Do spazio al lungo contributo proposto da Senza Soste che analizza con un editoriale la probabile nomina di Jean-Claude Juncker a presidente della commissione europea dopo aver proposto articoli riguardanti il tema ed un breve saggio.
Elencati retroscena più o meno noti,il nulla osta di Renzi,il sicuro appoggio tedesco soprattutto della Merkel,il no assoluto di Cameron che minaccia l'uscita della Gran Bretagna dall'Ue in caso della scelta del lussemburghese alla guida europea.
Tutti aspetti che dovrebbero vedere chiusa la questione della poltrona della presidenza della commissione con Schulz presidente del parlamento europeo,d'altronde i popolari hanno vinto le ultime elezioni continentali seppur con un breve margine sui socialisti:ultreriore spinta verso Juncker l'assenso convinto di Draghi,messo proprio dal candidato leader del Ppe a guida della presidenza Bce.
Come si suol dire ecco un altro compromesso se non inciucio,sembra che l'esempio italiano faccia scuola anche in Europa.
Juncker e l'Europa affonda?
La probabile, salvo terremoti dell’ultimo momento, elezione di Jean-Claude Juncker a presidente della commissione europea merita diverse considerazioni. Non prima naturalmente di qualche parola su Matteo Renzi. Sembra infatti già proverbiale l’ubiquità politica del presidente del consiglio italiano in Europa. Tanto che sul Journal du Dimanche Renzi appare tra i più convinti dell’elezione di Juncker mentre sul Guardian viene citato citato da Osborne, che non è Ozzy il metallaro ma George il ministro delle finanze britannico, come fortemente scettico e critico proprio sulla candidatura dello stesso Juncker. Ma queste oscillazioni di Renzi, un colpo alla subordinazione italiana a Berlino e un altro ai consigli degli amici della borsa di Londra, sono totalmente inavvertite a Roma. Tanto, con una comunicazione politica a reti unificate, dei giornali che funzionano solo da ufficio stampa (con licenza di foto di lady Renzi in bikini, prospettiva fondoschiena) qualcosa agli italiani si racconterà. Oltretutto la poca stampa di opposizione esistente quando si occupa di qualche scandalo locale, o di definire cosa è politicamente corretto, è già soddisfatta. Nel frattempo, dopo il colloquio con Hollande, Renzi è stato letteralmente scaraventato come oggetto contundente, contro le politiche di austerità della Merkel, da un lanciatore di eccezione. Quel Financial Times, a suo tempo critico verso il Monti pro Merkel ma anche verso il Renzi quando è sembrato pro austerità, che ha scritto un editoriale impegnativo proprio a favore del presidente del consiglio italiano dando una propria lettura della candidatura Juncker. Lettura che sostiene un Renzi che ha appoggia Juncker per allentare il patto di stabilità, rivedere il fiscal compact, rilanciare gli investimenti in Europa in accordo con l’influente SPD Gabriel oggi numero due del governo tedesco. Ma è corretta questa lettura del Financial Times? Possibile che dove ha fallito la Francia, invertire le politiche di austerità dettate da Berlino, riesca l’Italia sotto la guida di Renzi?
Di sicuro l’ubiquità politica del presidente del consiglio italiano serve per dichiarare vittoria in qualsiasi modo finisca il semestre italiano di presidenza. O anche per mediare tra le due anime del governo, quella più filo Londra rappresentata da Renzi e quella maggiormente filo Berlino incarnata da Padoan, in modo che non vi siano fibrillazioni interne.
Il punto è quindi capire, una volta appurato che con lenti italiane si vede poco o nulla di quello che sta accadendo, il significato politico, nel senso più largo della parola, della candidatura Juncker. Meglio farlo in capitoli. Da qui qualcosa di sensato sull’Italia si finisce per capirlo.
E’ L’ECONOMIA, STUPIDO. E POI C’E’ LA FINANZA
La presidenza Juncker alla commissione Ue, la prima di nomina diretta da parte del parlamento europeo di Strasburgo, avverrà in un contesto di ribasso delle stime della “crescita” mondiale. La Banca mondiale, proprio in questo mese le ha riviste al ribasso. Significativo che che abbia riviste di ben sette decimi di punto in un anno per l’economia americana. Stiamo parlando del paese che, per riprendere la “crescita”, ha sconvolto la finanza e l’economia mondiali, dopo la crisi Lehman, con le politiche di Quantitative Easing. Ovvero di gigantesca immissione di liquidità nel sistema finanziario americano e globale per sostenere banche ed acquistare debito sovrano negli Usa e nel mondo. Che una così gigantesca politica di immissione di liquidità, che ha comportato effetti collaterali da nulla come l’aumento dei prezzi dei cereali alla base delle rivolte arabe, generi una crescita “debole” è un bel problema. Che riguarda, se si va a leggere nel profondo, i fondamenti stessi di ciò che oggi è chiamato economia. Ma è anche una questione che presenta almeno due possibili effetti collaterali. Il primo, per governare le bolle speculative generate dall’immissione di liquidità, quello di un parziale raffreddamento della politica di Quantitative Easing americano in grado, a causa della conseguente restrizione del denaro circolante, di far aumentare i tassi di interesse a livello globale e quindi ogni debito sovrano (tra cui quello dell’Italia). Il secondo è quello di radicalizzare la politica di impoverimento del vicino, ovvero la guerra al ribasso tra sistemi monetari, per accaparrarsi comunque quote di mercato nella concorrenza tra sistemi economici in assenza di “crescita”.
La presidenza Juncker non avviene quindi in un periodo di ricostruzione possibile dopo la voragine economico-finanziaria del 2008. Ma in un periodo dove le conseguenze della voragine Lehman sono ancora pienamente in atto. Non solo, circolano analisi, provenienti dalla Banca dei regolamenti internazionali (che ha come azionisti ben 55 banche centrali e funziona da “banca delle banche”) sull’esistenza di bolle speculative finanziarie simili, se non peggiori, a quella del 2007-8. Come, e se, verranno governate queste bolle non è chiaro. Di sicuro l’Europa di Juncker ha davanti a se squilibri strutturali interni, possibili tempeste finanziarie globali, delle quali il governo non è certo, e una concorrenza tra aree economiche pronte ad accaparrarsi quote di mercato con la logica del maggior ribasso.
IL CONTRASTO INGLESE ALLA CANDIDATURA JUNCKER
Diviene quindi chiaro il contesto di forte opposizione inglese alla candidatura Juncker. Londra ha un punto di integrazione con Bruxelles e due forti punti di contraddizione. Il primo è legato dalla possibilità di sfruttare il mercato unico europeo, e tutte le sinergie neoliberiste possibili, gli altri due punti, quelli di contraddizione, però non sono da poco: Londra ha una moneta sovrana, e una propria banca centrale, e inoltre ha metà del Pil determinato da prodotti finanziari. Furono questi due elementi a provocare rotture a livello di vertice Ue tra Germania e Inghilterra. Non tanto quindi per la questione della portata del budget europeo, che l’Inghilterra vuole tradizionalmente ridimensionato, ma per limitare l’invadenza Ue sulla piazza finanziaria londinese e garantire la politica della Banca di Inghilterra. Che è quella di un quantitative easing e di una concorrenza monetaria, con l’Euro, a favore della propria economia. Nell’esigenza di usare il mercato comune Ue. Come si vede, un percorso non privo di forti contraddizioni, quello dell’Inghilterra di Cameron, ma non stupefacente nelle società capitalistiche dove, per natura, le esigenze economico-finanziarie e le alleanze di un paese sembrano più un trattato di illusionismo giuridico che qualcosa dettato da patti certi (che esistono a livello di linguaggio comune non di politica reale).
Ogni modo, l’ipotesi di una presidenza Juncker è stata caricata pubblicamente, a testa bassa proprio da Cameron. Il Telegraph l’ha detto chiaramente: Cameron punta a impedire uno sviluppo compiuto di una Europa sovranazionale, preferisce una “frammentazione di stati” federatati piuttosto che una governance invasiva come quella pensata alla Juncker. Senza domandarsi quale sia il vero Renzi, quello che appoggia Cameron e l’investimento via Londra che bypassa i poteri europei o quello che appoggia Gabriel-Juncker sugli investimenti regolati dalla Ue, si capisce che l’Europa è di fronte ad un bel nodo. O un pieno sviluppo della governance continentale, che di fatto finisce per assorbire l’Inghilterra, o il radicalizzarsi della contraddizione con la Gran Bretagna. Mercato comune vs. autonomia della moneta e indipendenza del pil finanziario inglese dal resto d’Europa. E su questo, sia chiaro, deve essere definito un aspetto. Dietro Juncker c’è Draghi, e qui si comprende come il processo di estensione dell’Europa celi una serie di conflitti economico-finanziari. Con l’Inghilterra in mezzo.
PARLAMENTO, COMMISSIONE, BANCHE E GOVERNANCE EUROPEA: IL TROMPE-L’OEIL DI UN’EPOCA
Come si comprende che dietro Juncker c’è Draghi? Ma nel modo più semplice: il disco verde alla nomina di Draghi alla presidenza della Bce. Fu infatti Juncker, sciogliendo le tensione politica alzatasi dopo la vicenda Strauss-Kahn, a dare la luce verde pubblica proprio alla nomina di Mario Draghi a presidente della Bce nel maggio 2011. E di fronte alla nuova sfida regolazionista della Bce, quella dell’Unione bancaria (partita ancora tutta da definire con la Germania) non ci può non essere una commissione Ue che perlomeno non veda prospettive simili. Ma la convergenza Juncker-Draghi, vista a questo modo, altro non sarebbe che banale organicismo dell’analisi. In verità sulla candidatura Juncker si sovrappongono, oltre che a quelle della Bce, altre esigenze. Due, tra queste sono esemplari: la prima è tutta tedesca, quella di finire di armonizzare le esigenze della grande coalizione in Germania a livello continentale. Non a caso quindi su Juncker si trovano d’accordo CDU-CSU e SPD. E si trova agilmente stampa berlinese che parla di grande coalizione in Europa con gli stessi aggettivi usati per descrivere quella nazionale. E’ vero che per adesso, più che di grandi articoli su Juncker, si trova stampa influente, come recentemente la Frankfurter Allgemeine, che si allarma quando Italia e Francia cercano di porre limiti alla politica di austerità. Ma è anche vero che se, sulla candidatura Juncker, c’è il sigillo della grande coalizione tedesca certi tentativi di limitare l’austerità possono essere posti a freno. C’è poi un’altra esigenza che si sovrappone a quelle della Bce e della Germania: il funzionamento del governo vero e proprio dell’Europa.
Un interessante, recente saggio di Sara Hagemann,
http://www.sieps.se/sites/default/files/version2_2014_3epa_0.pdf
di un istituto svedese di studi politici, fa capire, e bene, quale sia stata la grande contraddizione della governance europea: quella di un compromesso tra visione e interessi sovranazionali sull’Europa e organismi intergovernamentali dove conta la mediazione tra interessi dei singoli paesi che sostengono l’Ue. Ad un certo punto, una volta che la crisi è più forte e soprattutto duratura è evidente che questo compromesso, che ha tenuto in piedi l’Ue per anni, va rotto o riformulato. Il fiscal compact è stato uno dei segni della rottura di questo compromesso. Juncker, la Bce, la grande coalizione tedesca entrano in questo processo di rottura o riformulazione da protagonisti. Poi si capirà se potranno, o sapranno giocare questo ruolo fino in fondo. Intanto il parlamento di Strasburgo sembra, paradossalmente, recuperare proprio sovranità. Quella continentale. Anche qui è il Financial Times a dettare la linea interpretativa: Juncker fa recuperare sovranità al parlamento europeo, nel momento in cui Strasburgo lo nomina, perché usa il potere politico di un parlamento per rompere il compromesso ormai insostenibile a livello di governance Ue: quello tra interessi sovranazionali e rappresentazione di quelli nazionali. In questo senso, secondo la lettura del quotidiano londinese, la candidatura Juncker spacca il vecchio compromesso della governance Ue mortificando gli interessi nazionali (tra cui il nostro welfare, la sanità, i beni pubblici ndr) a favore di quelli sovranazionali riavvicinando parlamento di Strasburgo e governance multilivello europea.
Non è quindi difficile capire il processo in corso: Juncker serve a tenere assieme istituzioni europee, interessi tedeschi, interessi sovranazionali locali in Ue. Per non dire delle esigenze di governance finanziaria della Bce, guidata da Draghi, sullo sfondo di questo processo.
Parlamento, Commissione, tutto tenuto quindi in ultima istanza dalla Bce? Allora l’Europa esiste, trova forma grazie alla Bce? Non cadiamo nel trompe-l’oeil della sovranità dell’Europa che poggia, in ultima istanza, sulla politica della Bce. Infatti è oramai maturo, nel dibattito politico, un problema potente, e particolarmente rimosso a sinistra: ovvero quello del declino dell’indipendenza delle banche centrali dal mercato finanziario. Molto spesso in questi anni abbiamo sentito curiose proposte (“la Bce deve” o “non deve” etc.) o generose quanto bizzarre analisi con l’istituto di Francoforte al centro della tenuta di ciò che si pensa essere l’Europa. Tutte queste proposte o analisi poggiavano, e ancora oggi poggiano, su un assunto: l’indipendenza della Bce dal mercato globale. Troppi Spinelli (Altiero, e a volte troppi nel senso di quelli con la “s” minuscola) fanno immaginare fantasiose costruzioni europee magari che poggiano sul potere, in ultima istanza dell’istituto di Francoforte. E’ invece vero il contrario, nonostante la Bce non abbia ancora formalmente fatto politica di Quantitative Easing, come la Fed o la Boj o la Banca di Inghilterra, ormai è in essere un fenomeno riassumibile in poche parole. Le banche centrali hanno alimentato la finanza globale, e la governance bancaria privata, in modo così vertiginoso da esserne dipendenti. Tanto che le banche centrali, come segnalava nemmeno tanto velatamente il Financial Times non solo Zero Hedge, si comportano come veri e propri fondi speculativi. E non è possibile essere indipendenti da ciò che si è diventati.
La saldatura possibile Jucker-Draghi non serve così solo la riattivazione della trasmissione liquidità all’economia, che dopo anni di politiche solo bancarie ha bisogno di una reale sponda politica continentale, ma è anche riflesso di questo declino dell’indipendenza delle banche centrali. Da regolatrici del mercato a regolate dal mercato. Oppure imbastardite dal mercato. Per cui, dopo il trompe-l’oeil, quando questo sfuma ecco la realtà: il parlamento europeo ritrova, via Juncker, una vicinanza con la governance europea e la Bce. Ma è solo perché chi domina in ultima istanza, il mercato finanziario globale, è in grado di condizionare la Bce che, a sua volta, condiziona le ristrutturazioni del governo europeo. Con buona pace dell’Inghilterra che deve pur ritrovare il proprio posto in questa dimensione di scenario.
La verità è che, in mezzo ad euroscettici la cui confusione politica sembra largamente prevalente, abbiamo cantori di una cattedrale Europa le cui fondamenta del potere non poggiano affatto sul continente. Ma su quelle di un vertiginoso gorgo di carta e di numeri digitali, detto mercato finanziario globale che è un fenomeno molto diverso da quanto pensato dai “padri federalisti” come costituente del parlamento europeo. I padri federalisti vengono inoltre sempre citati quando si parla di Europa ma, come accadeva a Don Chisciotte, là dove si parla di un continente già pronto, integrato ed esistente probabilmente risiede la realtà di un luogo finanziario . Dove, al rialzo di qualche tasso di interesse i suoi spazi apparentemente inacessibili e quieti ma in realtà si rivelano in grado di sinistrare ogni certezza. L’Europa sovrana di Spinelli è così legata al futuro di qualche, per carità enorme, flusso di hedge fund. Quando si dice che la politica manca di immaginazione. Ogni modo, suggestioni di scenario a parte, il futuro di Juncker sarà determinato da processi, fin da adesso, prevedibili. O la Ue-Bce sono in grado di cavarsela in mezzo alle bolle finanziarie o sarà messa di nuovo a discussione la tenuta, politica e sociale, di un continente. O la Ue-Bce sono in grado di affrontare le nuove sfide economiche, quelle evidenziate dai motivi profondi della revisione al ribasso della crescita da parte della Banca Mondiale, o il continente rischia una crisi strutturale di proporzioni serissime e forse epocali.
Fermo restando, come sappiamo, che gli interessi sovranazionali Ue, quelli rappresentati da Juncker vanno contro ben definiti interessi nazionali: sanità, educazione, trasporti, beni comuni ancora sotto controllo pubblico. Si fa presto quindi a parlare di Europa e spesso, come si vede, a sproposito.
Infine come Renzi possa sembrare pro Cameron, filo Hollande, e pure rispettoso dei patti con Angela Merkel, altro non è che un compito di patafisica politica che va lasciato a quell’Alfred Jarry collettivo che è la redazione che scrive il quotidiano chiamato La Repubblica. I prossimi mesi in Italia sono già scritti: aumento della tassazione dei beni immobili, furbescamente travestita sotto la diminuzione delle aliquote (grazie alla revisione degli estimi catastali), deregolazione quanto più marcata possibile dei diritti (visti come costi) del lavoro. Degradazione del pubblico e nuove scorribande del privato. Questo a prescindere da come andaranno le trattative europee di Renzi, perché questo è previsto, per l’Italia, comunque vadano giochi. Questo è previsto dal livello attuale di comando del capitale, quello finanziario, e dalla crisi del valore a livello produttivo. Il resto è chiacchiera. Questo per i prossimi mesi. Poi, anche qui, si tratterà di raccontare nuove narrazioni agli italiani. E meno male, per l’establishment italiano, che la memoria collettiva è stata azzerata. Basterebbe infatti qualche confronto sui livelli di ricchezza diffusa all’entrata dell’euro nel 2002, per tacere di quella pubblica, con quella di oggi. Allora chi avesse parlato di un aumento della disoccupazione tra il 30 e il 40 per cento delle forza lavoro in 12 anni sarebbe stato internato o dannato come un velenoso provocatore. Oggi, parlano da sole le statistiche. Se le si legge.
Allora con Juncker affonderà l’Europa? L’Europa sembra vastissima, enorme spazio per dispositivi politici, o qualcosa come la bandiera del re Borbone ai tempi di Fra’ Diavolo, uno terreno sul quale al massimo poter piantare una bandiera, grazie all’egemonia dei mercati finanziari globali. Può anche darsi che un processo nato su spinte finanziarie globali, come la territorializzazione dell’Europa attuale, trovi un giorno una reale costituente politica. Come che crolli, come una torre gemella, in quanto effetto collaterale di una guerra finanziaria. O si estingua lentamente, irrimediabilmente grazie a difetti strutturali interni non rimediabili o alla concorrenza tra aree economiche. Oppure che, in qualche modo, si lasci drammaticamente trascinare in guerre reali come quella civile ucraina. Il romanticismo politico direbbe che quest’Europa non è dei popoli. Più clinicamente possiamo dire che esiste, da un quarto di secolo, un processo di governamentalità continentale nel quale le popolazioni non esercitano alcun potere reale. Il biologo francese Rostand, famoso anche per i suoi aforismi, affermava che l’esistenza delle dittature militari suggerisce la moderazione delle critiche nei confronti delle democrazie esistenti. Nel nostro mondo è solo da una critica spietata nei confronti dell’evoluzione delle democrazie esistenti che è possibile difendersi da un altro sottile e pericoloso livello di dittatura. Quello dei sacerdoti della moneta. Un genere di magia nera i cui pericoli sono così forti tanto che il loro ricordo è depositato nella memoria ancestrale delle popolazioni che l’hanno subita.
Per Senza Soste, nique la police
24 giugno 2014