Che l'Isis sia una branca di persone che col genere umano non ha nulla a che fare è cosa purtroppo assodata da tempo,i tagliagola ieri hanno ammazzato un altro ostaggio nelle loro mani:ma è anche un fatto abbastanza noto che questa milizia che ha dato vita ad un califfato islamico è stata creata in gran parte dalla Cia già ai tempi delle prime sommosse arabe del 2011 coincise con le primavere arabe.
Egitto e Libia sono stati precursori seguiti in maniera più soft dalla Tunisia e poi dalla Siria in un crescendo di vittime e violenze,solo che nell'ultimo caso il Presidente Assad e le sue truppe hanno resistito con successo fino ad oggi,ed i ribelli pagati ed armati dagli Stati Uniti e dall'Europa per rovesciarlo ora sono la minaccia numero uno al mondo in quando per l'ennesima volta i conti a tavola soprattutto per quanto riguarda gli Usa non sono stati fatti con l'oste.
L'articolo preso da Infoaut cerca di spiegare il fenomeno Isis che sembra nato dal nulla ma che invece anche se breve,ha una sua storia che non è legata ad Al Qaeda e ad altri movimenti islamici di liberazione e di lotta che in modi diversi agiscono nel territorio Mediorientale ed in alcune zone africane ed asiatiche.
Il Califfato non esiste...
Spigolature geopolitiche (2.0)
di rk
E tutti lo sanno. È il segreto di Pulcinella, il non detto
dell’attuale situazione geopolitica in Medio Oriente che è, insieme, quella di
un caos inarrestabile ma anche di una leggibilità cristallina. Partiamo dal
cuore della questione, per i principianti.
Un anno fa ad Obama non era riuscito il bombardamento aereo della
Siria come passaggio decisivo per un regime change a Damasco. Non era
riuscito per l’opposizione russa in primis ma anche per il nullo consenso
nell’opinione pubblica occidentale. E ne aveva ricevuto la riprovazione al
limite dell’insulto da parte della tacita alleanza tra petrolmonarchie
e Israele, già scosse dalla sollevazione araba del 2011 prima contenuta e poi
rovesciata sì, ma con una certa fatica.
Oggi? Obama sta facendo esattamente quello che non gli era riuscito
allora: bombarda il territorio siriano distruggendone il residuo di
infrastrutture e soprattutto stringendo come un avvoltoio il cerchio intorno al
vero obiettivo, il regime di Assad. E lo fa non solo con l’appoggio
militare-logistico dei suddetti ma anche con il consenso o l’acquiescenza
passiva del pubblico occidentale bombardato anche lui dalla caterva di news
incontrollabili intorno al rinnovato refrain della guerra al
terrorismo.
Che l’asse Washington-Arabia Saudita stia agendo per “distruggere”
l’Isis è dunque una favoletta cui neanche un bambino, se adeguatamente
informato, crederebbe. Basterebbe fare due più due. Ma per gli amanti dei
“fatti” ora stanno uscendo anche dettagliate informative sulla vera posta in
palio dell’accordo in questione (p.es.: http://www.zerohedge.com/news/2014-09-25/look-inside-secret-deal-saudi-arabia-unleashed-syrian-bombing),
mentre nei pensatoi e sulla stampa nordamericana si sta apertamente discutendo,
ora con entusiasmo ora con qualche preoccupazione, delle condizioni e delle
implicazioni possibili del rovesciamento del governo di Damasco. Non come
sottoprodotto, attenzione, della lotta anti-terrorismo ma come suo vero
obiettivo.
Ma come, non esistono i tagliatori di teste? E non vogliono
reinstaurare il califfato? Esistono, esistono, e nell’impazzimento del sistema
globale se ne troveranno sempre di più, sia come gang al soldo di
poteri “insospettabili” sia come illusorio riscatto rovesciato, al limite della
sfida nichilista alla morte, nell’odio contro altri esseri umani lungo linee
divisorie di religione o razza. (le due cose spesso e volentieri insieme).
L’Isis, e altre formazioni simili, è questo. Costruito, supportato,
finanziato e armato - potremmo dire: non fino a ieri ma in parte a tutt’oggi -
direttamente dalle petrolmonarchie e dalla Cia (e da Ankara) in funzione
anti-Gheddafi prima e anti-Assad poi. Mentre in Libia il gioco è riuscito, in
Siria aveva finora incocciato la resistenza militare dell’asse sciita oltrechè
la generale disaffezione di gran parte della stessa popolazione sunnita,
all’inizio allettata dall’intervento di “amici” dall’estero. Sconfitta ma non
distrutta l’Isis sul terreno, perché non farla dilagare in Iraq - sfruttando
anche lì la crescente spaccatura sunniti-sciiti - per farne definitivamente un
failed state diviso in tre o quattro porzioni a produrre
un’instabilità permanente, e rompere così l’asse
Iran-Iraq-Siria-Hezbollah? Con i kurdi irakeni complici, e il regime turco
costretto a far buon viso a cattivo gioco.
A questo punto Washington e i veri califfi, i custodi dei
“luoghi santi” del petrolio, non hanno avuto problemi a rovesciare (fino a
quando?) le linee di supporto e iniziare a bastonare i propri ex freedom
fighters (come già in Libia, e preparandosi a sostenere/creare altre
“libere” opposizioni ai regimi “non democratici”). Nel più puro stile dei
racket, appunto. Orchestrando al contempo un’incredibile campagna di
disinformazione che… neanche Bush.
Due cose ancora andrebbero tenute in debito conto.
L’Isis, e consimili, non sono affatto la prosecuzione di Al
Qaida (per lo meno quella binladista), che per quanto manovrata dagli
ineffabili Saud aveva un suo programma “internazionalista” in salsa islamista
che cercava di diffondere non certo grazie a video tragico-demenziali da kids
di banlieu in formato facebook ma con messaggi alle “masse” (e anche al pubblico
occidentale). Basta pensare che invece i califfisti questa estate, mentre
dilagavano (li si lasciava dilagare) in Iraq, non hanno avuto mezza parola sul
massacro israeliano a Gaza…
Ma, su tutto, va considerato che ciò che ha innescato l’attuale
situazione di disgregazione al limite dell’impazzimento in Medio Oriente è
precisamente la risposta statunitense alla sollevazione di piazza Tahrir (e
delle altre Tahrir arabe). Il détournement obamiano della cosiddetta
primavera araba a partire dall’aggressione alla Libia - da tutti salutata come
liberazione da un “tiranno” - è proseguito nell’assalto indiretto alla Siria,
nel rovesciamento reazionario della situazione egiziana ecc. ecc.
Se non si parte da questo - comprese le debolezze e i limiti del
ciclo di lotte Occupy, nel mondo arabo e in Occidente - si rischia di non
capirci più nulla. E di accodarsi oggi, senza il minimo di autonomia politica,
vuoi alla rinnovata lotta al “terrorismo” vuoi, su altri fronti, agli
scimmiottamenti di Occupy che piazze più o meno consapevolmente filo-americane
han fatto o stanno facendo o faranno contro il “regime antidemocratico” di
turno. Mentre la geopolitica del caos targato U.S.A. può così proseguire (ma,
pensiamo, sempre meno indisturbata) inserendosi in contraddizioni sociali
reali.
Il meno che si possa dire di fronte a questa tragicommedia degli
orrori (soprattutto a venire) è che se non ci sono fronti statali da difendere,
neanche “tatticamente”, dall’incedere della libertà a stelle e strisce,
non per questo si tratta di restare indifferenti, o peggio compiacenti, di
fronte al nemico number One di ogni prospettiva di cambiamento dello
stato di cose esistente.
Forse sarebbe il momento di tornare a ragionare sul nesso
democrazia, impero, imperialismo… ma non pare esserci
molto interesse al riguardo.
tre ottobre ‘14
rk
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