Non è possibile che in una nazione europea si possa venire condannati anche fino a due anni per apologia di terrorsimo se una persona manifesta col nome e la foto di un prigioniero politico che non sia suo stretto parente,dove se solo sospettato di qualche crimine sei incarcerato preventivamente anche per molti mesi o addirittura anni in prigioni lontane dalla tua dimora e per i primi cinque giorni non puoi avere assistenza legale o sanitaria.
In Euskal Herria invece tutto questo accade e intanto l'Europa delle istituzioni e delle garanzie tace e la Spagna e la Francia insistono nel voler negare l'indipendenza a questo Stato e continuano nella loro mortificazione sociale a suon di pestaggi,uccisioni e detenzioni.
Paesi baschi. Sara’ difficile tornare umani. Una storia.
Algorta, settantamila anime, una delle cittadine della gran Bilbao, che dal Botxo, dalla conca del centro, sfila per alcuni chilometri verso il mare. Sono le otto di sera e aspettiamo una encartelada. Ogni giorno qui, di fianco a un parco giochi per bambini, arrivano alcune decine di persone con dei cartelli legati a dei pezzi di legno. Ci sono le fotografie di amici o figli, prigionieri baschi. Il loro nome e un simbolo, quello del Paese basco con due frecce che dall’esterno indicano l’interno; significano fine della dispersione e il diritto per i prigionieri di tornare negli istituti di pena del loro paese. Nelle terrazze dei bar giovani e anziani bevono birra e vino, mangiano pintxos, le altalene ondeggiano, un padre gioca a palla con un bambino. Una sera gradevole, aperitivo in piazza.
Arrivano prima una, poi due macchine della polizia autonoma basca. Si chiama Ertzaintza, colori sociali, blu e rosso. Scendono due agenti, poi diventano quattro alzano il bavero fin sul naso per rendersi irriconoscibili.
Pochi minuti dopo, la’ dove uno striscione in plastica con scritte a pennarello invita alla manifestazione per le donne contro il patriarcato, si scorge una bandiera basca, poi un’altra, dei cartelli, delle foto. Gli agenti si fanno avanti. Andiamo a vedere.
Una signora, avra’ sui sessantanni. Sul paletto di legno la foto di un ragazzo e il suo nome. Jagoba. Un agente le si avvicina. Faccia a faccia, la signora con il suo cartello, l’agente a viso coperto.
“E’ suo figlio?”
“E’ mio figlio”.
Guardiamo un ragazzo con un cane al guinzaglio in una mano. Con l’altra regge un cartello con scritto un nome, ma la faccia non si vede, e’ coperta da un foglio giallo di plastica con una scritta a favore dei prigionieri politici.
-Siamo italiani, giornalisti. Possiamo scattare foto, vi va? Anche il viso? Solo i cartelli?
-Giornalista eh? Il giovane non crede a una parola.
-Ti mostro il tesserino?
- No, no. Ma di che giornale?
-E il mensile, possiamo parlare?
-Eh, e che ne so io di che linea e’ questo ‘E’?
-Raccontiamo conflitti, diffondiamo cultura di pace.
Sguardo sempre piu’ ironico. Poi raccontiamo di piu’, il lavoro che stiamo facendo, le persone intervistate. Alcune le conosce e ci fanno guadagnare la sua fiducia.
-Scusate, ma vedete anche voi come siamo messi. A volte arrivano dei ‘giornalisti’ e ci ritroviamo nel migliore dei casi con la nostra faccia su televisioni che ci demonizzano
-Nessun problema. Cosa vuole la polizia?
-Io non posso mostrare la foto di un prigioniero mio amico, non sono suo parente. Solo i parenti possono esibire il cartello con la foto. Gli altri no, e’ apologia di terrorismo.
-Come apologia di terrorismo?
-Si’ sono due anni che va cosi’. E se ti denunciano ti possono processare e la pena puo’ arrivare fino a due anni di carcere. O puo’ anche capitare che ti lascino in carcere preventivo per un pezzo prima di mollarti.
Si chiama Gorka e racconta, con rabbia. Tutti i giorni va li’ alle 20.00 in punto, per mezzora. Racconta della dispersione, dei prigionieri a migliaia di chilometri di distanza, dei viaggi dei familiari, che spesso per la stanchezza rimangono vittime. Incidenti stradali, morti. Oggi e’ successo a quattro persone. Non sono anche loro vittime di questo conflitto? Intorno ci sono alcuni giovani, ma soprattutto persone anziane.
Una signora con un cappotto, un collo di pelliccia, due orecchini graziosi, rughe agli occhi e un rossetto curato. Ha uno sguardo diritto.
-Ma lo vedete cosa stanno facendo?
Sdegno. Gli agenti tornano, identificano un altro parente. Poi parlano con le radioline. Settimana scorsa hanno sequestrato i paletti di legno con i cartelli. Potrebbero costituire prova, hanno detto. Ma prova di che? Un signore, sulla sessantina, giacca corta di loden, pantalone di lana e mocassini, un pacco sotto braccio. Ci racconta.
-Qui stiamo soltanto dicendo che se cumpla la ley, la loro legge. Prevede che il prigioniero sconti la pena vicino al luogo di residenza, prevede che chi ha scontato i tre quarti della pena possa uscire di galera, prevede che i prigionieri malati gravemente debbano essere scarcerati. Non si fa nulla di tutto questo. E noi siamo qui tutte le sere a ricordarlo. E’ apologia di terrorismo?
C’e’ un sapore di un’umanita’ incredibile in quelle trenta persone, con il loro cartello in mano.
E un amaro che resta negli occhi per la tristezza che si alterna al fuoco della rabbia, nei loro occhi.
Con la consapevolezza che il dolore e’ uno strumento utile per i giochi politici.
Non sara’ facile tornare umani.
Arrivano prima una, poi due macchine della polizia autonoma basca. Si chiama Ertzaintza, colori sociali, blu e rosso. Scendono due agenti, poi diventano quattro alzano il bavero fin sul naso per rendersi irriconoscibili.
Pochi minuti dopo, la’ dove uno striscione in plastica con scritte a pennarello invita alla manifestazione per le donne contro il patriarcato, si scorge una bandiera basca, poi un’altra, dei cartelli, delle foto. Gli agenti si fanno avanti. Andiamo a vedere.
Una signora, avra’ sui sessantanni. Sul paletto di legno la foto di un ragazzo e il suo nome. Jagoba. Un agente le si avvicina. Faccia a faccia, la signora con il suo cartello, l’agente a viso coperto.
“E’ suo figlio?”
“E’ mio figlio”.
Guardiamo un ragazzo con un cane al guinzaglio in una mano. Con l’altra regge un cartello con scritto un nome, ma la faccia non si vede, e’ coperta da un foglio giallo di plastica con una scritta a favore dei prigionieri politici.
-Siamo italiani, giornalisti. Possiamo scattare foto, vi va? Anche il viso? Solo i cartelli?
-Giornalista eh? Il giovane non crede a una parola.
-Ti mostro il tesserino?
- No, no. Ma di che giornale?
-E il mensile, possiamo parlare?
-Eh, e che ne so io di che linea e’ questo ‘E’?
-Raccontiamo conflitti, diffondiamo cultura di pace.
Sguardo sempre piu’ ironico. Poi raccontiamo di piu’, il lavoro che stiamo facendo, le persone intervistate. Alcune le conosce e ci fanno guadagnare la sua fiducia.
-Scusate, ma vedete anche voi come siamo messi. A volte arrivano dei ‘giornalisti’ e ci ritroviamo nel migliore dei casi con la nostra faccia su televisioni che ci demonizzano
-Nessun problema. Cosa vuole la polizia?
-Io non posso mostrare la foto di un prigioniero mio amico, non sono suo parente. Solo i parenti possono esibire il cartello con la foto. Gli altri no, e’ apologia di terrorismo.
-Come apologia di terrorismo?
-Si’ sono due anni che va cosi’. E se ti denunciano ti possono processare e la pena puo’ arrivare fino a due anni di carcere. O puo’ anche capitare che ti lascino in carcere preventivo per un pezzo prima di mollarti.
Si chiama Gorka e racconta, con rabbia. Tutti i giorni va li’ alle 20.00 in punto, per mezzora. Racconta della dispersione, dei prigionieri a migliaia di chilometri di distanza, dei viaggi dei familiari, che spesso per la stanchezza rimangono vittime. Incidenti stradali, morti. Oggi e’ successo a quattro persone. Non sono anche loro vittime di questo conflitto? Intorno ci sono alcuni giovani, ma soprattutto persone anziane.
Una signora con un cappotto, un collo di pelliccia, due orecchini graziosi, rughe agli occhi e un rossetto curato. Ha uno sguardo diritto.
-Ma lo vedete cosa stanno facendo?
Sdegno. Gli agenti tornano, identificano un altro parente. Poi parlano con le radioline. Settimana scorsa hanno sequestrato i paletti di legno con i cartelli. Potrebbero costituire prova, hanno detto. Ma prova di che? Un signore, sulla sessantina, giacca corta di loden, pantalone di lana e mocassini, un pacco sotto braccio. Ci racconta.
-Qui stiamo soltanto dicendo che se cumpla la ley, la loro legge. Prevede che il prigioniero sconti la pena vicino al luogo di residenza, prevede che chi ha scontato i tre quarti della pena possa uscire di galera, prevede che i prigionieri malati gravemente debbano essere scarcerati. Non si fa nulla di tutto questo. E noi siamo qui tutte le sere a ricordarlo. E’ apologia di terrorismo?
C’e’ un sapore di un’umanita’ incredibile in quelle trenta persone, con il loro cartello in mano.
E un amaro che resta negli occhi per la tristezza che si alterna al fuoco della rabbia, nei loro occhi.
Con la consapevolezza che il dolore e’ uno strumento utile per i giochi politici.
Non sara’ facile tornare umani.
p.s. Oggi cedo la mia foto del blog a Jagoba Terrones. Perche’ non e’ vietando agli amici di mostrarla, o umiliando sua madre, che si afferma lo Stato di diritto. Jagoba Terrones era un coordinatore di Gestoras pro Amnistia, sumario 18/98 del supergiudice Garzon. Arrestato nel 2001. Liberato e poi riarrestato nel 2009 con una condanna a dieci anni di carcere per attivita’ politica.
p.p.s. Oggi il quotidiano Gara ha raccontato che un documento del Consiglio generale del potere giudiziario spagnolo ammette che l’attuale regime di incomunicacion (cinque giorni prorogabili senza vvocati di fiducia e senza notizie ai familiari) non include nessuna delle raccomandazioni ulla prevenzione della tortura proposte dal Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio di Europa. Fra queste c’e’ la disposizione di registrazioni video dall’arresto fino agli interrogatori, il diritto a visite mediche con professionisti di fiducia e comunicazione con i familiari.
Angelo Miotto (foto: Massimo Di Nonno), tratto da www.eilmensile.it
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