto questo, ha riaffermato la sua volontà di negoziare e chiesto al mondo di non negare ai palestinesi la libertà dopo decenni sotto occupazione israeliana. Frasi accompagnate da applausi scroscianti.
In queste ore gli interrogativi sono tanti e immediati dopo l'iniziativa lanciata al palazzo di Vetro da Abu Mazen. Occorre ricordare che è stato mancato l'obiettivo dell'adesione piena alle Nazioni unite, richiesta dal presidente palestinese il 23 settembre 2011. A causa delle minacce di veto degli Stati uniti nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite non è passata inosservata la passività, durata diversi mesi, dell'Olp sui tavoli della diplomazia internazionale mentre la popolazione voleva una campagna massiccia di sostegno al progetto, a maggior ragione dopo l'accoglimento della Palestina nell'Unesco.
Ora che lo Stato di Palestina occupa (senza diritto di voto) un posto alle Nazioni unite cosa faranno i dirigenti dell'Olp per trasformare un successo simbolico in risultati concreti a sostegno delle aspirazioni del loro popolo? Useranno i loro diritti acquisiti per avviare, come si è detto, procedimenti volti ad incriminare Israele per le sue politiche di occupazione, a partire dalla colonizzazione di Cisgiordania e Gerusalemme est? Oppure si asterranno dal farlo sotto la pressione di Stati uniti e di alcuni paesi europei? Abu Mazen ha predisposto un piano per il contenimento di possibili ritorsioni israeliane?
Infine, e non certo per importanza, è lecito chiedersi se Abu Mazen sia pienamente consapevole che lo Stato di Palestina «osservatore» rischia di trasformarsi in una trappola letale per il suo popolo se non sarà avviato un progetto nazionale palestinese di opposizione politica e diplomatica alla strategia di colonizzazione ed annessione territoriale che Israele porta avanti in Cisgiordania. Già ora le aree autonome palestinesi, figlie dei falliti accordi di Oslo, appaiono come bantustan. E non ci vuole tanta fantasia per immaginare un futuro stato indipendente palestinese senza sovranità, senza controllo delle sue frontiere e del suo spazio aereo. E se a ciò aggiungiamo la cooperazione di sicurezza tra servizi israeliani e dell'Anp, ormai in atto da anni, i sostenitori della soluzione dello stato unico, per ebrei e palestinesi senza differenze, non possono che trovare continue e sempre più valide motivazioni alle loro tesi.
Non è marginale in questo ragionamento l'ingresso in campo del premier israeliano, Benyanim Netanyahu, uscito ieri allo scoperto in anticipo sul discorso di Abu Mazen all'Onu. «Sul terreno non cambierà nulla - ha avvertito il primo ministro - anzi, questo voto allontanerà la nascita di uno Stato palestinese». Di fronte alla possibilità concreta del successo dell'iniziativa lanciata dal presidente palestinese, Netanyahu ha voluto riaffermare le condizioni alle quali non rinuncerà mai. «Non sarà costituito uno stato palestinese - ha detto - senza il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico; non sarà costituito uno Stato palestinese senza la proclamazione della fine del conflitto; non sarà costituito uno Stato palestinese senza provvedimenti di sicurezza reali che difendano lo Stato di Israele e i suoi abitanti...Come primo ministro di Israele non consentirò che una nuova base terroristica dell'Iran venga a costituirsi nel centro di questa terra, nella Giudea-Samaria (Cisgiordania, ndr) a un chilometro da qua», ossia da Gerusalemme, dove teneva il discorso. «Nessuna forza al mondo potrà obbligarmi a fare compromessi sulla sicurezza di Israele», ha concluso.
Torna con prepotenza la questione del riconoscimento palestinese di Israele quale «Stato ebraico», Stato degli ebrei. Una richiesta che persino il moderato presidente Abu Mazen fa fatica ad accettare poichè teme che questo riconoscimento significhi l'annullamento di fatto della risoluzione dell'Onu 194 che sancisce il ritorno dei profughi del 1948 nella loro terra d'origine (oggi in buona parte territorio israeliano), e apra la strada a provvedimenti tendenti a limitare i diritti della minoranza palestinese in Israele (1,6 milioni sono gli arabi israeliani). E non solo gli Stati Uniti ma anche quei paesi europei che ieri si accingevano a votare a favore dell'iniziativa di Abu Mazen - a cominciare dall'Italia costretta, per evitare l'isolamento in Europa, a votare «sì» al Palazzo di Vetro con grande disappunto di Tel Aviv - sono schierati apertamente con Netanyahu sul riconoscimento di Israele quale Stato ebraico e contro il ritorno dei profughi. Posizioni con le quali presto Abu Mazen dovrà fare i conti, che vanno ben oltre il simbolismo delle Nazioni Unite e che rischiano di lacerare ulteriormente le principali forze politiche palestinesi.
Ieri le bandiere verdi di Hamas sventolavano un po' ovunque, da Ramallah a Gaza, assieme a quelle gialle di Fatah e rosse del Fronte popolare e delle altre formazioni della sinistra. A Gaza City, per la prima volta dal 2007 - anno in cui Hamas ha preso il potere nella Striscia - Fatah ha partecipato ad una manifestazione insieme a sostenitori del movimento islamista. Un piccolo segnale di unità, frutto della recente offensiva israeliana contro Gaza e dell'iniziativa dell'Olp alle Nazioni unite sostenuta anche dal leader del movimento islamico Khaled Mashaal.
A Tel Aviv 250 persone hanno preso parte a una manifestazione - organizzata da gruppi israeliani di sinistra e per i diritti umani - per sostenere la richiesta palestinese all'Onu. «Israele e Palestina, due Stati per due popoli», scandivano i manifestanti. Ma quello palestinese dovrà essere uno Stato vero, non solo un inno e una bandiera su un pennone.
Michele Giorgio
tratto da nena news