Per Antonio Gramsci erano le «pagliette», dal
noto cappello estivo di forma ovale con fondo piatto venuto alla moda negli
ambienti della borghesia maschile d’inizio Novecento e consacrato nei dipinti
degli impressionisti francesi. L’autore dei quaderni si riferiva ad un
particolare ceto di intellettuali che in una delle sue note scritte in carcere
dopo la condanna del tribunale speciale fascista non esitava a catalogare come
«pennaioli». Personaggi – scriveva – incorporati nelle classi dirigenti
meridionali a cui erano stati concessi particolari favori personali, privilegi
“giudiziari” o di natura impiegatizia e burocratica. Figure che avevano messo le
loro competenze intellettuali al servizio della politica settentrionale di
sfruttamento neocoloniale del Mezzogiorno, riducendosi ad un suo accessorio
“poliziesco” la cui funzione era quella di presentare il malumore sociale del
Meridione come una questione di mera competenza della «sfera di polizia»
giudiziaria.
Dimessa la paglietta e aggiornati gli stili vestimentari al
look delle popstar, un secolo dopo quel genere di intellettuale, “funzionario
del consenso”, non sembra affatto scomparso anche se la sua riproduzione sociale
non è più direttamente legata a forme di sottogoverno ma alle strategie di
marketing dell’industria editoriale, ai potentati finanziario-editoriali, ad un
nuovo e particolare ruolo svolto all’interno degli apparati
repressivo-giudiziari dello Stato.
Una delle figure che più si avvicina
oggi a questo genere di intellettuale è senza dubbio quella di Roberto Saviano,
considerato da alcuni l’autorevole erede del romanzo d’appendice campano, di cui
fu caposcuola Francesco Mastriani, prolifico raccontatore napoletano del basso
romanticismo, una specie di Eugène Sue partenopeo.
Il “civismo” di
Saviano, infatti, non appartiene alla categoria dell’impegno riassunto nella
figura dell’écrivain engagé, ma a quella del volontario che si arruola nella
legione militare della scrittura di guerra, che ne fa un author embedded, uno
scrittore-soldato che agita l’etica armata, il moralismo in uniforme, l’epica
della scorta militare come arma di devastazione di massa dell’intelligenza e
della critica. «E’ roba nostra. E’ un patriota, un cazzuto, uno che sa tenere
una pistola in pugno, uno che sa sbrigarsela al modo dell’uomo vero», aveva
scritto con veemenza Pierangelo Buttafuoco su Libero del 12 maggio 2010.
Un’icona perfetta dell’immaginario superomista, della politica come potenza, un
vero divulgatore di valori e codici di destra. Buttafuoco non aveva torto, il
discorso di Saviano è intriso di postulati d’ordine, ispirato da paradigmi
autoritari e purificatori che si coniugano inevitabilmente col verbo legalitario
e securitario. Incuriosisce semmai che un autore del genere, legato per giunta
alle proprie origini ebraiche, sia tanto irresistibilmente calamitato dal mondo
della criminalità organizzata e dalla letteratura antisemita («Come scrittore –
spiegò a Panorama il 22 dicembre 2009 – mi sono formato su molti autori
riconosciuti della cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Jünger, Ezra
Pound, Louis Ferdinand Celine, Carl Schmitt. E non mi sogno di rinnegarlo, anzi.
Leggo spesso persino Julius Evola, che mi avrebbe considerato un inferiore»),
quasi fosse soggiogato dal fascino oscuro e demoniaco del male, attratto da ciò
che egli designa come il suo contrario ma rispetto alla quale lascia trasparire
una seduzione inconfessabile.
All’inizio, però, l’avventura di Saviano
era nata in un altro modo. L’ambizione che muoveva in origine il giovane autore
di Gomorra era quella di seguire le orme dell’impegno, declinato tuttavia in una
forma che ne preannunciava da subito l’esito: lo spirito di crociata e gli
anatemi moralisti preferiti all’esercizio della critica. Elementi caratteristici
di una funzione intellettuale che ricorda la categoria degli imprenditori
morali, il prototipo dei creatori di norme descritto dal sociologo Howard S.
Becker in Outsiders: «opera con un’etica assoluta: ciò che vede è veramente e
totalmente malvagio senza nessuna riserva e qualsiasi mezzo per eliminarlo è
giustificato. Il crociato è fervente e virtuoso, e spesso si considera più
giusto e virtuoso degli altri».
Saviano escogita una tecnica particolare:
mostra di mettere in gioco se stesso, presentando la propria figura pubblica
come un discrimine tra bene e male. Da una parte la sua probità morale, il suo
coraggio civile, la sua denuncia politica, quella che alcuni arriveranno a
definire addirittura «parrhesia» (il coraggio di dire la verità, il parlare
franco); dall’altra tutti i suoi nemici, di sempre e di turno. Un mondo diviso
tra buoni e cattivi, con un linguaggio accusato di nutrirsi di narcisismo
mediatico e manicheismo.
Saviano non esita a raccontarsi ad ogni
occasione in questo modo, evocando a più riprese Pasolini, di cui annuncia di
voler diventare l’erede, recitando in maniera stucchevole «l’io so» e sentendosi
in questo modo il verbo incarnato di una nuova verità.
Appena può si
appropria dell’immagine dei giornalisti uccisi o perseguitati. Emblematico è il
caso di Anna Politkovskaïa, di cui romanza – come troppo spesso gli accade –
persino le circostanze della morte. Sale sul palcoscenico della difesa della
libertà d’informazione e d’espressione, proprio lui che mostra subito di voler
usare la parola come una forma di potere sugli altri. Quella parola che fin dal
titolo di un suo libro dice di voler utilizzare come strumento per combattere il
crimine organizzato, veicolo di libertà che lui sostiene di difendere contro le
molte censure; quella parola che distribuisce su tutti i supporti mediatici, a
destra e manca degli schieramenti politici, resta legittima solo se da lui
pronunciata. La sua parola, intesa come unica parola possibile e che perciò
stesso esclude le altre.
Per rafforzare la sua credibilità introduce un
nuovo principio di autorità che impiega come una stampella per sorreggere la
propria attività pubblicistica, facendo leva sulla postura cristica e
l’interpretazione vittimistica del proprio ruolo che in questo modo può
garantire sulla verità morale del suo discorso. C’è chi non esita a definirlo
per questo un «martire a pagamento», non trovando alcun riscontro le continue
“lagne” contro la censura e il timore di rappresaglie.
Ben conscio
dell’adagio “chiagne e fotte”, Saviano si mostra un campione del consociativismo
mediale. Trasversale e trasformista si adatta ad ogni supporto purché il
contratto sia conseguente: pubblica per Mondadori ed Einaudi, editrici
belusconiane, poi per Feltrinelli; scrive sull’Espresso e Repubblica, partecipa
a format televisivi che seppure vanno in onda sul terzo canale Rai sono prodotti
dalla casa di produzione Endemol, anch’essa berlusconiana. Tutto ciò non gli
impedisce di offrirsi al pubblico come il campione dell’indignazione permanente,
l’interprete autentico e coerente di questo sentimento. Corre a Zuccotti park
quando il successo del minuscolo pamphlet di Stephén Hessel ha trasformato in un
vezzo mondano il rappresentarsi in questo modo.
Insomma fin da subito
Saviano lascia intravedere una cifra conformista, mettendo in mostra un fiuto da
bottegaio furbastro, uno spirito codino, l’esatto contrario dell’intelligenza
anticipatrice e della coscienza critica.
Tuttavia la maturazione della
nuova funzione intellettuale interpretata da Saviano è stata graduale. Chiamato
inizialmente a ricoprire il ruolo di amministratore ufficiale della memoria
dell’antimafia, entra in conflitto con alcune associazioni storiche come il
Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” e la Casa Memoria
Felicia e Peppino Impastato, che operano sul campo dell’antimafia sociale da
decenni. Il contrasto sfocerà in una cocente sconfitta giudiziaria dello
scrittore-querelante che vede così minata la propria credibilità letteraria e
storiografica. Nel corso delle udienze emergerà un falso macroscopico: nei suoi
scritti Saviano raccontava di una telefonata, mai avvenuta, con Felicia
Impastato, morta nel frattempo e madre di Peppino trucidato dalla mafia, che
l’avrebbe esortato a non mollare. In questo modo, come in una sorta di simbolico
passaggio del testimone, Saviano si attribuiva l’eredità morale di Giuseppe
Impastato.
Un’altra controversia importante oppone Saviano a Marta
Herling, storica e nipote di Benedetto Croce, che aveva duramente contestato la
ricostruzione del salvataggio del filosofo napoletano subito dopo il terremoto
di Casamicciola, fatta dallo scrittore nel corso di una trasmissione televisiva
e poi riprodotta in un libro. Saviano è colto in fallo di fronte all’impiego
delle fonti, il suo tallone d’Achille da sempre. Per uno che vorrebbe correggere
le bozze di Dio, l’errore è grossolano. La vicenda ripropone ancora una volta
l’ambiguità originaria del dispositivo narrativo di Saviano, già contestato in
Gomorra, ovvero la pretesa di potersi avvalere del diritto di romanzare, di fare
fiction preservando al tempo stesso la credibilità e l’autorità del saggio
scientifico. Il tema vero però è quello del rapporto col passato. Per Saviano si
tratta di amministrarne il monopolio sottraendosi ai criteri di verifica e
confutazione esistenti nella comunità storico-scentifica. Esiste un’altra
concezione che ritiene l’approccio al passato un processo, una costruzione
plurale che risponde a criteri di verifica pubblica. Per usare dei paradigmi
semplificatori: da una parte si propone una verità di tipo orwelliano, come fa
Saviano; dall’altra una verità sul modello galileiano.
L’autore campano,
sottoposto dall’ottobre 2006 a programma di protezione da parte dell’Arma dei
carabinieri, è protagonista di un inarrestabile processo di osmosi con gli
apparati inquirenti e d’investigazione che lo ha risucchiato in un gorgo senza
fine. Il livello di integrazione, sovrapposizione e identificazione, è tale da
averlo trasformato in una sorta di divulgatore ufficiale, di testimone in presa
diretta delle fonti delle procure antimafia e dei corpi specializzati di polizia
che operano contro la criminalità organizzata. Situazione che mette a dura prova
l’indipendenza critica dello scrittore, ridotto alle sembianze di un organo
scrivente sempre più incapace di separarsi dal corpo di cui ormai è
parte.
In questo modo Saviano innova la figura del giornalista embedded,
introdotta dal Pentagono nel corso della guerra del Golfo del 2003 per
controllare alla fonte l’informazione sul conflitto, diventando lo “scrittore
arruolato” numero uno delle forze di polizia, degli apparati investigativi e
inquirenti sul fronte interno della criminalità organizzata e dei narcotraffici.
Basta andare leggere le due pagine di ringraziamenti (441-442) presenti alla
fine della sua ultima fatica, Zero, zero, zero, per capire. Qui l’autore è
prodigo di riconoscimenti e gratitudine verso:
«L’Arma dei
Carabinieri, la Polizia, la Guardia di Finanza, i Ros, i Gico, lo Sco, la Dia e
la Dda di Roma, Napoli, Milano, Reggio Calabria, Catanzaro e tutte quelle che
qui ho dimenticato, per avermi permesso di studiare, leggere e in alcuni casi
vivere le loro inchieste e operazioni: Alga, Box, Caucedo, Crinime-Infinito,
Decollo, Decollo bis, Decollo Ter, Decollo Money, Dinero, Dionisio, Due Torri
Connection, Flowers 2, Galloway-Tiburon, Golden Jail, Gree Park, Igres, Magna
Charta, Maleta 2006, Meta 2010, Notte Bianca, Overloading, Pollicino, Pret à
Porter, Puma 2007, Revolution, Solare, Tamanaco, Tiro grosso, Wite 2007, Wite
City.
Ringrazio la Dea, l’Fbi, l’Interpol, la Guardia Civil, i Mossos
d’Esquadra, Scotland Yard, la Gerndarmerie Nationale francese, la Polícia Civil
brasiliana, alcuni membri della Policía Federal messicana, alcuni membri della
Policía Nacional de Colombia, alcuni membri della Policija Russa, che mi hanno
accompagnato nelle loro inchieste e operazioni: Cabana, Cornestone, Dark Waters,
Delfín Blanco, Leyneda, Limpieza, Millennium, Omni Presence, Padrino, Pier
Pressure, Processo 8000, Project Colissée, Project Coronado, Russiagate,
Reckoning, Relentles, SharQC 2009, Sword, Xcellerator.
Ringrazio tutti i pm,
antimafia e non solo, con cui ho studiato e discusso in questi anni. Senza di
loro non avrei potuto scoprire molte cose: Ilda Boccassini, Alessandra Dolci,
Antonello Ardituro, Federico Cafiero De Raho, Raffaele Cantone, Baltasar Garzón,
Nicola Gratteri, Luis Moreno Ocampo, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino,
Franco Roberti, Paolo Storari.
Ringrazio i vertici dell’Arma dei Carabinieri,
il Comandante Generale Gallitelli, il Capo della Polizia di Stato Antonio
Manganelli, e il Comandante Generale Capolupo della Guardia di Finanza.
Ringrazio in particolare il Generale dei Carabinieri Gaetano Maruccia, il
Comandante dei Ros Mario Parente, il Generale della GdF Giuseppe Bottillo, che
hanno seguito la crescita di questo libro.
[...]
Ringrazio nell’Arma dei
Carabinieri coloro che gestiscono la mia vita: il colonnello Gabriele Degrandi,
il capitano Giuseppe Picozzi, il capitano Alessandro Faustini».
da
Insorgenze