sabato 27 settembre 2014

EQUO E SOLIDALE?

Appena ho letto qualche tempo addietro questo articolo tratto da Q Code Mag di Raffaele Masto(http://www.qcodemag.it/2014/09/21/equo-e-solidale-sotto-accusa/ )ho pensato a qualche commento negativo verso poche società senza scopo di lucro che sono nate attorno al giusto tema dell'equo e solidale.
Invece scopro che molte realtà perseguono tutt'altro di quello che reclamizzano tramite gli slogan del futuro sostenibile,dei commerci giusti e dell'economia che premia il produttore in zone disagiate:come evidenziato qui sotto in molti casi il guadagno netto del lavoratore è più basso di quello delle normali società di import-export anche se non si fa riferimento al trattamento ed alle condizioni di lavoro.
Inoltre la piaga del lavoro minorile,e non si parla certamente di quindicenni ma di bimbi di sei anni,che già è difficile da contrastare per mille motivi,in questo contesto sembra che sia ancora di massima importanza anche per quel che riguarda il brand dell'equo e solidale.
Di sicuro bisogna fare chiarezza,e le parole del Fairtrade International criticano fortemente il rapporto stilato in Africa di un organismo del dipartimento per lo sviluppo internazionale del governo britannico,il fair trade employment and poverty reduction.

Equo e solidale sotto accusa.
Uno studio realizzato in Africa Dal Fair Trade Employment and Poverty Reduction fa crollare infatti le certezze che un marchio così affidabile offriva agli acquirenti
Verrebbe da dire che non c’è più religione: adesso anche il commercio equo e solidale è finito sotto accusa, colpevole di non rispettare la sua “mission”, cioè garantire, a chi acquista prodotti etici, che ai produttori africani siano stati garantiti compensi adeguati, condizioni di lavoro dignitose e tutela del territorio.



Uno studio realizzato in Africa Dal Fair Trade Employment and Poverty Reduction, un organismo del Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale del governo britannico, fa crollare infatti le certezze che un marchio così affidabile offriva agli acquirenti.



La Rivista “Africa” che ha pubblicato un lungo articolo sulle conclusioni di questo studio ne riporta alcuni stralci: “I compensi ricevuti dagli agricoltori che vendono prodotti certificati sono spesso più bassi di coloro che hanno a che fare con le società di Import-Export tradizionali”.
Parole che pesano come macigni e che Christopher Cramer, uno dei curatori del rapporto, docente di economia all’Università di studi orientali e africani di Londra, conferma: “In molti casi siamo giunti alla conclusione che il commercio equo e solidale non si è rivelato un efficace meccanismo per migliorare la qualità della vita dei contadini poveri”.


I ricercatori poi toccano un argomento ancora più sensibile, quello del lavoro minorile: “un numero molto significativo di giovani, bambini in età scolare, è stato costretto ad abbandonare la scuola per lavorare nei campi”.



La rivista “Africa” pubblica anche la reazione a caldo del principale ente certificatore dei prodotti equo e solidali: “Le conclusioni del rapporto sono ingiuste e superficiali” – scrive Fairtrade International – “i ricercatori hanno commesso l’errore di confrontare tra loro piantagioni di dimensioni industriali con vivai di dimensioni contenute, gestiti da piccole cooperative di contadini. Di conseguenza i risultati sono distorti e le dichiarazioni rese da alcuni produttori sono state strumentalizzate”.

La vicenda resta aperta, ma il fatto che sia stata sollevata risulta già inquietante in sé. Se anche il commercio equo e solidale è finito sotto accusa, il mercato, quello spietato che tante volte accusiamo, per contrasto, diventa più accettabile.

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