martedì 30 giugno 2020

LA GUERRA CIVICA FRANCESE

Dopo le discussioni politiche che hanno implicato anche delle leggi scritte e che vogliono il secondo turno del ballottaggio la settimana successiva al primo turno elettorale,in Francia si è svolto il secondo turno delle municipali dopo il primo che era avvenuto il 15 marzo in piena emergenza coronavirus.
In questi mesi c'è chi voleva votare o meno,chi voleva ripetere il primo turno e chi ha fatto caccia di elettori per affrontare al meglio questa seconda tornata elettorale:il risultato un alta percentuale di astensionismo arrivata quasi al 60%,vuoi per la situazione pandemica ma soprattutto per il problema della rappresentanza politica che in Francia più di altre nazioni si fa sentire.
Sfiduciati dalle alternanze delle destre e del centrosinistra al potere a questo giro sono stati i verdi i vincitori e Macron lo sconfitto,se si vuole riassumere il tutto in poche parole,con tutti gli altri che hanno perso dei comuni anche importanti ma ne hanno guadagnati altri,come evidenziato nel contributo preso da Contropiano(elezioni-comunali-in-francia-disfatta-per-macron )cui aggiungo questo(repubblica pronti_15_mld_per_la_trasformazione_ecologica )dove il premier sempre più in difficoltà promette investimenti pesanti per sviluppare l'economia seguendo la via ecologica.

Elezioni comunali in Francia, disfatta per Macron.

di  Giacomo Marchetti 
Domenica 28 giugno si è svolto il secondo turno delle elezioni municipali in Francia, segnate dalla scarsa affluenza al voto con un un tasso d’astensione attorno al 60%.

Già durante il primo turno, il 15 marzo, meno di un elettore su due (il 44,3%) si era recato alle urne, contro il 63,5% delle precedenti elezioni municipali nel 2014.

Un astensione storica per questo tipo di elezioni locali, ma non per ciò che concerne la disaffezione al voto nella Francia recente, in cui il primo partito delle classi popolari è per così dire da tempo quello “astensionista”.

Alle elezioni europee della scorsa estate – sebbene si fosse registrato un aumento dei votanti – solo una persona su due, circa, si era recato alle urne, avvicinando la partecipazione del 1994 – al 52,7% – con un 8,3% in più rispetto 2014.

Nel 2009 i votanti erano stati solo il 40,6% degli aventi diritto.

Tra il 1990 e il 2014, tra i paesi della UE, la Francia è stata in testa per il tasso medio di astensione (40%), decisamente avanti rispetto al gruppo mediano (Olanda, Spagna, Germania). Inoltre era il solo paese in cui la “non partecipazione” al voto ha conosciuto una progressione lineare.

Certamente ci sono delle ragioni “congiunturali” che contribuiscono a spiegare in parte l’astensione, come la situazione sanitaria e il lungo lasso di tempo tra i due turni, dovuto al lockdown; ma è innegabile che anche le elezioni comunali, per lungo tempo sfuggite al “dégagisme”, ne sono state travolte.

Tutti gli attori politici s’interrogano su questa crisi del sistema della rappresentanza e dei suoi tradizionali vettori ,che ora ha toccato l’unica istituzione della quinta repubblica che ne era stata risparmiata. C’è chi lo fa “strumentalmente” per coprire la propria débâcle (come LREM, l’organizzazione politica creata da Macron) o il proprio parziale insuccesso – come Marine Le Pen del RN (ex FN) – oppure in maniera più sincera, come Jean-Luc Mélenchon, leader di LFI. In un intervento diffuso su “You Tube” ha evocato un “un nulla civico”.

“La massa del popolo francese è in guerra civica”, ha spiegato.

Un paradosso apparente vista la vivacità delle mobilitazioni che ha caratterizzato nell’ultimo anno la Francia, riprese subito dopo la fine del “Lock-down”.

Al primo turno delle elezioni presidenziali del 2017, proprio gli Insoumis.es erano riusciti in parte a colmare questo deficit di “rappresentanza” tra le classi popolari, sfiorando il 20% e giungendo ad un passo dal ballottaggio, offrendo un output politico in particolare alle mobilitazioni contro la “lois travaille” – il “job act” francese – voluta dal presidente socialista Hollande.

Sembra un secolo fa.

La LFI era riuscita insieme ad altre formazioni – tra cui il PCF – a dare vita ad un’opposizione “a geometria variabile”, che talvolta aveva incluso sia i socialisti che i verdi, ed a fungere da “delegato politico” dei vari movimenti che si sono fin qui succeduti: dai “gilets jaunes” alle recenti riforme contro la riforma pensionistica, così come a quelle del personale sanitario.

Non è pero riuscita a capitalizzare – così come la destra – il sentimento di sfiducia nei confronti dell’attuale compagine governativa ed in generale l’approfondirsi della frattura tra élite e classi popolari, né a darsi una struttura organizzativa che le permettesse di radicarsi.

Paradossalmente ha conosciuto una “parabola discendente” di cui è un sintomo la diluizione della propria presenza nelle elezioni municipali dentro coalizioni più ampie. A parte il ruolo di primo piano giocato a Marsiglia e che ha contribuito al successo di “Primetemps Marseilleise”, forse la nota più positiva dell’intero panorama elettorale per modalità di costruzione, programmi e capacità di interpretare una aspettativa di cambiamento.

La batosta per LREM è pesantissima, e dimostra come in questi tre anni la creazione politica di Macron non sia stata capace di radicarsi, nonostante alla sua creazione abbiano contribuito sia notabili locali del Partito Socialista – come il più volte ex sindaco di Lione e poi ministro, Gérard Collomb – sia membri della vecchia nomenclatura gaullista.

“En Marche!” ha dilapidato ben presto il suo consenso, divenendo sempre più solo espressione delle classi medio-alte, e ha progressivamente “virato a destra”. A nulla è servita la sua alleanza in questo secondo turno con i gaullisti di Les Républicains di Laurent Wauquiez, che non ha sbarrato la strada all’“onda verde”.

Gli unici “successi” di quest’asse politico sono stati a Le Havre, dove il primo ministro E.Philippe ha conquistato la città, e a Tolosa…

A Parigi, dove è stata confermata Anne Hidalgo, la capolista di Lrem, Agnès Buzyn, ha fatto meno del 15% e non siederà in consiglio comunale; a Lione Collomb è stato sconfitto, così come a Strasburgo.

I verdi – EELV – sono i veri vincitori di questa competizione elettorale. I sindaci provenienti dalle loro fila sono stati spesso eletti con l’appoggio di ampie coalizioni – come a Tours, Bordeaux o Lione – o andando contro i socialisti, come a Strasburgo.

Sono sintomo della necessità di una transizione ecologica che è cresciuta in questi anni nel corso di importanti mobilitazioni specifiche e circoscritte, così come di più ampie mobilitazioni di massa – “gli scioperi per il clima”, prima del fenomeno Greta, erano nati in Belgio e Francia – ed una interessante convergenze nel corso della marea gialla sintetizzata dallo slogan. “fine del mese, fine del mondo: stessa lotta”.

Lo tsunami verde è la traduzione di questa spinta sul piano della rappresentanza politica locale. Qualcosa di analogo a ciò che è avvenuto in Germania ed in Belgio tra le giovani classi medie urbane scolarizzate.

Un risultato anche della pandemi,a come sembra suggerire J. Fourquet, direttore di un dipartimento dell’istituto di rivelazioni statistiche IFOP: “la griglia di lettura dell’epidemia si è costituita attorno all’ecologia, con degli interrogativi riguardo ai nostri modi di vita e di consumo che mettono troppo a dura prova i nostri ecosistemi”.

Il passaggio di fase è interessante, perché pone quello che era un “partito d’opinione” – EELV, conosciuto più che altro per gli exploit alle europee (avevano ottenuto il 13,5% circa alle ultime elezioni) e l’ambiguo politicismo della sua storica direzione – al governo di importanti amministrazioni che saranno il banco di prova concreto per le politiche ecologiche: Lione, Strasburgo, Bordeaux, Poitiers, Bencançons, Tours, Annecy, per non citare che i principali.

A Lione conquistano città e “area metropolitana”, in cui gestiranno 3 miliardi di budget di una delle più potenti collettività francesi che concentra su di sé affari sociali, infrastrutture ed alloggi.

Prima di conquistare Grenoble nel 2014 con Eric Piolle – confermato con ampissimo margine – i verdi non avevano mai governato una città con più di 100 mila abitanti, a parte Montreuil tra il 2008 ed il 2014.

Al suo interno si scontrano due orientamenti differenti: gli “autonomi” alla Y. Jadot, che preferiscono “correre da soli” e che possano vantare successi di questa strategia e deplorare le sconfitte altrui, e i “rassembleurs”, fautori di una strategia di coalizione che possono vantare successi importanti.

È abbastanza evidente la frattura generazionale tra la vecchia classe dirigente “ecologista” e le nuove generazioni di sindaci.

Sono divenuti il nuovo “ago della bilancia” a sinistra, come ha ben compreso il leader del PS O. Faure.

“Qualcosa sta nascendo” – ha affermato il leader socialista – “un blocco sociale ed ecologista”.

I socialisti hanno dimostrato una certa “resilienza” in queste elezioni dopo una crisi, che sembrava irreversibile, successiva alla Presidenza Hollande, la diaspora in direzione di Macron di molti suoi esponenti e la mancata presentazione di un candidato nel 2017.

Confermano Parigi – esito per nulla scontato fino a poco tempo fa – e conquistano Lille sfidando gli ecologisti, e vincono – dopo essere giunti ad un accordo con i verdi al secondo turno – a Rennes e Nantes. Riconquistano dei comuni che erano loro bastioni, persi nel 2014, e ne conquistano di nuovi come a Nancy, od in ampie alleanze come a Montpellier.

Dopo l’exploit del 2014, la destra di LR conferma sostanzialmente le sue posizioni a livello locale, con due “pezzi da novanta” persi come Marsiglia – probabilmente – governata per 25 anni, Bordeaux e canta in parte vittoria.

“È tre anni che inanelliamo sconfitte”, ha dichiarato Christian Jacob, patron di LR che ha parlato di “vittoria”. Ma sembra più il tentativo di dare un nuovo slancio ad un progetto politico le cui direttive a livello centrale sono sempre più cooptate da LREM.

L’ex FN, ora RN, conquista un comune importante come Perpignan, con più di 100 mila abitanti, ma subisce comunque sconfitte come a Lunel, Vauvert…

I numeri parlano chiaro e fanno terra bruciata su tutte le chiacchiere sul pericolo dell’“onda nera” di cui hanno straparlato a lungo i media nostrani.

Nel 2014 aveva conquistato 1438 seggi in 463 comuni, stavolta solo 840 in 258, e governeranno in meno di una decina di comuni.

Il PCF vede ridimensionato il successo del primo turno, come a Montreuil – nella prima periferia parigina – perdendo alcuni suoi bastioni storici come a Saint-Denis e Aubervilliers, ma riconquistando Bobigny, sempre nella regione parigina.

Un risultato, nel complesso, fatto più di ombre che di luci, in cui perdono a Le Havre ed Arles, oltre a Saint-Denis, le città più importanti di questa battaglia.

Sono più di 20 i comuni sopra i 3.500 abitanti “persi” dai comunisti, mentre sono una quarantina quelli conservati o conquistati.

Queste elezioni – che si concluderanno con un “terzo turno” tra gli eletti, a Marsiglia, che decideranno il futuro sindaco della seconda città dell’Esagono – ci consegnano un quadro complesso della società francese uscita dalla pandemia.

Un governo senza consenso; i vettori della politica, sia tradizionali che “nuovi” – tranne i verdi e alcune coalizioni politiche molto variabili – incapaci di catalizzare la disaffezione per l’establishment compresi, ai poli opposti, La France Insoumise e l’ex Front National – ora RN –, con un marcato scetticismo nei confronti della UE, come certifica un recente sondaggio condotto da un think tank del Consiglio Europeo citato dal “The Guardian”.

Il 58% degli intervistati in Francia pensa che l’UE sia stata irrilevante nella crisi pandemica – ponendo questo paese al primo posto per sfiducia nella UE – mentre il 61% dei francesi pensava, a fine aprile, che il proprio governo non fosse stato all’altezza nell’affrontare l’emergenza e si sentiva più disilluso rispetto a prima dell’arrivo del Covid-19.

Non proprio un dato incoraggiante un governo che si pone come perno fondamentale del rilancio dell’Unione.

lunedì 29 giugno 2020

ANCORA STRAGI FAMILIARI

La lunga scia di sangue degli ultimi giorni che hanno visto l'assassino in famiglia hanno visto l'apice col delitto avvenuto in Valsassina dove il padre per ripicca verso la moglie che l'aveva lasciato ha ucciso i due figli per poi lanciarsi da un viadotto,ma anche a Palazzo Pignano(qui in zona nel cremasco)e ultimamente a Grosseto i mariti hanno ammazzato le proprie mogli.
Pagine tristemente già viste(vedi:madn numeri-che-parlano-da-soli-sui.femminicidi ),cui si aggiungono titoli giornalistici che parlano di tragedie anche dove il fato non ha nessun motivo d'essere tirato in ballo,omicidi premeditati"coscienziosamente"ed attuati con lucidità,altro che follie.
C'è pure chi perdona e cerca di capire il perché di questi gesti,un pensiero vergognoso e direi penoso,tipicamente maschilista e che presuppone stupidità se non cattiveria:le uniche vittime sono i morti ammazzati,non gli assassini padri o mariti disperati o meno,i veri perdenti della vita.
Articolo di Left:uomini-incompiuti-solo-dopo-separati .

Uomini incompiuti (solo dopo, separati).

di Giulio Cavalli 
Un esempio fulgido l’abbiamo avuto con il titolo de Il Mattino. I fatti, intanto: Mario Bressi decide di punire la moglie che ha deciso di lasciarlo uccidendo i loro due figli e togliendosi la vita. Un infanticidio che in fondo è un femminicidio ancora più vigliacco: uccidere i figli per condannare una moglie è un gesto che nasconde tutta la ferocia possibile. Bressi prima di compiere il suo gesto, nella perfetta premeditazione di chi vuole provocare l’inferno, ha anche scritto alla ex moglie.

Torniamo al titolo de Il Mattino: «Il dramma dei papà separati», titolano piuttosto stupidamente. Ovviamente la narrazione è sempre la stessa, quella patriarcale dell’uomo ferito che viene giudicato per il suo dolore come se potesse essere una giustificazione. I figli ammazzati alla fine sono colpa della donna, ovviamente.

Si alza lo sdegno e Il Mattino ci riprova, corregge e scrive «Devastato dalla separazione» dimostrando che la stupidità è banale ma è anche soprattutto ripetitiva. Vengono sommersi ancora una volta dagli insulti, ci riprovano: «Papà separato, ha ucciso i figli nel sonno» dimostrando di non capirci proprio niente.

C’è solo il dramma dell’uomo, del forte, del padrone che ha deciso di togliere i figli per rivendicarne il possesso dopo avere perso il possesso della moglie. Non esistono i drammi dei bambini uccisi nel sonno, non uccide la distruzione di una madre punita in un modo così orribile. Niente. Tutti gli altri dolori che non siano quelli del maschio sono effetti collaterali tristi, certo, ma solo consequenziali.

E in fondo si tratta sempre degli stessi stoltissimi maschi, quelli costruiti in serie secondo le logiche peggiori della fallocrazia, quelli che vengono lasciati e non si chiedono mai cosa hanno sbagliato ma che trovano comodo, vigliacchi come sono, dire che lei “ha rovinato la famiglia”, che lei “si è venduta per un pompino”, che lei la rovineranno, gliela faranno pagare e sono felici solo la vedono sola, povera e pazza.

Sono uomini che non hanno fatto i conti con se stessi, incapaci di vedersi completi al di là della punta del proprio organo riproduttivo (su cui sono solitamente fissati) e che non transigono sul fatto di potere avere di fianco persone che si autodeterminano con le proprie scelte. Uomini che di facciata sembrano puliti e che spesso hanno mostri pelosi (che le loro ex mogli hanno provato a curare).

Non parliamo del dramma di padri separati (e ce ne sono tanti anche di padri separati che vivono drammi veri, senza bisogno di arrivare all’omicidio) quando ci sono di mezzo assassini. Il dramma vero è quello di certo giornalismo che si appiattisce sulla banalità del male. E come sono ripetitivi e banali tutti questi fallocrati che cercano la giustificazione per giustificare l’ingiustificabile. Mentre il bene, al contrario, si rinnova ogni giorno, si sceglie tutti i giorni e si reinventa se serve per non soffocare.

Buon lunedì.

sabato 27 giugno 2020

LA SCUOLA CHE VERRA'

L'autonomia regionale e dei distretti scolastici sembra essere il punto fermo degli indirizzi del decreto scuola per il nuovo anno scolastico con ancora tanti dubbi da dissipare che sono stati rimandati pure loro a settembre e dopo l'approvazione di chi compete in materia sanitaria e scientifica.
Perché dal 14 settembre 2020 pare che il distanziamento degli alunni di un metro sia cosa certa mentre l'uso delle mascherine e di altri accorgimenti a tutela della salute saranno discussi alla vigilia delle riaperture,col problema principale del numero degli studenti che già prima del coronavirus erano in sovrannumero rispetto alla grandezza delle classi.
Poi ovviamente uno stimolo in più a privatizzare ma anche ad esternalizzare la didattica(si premerà ancora su quella a distanza anche se non necessaria in barba alle esigenze lavorative dei genitori))sono presenti nelle linee guida del governo annunciate ieri,dove ogni scuola o meglio distratto sceglierà dove potere ospitare gli alunni che fisicamente non potranno rimanere n classe,oppure gestire le attività extra scolastiche con eventuali presenze di controllo di persone che non sono preposte a farlo.
Insomma quello descritto nell'articolo di Contropiano(linee-guida-per-il-rientro-a-scuola )è ancora un cantiere ma con direttive che vanno nel canale solcato della privatizzazione e flessibilità sia per i docenti che per gli studenti,con vaghi riferimenti a quelli disabili e che necessitano di insegnanti di sostegno,con un nulla di fatto nei termini delle nuove assunzioni.

Linee guida per il rientro a scuola: esternalizzazione, privatizzazione, flessibilità.

di  Maurizio Disoteo
Mentre in tutta Italia si svolgono e si annunciano manifestazioni di  lavoratori e genitori che richiedono priorità alla scuola e  la definizione di un chiaro quadro di ripresa dell’attività formativa, il Ministero ha diramato la bozza delle Linee guida che dovranno essere seguite da settembre per la riapertura degli istituti.

La lettura di tale bozza chiarisce subito che il Ministero non ha alcuna intenzione di seguire l’unica strada sensata per una ripresa che rappresenti anche un miglioramento dell’offerta formativa: una massiccia assunzione in servizio di docenti e personale ATA che consenta una sostanziale diminuzione del numero di alunni per classe e un’adeguata vigilanza anche nei momenti comunitari meno strutturati.

La bozza demanda molte delle decisioni a costituendi “Tavoli regionali” presso gli Uffici Scolastici regionali e a Conferenze dei servizi degli enti locali, con la partecipazione di organizzazione private, soprattutto in materia di reperimento e gestione di spazi alternativi a quelli attualmente disponibili nelle scuole.

Il documento, infatti, decentra molte delle responsabilità sulle istituzioni locali, ultimo anello delle quali sono i singoli istituti, in base al principio dell’autonomia scolastica. I dirigenti avranno molta  discrezionalità, anche se non hanno mancato di far sapere che ne vorrebbero di più, forse totale.

Qualcuno ha scritto che in realtà, le Linee guida sarebbero  un documento ispirato al principio del “fate come vi pare”, nell’incapacità del Ministero a dare un indirizzo unitario chiaro.

In realtà, la situazione è  più complessa. Infatti, il rimando al principio dell’autonomia scolastica non è causale ma assai pertinente  perché essa è il primo mattone, posato alla fine degli anni novanta, dal governo Prodi,  per la messa in concorrenza, la privatizzazione e l’aziendalizzazione delle scuole. Un disegno proseguito poi dai  tanti governi succedutisi ma che ha trovato il suo punto più alto con la “buona scuola” renziana e a cui oggi il governo Conte vuole dare un’ulteriore spinta, forse definitiva, con il pretesto dell’emergenza. L’autonomia resta la trave portante di tale processo.

In questa chiave va letto il richiamo, fondamentale, al principio di sussidiarietà e di corresponsabilità educativa, con l’auspicata collaborazione con enti e istituzioni private e del terzo settore (quindi comunque private, anche se no profit).

Un principio, quello della sussidiarietà, che ha già provocato enormi guasti al sistema sanitario, che spesso anticipa, nelle riforme  privatistiche, la scuola.

Un esempio chiaro è ciò che accadde a partire dalla legge De Lorenzo del 1992 e gli altri provvedimenti che portarono a includere il privato nel sistema sanitario nazionale, parallelamente a quanto accadde nella scuola tra il 1997 e il 2000, anno quest’ultimo in cui fu istituito dal governo D’Alema il sistema nazionale d’istruzione. In tale sistema  confluirono le scuole dichiarate paritarie, con relativi cospicui finanziamenti alle stesse, in  spregio alla Costituzione ma soprattutto con  l’assunzione del privato in un sistema pubblico.

Il principio della sussidiarietà, nelle Linee guida, ha un’accezione molto ampia, estesa anche al personale educativo, poiché  agli operatori, facenti parte di organizzazioni di volontariato o di cooperative  d’animazione che nelle scuole si occupano  oggi di attività integrative (musica, sport, teatro e arte in generale), ma che non hanno  responsabilità sulle classi e agiscono  in genere in compresenza con i docenti, potranno essere affidati anche compiti di sorveglianza e vigilanza sugli alunni.

Questa decisione pone gravi problemi di natura legale e sindacale, poiché si affiderebbero in questo modo dei minori a personale non abilitato all’insegnamento, dipendente da istituzioni terze  rispetto alla scuola e impiegato in assenza di un qualunque quadro normativo. Resta poi da chiedersi quali garanzie pedagogiche dovrebbero offrire le organizzazione a cui fanno capo tali operatori, per esempio sulla loro laicità.

Una soluzione pericolosa, però probabilmente utile al Ministero per evitare di assumere docenti e creare una fascia di docenti di serie B, mal retribuiti, assolutamente precari, senza contratto pubblico e reali diritti, pur se con grandi responsabilità. Una proposta, comunque, che tende a esternalizzare una parte del servizio scolastico affidandolo  a privati.

Tutto ciò sembra essere funzionale alla “riconfigurazione della classe in più gruppi d’apprendimento”, escamotage per dire che non si vogliono formare classi meno numerose. Diventa sospetta, in questo contesto, anche l”articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti da diverse classi o da diversi anni di corso”.

Far lavorare insieme bambini e ragazzi anche di età diversa, far imparare loro la cooperazione  è una cosa educativamente interessante e che è già stata praticata in scuole sperimentali, tuttavia deve rispondere a un preciso progetto pedagogico, con premesse teoriche e conseguenze  pratiche specifiche, non improvvisata per far fronte all’esigenza di classi aggregate e disaggregate come  in un grande gioco di costruzioni.

Ancor più inquietante la questione dell’accorpamento, possibile, nella scuola secondaria, di materie affini. Una flessibilità che può significare per gli studenti perdita di ore di lezione e di saperi specifici.

Sempre per quanto riguarda la scuola secondaria di secondo grado, si scopre inoltre che già si progetta di ricorrere ancora alla “didattica digitale a distanza”, per supplire evidentemente alla mancanza di spazi e di personale.

Del resto, che il Ministero punti ancora molto sulla didattica a distanza, rendendola  permanente,  è testimoniato  dal fatto che sono previste specifiche formazioni sul tema per i docenti (naturalmente via webinar!)  e che le Linee guida per la didattica digitale integrata dovranno entrare a far parte dei PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa). Dietro a tutto ciò sta un’enorme truffa ideologica, quella di far coincidere digitale (a distanza) e innovazione pedagogica, cosa per nulla scontata, anche in base ai risultati di quest’anno, dove la didattica a distanza ha dimostrato tutto il suo portato di discriminazioni e di accrescimento delle disuguaglianze.

Quanto agli insegnanti, questi ultimi sono trattai come persone che non hanno diritti sindacali e orari di lavoro. Entrate scaglionate, estensione dei giorni  di attività didattica, “rimodulazione” delle ore d’insegnamento (cioè riduzione a 40 minuti con aggravio del numero di classi e di lavoro collegiale), formazione in sevizio incentrata solo sulle tecnologie digitali, uso di mezzi propri per la didattica a distanza  sono temi che mettono in discussione lo statuto professionale e l’orario di lavoro e non possono essere decisi per decreto.

Per quanto riguarda gli alunni disabili, le Linee guida sono molto generiche e trattano solo di dispositivi di protezione, tuttavia citano la possibilità di accomodamenti ragionevoli per garantire a tali allievi  la presenza quotidiana in aula.

Quali potranno essere questi accomodamenti non si sa, ma certo l’accento posto sulla loro presenza quotidiana a scuola  sospettare che essa, per gli altri studenti, non ci sarà.

giovedì 25 giugno 2020

I PROFITTI DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE

E' successo a Pisa ma poteva capitare in tutta Italia,ma anche in tutto o quasi il mondo soprattutto quello consumista e capitalista occidentale,ed è capitato in un supermercato Esselunga così come in un qualsiasi altro grosso nome della grande catena di distribuzione.
Che nei mesi Covid 19 hanno avuto ricavi ottimi,così come gli aumenti dei prezzi che hanno fatto lievitare soprattutto frutta e verdura e i detergenti per la pulizia della casa e per l'igiene,a fronte di condizioni lavorative del personale peggiorate sempre più.
Con milioni di persone che non hanno avuto lo stipendio,che in molti casi stanno aspettando la cassa integrazione e col palliativo tentativo dello Stato di porre rimedio al classico"cosa portare in tavola"con insufficienti buoni spesa.
L'articolo di Infoaut(precariato-sociale )parla sì dei carrelli ribaltati davanti alla direzione dell'Esselunga in Toscana ma anche della spremitura dei produttori agricoli con i prezzi del latte e delle derrate agricole ai limiti dell'indecenza,dei trasportatori,del facchinaggio e dei corrieri costretti a turni massacranti,e le percentuali di guadagno della gdo(la grande distribuzione organizzata)che fa lievitare il prezzo finale del prodotto.

Dentro i carrelli vuoti dell’Esselunga.

Che nella pandemia Covid 19 non fossimo tutti sulla stessa barca era chiaro dall’inizio.
Ma che dopo tre mesi di lockdown gli unici a guadagnare fossero le catene della grande distribuzione organizzata, di fronte a milioni di persone improvvisamente ritrovatesi a fare i conti con gli stenti dalla mancanza di cassa integrazione o a stipendio ridotto, rappresenta un vero e proprio pugno nello stomaco.
 Il governo Conte a marzo vara un decreto con il quale consegna 400 milioni di euro per buoni spesa e pacchi alimentari, che non riescono a sfamare neanche la metà dei richiedenti, ma in compenso quelle risorse pubbliche finiscono in tasca ai supermercati. Che beneficiano della quarantena forzata anche aumentando vertiginosamente i prezzi delle merci che “tirano”: frutta e verdura, ma anche prodotti dell’igiene intima e per la pulizia domestica. Gli incassi salgono del 20 per cento a livello nazionale. E il “popolo” che fa? Aspetta che l’Inps dia un segno di vita, si stressa telefonando centinaia di volte agli uffici pubblici per fare domande per i bonus, fruga gli ultimi risparmi, si indebita con amici e parenti. Ma soprattutto “rinuncia”. C’è una grande privazione di massa che segna i nervi di tutti coloro che sono stati discriminati dall’utilizzo dei fondi pubblici. Le grandi imprese, le società commerciali e finanziarie, gli “ultimi padroni” si lamentano col governo, e ottengono iniezioni economiche per miliardi di euro, libertà di “non pagare”, sconti e detrazioni, mano libera nello sfruttare i dipendenti, anche a costo della salute pubblica. Invece chi campa della sua fatica è stato condannato ad una attesa fatta di ulteriore sacrifico.

Anche a Pisa, come in tutta Italia, per tre mesi la risposta sotterranea ma fortissima è stata quella di organizzare tre punti di distribuzione di quartiere e condivisione di tutto quello che è stato possibile raccogliere, di cibo e altri oggetti. Più di centocinquanta nuclei familiari, circa 450 persone, si sono conosciute in queste attività e ognuno a suo modo ha contribuito per non lasciare nessuno senza la spesa in tavola. Ci sono persone che già erano abituate a lottare per ottenere dai servizi sociali quei contributi necessari a pagare le tante cose indispensabili rese care da mercato. Ma ce ne sono tantissime nuove che, in attesa di cassa integrazione,  non si erano mai ritrovate a fare i conti con questa penuria. Le raccolte alimentari stanno continuando, ma il numero e la varietà dei bisogni crescono rapidamente, nel mentre che lo Stato continua ad evitare di coprire le spese sociali della popolazione.

La grande distribuzione in questi mesi di Corona virus ha scoperto la fragilità del suo ruolo. Quello che sembrava un  tempio del consumo, dove le persone incantate da pubblicità e obbligate dalle regole del commercio multinazionale spendevano e compravano, si è rivelato un gigante dai piedi d’argilla. Le proteste dei dipendenti, cassieri e magazzinieri, per lo sforzo non ripagato ma anzi peggiorato a causa di turni estenuanti e retribuzioni magre. Lo sfruttamento dei braccianti, che hanno iniziato a scioperare e rivendicare documenti e condizioni sociali dignitose. I facchini delle logistica che hanno continuato sempre a lavorare col rischio di contrarre il Covid 19 per spostare le milioni di merci necessarie; i produttori agricoli schiacciati dalle aste al ribasso della catene commerciali costretti a buttare via i prodotti; le difficoltà legate ai trasporti nella crisi della mobilità indotta dal rischio contagio. Anelli di una catena che si mostra per tutta la propria nocività e alla fine dei conti pericolosità di un modello fatto per sviluppare i fondi d’investimento, più che per “nutrire” la popolazione.

Era ovvio che prima o poi qualcuno iniziasse direttamente a porre il problema. Infatti ieri pomeriggio verso le 17 si è svolta dentro al grande centro commerciale di Pisanova una “strana” dimostrazione. Circa cento persone hanno preso i carrelli della spesa entrando nell’Esselunga. Si è formata una lunghissima fila  di “carrelli vuoti” che si sono posizionati prima di fronte alle casse e poi di fronte al box informazioni. Le richieste talmente semplici e di buon senso da sorprendere la massa dei consumatori presenti erano: non sprecare più nulla, ma redistribuire. Abbassare i prezzi delle merci necessarie rendendoli fruibili a tutta la popolazione. Contribuire con i guadagni della Grande Distribuzione  al pagamento dei Buoni Spesa e dei Pacchi Alimentari.

I carrelli vuoti sono usciti dalle corsie piene di merci, ma la normale tentazione di prendere il necessario non potendo però acquistarlo è stata combattuta questa volta non con lo spirito di sacrificio individuale, col “magone” allo stomaco di chi per l’ennesima volta rinuncia “perché non può permetterselo”. È esplosa, questa volta. I carrelli vuoti si sono ribaltati e ammassati di fronte agli uffici della direzione. La fila si è scomposta cambiando lo scenario da tempio del consumo ad agorà pubblica. Una cosa bellissima. Non più fretta e stress, ma per due ore i consumatori hanno scioperato dal loro “compito”. Hanno preso parola tante voci che hanno raccontato il proprio vissuto e scoperto le ingiustizie subite in questi mesi, in questi anni. “Un kg di clementine ha 2,20 euro di prezzo al supermercato. La Grande Distribuzione Organizzata lo paga 0,67, risparmia sulla forza lavoro e sui costi di trasporto.” “I fatturati sono aumentati del 19 per cento in questi ultimi due mesi”. “A Pisa 700mila euro di soldi pubblici sono finiti in tasca ai supermercati con i buoni spesa, nel mentre diecimila persone hanno potuto usufruire del buono solo una volta, ed altre migliaia sono state escluse”. Il numero e il contenuto della presenza sociale ha spiazzato letteralmente le cattive abitudini del supermercato, il “corri, scegli, paga e vai via”. Le decine di persone hanno manifestato non carità ma pretesa di cambiamento di un rapporto tutto sbilanciato a favore dei pochissimi proprietari del mercato. “Non è possibile speculare sulle disgrazie altrui”, questo era il ricorrente motivo della indignazione pubblica.

Ma a ratificare l’inizio di un movimento è la percezione di sostegno, complicità e riconoscimento che è avvenuto dentro l’atrio del centro commerciale, da parte di centinaia di altri consumatori che hanno applaudito, preso il volantino, discusso coi presenti. Non considerare più un problema individuale quello di avere difficoltà a comprare le cose necessarie, quello di compromettere la qualità della spesa, quello di fregarsene delle conseguenze degli acquisti su chi lavora. Non considerare più normale che i prezzi vengano alzati, ma discutere, monitorare, reclamare e contestare la falsa natura delle regole del commercio. Non considerare più normale accettare di vivere lo spazio urbano secondo i ritmi imposti dal portafoglio, e decidere invece di fermarsi e di socializzare, di farsi delle domande e soprattutto di avere delle risposte.

Le risposte ieri però dal vertice dell’Esselunga non sono arrivate. A un certo punto sono spuntati militari, e personale di polizia in borghese della digos, chiamate per verificare quanto stava accadendo. Hanno preso semplicemente atto che tantissime famiglie hanno iniziato a pretendere giustizia da chi in questi mesi ha continuato a buttare via ogni sera quintali di cibo, da chi ha aumentato i prezzi nel mentre migliaia di persone campano con le collette alimentari, da chi non ha dato un euro dei milioni che ha a disposizione per contribuire al benessere della comunità.

Queste risposte non sono arrivate ieri sera, ma c’è da scommettere che le domande aumenteranno.

Da Riscatto

martedì 23 giugno 2020

I NUMERI IMPRESSIONANTI DEI CONTAGIATI NEL MONDO

Mentre l'Italia finalmente ha numeri,sia sommersi che non,in calo rispetto alle ultime settimane riguardo i malati ed i decessi per coronavirus,il resto del mondo sta negli ultimi giorni affrontando un aumento record dei casi,soprattutto in America del Sud,col Brasile in testa con cifre impressionanti.
Proprio lo stato amazzonico assieme a Gran Bretagna e Usa è uno di quelli col più alto numero di contagiati e di vittime,frutto come già detto in precedenza(madn il-trio-degli-incapaci )delle politiche poco lungimiranti dei tre leaders,Bolsonaro,Johnson e Trump che hanno sottovalutato la situazione così come avevamo fatto noi dopo l'esempio della Cina.
L'articolo(contropiano epidemia-raccontata-quella-reale )riflette su questo e sulla nostra di situazione,con oltre 35mila vittime accertate,molte di meno di quelle che non saranno mai certificate come conseguenza del Covid 19,con ancora molti limiti si conoscenza su questa pandemia che vede litigare gli stessi scienziati sulla presunta perdita di virulenza e sulle cure da attuare.

L’epidemia raccontata e quella reale.

di  Massimo Zucchetti 
Lo so, che dopo sei mesi non se ne può più.

Ieri comunque è stato il giorno peggiore da sempre dell’epidemia, con oltre 180.000 contagiati. Di cui quasi un terzo (55.000) in Brasile. Contagiati “ufficiali”, diagnosticati con test. Non so dire quanti siano quelli reali.

Quando ci ripetiamo il giusto mantra “oramai il virus ha perso potenza”, raccontiamocela giusta:

“L’epidemia in Italia si è estremamente ridotta. I nuovi contagiati hanno spesso carica virale molto bassa, sono comunque poche centinaia, mentre nei giorni peggiori erano parecchie migliaia. I morti sono poche decine al giorno, mentre a fine marzo erano 800. Tra l’altro, buona parte di questa retroguardia è in una sola regione”.

Poi magari, con spirito internazionalista, uno potrebbe aggiungere:

“Questo non vuol dire che il virus in sé si sia indebolito, come provano il picco di contagi nel mondo ieri, e le parecchie migliaia di morti ogni giorno. Preoccupa anche la crescita dei contagi in molte nazioni di Sud America, Africa e Asia che sembravano quasi indenni, e dove le possibilità di cura sono scarse.”

Poi, guardando il passato recente, onestamente si potrebbe dire:

“L’Italia l’ha pagata molto cara (quasi 35.000 morti registrati, probabilmente 45/50mila reali vedendo i dati ISTAT di marzo/aprile) ma grazie al lockdown, ai miracoli della nostra Sanità, e al comportamento responsabile della grande maggioranza dei cittadini, l’abbiamo sfangata nonostante alcuni politici regionali e una frangia di imbecilli ed irresponsabili di vario tipo abbiano fatto del loro peggio per far andar male le cose”.

Poi, per quanto mi riguarda, il distanziamento sociale è stata una bella novità, tanto è vero che in forma magari meno accentuata continuo e continuerò a praticarlo.

sabato 20 giugno 2020

LA DEMOCRAZIA NEGOZIALE E' IL CORPORATIVISMO

Fin da quando non era ancora insediato avevo detto che il nuovo presidente di Confindustria Bonomi era molto pericoloso(vedi:madn -bonomiil-volto-nuovo-di confindustria )per i lavoratori,e i suoi atteggiamenti tracotanti da"so tutto io"cominciano ad essere pesanti e opprimenti in un periodo di crisi nera dell'intera economia.
Ed i suoi intenti di ovviare a questo periodo sono peggio dello stato attuale delle cose,e lui come tutti gli avvoltoi che contano hanno già sfregato le mani per accaparrarsi il più della pioggia di Euro che arriveranno da Bruxelles,da versare tutti nel privato come piace al sindacato degli industriali nel vecchio concetto del socializzare i debiti e privatizzare i profitti come è stato usato di recente anche per le banche(madn banchesocializzare-i-debitiprivatizzare i guadagni ).
Gli articoli di Contropiano(democrazia-negoziale-e-democrazia-recitativa )e Left(la-democrazia-secondo-confindustria )parlano del termine coniato da Bonomi"democrazia negoziale"che somiglia tanto,anzi pure troppo,al corporativismo fascista degli anni venti,l'inutile tentativo di non rimanere né nel capitalismo(all'inizio i fascisti erano avversi salvo poi fare il contrario)e né nello statalismo,con risultati aberranti,con l'intervento dello Stato in maniera assoluta ed autoritaria spazzando via i sindacati e portando il paese al tracollo.

Democrazia negoziale e democrazia recitativa.

di  Franco Astengo 
“Democrazia Negoziale” è la nuova frontiera che la Confindustria offre al dibattito politico.

Spiega il neo-presidente Bonomi : “una democrazia negoziale in cui il confronto con le parti sociali sia continuo” e aggiunge: “una democrazia negoziale in contrapposizione con le leadership personali e carismatiche, costruita su una grande alleanza pubblico-privato su cui il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale, ma con cui esso dialoga incessantemente attraverso le rappresentanze di impresa, lavoro, professioni, terzo settore, ricerca e cultura”.

Un ritorno alla mediazione e, in apparenza, un duro colpo all’idea della morte dei corpi intermedi su cui si sono basate idee e proposte derivanti dall’intreccio tra la “democrazia del pubblico” teorizzata da Bernard Manin e il “partito personale” nella formula ideata da Mauro Calise (“democrazia diretta” e presidenzialismo per ridurre il tutto in pillole).

Due formule che, forse arbitrariamente, mi permetto di considerare confluite nella cosiddetta “democrazia recitativa”, nell’esercizio della quale non viene negata la libertà di scelta dei propri governanti (sempre con la formula dell’elezione diretta delle cariche monocratiche) da parte di coloro che sono governati, cioè le elettrici e gli elettori.

Quello che accade è che questa libertà di scelta viene resa semplicemente irrilevante sulle conseguenze politiche una volta che la scelta del leader è stata fatta. Infatti dopo l’elezione al governo, chi comanda ha libertà di violare ogni proposta/promessa pre–elettorale in maniera totalmente impunita.

Nell’attualità del “caso italiano” la situazione appare ancora più paradossale di come sia stata fin qui descritta: il massimo interprete della “democrazia recitativa” non è stato mai eletto da nessuna parte (l’accenno riguarda il Presidente del Consiglio in carica) ed è espressione “esterna” del partito di minoranza relativa (si ricorda che il M5S nelle elezioni del 2018 ottenne il 23,07% dell’intero corpo elettorale. Quindi non fu votato dal 76,93% del “plenum” delle elettrici e degli elettori).

D’altro canto non è la prima volta che accade nei tempi recenti: così fu per Renzi ed anche per Monti, nominato senatore a vita con un ardito “coupe de theatre” dal presidente Napolitano, il giorno prima di ricevere l’incarico di formare il governo.

L’Italia quindi luogo ideale della “democrazia recitativa” (cui comunque si ispira Donald Trump) in una situazione di sistema politico nel quale svolgendo funzioni di supplenza (come era accaduto tante volte per la Magistratura) tocca alla Confindustria proporre, addirittura, un mutamento di metodo politico.

In realtà cosa propone la Confindustria?

Non vorrei apparire semplicistico, ma lo schema della “Democrazia Negoziale” potrebbe essere accostato al “corporativismo”, quindi ben oltre la “concertazione” ancora reclamata dalla segretaria generale della CISL nell’incontro a Villa Pamphili con la Presidenza Consiglio.

CGIL–CISL–UIL si sono presentati completamente a mani vuote e con il cappello in mano soltanto per richiedere il prolungamento della Cassa Integrazione, in un paese assalito dalla frenesia dell’assistenzialismo e in parte rilevante dedito lavoro nero in un coacervo di bonus, sussidi, elargizioni nel contorno di una enorme evasione fiscale.

Sul piano istituzionale dove potrebbe portare la proposta di Confindustria? Ad una seconda Camera trasformata in “Camera delle Corporazioni”?

Del resto già nell’Assemblea Costituente fu esaminata la possibilità di fare del Senato la sede di una rappresentanza corporativa degli interessi: tema affrontato nella “sottocommissione Forti” e ripresa in Aula dalla DC.

Adombrata una possibilità di intreccio tra la rappresentanza regionale e quella corporativa il progetto fu poi superato per via della difficoltà a procedere all’individuazione delle categorie e di un metodo di individuazione nella spartizione dei seggi.

Prevalse, invece, la nozione di “rappresentanza politica” intendendo gli eletti come “rappresentanti della Nazione” e al di fuori da ogni mandato imperativo, come previsto dall’articolo 67 della Costituzione.

Articolo 67 che i propugnatori della “democrazia del pubblico” e attuali interpreti della “democrazia recitativa” hanno più volte reclamato di abolire.

Il concetto di “rappresentanza politica”, vero fulcro di quella “centralità del Parlamento” della quale abbiamo tante volte discusso, è stato attaccato a fondo nel corso di questi anni utilizzando le modificazioni di paradigma politico cui si è già accennato.

Modificazioni fondate tutte sul primo e fondamentale cambiamento avvenuto con l’avvento del sistema elettorale maggioritario (si ricorda ancora una volta come la definizione del sistema elettorale non faccia parte del dettato costituzionale, anche se si fa fatica a non riconoscere che il tema ha sempre assunto un rango di quel livello, come ha riconosciuto implicitamente la stessa Alta Corte nelle due occasioni in cui ha bocciato prima la formula elettorale vigente e nella seconda una formula elettorale approvata dal Parlamento, con la fiducia, ma mai ammessa alla prova delle urne).

Oggi il cerchio si chiude e si arriva appunto a una proposta di “democrazia negoziale”: una negoziazione continua tra enti intermedi che finirebbe con il ridurre il concetto di sovranità popolare relegando il Parlamento, al più, a sede di semplice interpretazione e ratifica.

Come del resto già sta accadendo in tempi di un “presidenzialismo materiale” spostato sul versante del Governo, visto che il Quirinale si è per così dire “ritirato” nell’utilizzo di una sobria “moral suasion” in luogo del protagonismo politico imperante nel periodo tra il 2006–2015.

Ci troviamo quindi in un momento nel quale chi intende affermare ancora i principi della democrazia costituzionale e della rappresentanza politica (da questa ricostruzione è stato esclusa, soltanto per ragioni di economia del discorso, l’analisi relativa alla trasformazione del sistema dei partiti) è chiamato necessariamente a valutare a quale punto si situa la faglia dell’identità democratica del Paese: dove sta, insomma, lo spartiacque che divide costituzionale da anticostituzionale.

A questo punto dovrebbe essere anche introdotto un altro tema, quello del “vincolo esterno”. Nel senso dell’analisi del quadro internazionale, là dove deve essere ricordato come sia in atto uno scontro di grandi proporzioni circa la collocazione internazionale dell’Italia, tra multipolarismo appoggiato sulla Cina e ritorno del “ciclo atlantico” e predominio USA, non più solo gendarme del mondo in un quadro generale nel quale è sicuramente mutata la realtà della “globalizzazione” verificatasi con spostamento della centralità delle contraddizioni dalla geopolitica all’universalizzazione dell’emergenza sanitaria.

Tornando al sistema politico italiano, l’impressione è che la “frattura” del sistema si collochi molto più in arretrato di quanto non faccia apparire il sistema della comunicazione di massa .

Le difficoltà del sistema sono arrivate ad un punto nel quale appaiono molto rilevanti i rischi di “stretta” al riguardo della rappresentatività delle istituzioni come disegnate dalla Costituzione.

L’esempio più lampante in questo senso è quello dell’uso dello strumento dell’informativa come costante nel rapporto diretto tra Presidente del Consiglio e Parlamento. L’informativa, in luogo della “comunicazione”, infatti, esclude la possibilità di votare un qualche documento presentato dall’aula.

Con questo vero e proprio stratagemma si è fin qui impedito di votare, ad esempio, sull’utilizzo del MES, ma questo sistema è stato utilizzato per tutto il periodo dell’emergenza sanitaria.

Per questo motivo occorre una soggettività politica di sinistra che si proponga, come vero e proprio punto identitario, di “riconquistare” il Parlamento attraverso la riproposizione compiuta del dettato costituzionale.

Una “riconquista” che deve valere come fulcro un programma politico molto vasto e impegnativo nella sue diverse implicazioni. Un programma che non preveda arroccamenti di mera visione ideologica proponendosi prima di tutto di superare la “democrazia recitativa” e di bloccare l’ipotesi di “democrazia negoziale”.

L’obiettivo deve essere quello di riaffermare il principio fondamentale della democrazia rappresentativa, poggiando su di una recuperata identità e dimensione organizzativa dei partiti: semplice da scrivere ma molto difficile da realizzare, pur tuttavia è necessario tentare.

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La democrazia secondo Confindustria.

di Giulio Cavalli 
Carlo Bonomi si è lanciato perfino in un neologismo: “democrazia negoziale”. Quando mi è capitato di leggerlo ho pensato che la democrazia è democrazia, ed è contendibile per natura altrimenti non lo sarebbe poi ho letto ancora di più e mi sono accorto che sarebbe “una grande alleanza pubblico-privato” in cui “il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale” ma dialoga “incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del terzo settore, della ricerca e della cultura”. È un fighissimo esercizio retorico ma in realtà, grattando grattando, significa che secondo Bonomi Confindustria dovrebbe essere la terza Camera dell’iter parlamentare. I cittadini votano un governo ma il governo deve essere avallato da loro. Forte, eh?

Peccato che proprio sulla rappresentanza di Confindustria ci sarebbe qualcosa da ridire visto che la Confindustria di oggi rappresenta quel bel capitalismo fatto con i soldi degli altri (Eni, Enel, Leonardo, Poste, tanto per citare qualcuno) che ha consigli d’amministrazione decisi dal governo e ha perso parecchia rappresentanza di quel capitalismo privato che ormai dalle nostre parti è diventato una rarità.

Ma non è tutto, no. Confindustria per bocca del suo presidente Bonomi ha criticato (legittimamente) le scelte del governo definendo (legittimamente) assistenzialismo le iniziative prese come i bonus e la cassa integrazione: peccato che proprio Confindustria abbia usato la cassa integrazione per i giornalisti del suo quotidiano Il Sole 24 Ore. Curioso, no?

E poi c’è la ricetta per ripartire, questo è il vero capolavoro: meno regole per gli appalti, più cemento per tutti e soldi alle imprese e possibilmente più possibilità di precarizzare i lavoratori. Sono le stesse ricette di tutti questi stessi anni. Sempre.

Sarebbe bastato dire invece: «caro Conte sappiamo che arriverà una montagna di soldi dall’Europa e vogliamo la nostra fetta». Un po’ crudo, molto più apprezzabile. Senza nemmeno troppo sforzo nell’inventare nuove parole.

Buon venerdì.

venerdì 19 giugno 2020

GLI ESTREMISTI DELLA LEGALITA'

L'accozzaglia tra neofascisti,ultras di estrema destra,terrapiattisti,complottisti,no vax,no 5G che assieme ai gilet arancioni e a quelli che sia appellano contro la dittatura sanitaria si trovano a proprio agio nella loro sacra alleanza di ignoranza,potrebbero a breve confluire in un nuovo soggetto politico,più un immondo contenitore di idee idiote,e presentarsi in ipotetiche future elezioni.
Lasciando stare il fatto che c'è chi anche li voterebbe,l'articolo odierno di Antifa(cosa-si-muove-dietro-lalleanza-nera )parla di questi intrecci che dell'ideologia poco frega se non per portare nelle piazze e sui social slogan propagandistici,mentre il vero collante è l'affare,soprattutto il malaffare che deriva dalle situazioni criminali nelle quali questi novelli"estremisti della legalità"portano avanti.
Come detto già settimana scorsa(madn ombre-nere )gli ultimi tentativi falliti di manifestare di questi individui sono miseramente falliti,con i vari Castellino e Carabella che si menano tra loro e la solita impunità che godono da parte delle forze dell'ordine,apertamente schierate dalla loro parte.
Vogliono l'ignoranza al potere,condita dalla violenza razzista e squadrista che da sempre ne accompagnano le gesta,ma dietro ci sono investimenti di milioni di Euro per far sì che queste merde,capeggiate ultimamente soprattutto da Salvini e Meloni,possano avere sempre più spazio nei mass media(non che gli manchi)invadendo l'etere e la rete di menzogne e di sentenze.

Cosa si muove dietro l'alleanza nera tra neofascisti, ultras e no 5g.

Dopo i cortei a Roma, la galassia dell’estrema destra si organizza per cementare curve da stadio, fondamentalisti cattolici, gilet arancioni, no vax e populisti arrabbiati. E c'è chi guarda con interesse a questi movimenti

 17 giugno 2020

«Entrammo nella vita dalla parte sbagliata in un tempo vigliacco, con la faccia sudata, ci sentimmo chiamare sempre più forte, ci sentimmo morire ma non era la morte e la vita ridendo ci prese per mano, ci levò le catene per portarci lontano», cantava Massimo Morsello, fondatore di Forza Nuova e cantautore, scomparso nel 2001 a Londra, in latitanza per essere stato condannato insieme alla moglie Marinella Rita, Roberto Fiore e Amadeo de Franciscischi per terrorismo implicante cospirazione armata.

Anche se appare lontano nella linea temporale i versi, le idee e la strategia politica di Massimo Morsello continuano ad essere replicate nella gestione dei movimenti di estrema destra sia nelle piazze che nelle modalità di finanziamento, nel solve et coagula che crea ogni triennio delle galassie nuove, delle sigle nuove che hanno in comune una matrice identitaria che diventa benzina sul fuoco dei conflitti sociali nelle città. Continuano a entrare dalla parte sbagliata, cercando di sopravvivere e di fare aggregazione, parlano la stessa lingua antica anche le piazze di questi giorni, dalle “mascherine tricolori” fino ai “Ragazzi d’Italia” passando per i Gilet Arancioni, linguaggio che vedrà due approdi comuni una piazza a Roma il 20 giugno e una riunione di coordinamento il 30 giugno.

Parole d’ordine che non si fondano più solamente sul “Dio, Patria e famiglia” ma si saldano alla nuova lotta contro la dittatura sanitaria, il 5G, i vaccini e la volontà di sovvertire le istituzioni con un pressing costante al momento debole ma che potrà salire di intensità anche grazie agli aiuti che vengono dall’estero.

Per la prima volta nel corso della storia dell’estremismo gli ultras neofascisti sono scesi in campo con una manifestazione, un esordio non proprio esaltante finito a schiaffi tra Giuliano Castellino, leader romano di Forza Nuova e Simone Carabella, reo di aver parlato con i giornalisti senza il consenso degli organizzatori , che ha coniato una definizione per sé davvero singolare «non sono fascista, ma estremista della legalità».

La piazza dei fascisti che si prendono a schiaffi da soli.

Al grido «m'ha dato una pizza» al Circo Massimo è andata in scena una manifestazione autolesionista, tra ceffoni, violenza e fumogeni lanciati male. Ma per Giuliano Castellino e i "Ragazzi d'Italia" è andata benissimo. E già il 9 e il 10 due nuove mobilitazioni
 Ma la piazza del 6 giugno ha visto l’esordio in trasferta di Stefano Paderni detto “Aquila”, impresario edile bresciano, classe 1984, uno dei volti più significativi della Brigata Leonessa che è la costola di Veneto Fronte Skinheads. Ex calciatore, si è fatto le ossa in curva, nei festival neonazisti in Italia e all’estero dove è stato più volte ritratto, molto amico dei capi ultras storici come ad esempio, Enzo Ghidesi e Alessandro “Fungo” Gazzoli, che fa parte del direttivo della Curva Nord, entrambi sottoposti a provvedimento di Daspo ma ancora guide del tifoso organizzato bresciano. Paderni era la voce che dal palco del Circo Massimo invitava a non cadere in provocazioni e lanciava anatemi contro i giornalisti e il Governo, i primi rei di aver mentito sulle intenzioni della piazza e i secondi di affamare il popolo.

“Aquila” è un personaggio pericoloso molto noto alle forze dell’ordine con numerosi episodi di violenza alle spalle come quando nel 2015 ricevette il foglio di via da Collio, città dell’Alta Val Trompia in provincia di Brescia, in quell’occasione la Brigata Leonessa voleva raggiungere il corteo di un gruppo di antifascisti che presidiavano l’arrivo di venti richiedenti asilo, Stefano “Aquila” Paderni in un video ancora reperibile in rete si rivolge alle forze dell’ordine e urla: «Devi uccidermi per mandarmi via». La Brigata agisce da sempre come un’entità politica autonoma, ha alle spalle una sequela di pestaggi, aggressioni, scontri con la polizia e Paderni, il cui curriculum è un fascicolo sempre aperto, è l’artefice dello spostamento dello scontro sul piano nazionale. Un piano che come racconta Federico Gervasoni, giornalista di Brescia, autore de “Il cuore nero della mia città” (Liberedizioni), ha varie sfumature: «L’attuale intenzione di ciò che rimane di Forza Nuova dopo la scissione primaverile, mi riferisco a Giuliano Castellino e a Roberto Fiore, è quella di catalizzare tutte le curve italiane e raccogliere il maggior numero di voti possibili. Il credo fascista fa legami persino tra tifoserie storicamente rivali, ad esempio Brescia ed Hellas Verona».

Una volontà, quella del superamento delle storiche rivalità, che è più volte fallita negli anni perché spesso gli interessi dei gruppi ultras di estrema destra del nostro Paese guardavano più alla consistenza economica degli affari legati ai rapporti con la criminalità organizzata che all’ideale. «In questo momento, c’è una volontà da parte dell’estrema destra di diventare egemone all’interno della curva del Brescia. La Brigata Leonessa, costola bresciana di Veneto Fronte Skinheads ne è un esempio. Nonostante la Curva Nord si definisca in apparenza apolitica e apartitica, dal 2011 in avanti (2011 è l’anno in cui la Curva Sud a Brescia si sposta nella vecchia Curva Nord, ndr) non ha mai condannato o preso le distanze dalle violenze di matrice neofascista commesse appunto dalla Brigata dentro e fuori dallo stadio. Non solo, una curva contraria alla presenza di elementi neofascisti di spicco della scena bresciana, si impegnerebbe a togliere loro eventuali ruoli di comando all’interno del direttivo».

La leadership di Paderni va in sintonia con quella di Giuliano Castellino, protagonista picaresco del Circo Massimo, che ha da sempre la passione oltre che per gli scontri in piazza per le occupazioni «non conformi». A differenza di Casa Pound che cerca di mascherare l’occupazione, ormai precaria di via Napoleone III per fini nobili e abitativi anche se gli occupanti hanno redditi imponibili ben fuori dalla condizione di indigenza, Forza Nuova ha occupato da anni un locale commerciale su strada in via Taranto, nel quartiere San Giovanni a Roma, di proprietà dell’Ater, che ha adibito a pub. Si chiama “Skull Pub”, e da anni - come denunciato dagli abitanti del quartiere - è un ritrovo di fascisti, che senza le autorizzazioni necessarie somministra bevande alcoliche e cibo. Nonostante la denuncia presentata alla magistratura da Ater nel 2016, non si è mosso nulla.

Ma il locale di via Taranto fu anche oggetto di una rotazione di immobili occupati, che vide beneficiare gli Irriducibili e, al tempo, Fabrizio Piscitelli (oggi defunto) che si accordò con Castellino per subentrare nella sede che prima di via Taranto occupava con le medesime finalità in via Amulio. Uno scambio di occupazioni e di favori che mette in luce ancora di più quanto la distinzione delle squadre sostenute la domenica sia una mera formalità. Il locale commerciale di via Amulio è ancora oggi la sede degli Ultras Lazio, nuova sigla nata dallo scioglimento degli Irriducibili, ed è di proprietà di Inail. Un locale fantasma che è occupato irregolarmente ma che da verifiche condotte non risulta tracciato dalle planimetrie dell’Istituto che ne detiene la proprietà.

Sono così i nuovi rappresentanti della destra eversiva, molto poco ideologici quando c’è da fare affari, molto poco attenti al principio quando c’è da fare alleanze.

La piazza del 20 giugno e il coordinamento successivo che ne nascerà aderirà a questo principio dove un ex generale dei Carabinieri, degli occupanti di stabili con lunghi curriculum poco cristallini, no-vax e complottisti vari, la senatrice Sara Cunial e il suo movimento R2020, cercheranno l’assalto ai palazzi per «restituire la parola e il potere al popolo».

Quanto avviene nelle piazze italiane è oggetto di studio e analisi nello staff di Steve Bannon, che ha puntato tutto da tempo su Giorgia Meloni, cresciuta notevolmente nei sondaggi dopo le elezioni europee, ha abbandonato il Movimento Cinque Stelle, si dimostra tiepido nei confronti della Lega e ha elaborato un documento riservato in cui si legge che «gli attuali elementi presenti nelle piazze italiane devono essere incitati e aiutati sui social network perché seppur diversi valorizzano pulsioni presenti nell’animo degli italiani. Lo spiccato sentimento antistatalista - contro le autorità preposte, contro la politica - deve essere valorizzate per arrivare ad un nuovo quadro politico di riferimento. Si dovrà quindi rafforzare il sostegno politico a queste realtà utili non ad una fase di governo ma a una fase di preparazione ai nuovi scenari. Si registra una totale assenza della sinistra dalle piazze che può dare la possibilità alle forze sovraniste di respingere l’onda generata dal Movimento delle Sardine nel corso dell’autunno che di fatto ha occupato la scena visiva della politica italiana».

Un’analisi abbastanza chiara che non lascia spazio a equivoci e che ripercorre uno schema antico a destra in cui “la piazza servente” è utile per destabilizzare e per garantire un ricambio governativo che non vede mai i protagonisti delle rivendicazioni. In questa direzione, la creazione di un contenitore nuovo, pulito, capace anche di presentarsi alle elezioni, serve appunto a far circolare in modo più ordinato contributi e finanziamenti, un obiettivo che accomuna tutti gli attori di questa fase delicata dove le istituzioni sono stanche e indebolite da mesi di pandemia e da una situazione economica che potrebbe creare nuovi conflitti in autunno. La presenza sul territorio appare fondamentale, presenza capace anche di controllarlo “manu militari” grazie agli ultras fascisti che sembrano meno capaci di aggregare senza far rumore.

Questo panorama in continua evoluzione ci fa comprendere come seppur «entrando dalla parte sbagliata» i vecchi e nuovi fascisti trovino sempre però il posto giusto nello scacchiere tra il disordine e le battaglie che non fanno mai gli interessi degli ultimi ma sempre dei primi.

 https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/06/17/news/fasci-ultras-no-5g-alleanza-1.349937

mercoledì 17 giugno 2020

LA SCARCERAZIONE DI"NARMINATI"

In questo periodo di"tana libera tutti"ecco che il criminale fascista Carminati(vedi:madn le-prime-condanne-per-mafia-capitale )indiscusso padrone autoproclamato della"terra di mezzo"romana,uno che faceva e forse farà del terrore e delle minacce(cui hanno sempre fatto seguito i fatti)il suo punto di forza.
L'articolo di Contropiano(chi-ha-paura-delluomo-nero )parla della cronaca e della condanna che ha scontato per circa un terzo per il motivo della scadenza dei termini di custodia cautelare,per una burocrazia giudiziaria tutta italiana,una lentezza disarmante che ogni anno rimette in libertà pericolosi individui.
Si analizza anche,con fare garantista che però mi permetto di condividere,equiparando questo personaggio antitesi di quello che penso e di quello in cui crede Contropiano,proprio la questione di questo fascista e delle sentenza che devono essere emesse per i reati e non per il personaggio.
Qui è lampante che Carminati,fascista Nar e quanto di peggio ci possa essere in giro,abbia dato fastidio a quelli sopra di lui nella gerarchia del potere,ed è diventato il facile capro espiatorio per far sì di lasciar passare nell'ombra altri personaggi come lui.
Su questa scarcerazione ci sarà molto da discutere,non s'indigneranno le testate della destra come per il caso Battisti(madn battisti-rispolverato-per-tacere-sui lavori parlamentari )a meno che non faccia loro comodo,e già il governo parla di ulteriori indagini e parla di Carminati come uomo non libero,nonostante è evidente che lo sia al momento,capace di darsi alla macchia se qualche amico riconoscente non gli volterà le spalle.

Chi ha paura “dell’uomo nero”? Carminati esce dal carcere.

di  S.C. 
Partiamo dalla cronaca. Massimo Carminati ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Massama, a Oristano, ed è tornato libero. Dopo essere stata rigettata tre volte, da parte della Corte d’Appello, l’istanza di scarcerazione per scadenza dei termini di custodia cautelare, presentata dagli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri, è stata accolta dal Tribunale della Libertà. Carminati esce dal carcere dopo aver scontato 5 anni e 7 mesi di detenzione, gran parte dei quali in regime di 41 bis.

Carminati si trovava a Massama dal 2017, trasferito dal carcere di Parma.

“Deve ritenersi che in relazione ai due capi di imputazione (capo 2 e 23 del secondo decreto di giudizio immediato) il termine complessivo massimo di custodia cautelare è scaduto, con la conseguenza che va disposta la scarcerazione dell’appellante”, scrivono i giudici. “In definitiva – aggiungono – non può dirsi che nel procedimento in esame siano sospesi i termini di durata della misura cautelare, trattandosi dì procedimento rientrante tra quelli per i quali non opera la sospensione”.

Carminati è stato condannato dal tribunale di Roma come capo di una associazione a delinquere – l’aggravante mafiosa è caduta – che ha condizionato gare d’appalto a Roma tra il 2011 e il 2015, corrompendo imprenditori, funzionari pubblici, esponenti politici.

Passiamo alle considerazioni oggettive su questo caso.

Chi sia, cosa abbia fatto e cosa rappresenti Massimo Carminati non ha bisogno di troppe spiegazioni. La sua storia è nota.

Quante siano le ragioni per le quali non avremmo alcuna indulgenza verso Carminati sono scritte sulle pagine di questo giornale e nella storia del conflitto politico in questo paese da anni. L’antifascismo militante e lo squadrismo neofascista si sono reciprocamente combattuti in una stagione di scontro frontale che non rinunciamo a rivendicare ancora oggi. Per dirla semplice. Carminati e il suo mondo sono un nostro nemico storico.

Ma l’accanimento forcaiolo al quale stiamo assistendo in queste ore contro la scarcerazione di Carminati ci appare insopportabile quanto i fascisti, anzi per molti aspetti, anche se con soggetti diversi, hanno l’identica “cultura politica”.

Una cultura che non c’entra nulla neppure con la sbandierata “civiltà liberale” perché – in tema di giustizia ed espiazione della pena – non rispetta più neanche i fondamentali del diritto borghese.

Pere esser chiari. Delle due l’una: o esistono codici e leggi validi erga homnes, oppure ogni individuo viene processato con un codice ad personam, indipendente dai reati effettivamente commessi e per cui si viene giudicati.

A voler essere onesti, occorre riconoscere che molte nuove e vecchie leggi di polizia non vanno lontano da questa logica aberrante, legando misure di restrizione delle libertà al soggetto e non ai reati commessi. Ma questo approccio “creativo” molto spesso, nei tribunali, ha dovuto fare i conti con le leggi ancora esistenti. E in tribunale si deve essere giudicati sulla base dei reati e delle prove che lo dimostrano.

Se le stessi leggi prevedono termini temporali per la custodia cautelare, proporzionati oltretutto alla pena prevista dal codice per i reati in discussione (tempi lunghissimi per i reati gravi, più brevi per quelli “intermedi” e minori), queste leggi non possono essere “sospese” in base alla notorietà mediatica dell’individuo cui si applicano.

Altrimenti si entra in un altro “universo giuridico”, in cui il “fine pena” viene determinato dall’essere “famoso” o meno.

I tre processi su “Mafia Capitale” hanno alla fine escluso la dimensione mafiosa dell’organizzazione certamente criminale di cui Carminati era il dominus riconosciuto (persino da lui!).

E come i nostri lettori ricorderanno, il nostro giornale sin dall’inizio ha sollevato parecchi dubbi sulla possibilità di attribuire il carattere “mafioso” a quella associazione a delinquere.

Non solo. Abbiamo anche denunciato fin da subito come dall’inchiesta su appalti e malaffare a Roma, ossia da “Mafia Capitale” fossero venute fuori solo “petecchie” (poca roba, minuzie…) rispetto a tutto quello su cui si sarebbe dovuto e potuto indagare. E dire che anche quelle minuzie sono state sufficienti a demolire buona parte del sistema politico romano (dal “clan Alemanno” al Partito Democratico), spianando la strada al successivo trionfo dei Cinque Stelle (su cui sarà bene stendere una pietosa lapide).

E ancora. Abbiamo scritto e documentato ampiamente le responsabilità di Carminati nella sua lunga carriera di “uomo nero”, cioè di quella rete di fascisti strettamente connessi con il lavoro sporco del deep state e della criminalità. A partire da quella rapina notturna nella banca del Tribunale di Piazzale Clodio – uno dei palazzi più blindati della Capitale – che poteva essere portata a termine solo con complicità elevate nei vertici militari e per cui furono indagati solo alcuni “carabinieri semplici”.

Abbiamo però quasi l’impressione che il “mondo di sopra” abbia scelto di far concentrare l’attenzione pubblica – soltanto ora – sul solo Carminati, per meglio lasciar lavorare i suoi simili. Sacrificarne uno per salvarne altri cento, insomma.

In definitiva,  ci sono tonnellate di motivi per considerare uno come Carminati come un nemico da sempre, a tutti i livelli e senza sconti. Ma, torniamo a ripetere, questa gazzarra forcaiola contro la sua scarcerazione avvenuta sulla base delle leggi esistenti, la troviamo francamente nauseante e irricevibile.

Se non altro perché la vediamo all’opera da decenni contro tanti compagni, ancora prigionieri o precariamente liberi. E non ci basta davvero vedere un fascista nelle stesse condizioni per sentirci “sollevati” o condividere il forcaiolismo di Stato.

martedì 16 giugno 2020

LA BARZELLETTA DEI SOLDI VENEZUELANI AI 5 STELLE

I"professionisti"che fanno circolare certe notizie,in Spagna o in Italia,o dal paese iberico al nostro senza la minima dimostrazione di un qualcosa che possa essere almeno reale sulla carta prima che lo sia nei fatti,sono dei criminali e complici di terrorismo giornalistico.
Premetto che di grave non è successo nulla in quanto già definire,e cito testualmente"un movimiento izquierdista revolucionario y anticapitalista en la Republica de Italia"riferendosi a Casaleggio padre tra i fondatori del Movimento 5 stelle fa già ridere da se.
La frase è presa da un documento riservatissimo e segretissimo che è caduto nelle mani di un giornalista freelance spagnolo che collabora con Abc,quotidiano reazionario legato all'estrema destra di Vox,ed è già stato chiarito tutto.
La questione basilare è che una valigetta partita da Caracas con 3,5 milioni di Euro(nemmeno dollari)sia passata di mano da un personaggio legato al governo venezuelano direttamente nelle mani di Casaleggio tramite l'attuale console di Caracas a Milano,il tutto nel 2010 quando c'era Chavez ancora al comando,nel 2010 quando i grillini erano ancora allo stadio larvale.
L'articolo di Contropiano(la-sai-ultima-sul-venezuela )parla della goffa e ridicola vicenda ma anche del tentativo evidentemente mal riuscito di fare disprezzare sia sul Venezuela per l'ennesima volta(madn la-fissazione-usa-ed-europea-per-il venezuela )sparandole davvero grosse con un giornalismo non solamente servile ma ingranaggio indispensabile nella macchina del fango e dei politici che si affrettano a denunciare queste azioni di pura invenzione.

La sai l’ultima sul Venezuela?

di  Dante Barontini 
Il mondo occidentale rotola verso dinamiche di guerra, in mano a una classe dirigente inetta, volgare, prepotente, ignorante.

In una parola: di destra.

L’aspetto peggiore, e più preoccupante, è il drastico calo della “professionalità”, anche nelle più consuete operazioni da servizi segreti internazionali.

La notizia rimbalzata ieri su tutti i media era di quelle ghiotte, per giornali costretti ad occuparsi delle miserie della politichetta italiana: “Il Venezuela ha mandato 3,5 milioni (di euro o di dollari, non si capisce bene) al Movimento 5 Stelle”.

Col passare delle ore arrivano i dettagli. La cosa sarebbe avvenuta dieci anni fa, quando il M5S era agli albori (ed elettoralmente non contava niente).

A riceverli sarebbe stato Gianroberto Casaleggio (che nel frattempo è morto, quindi non può neanche smentire).

A portare materialmente la valigetta con i soldi sarebbe stato un personaggio poi condannato per traffico di droga e anche lui, nel frattempo,  morto oppure detenuto negli Usa.

A fare da “intermediario” sarebbe stato l’attuale console venezuelano a Milano, che si mette ovviamente a ridere.

Lo scopo – già da solo è un’autosmentita della notizia – sarebbe stato quello di appoggiare un nuovo “movimento rivoluzionario anticapitalista e di sinistra nella Repubblica italiana” (i Cinque Stelle?).

Il resto è ordinaria miseria da politichetta italiana, tra noti quacquaraqua che si trincerano dietro un apparentemente rispettoso “attendiamo le indagini della magistratura” e la destra più squallida che cavalca l’onda momentanea senza farsi neanche una domanda.

L’occasione arriva (o viene prodotta) nel momento giusto, mentre i Cinque Stelle sono attraversati da febbri più alte del solito intorno a domande che davvero non tolgono il sonno a nessuno: “sarà o no Giuseppe Conte il nuovo capo del Movimento?”, “il ritorno di Di Battista prelude a una scissione?”, “le battute di Beppe Grillo cosa significano davvero?”, ecc.

Roba buona per il ripetitivo salottino seriale di Lilli Gruber (ricordiamolo: ammessa alle riunioni del Bilderberg insieme a Mario Monti, Vittorio Colao e Chicco Testa; qualcosa vorrà dire…), non certo per fare luce su cosa accadrà in questo Paese dopo l’estate (quando scadranno gli ammortizzatori sociali straordinari e I nuovi disoccupati andranno contati a milioni).

Anche la provenienza dello “scoop” lascia molto a desiderare: uno spagnolo che si definisce giornalista “free lance”, che ha ricevuto una busta per posta con dentro qualche foglio, e che piazza il suo servizio sul giornale Abc, ritenuto piuttosto vicino alla destra franchista di Vox, forza emergente del neofascismo iberico e per questo “simpatica” a Salvini e Meloni.

Il tizio – tal Marcos Garcia Rey – si professa “un esperto” in materia, assicurando di aver “verificato” l’autenticità di documenti e notizia. “Non sono un novellino incosciente: ho 46 anni, coordino un master di giornalismo investigativo, faccio parte dell’Icij, l’International consortium of investigative journalists”; il che significa semplicemente che il tuo indirizzo è tra quelli “appetibili” per mandare “documenti scottanti”.

Il giornalismo libero, o free lance, è una nobile professione, che con fatica e senza soldi facciamo anche noi. E qualcosina, in materia di notizie difficili da verificare, ne sappiamo…


Quelle che riguardano i servizi segreti (oltretutto di altri paesi!) e che arrivano per posta hanno due caratteristiche costanti: a) non sono verificabili con gli strumenti che possiede un giornalista (qualche numero di telefono di “addetti ai lavori”, al massimo; e vale anche per i professionisti dei “grandi giornali”); il processo di verifica consiste nel chiedere a un paio dei tuoi “contatti” se la cosa è attendibile o meno; ma i tuoi “contatti” sono molto probabilmente o all’oscuro di tutto oppure i mittenti del documento che hai ricevuto; b) stuzzicano il desiderio individuale di fare “il grande salto” nel “giornalismo vero”, ossia quello con stipendi importanti per editori importanti.

Il foglio in questione (chiamarlo “documento” è un’esagerazione) potete leggervelo da soli e farvi rapidamente un’opinione. Sta di fatto che già stamattina, a meno di 24 ore dallo “scoop”, i giornali più importanti – affidandosi ai loro “contatti” con i servizi segreti italiani – lo smontano pezzo per pezzo. Timbri sbagliati, diciture inesistenti… una bufala fatta pure male.

Tra i giornali più importanti, da decenni, non può essere annoverata Repubblica, che invece ospita un subacuto commento di Filippo Ceccarelli, tutto incentrato sulle antiche infatuazioni giovanili latinoamericane di alcuni grillini di prima fascia (lo stesso Di Battista, Di Stefano, ecc) e – udite! Udite! – rispolvera un “può essere” pronunciato nientepopodimeno che dal narcotrafficante Juan Guaidò, autonominatosi “presidente del Venezuela” su investitura della Cia.

Il governo venezuelano, dal canto suo, si è giustamente rifiutato di commentare certe “bambinate”, affidando a un tweet del ministro degli esteri Jorge Arreaza l’unica reazione ufficiale all’ennesima bufala contro il suo Paese.

“La mitomania dei media di destra del mondo contro il Venezuela è un’antologia di antigiornalismo. Sono fabbriche di menzogne, infamie, falsità e calunnie. Riciclano vecchie notizie false con spudorato sensazionalismo. In questo e in altri casi intraprenderemo un’azione legale. Basta!”

Com’è noto, quando soffiano tempi di guerra, la prima vittima è la verità. E il “giornalismo” viene arruolato…

lunedì 15 giugno 2020

GLI INFELICI CHE ODIANO E INVIDIANO

Tanto per spezzare gli argomenti dei temi che spesso sono riproposti anche perché è la situazione che
è così e che impone per forza di cose un livello di saturazione della cronaca che per l'80% è dominata dalla pandemia del coronavirus e per il resto dalla violenza poliziesca nel mondo condita da una politica che tenta di proseguire la sua deriva a destra,un post sull'infelicità che porta all'odio che si manifesta con l'invidia,il menefreghismo,la cattiveria e lo sputtanamento trova dignitosamente spazio.
Nell'articolo di Left(gli-infelici-che-impazziscono-della-felicita-altrui )un vademecum su come individuare ed evitare queste persone,che non solo vediamo sui mezzi di comunicazione di massa ma che incontriamo quotidianamente al lavoro o in piazza o nei locali...beh ultimamente meno spesso viste le restrizioni.
Perché i veri e propri"haters",termine anche abusato negli ultimi anni e riferito quasi esclusivamente agli scassapalle che si trovano nei social che non avendo una vita propria guardano a quella degli altri trovando sempre qualcosa da contraddire,sono differenti dagli infelici che come detto precedentemente oltre che odiare sono gelosi di quello che non hanno,costantemente pronti a sparlare alle spalle altrui e sempre desiderano e disprezzano anche quel poco che rende felice un'altra persona o un gruppo più o meno numeroso di esse.
Come si dice giustamente questi infelici agiscono per sottrazione,se non arrivano ad ottenere sia fisicamente che mentalmente qualcosa o qualcuno vogliono che anche gli altri non lo ottengano,in un egoismo totale ed eterno che potrebbe corrompere anche un'anima pura e retta,ragione per la quale è meglio levarseli di torno.

Gli infelici che impazziscono della felicità altrui.

di Giulio Cavalli
Ci sono persone che non riescono a essere soddisfatte di se stesse completamente senza odiare qualcuno, qualcosa, qualche nazione. Le riconosci perché cominciano ogni frase con un “ma” che è una roncola contro qualcuno

Sono persone che agiscono per sottrazione, che non riescono a immaginare una vita e un mondo in cui si possa aggiungere qualcosa, sono quelli ossessionati dal non essere all’altezza e siccome sono dei nani vedono giganti dappertutto e li chiamano intellettuali o professoroni quando semplicemente usano gli altri come fondotinta per coprire le proprie insicurezze e le proprie brutture.

Gli infelici li riconosci perché impazziscono di fronte alla felicità altrui e fanno di tutto per smontarla, inetti come sono a costruirsi la propria felicità. Sono gli stessi che per reclamare i propri diritti riescono al massimo a volere che vengano tolti diritti anche agli altri, tutto per sottrazione, sempre per sottrazione.

Schivate gli infelici che impazziscono della vostra felicità, statene lontani, non nutrite la loro bile procurandovi inutili preoccupazioni: ci sono persone che non riescono a essere soddisfatte di se stesse completamente senza odiare qualcuno, qualcosa, qualche nazione. Li riconosci perché prendono un particolare, spesso ininfluente, per costruirci sopra un ragionamento utile solo a confermare (in modo fallace) i loro pregiudizi e di solito hanno bisogno di allungarsi la credibilità con qualcosa di lussuoso perché confondono la nobiltà d’animo con il possesso di oggetti.

È un intossicamento continuo che si riflette dappertutto: in politica odiano, nel lavoro malelinguano, nei rapporti sociali invidiano e in società si travestono da signorotti pienotti mentre poi cavalcano un bonus e una cassa integrazione. Sono borghesotti di provincia che hanno il terrore di esplorare anche solo la modifica di una, una solo, delle loro modeste abitudini.

Li riconosci perché cominciano ogni frase con un “ma” che è una roncola contro qualcuno.

Respirate liberi, alti, non convenzionali.

Buon venerdì.

(ps: so che vi aspettavate qualcosa su Montanelli, ma non alimenterò la sua petulante agiografia sprecando un boicottaggio).

domenica 14 giugno 2020

COLONIALISMO,RAZZISMO E LORO SIMBOLI

La contrapposizione tra quelli dell' "italiani brava gente" e chi contesta nuovamente il periodo colonialista italiano in Africa alla luce dei fatti di Minnepolis e della statua di Montanelli è tornata in auge e fa discutere,ma sono diatribe che non avrebbero nemmeno il modo essere considerando il periodo un male senza alcuna possibilità di replica.
Non bastano le frasi"ma allora era così","tanto lo facevano tutti":sono una menzogna storica e lo dimostra il fatto che menti illuminate da sempre hanno lottato contro lo schiavismo ed il colonialismo,che sono strettamente legati al razzismo,un problema storico che ha radici molto profonde.
Nel primo articolo odierno proprio un riassunto del periodo colonialista italiano cominciato ancor precedentemente al primo conflitto mondiale con l'occupazione della Libia e proseguita col fascismo a spron battuto,quando c'era l'Impero di mussoliniana memoria(vedi:madn quelli-dellimpero )accompagnati da personaggi come il torturatore ed assassino Graziati,nome che spunta su tutti(vedi:madn e-adesso-arriveranno-le-ruspe? )per atrocità ed ignominia.
Nel secondo un rimando a Montanelli(pure lui avrà fatto anche cose buone?),noto giornalista servo del sistema capitalista ed anticomunista che nel periodo dell'usurpazione dei territori e degli abitanti delle colonie comprò per 350 Lire una bambina dodicenne per averla come sposa,la cui statua a Milano è stata imbrattata da vernice,non la prima volta,e da scritte che affermano la verità:razzista e stupratore(contropiano montanelli-un-po-di-vernice-ci-sta ).
Rimarcando il fatto che in periodo globale di sollevazioni popolari legati al Black Live Matter con l'abbattimento di personaggi legati allo sfruttamento schiavista di personaggi tanto decantati,questi che definire simboli è fin troppo vomitevole,certo bisogna pensare ad un cambiamento della toponomastica della città e magari eliminare questi monumenti,ma bisogna agire direttamente contro chi è razzista e che incita al razzismo,senza paura e senza mezzi termini

Colonialismo italiano, un’eredità fetida da mettere in discussione.

di  Emilio Banchetti 
In questi giorni, sulla scorta delle immagini che arrivano dagli USA e dal Regno Unito, si è aperto un dibattito su statue e toponomastica coloniale.

Si è tornati a parlare ad esempio della statua di Montanelli a Milano, già giustamente sanzionata qualche tempo fa per la nota storia della sposa bambina etiope comprata dal “grande giornalista”, mentre questo partecipava ad una delle più sanguinarie avventure coloniali dell’Italia fascista. Varrebbe la pena parlare anche del monumento dedicato ai caduti della battaglia di Dogali a Roma, oppure del sacrario allo stragista Graziani, ad Affile, inaugurato nel 2012.

Esiste una nutrita toponomastica coloniale in Italia. Basti pensare alle tante piazze, strade e viali che in tutto il paese portano il nome di località africane dove trovò sfogo la folle proiezione imperiale nostrana: Libia, Adua, Addis Abeba, Amba Aradam… E così via fino ad arrivare a piazze dedicate, come quella ai “caduti di Nassirya”.

Gli italiani si sono sempre cullati in un immaginario mondo che li vede come “brava gente” a prescindere, quelli che alla fine sono sempre stati nel giusto della storia.

Anche la stessa colonizzazione brutale e violenta di Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia viene raccontata troppo spesso come un processo positivo: come se i “nostri” in fondo volessero bene a coloro che stavano conquistando.

Per non parlare poi delle aggressioni fasciste ad Albania e Grecia, dove i cattivi furono i tedeschi, non gli italiani che in fondo quella guerra la stavano perdendo perché bonaccioni che fraternizzavano con i locali.

Italiani quindi certo truffaldini, furbi, bonariamente disonesti, ma comunque “brava gente”. L’autoassoluzione passa direttamente dall’autocommiserazione nella narrazione nazionale italiana, anche quella ufficiale.

Non ci possiamo assolutamente limitare, però, a parlare delle avventure portate avanti dai nostri progenitori fuori dai confini della penisola: l’Italia è un paese che delle colonie “interne” ha fatto la sua fortuna.

Basti pensare alla cosiddetta “questione meridionale”, apertasi con la predazione delle risorse industriali, naturali e finanziarie del fu Regno delle Due Sicilie operato nel periodo post-unitario. Un processo che ha poi visto protagonisti delle sue conseguenze migliaia di migranti interni, che da un territorio reso depresso ad hoc sono dovuti partire per a cercare lavoro nelle zone maggiormente industrializzate.

Un destino di predazione ed emigrazione forzata che ha vissuto anche la Sardegna, che con l’Italia non aveva mai assolutamente avuto nulla a che fare fino a che il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, in seguito alla guerra di successione spagnola e al trattato di Utrecht del 1713, non ne ottenne la corona nel 1720, per potersi fregiare di un titolo regio.

La storia coloniale d’Italia continua fino ad oggi, con forme ovviamente diverse ma comparabili: le dinamiche di frammentazione dell’amministrazione pubblica e il regionalismo differenziato, proposto sia da destra che “da sinistra”, possono essere lette anche in questo senso.

Favorire, in definitiva, le regioni core dell’accumulazione capitalista, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, andrebbe a inasprire ulteriormente quel processo di impoverimento e scientifica sottoproletarizzazione di intere aree del paese.

La questione è certo da esplorare con maggiore attenzione rispetto a queste poche righe, che vogliono essere, soprattutto, una provocazione ed uno stimolo alla riflessione. Il colonialismo italiano non è, infatti, il grande rimosso soltanto della retorica ufficiale: anche sinistra e movimenti troppo spesso hanno scientemente ignorato questi temi fondamentali.

Esistono, ad esempio, forze indipendentiste e genuinamente comuniste in Sardegna, ma a parte poche significative eccezioni (come a suo tempo la Democrazia Proletaria Sarda) gli italiani si sono rifiutati di dare anche il minimo riconoscimento a queste sensibilità.

Uno degli esempi più chiari viene di certo dalle dichiarazioni di Marco Rizzo che, durante la campagna elettorale delle ultime politiche, disse che la formula per rilanciare la Sardegna era una maggiore industrializzazione1.

Ma le industrie in Sardegna ci sono, basti pensare alla Sarlux di Moratti, oppure alla tristemente famosa fabbrica di bombe Rmw della tedesca Rheinmetal. Sono le industrie che mancano o è l’estroversione verso il continente di tante risorse produttive ad essere il problema?

La protesta dei pastori e gli sversamenti del latte, nel 2019, hanno messo sotto gli occhi di tutti proprio quel meccanismo neocoloniale che è la vendita di risorse a prezzi vantaggiosi soltanto per una parte, alla faccia di chi sostiene che i prezzi “si autoregolano nel libero mercato”.

Il processo di rimozione della questione coloniale italiana da parte della sinistra risale alla storia del PCI, vittima in parte anche di quella graduale socialdemocratizzazione che culminò nel compromesso storico berlingueriano.

Oggi ciò che resta dei movimenti italiani è decisamente esterofilo; si guarda a decine di esempi sparsi per il mondo di lotte e di modelli, ma non si guarda quasi mai in casa propria.

Questo momento in cui fioriscono le lotte antirazziste, mentre ci troviamo a dover riflettere su che tipo di Stato vogliamo poter costruire, dopo che l’epidemia di Covid-19 ha mostrato l’inadeguatezza del sistema vigente, è forse il miglior punto di partenza per rimettere in dubbio anche questi aspetti.

È fondamentale poter rimettere al centro, quindi, parole d’ordine di classe e che possano aggredire con forza anche la questione delle disparità interne, stimolare i movimenti affinché pongano un’alternativa di sistema forte, agire per confrontarsi con le forze dei territori. In questo modo sarà, forse, possibile mettere in campo percorsi che parli di pianificazione economica e sociale fuori dalle pastoie coloniali del passato.

È una questione di volontà politica che l’attuale classe dirigente non può e non vuole raccogliere: troppi sono gli interessi economici, troppo importante anche da un punto di vista militare tenere sotto ricatto la popolazione di intere aree del paese e poter rifornire in questo modo esercito, polizia e carabinieri di giovani senza alternative lavorative.

Cambiare tutto significa anche aggredire le dinamiche coloniali interne italiane, senza dimenticare il ruolo giocato anche dall’Unione europea in questo gioco perverso di impoverimento ed emigrazione tramite la policy del pareggio in bilancio e di tagli, cha hanno ulteriormente massacrato la popolazione e aggravato la situazione di estroversione delle risorse.

Rompere con questo sistema oggi è una necessità, proposte come l’Alba Euromediterranea rappresentano alternative credibili, basandosi sulla solidarietà tra i popoli e non sulla competizione sfrenata.

Una sfida tutta da costruire e da cui non possiamo esimerci: rompere con il colonialismo italiano significa anche rompere con l’Unione europea che di queste dinamiche si è fatta interprete, significa dire basta all’emigrazione, significa costruire un’alternativa sociale ed economica vera.

Per fare questo serve un’alternativa politica reale contro e fuori dalla mentalità coloniale che, anche a sinistra, ha fatto tanti e troppi danni.

1 https://www.ansa.it/sardegna/notizie/2018/02/07/rizzo-in-sardegna-nuovo-corso-industria_e329bb32-fed1-4db4-a368-2d072860b801.html

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Montanelli… Un po’ di vernice ci sta.

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)   
Indro Montanelli, quando aveva venticinque anni, partecipò come ufficiale nel 1935-36 alla criminale guerra di conquista e sterminio, anche coi gas, del fascismo italiano in Etiopia. In questa veste di oppressore coloniale acquistò una bambina di dodici anni, ne abusò sessualmente e la tenne come finta moglie – in realtà schiava – finché rimase in Africa. 

Nel mondo di oggi tutto questo si chiama razzismo, schiavismo, stupro e pedofilia e molti di coloro che oggi difendono Indro Montanelli spesso sono in prima fila nella denuncia e nel ripudio del costume dei matrimoni combinati con spose bambine, un orrore che ancora esiste in alcuni paesi del nostro mondo attuale.

Costoro. Montanelli, lo giustificano con due argomenti. Il primo è che allora non si era veramente consapevoli dell’infamia che si commetteva. 

È vero il fascismo era un regime, razzista, sessista, violento e la maggioranza del popolo italiano ne era coinvolto, ma anche allora c’era chi rifiutava quel regime e i suoi ignobili costumi e ne pagava tutti i prezzi. 

Ad esempio in Etiopia c’era il comunista Ilio Barontini che ebbe un ruolo determinante nell’organizzazione della resistenza armata del popolo etiopico agli invasori fascisti. 

Anche allora si poteva scegliere, ma certo una scelta antifascista era costosa e rischiosa e si può anche capire chi allora non la fece. 

E qui infatti scatta la seconda argomentazione a difesa di Indro Montanelli: dopo fu sempre antifascista e antirazzista. 

A parte il fatto che fino alla sua rottura con Berlusconi un solo “anti” fu continuo, esplicito, persino ossessivo in Indro Montanelli: l’anticomunismo. 

A parte questo, che naturalmente rientra nei legittimi punti di vista, c’è un fatto incontrovertibile, Montanelli MAI si scusò, pentì, mostrò orrore per aver comprato come schiava sessuale una bambina di dodici anni. 

“Era l’usanza e poi in quei paesi si diventa donne molto giovani e la mia schiava mi era fedele, mi voleva bene e io la trattavo bene”. Queste le parole ripugnanti con cui Indro Montanelli spiegò poi i suoi comportamenti, non molto diverse da quelle dei nazisti che si giustificavano dicendo io obbedivo agli ordini. 

Per Montanelli erano i tempi ad essere cambiati e lui era stato semplicemente – banalmente direbbe Hannah Arendt – un uomo, anzi un maschio, dei suoi tempi. 

Che gran parte del mondo politico e intellettuale italiano rifiuti di capire che la mostruosità dei comportamenti passati di Indro Montanelli vada respinta senza giustificazioni, non è solo un problema di cattiva coscienza storica, ma riguarda il nostro mondo attuale. 

Senza l’orrore per il passato non si è immuni contro l’orrore del presente. 

Per questi di fronte alla ottusa e vomitevole comprensione del Palazzo per i crimini contro l’umanità mai ammessi da Montanelli, un po’ di vernice ci sta.