venerdì 25 giugno 2021
IL MONDO CONTRO IL BLOQUEO A CUBA
giovedì 24 giugno 2021
L' ITALIA SI FA METTERE I PIEDI IN TESTA DA TUTTI
Quando i sovranisti s’inginocchiano.
di Giorgio Cremaschi (Potere Al Popolo)
Con un atto senza precedenti nella storia della Repubblica, il Vaticano è ufficialmente intervenuto per fermare il disegno di legge Zan, che equipara al razzismo la violenza e l’incitamento all’odio omofobi e di genere.
È una legge giusta, che serve anche a far ricordare quanto poco siano applicate la legge Mancino e la legge Scelba, per le quali il fascismo ed il razzismo in tutte le loro forme non sono opinioni, ma crimini.
Ora però l’intervento del Vaticano ripropone una questione di fondo: quella della sovranità democratica in Italia. Sovranità che viene spesso messa in discussione dagli interventi della UE e della NATO sul piano economico e militare; e che ora viene colpita anche sul piano dei valori civili dal Vaticano.
La difesa della laicità dello stato imporrebbe che si respingesse senza se e senza ma la richiesta di uno stato religioso straniero.
Ma i vincoli del Concordato, nelle versioni firmate da Mussolini e attualizzate da Craxi, danno forza al clericalismo; come i vincoli di Maastricht al liberismo e quelli del Patto Atlantico al militarismo.
E tutte le principali forze politiche, a parte qualche ipocrisia di facciata, accettano e sostengono questi vincoli.
Così ora i sovranisti reazionari come Salvini e Meloni si inginocchiano davanti all’ingerenza vaticana e Letta si dichiara disposto a discuterla.
Per una ragione o per l’altra nessuna delle principali forze politiche del nostro paese ne sostiene davvero la sovranità democratica.
Che invece va riaffermata , in questo caso mettendo in discussione il Concordato sulla base del principio: libera Chiesa in libero Stato.
martedì 22 giugno 2021
DALLA GREEN ECONOMY AL GREENWASHING
“La politica vuol convivere con il virus, la green economy con il capitalismo”.
di Alex De Gironimo * - Luciano Vasapollo
“Questa corsa sfrenata all’arricchimento di pochi sta portando l’umanità verso strade catastrofiche, che possono avere conseguenze umane e sociali non controllabili. Pensate ai disastri del neocolonialismo nel cosiddetto ‘terzo mondo’, che poi terzo mondo significa che noi siamo il primo, e questo è ridicolo, perché, lo abbiamo visto, qui non esiste alcun tipo di protezione del lavoro, dell’ambiente”.
E’ molto severa l’analisi del professor Luciano Vasapollo, sui compromessi che caratterizzano la nostra società, che descrive in questa intervista a FarodiRoma.
Professore lei mette sempre insieme lavoro sociale e ambiente, come un binomio inscindibile. Ma gli ecologisti hanno una visione diversa, si concentrano sulla difesa della natura…
E’ esatto, ma è questo il limite che impedisce davvero di salvaguardare la natura prima che sia troppo tardi (e non manca molto). Ma è un limite speculare a quello che ha caratterizzato nel tempo passato anche molti che si ispiravano al marxismo.
Ai tempi della rivoluzione di Lenin, della rivoluzione sovietica, e anche in quelle del primo dopoguerra (in particolare la rivoluzione cinese e la rivoluzione cubana del ’59), la contraddizione ambientale non si era manifestata nelle forme, nelle dimensioni esplosive che oggi abbiamo di fronte.
Questo spiega anche una sottovalutazione assoluta, politica e teorica del marxismo del 900. Il marxismo ha sottovalutato la questione ambientale, e lo dico da marxista, l’abbiamo sottovalutata. Dicevamo: ‘quando si farà il socialismo risolveremo pure la questione ambientale’.
E se il socialismo, ipoteticamente, lo si fa tra cent’anni? Noi intanto ci siamo rovinati la vita nostra e del pianeta. Una sottovalutazione, questa, compiuta da noi marxisti, che ha lasciato un vuoto politico enorme: quello di come si deve salvaguardare l’ambiente, qui ed ora.
Qui e ora, non le chiacchiere: qui e ora, fuori dalle dinamiche delle regole del modo di produzione capitalistico.
Dunque lei suggerisce un approccio integrale, ma non rischia così di scivolare nell’utopia?
E’ vero, ma il rischio opposto è quello di settorializzare la realtà impedendo alla fine un reale cambiamento. Capita che di mi dicano: ‘quello è un professore di politica economica, e parla di Dante, parla di Alessandro Manzoni, parla della filosofia!‘ Ma senza conoscere la filosofia, come potevo fare io l’economista?
Il Papa scrive e dice una cosa ripetutamente: Dio perdona, l’uomo qualche volta, la natura non perdona mai. La natura non può perdonare.
Questo insieme di cose, anche se sinteticamente, spiegano quella che per me è la questione ambientale, c’è una contraddizione di sistema, una contraddizione strutturale del modo di produzione capitalistico, che però è irrisolvibile all’interno della logica del profitto: non si può risolvere.
E quindi la mia risposta, a chi mi chiede che ne pensa della green economy? Male, perché la green economy non risolve assolutamente il problema basilare della contraddizione tra finito ed infinito, fra sistema finito, limitato, e crescita infinita, che è quella del capitale.
Ma nella situazione di oggi, con una pandemia che ha aggravato la crisi sociale, non dobbiamo cercare di affrontare un problema alla volta?
E’ proprio questo il pericolo. Affrontare questa pandemia con il tentativo ipocrita di cercare di convivere con il virus! Basta che va avanti il profitto… Per tentare di convivere con il virus hanno dimostrato che l’umanità non può convivere invece col capitalismo. Forse se si faceva dappertutto come ha fatto la Cina, forse eravamo già fuori pure noi da questo coronavirus.
Insomma, il tempo di pensare che “l’ambiente? ‘vedremo’, secondo me è finito, anche noi marxisti dobbiamo prenderne coscienza.
Io ho cominciato a scrivere su questo, ne parlavo l’altro giorno, un libro 25 anni fa “L’acqua scarseggia ma la papera galleggia”, capitale e ambiente, 25 anni fa, dicendo: guardate, l’urgenza del cambiamento sociale fa tutt’uno con l’urgenza del cambiamento ambientale, con il superamento del modo di produzione capitalistico, dove e prima che le variabili ambientali arrivino a un punto di non ritorno.
Il punto di non ritorno, ce lo dice la scienza, non lo diciamo noi, se prevale la logica del profitto, dell’impresa privata, del profitto individuale, del profitto aziendale, e non quella della risoluzione dei bisogni collettivi e dei bisogni, diciamo così, dell’interesse collettivo, non ne esci.
Ma come si può gestire l’ambiente dal punto di vista produttivo?
C’è solo una maniera: la programmazione e la pianificazione. L’ambiente ha bisogno di respiro lungo. Se ha bisogno di respiro lungo, bisogna pianificare. Bisogna programmare.
I conflitti sociali, i conflitti ambientali, il conflitto capitale-lavoro, il conflitto capitale-ambiente, sono temi ineludibili. La storia non è lineare, la storia è fatta di stati, di avanzamenti, ma non di ritornare indietro.
Io contesto Gianbattista Vico, cioè i corsi e ricorsi storici per i quali la storia si ripete. Quando mai! Non si ripete mai, mai.
Quello che sto dicendo in questo secondo, è diverso da quello che dicevo un secondo fa, quello che sto facendo in questo secondo, un secondo fa non lo facevo. Ci possono essere similitudini, ma la storia non ritorna, l’urgenza del cambiamento è di un cambiamento strutturale.
Quindi, abbiamo bisogno di costruire condizioni per il superamento delle contraddizioni. Dobbiamo costruire dialettica, conflitto tra spezzoni sociali coinvolti, tra giovani e meno giovani.
L’attuale fase di sviluppo imperialista rafforza la spinta dei capitali verso la distruzione dell’ambiente e verso la sua mercificazione.
Io sono convinto (e vado d’accordo con Papa Francesco anche su questo) che il problema ambientale non esiste, c’è il problema socio-ambientale, la necessità di non danneggiare in modo irreversibile il mondo che ci circonda, perché l’umanità non è dotata di risorse illimitate, l’uso spropositato per il consumismo di ricchezze naturali può avere conseguenze fatali per la sopravvivenza, non della specie umana, ma della totalità.
* da Il Faro di Roma
venerdì 11 giugno 2021
LO ZIO D'AMERICA IN EUROPA PER COMANDARE
Biden in Europa. Una settimana di scenari inquietanti.
di Sergio Cararo
Da oggi a domenica in Gran Bretagna si riunisce il vertice del G7, il prossimo 14 giugno i capi di Stato e di governo dei Paesi Nato si riuniranno a Bruxelles per il primo vertice con la presenza fisica di Joe Biden. Infine, quest’ultimo avrà il suo primo faccia a faccia con l’Unione Europea e poi a Ginevra con Vladimir Putin. Insomma una settimana piuttosto impegnativa e inquietante per le sorti del mondo in cui ci è toccato di vivere.
Il doppio vertice delle potenze del mondo euroatlantico e gli incontri bilaterali Usa/Ue e Us/Russia, serviranno soprattutto a verificare i punti di convergenza e quelli di dissonanza, in particolare tra Stati Uniti e i paesi aderenti all’Unione Europea. Pieno di tensioni e incognite è invece l’incontro con Putin che, piuttosto paradossalmente, solo pochi mesi prima di questo incontro, sleeping Joe Biden ha definito “un assassino”.
Gli Usa dovranno fare a meno di una delle carte che hanno sistematicamente usato per anni per interferire nella politica europea: la Gran Bretagna del dopo Brexit. Si dovranno dunque giocare l’altra carta – la Nato – per tentare di mantenere il loro status di primus inter pares nel blocco occidentale, mentre gli europei puntano a stabilire un nuovo equilibrio che li renda meno subalterni all’egemonia statunitense.
Gli Usa hanno solo un modo per cercare di mantenere le cose come in passato. Alzare la tensione contro i nemici – Russia e Cina – e portare gli europei allo scontro frontale insieme a loro. Il problema è che l’economia parla un altro linguaggio, e qui le divergenze di interessi tra Stati Uniti e Unione Europea sono diventate macroscopiche (dal gasdotto Nord Stream ai rapporti economici con la Cina, dal suicidio delle sanzioni adottate in questi anni contro molti paesi ai dazi sui prodotti industriali).
Il vertice della Nato approndirà l’elaborazione di un nuovo Concetto Strategico. Il Concetto Strategico in vigore è del 2010, ma è ormai evidente che nei dieci anni trascorsi il mondo e i rapporti di forza internazionali siano mutati significativamente. Secondo la newsletter Affari Internazionali, il documento del 2010 rifletteva all’epoca un ventennio di ambiziose operazioni di gestione delle crisi e stabilizzazione, dai Balcani all’Afghanistan, stabilendo tre core tasks: deterrenza e difesa, crisis management operations, e sicurezza cooperativa con un occhio ad allargamento, partenariati, e attività di controllo degli armamenti e non proliferazione.
Ma molte cose in questo mondo sono cambiate e tale scopo nel 2019 è stata lanciata l’iniziativa Nato2030, elaborata da un gruppo di esperti nominati dal segretario generale Jens Stoltenberg. La deterrenza nei confronti della Russia dal 2014 è diventata la priorità numero uno della Nato.
Poi dal 2019 si è aggiunta all’agenda Nato la nuova priorità della Cina, ritenuta apertamente dall’establishment statunitense – democratico come repubblicano – come la principale potenza rivale mondiale. Si è dunque rivelato l’incubo che i neocons statunitensi cercano di impedire dal 1992, cioè la rinascita di una potenza strategica rivale.
In perfetta continuità con i neocons,l’amministrazione Biden intende arrivare allo scontro con la Cina ma sa che gli Usa non possono farcela da soli. I costi di quaranta anni di Guerra Fredda con l’Urss, hanno spompato anche gli Stati Uniti. Da qui il progetto di serrare i ranghi dell’Occidente anche con l’Unione Europea, intorno a quelle che ormai vengono definite – e gestite – come “guerre ibride”.
La Nato deve quindi prepararsi ad ad agire sul piano cibernetico e spaziale dove è diventata più forte e dirompente la competizione tecnologica. Secondo Affari Internazionali nel cyberspace vi è ormai da anni un continuo e crescente attrito attacco-difesa, parte di una più generale conflittualità sottotraccia e insidiosa – una sorta di guerra in tempo di pace.
Appare più irto di interrogativi che di soluzioni l’incontro previsto tra Biden e Putin a Ginevra. Secondo un analista come Stefano Silvestri non sembra che Biden voglia tentare “una molto improbabile manovra di distacco di Mosca da Pechino o altre manovre di riavvicinamento ad un leader che ha qualificato come “assassino”. Certamente affronterà il tema del controllo degli armamenti nucleari e forse anche quello, su cui Russia e Usa sono in largo accordo, della non proliferazione nucleare (e quindi anche dell’Iran e della Corea del Nord). Ma sul piano politico più generale, dall’Ucraina al Caucaso, dalla Siria alla Libia, cosa si diranno? Quali che siano le loro posizioni, le conseguenze dovranno essere gestite dall’Europa”.
E qui arriva a caduta il punto che ci riguarda direttamente. Qualsiasi sarà la linea con cui gli Usa intendono affrontare la crescente competizione globale sul piano geopolitico, economico, tecnologico, militare, sarà l’Europa la prima linea e il terreno sacrificabile.
Tale consapevolezza, che suggerirebbe alla Ue di separare i suoi destini dai bellicosi sogni di rivalsa di Washington, non sembra brillare nella testa e nelle scelte dell’establishment europeo.
Sul piano dei governi l’unica che ha provato a segnalarlo è stata la Francia di Macròn prontamente contrastata dalla Germania. L’Italia risulta non pervenuta se non in termini di arlecchinesco servilismo a due padroni (Usa e Ue).
Ma se questi discutono già come gestire le “guerre ibride” e come prepararsi a quelle totali, possiamo lasciarli fare? Che cominci a disseminarsi e crescere un movimento popolare contro la guerra nel nostro e negli altri paesi sta diventando una urgente priorità. Se non ora, quando?
giovedì 10 giugno 2021
LA CLASSE "PRENDITORIALE" ED I SALARI DA FAME
Salari da fame, l’ultima idea per la “crescita”.
di Dante Barontini
Non se ne può sinceramente più. Siamo abituati alla menzogna sistematica da parte degli organi di informazione di regime, ma sta diventando tutto molto ridicolo.
L’effetto “Grande Fratello”, romanzo orwelliano in cui il ministero della Difesa veniva per esempio chiamato “della Pace”, è quasi raggiunto. In qualche caso superato.
I sedicenti “democratici” di Repubblica dimostrano di essere autentici monarchici, a busta paga della famiglia Agnelli. Oggi per esempio titolano a tutta prima pagina: “Alla ripresa servono cinquecentomila lavoratori”.
Come se tra i milioni di disoccupati mancassero “le competenze” giuste per coprire posti da “addetti al turismo, informatici, ingegneri, saldatori”.
Ma quando devono provare a spiegare perché i disoccupati non si presentano ai cancelli delle aziende, il velo cade immediatamente: “I posti ci sono, mancano i lavoratori. Chi si sente sfruttato rinuncia. Gli imprenditori: troppi assistiti”.
E giù con “l’analisi comportamentale”, ovviamente criminalizzante: “Tanti lavoratori preferiscono incassare reddito di cittadinanza o cassa integrazione, e intanto lavorare in nero”.
Neanche si accorgono di dire una cazzata mostruosa o di “svelare” un piccolo segreto indicibile: se milioni di lavoratori si prestano a lavorare in nero – avendo, oppure no, un altro reddito “assistenziale” – è perché ci sono centinaia di miglia di “imprenditori” che offrono soltanto posti in nero e/o salari da fame.
In quel caso “la domanda si incrocia con l’offerta”, mentre le aziende che offrono un salario da fame “in chiaro” fanno ovviamente più fatica (il lavoratore dovrebbe rinunciare a mezzo reddito e lavorare a tempo pieno per avere l’altro mezzo).
Comunque la si rigiri, insomma, il vero problema dell’occupazione in questo paese è che abbiamo una classe imprenditoriale stracciona, che punta a ricavare un guadagno anche minimo lucrando solo sui salari (l’unica “merce”, in fondo, che ha un prezzo diverso da paese a paese).
Ed è una classe di “prenditori” più che di imprenditori, che controlla pienamente sia il sistema dei media, i singoli “giornalisti”, il governo del paese.
Le grandi imprese, che pure potrebbero tranquillamente prosperare anche pagando salari decenti (sufficienti per vivere, almeno), lasciano fare perché – come dicono – del “lavoratore trattato come un maiale non si butta via niente”. Anche quei pochi euro risparmiati sul salario fanno cassa…
Il sistema dei partiti politici è stato completamente arruolato a questo schema e a quegli interessi. Impossibile distinguere, su questo, il Pd e la Lega. Persino la finta opposizione della Meloni pretende di “destinare le risorse del reddito di cittadinanza a favore delle imprese”!
Inutile attendersi qualcosa dai sindacati complici. Cisl e Uil hanno già fatto sapere di accettare la fine del blocco dei licenziamenti. E Landini, della Cgil, ha incontrato Draghi senza ricavarne nulla. Ma la parola “sciopero” non gli esce lo stesso di bocca…
In cima alla catena del meccanismo che strangola i lavoratori dipendenti (e anche le false partite Iva “monocommittente”) stanno ovviamente Mario Draghi e l’Unione Europea, che non perde occasione per dare una mano alle imprese di ogni livello e dimensione. Oggi ordinando di cancellare subito il blocco dei licenziamenti, tutti i giorni tuonando contro il “debito cattivo” (i vari ammortizzatori sociali da fame messi su per limitare i danni e la rabbia sociale).
E’ lì, sui grandi numeri, il vero cancro del nostro paese. Mentre i grandi competitori internazionali – Cina e Stati Uniti – hanno reagito allo shock economico della pandemia investendo valanghe di soldi pubblici (6.000 miliardi di dollari soltanto l’amministrazione Biden), puntando ad incrementare la domanda interna con aumenti salariali (Usa) e/o costruendo la sanità pubblica (Cina), gli strozzini alla guida dell’Unione Europea hanno scelto una via praticamente opposta.
Il Recovery Fund è dimensionalmente penoso – 750 miliardi in sei anni – e gravato di “condizionalità” che ne limitano grandemente la portata. Non paghi, stanno già premendo per il “ritorno all’austerità”. Ovvero a tagliare la spesa pubblica “cattiva”, quella che porta qualcosa in tasca – in termini di servizi o sussidi – a chi ha ben poco.
Questa è la situazione. Davvero qualcuno può credere che se ne uscirà trovando chi è disposto a lavorare 10 ore per un salario da 500 euro?
mercoledì 9 giugno 2021
IL PERU' HA UN PRESIDENTE SOCIALISTA
Perù. Pedro Castillo è il nuovo presidente. L’oligarchia grida ai brogli.
di Carlos Aznarez*
Il candidato di “Perù Libre”, il maestro popolare Pedro Castillo ha respinto le accuse di brogli alle elezioni peruviane ed ha incoraggiato i suoi sostenitori a difendere il voto in una “veglia storica”.
La veglia che lunedì sera ha mostrato le strade del centro di Lima piene di sostenitori del professor Castillo, che sventolando bandiere e cantando “il popolo unito non sarà mai sconfitto” ha dato un esempio di disciplina esemplare e impegno per il nuovo Perù che sta arrivando.
D’altra parte, la candidata narco-corrotta Keiko Fujimori, nella sua disperazione per una sconfitta che diventa inevitabile con il passare delle ore, lunedì sera ha denunciato qualcosa che nemmeno il più fanatico dei suoi sostenitori crederebbe – una “frode sistematica” – per la quale non ha fornito alcuna prova consistente.
Ad ogni modo, nelle file della sinistra peruviana che oggi ha investito su Castillo, si è accesa la spia dell’allarme poiché conoscono i trucchi della signora K, che non agisce da sola ma ha dietro tutta l’impalcatura dell’ultradestra, maccartista e politica, che ha controllato il governo del Perù per decenni.
Castillo, con buon senso, ha insistito sul fatto che i voti siano difesi nelle strade ed ha insistito che i suoi rappresentanti abbiano cura che “i registri elettorali non siano travisati o trafugati” come fa di solito la mafia conservatrice.
È chiaro che la denuncia della signora K coincide con l’estensione del vantaggio finora ottenuto da Pedro Castillo, secondo i dati dell’esame ufficiale diffuso dall’Ufficio nazionale dei processi elettorali (ONPE). Castillo ha raggiunto il 50,3% dei voti, contro il 49,7% di Fujimori, differenza che si traduce in meno di 100.000 voti, secondo l’ultimo aggiornamento.
L’ONPE insiste nel chiedere pazienza, di fronte a controlli che possono durare diversi giorni. Il conteggio riflette già il 99% dei voti espressi in Perù, ma gran parte del voto straniero deve ancora essere contato.
Un capitolo a parte nell’attuazione di una frode per impedire la sicura vittoria di Castillo è l’ONPE, guidato da un personaggio di nome Piero Corvetto Salinas, che era un membro del famigerato SIN (Servizio di intelligence nazionale) quando questa struttura repressiva era guidata dall’ormai incarcerato Vladimir Montesinos.
In altre parole, il Fujimorismo ha una pedina importante nell’ONPE e da qui i ritardi nello scrutinio e la novità che con i voti dall’estero “il risultato finale si allungherà di diversi giorni”, come confessa Corvetto.
Tuttavia, migliaia di persone per le strade, in tutte le città e paesi sanno che Castillo ha vinto, che niente e nessuno potrà togliergli la vittoria, da qui le continue veglie e manifestazioni che pretendono il risultato finale. Come accade in tutto il continente in circostanze difficili, in questo momento lo slogan che gira di bocca in bocca in tutte le mobilitazioni colpisce nel segno di ciò che pensano le maggioranze che hanno votato Castillo: Solo il popolo salverà il popolo. E nessuno ha dubbi che la grande festa si avvicina.
*direttore di Resumen Latinoamericano
martedì 8 giugno 2021
IL GIUGNO NERO PER I LAVORATORI
Se 18 lavoratori morti in 48 ore vi sembrano pochi. Fermare la mattanza subito.
di Unione Sindacale di Base
Ormai gli omicidi sul lavoro si contano a decine ogni giorno. Anche venerdì 4 giugno nove lavoratori sono stati iscritti sul libro mastro della contabilità degli assassinati, dopo i nove di giovedì 3. Una contabilità che i media restituiscono in modo molto parziale e totalmente casuale.
Ce n’è di ogni tipo: l’incidente stradale tornando a casa dopo ore di lavoro pesante; il ribaltamento del trattore che è uno dei casi più ricorrenti e di primo acchito sembra sempre una tragica fatalità per poi scoprire che le aziende costruttrici non montano roll-bar di sicurezza per una questione di costi; l’asfissia durante la pulitura delle cisterne; lo schiacciamento da caduta di materiali durante la movimentazione; la caduta da impalcature; l’uso di macchinari pericolosi senza formazione né protezioni.
Un cupo e incompleto catalogo di ciò che, a qualsiasi età, attende lavoratrici e lavoratori quando la mattina si recano al lavoro.
Registriamo ogni giorno la contabilità della carneficina sui luoghi di lavoro e assistiamo frustrati con impotenza al fatto che nulla accade, che ogni giorno si ricomincia da capo senza che nulla si muova se non qualche stanca iniziativa che occupa due minuti di visibilità sui TG.
Ascoltiamo ogni giorno le dichiarazioni di occasione degli esponenti politici, dei ministri, dei portavoce delle associazioni datoriali, cioè i padroni: “è necessario fare qualcosa, siamo contriti per l’accaduto, studieremo ancora per rendere più sicuro il lavoro…”.
La risposta a quanto sta accadendo e all’immobilismo politico-padronale, non può che partire dalla pratica di lotta che il movimento di classe ha sempre adottato quando doveva porre ed imporre all’ordine del giorno le sue questioni, cioè quelle vere, quelle che fanno la differenza.
Cioè lo sciopero generale per la sicurezza sui luoghi di lavoro per pretendere poche, in definitiva semplici cose: no allo sfruttamento, più investimenti in sicurezza, più formazione mirata per le lavoratrici e i lavoratori, ricostituzione immediata e rilancio dei corpi ispettivi non solo di Inps, Inail e Ministero del Lavoro ma anche del Servizio Sanitario Nazionale e, soprattutto, pene più severe e certe per chi si rende responsabile degli omicidi approvando una legge di pochi articoli ma di sicura importanza che istituisca il reato di omicidio sul lavoro.
La proposta è sul tavolo di chiunque voglia farla propria per costruire nel più breve tempo possibile una fermata generale del lavoro che comunque USB praticherà nelle prossime settimane anche da sola.
Morti di lavoro venerdì 4 giugno 2021
Ortenzio Bruni, 59 anni, operaio, Ascoli Piceno
Bruno Bardi, 59 anni, autotrasportatore, Leffe
Giuseppe Di Vittorio, 59 anni, autotrasportatore, Castiglione Messer Raimondo
Antonio Laterza, 46 anni, operaio, Chiaromonte
Gerardo Lovisi, operaio, 45 anni, Cossano Belbo
Gianni Messa, ingegnere direttore della sicurezza, 58 anni, Cossano Belbo
Fabio Rovere, allevatore, 48 anni, Pieve di Teco
Domenico Zinna, 43 anni, autotrasportatore, Castegnato
generalità incomplete, 89 anni, agricoltore, Anzola Emilia
https://www.usb.it/…/se-18-lavoratori-morti-in-48-ore…
venerdì 4 giugno 2021
QUANDO IL PROFITTO E' TUTTO(E SUBITO)
O il profitto o la vita.
di Francesco Laforgia
Sblocco dei licenziamenti e liberalizzazione dei subappalti, in nome del profitto e in ossequio a Confindustria. Due milioni di lavoratori rischiano il posto e si “risparmia” sulla sicurezza, sebbene le imprese abbiano ricevuto il 74% dei soldi pubblici stanziati per l’emergenza. E i morti sul lavoro aumentano. Sarebbe questa la ripartenza?
È una strage. Solo nei primi quattro mesi di quest’anno sono stati trecentosei gli infortuni mortali sul lavoro. Trecentosei lavoratrici e lavoratori che non hanno mai fatto ritorno alle proprie famiglie.
Trecentosei vite spezzate da errori nelle procedure di sicurezza, dall’insufficienza dei controlli, dalla mancanza di manutenzione, dal mancato rispetto delle norme vigenti in materia di sicurezza sul lavoro, dalla stanchezza dovuta ai turni estenuanti.
Tutte morti che potevano essere evitate già in fase di valutazione dei rischi e con adeguate misure di carattere organizzativo. Ma se l’organizzazione non funziona è perché la produzione risponde male all’esigenza di aumento della produttività, che viene ricercata sempre di più nell’intensificazione dei ritmi di lavoro e nella deroga agli standard di sicurezza.
C’è qualcosa di profondamente ideologico in tutto ciò: ritroviamo in queste vicende le cause di una visione del mondo che guarda più all’accumulazione di profitto che alla salvaguardia della vita, nei casi di infortuni mortali sul lavoro così come nelle tragedie come quella del Mottarone.
Il problema è un intero sistema. Siamo un Paese con infrastrutture obsolete e gravi limiti manutentivi, in cui tantissime persone si muovono su mezzi vecchi e inadeguati, ogni giorno, sottoponendosi a un rischio altissimo.
Tracce di questa riflessione si trovano anche nella discussione di questi giorni sul blocco dei licenziamenti e la liberalizzazione dei subappalti. Ad esempio, un po’ sorprende la pretesa di Confindustria di sbloccare i licenziamenti già dal primo luglio. A ben vedere, però, di sorprendente non c’è nulla. Mutuando un’espressione dell’ex presidente di Confindustria Macerata, che recita «se qualcuno morirà, pazienza», si potrebbe dire “se qualcuno perderà il lavoro, pazienza”.
L’importante è il profitto. Il rischio di lasciare a casa fino a due milioni di lavoratrici e lavoratori, dopo aver ricevuto il 74% delle risorse pubbliche stanziate nell’anno del Covid, non ha alcuna importanza.
La battaglia sulla proroga del blocco dei licenziamenti è ancora aperta e intendiamo farla fino in fondo. Bisogna mettere in campo soluzioni per contrastare la disoccupazione crescente (solo nell’ultimo anno un milione di posti di lavoro in meno), per garantire la riqualifica professionale ed accompagnare la transizione economica di chi subirà lo sblocco con una seria riforma degli ammortizzatori sociali.
Senza la chiarezza necessaria su queste misure, non può esistere discussione sul tema licenziamenti. Altro fronte su cui ci troviamo è quello dei subappalti e del principio del massimo ribasso, che ha reso centrale il dibattito sul decreto Semplificazioni.
L’intento di velocizzare le opere infrastrutturali non può essere un mezzo per tornare alla giungla dei cantieri, all’apertura agli illeciti, al cottimo, alla liberalizzazione criminogena che fa comodo alle mafie.
In questo modo, non solo si negano i diritti fondamentali dei lavoratori, ma si dà man forte a quello stato di insicurezza sul lavoro che ci siamo ripromessi di combattere, nella Commissione d’inchiesta sul lavoro in Italia, con il contrasto alle esternalizzazioni selvagge.
Per questo è positivo aver espunto il principio del massimo ribasso.
Ora bisognerà tenere il punto sulle liberalizzazioni. Davanti a margini di profitto troppo bassi qualcuno vorrebbe poter ricorrere a sfruttamento e sottrazione di diritti, a scapito della sicurezza di chi lavora. Anche qui, ci troveranno pronti.
*L’autore: Francesco Laforgia è docente universitario, senatore Leu e fondatore di èViva
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Semplificare la vita a sfruttatori e profittatori.
di Coniare Rivolta *
C’è una parola, un concetto che meglio di ogni altro descrive il funzionamento del cosiddetto Recovery Fund: la condizionalità.
È un termine che è sempre stato al centro delle nostre analisi, un principio che torna e riemerge ad ogni occasione, e che ci permette di contrastare la favola di un’Europa solidale, pronta a riversare fiumi di milioni sul nostro Paese.
Condizionalità vuol dire che ogni euro concesso è subordinato all’adempimento di una serie di obblighi, all’attuazione di riforme stabilite dalle istituzioni europee e all’adesione al progetto politico dell’austerità, in maniera tale che a fronte dell’euro ricevuto oggi si paghi un prezzo, politico ed economico, ben più caro nei prossimi anni in termini di ulteriore austerità.
Nelle prime occasioni in cui si è parlato di Recovery Fund, sulla scia del mito dell’Europa del progresso, la condizionalità poteva apparire un concetto astratto, difficile da mettere a fuoco. Ma oggi, il Governo Draghi ha iniziato a dargli forma e sostanza con il Decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, noto anche come Decreto Semplificazioni.
Nelle settimane che hanno preceduto l’approvazione, avvenuta la sera del 28 maggio, a fronte di partiti della coalizione di Governo che cercavano di mettere bocca e avanzare obiezioni o proposte di modifiche, la risposta immutabile di Draghi è stata sempre la stessa: abbiamo un impegno esplicito con l’Europa ad approvare, entro la fine di maggio, interventi di semplificazione legislativa e delle procedure per i lavori pubblici, oltre che a definire la ‘governance’ legata al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR).
O lo facciamo in fretta, o non riceveremo la prima tranche di aiuti del Recovery Plan.
Come dicevamo, il Decreto Semplificazioni si occupa di due aspetti distinti.
◦Il primo riguarda una feroce deregolamentazione, che nella neolingua in voga nel Governo viene presentata eufemisticamente come una semplificazione, delle procedure di conferimento e assegnazione degli appalti per lavori pubblici. L’impronta ideologica è esplicita nella sua sfacciataggine. Vengono prorogate fino al 30 giugno 2023 una serie di deroghe al Codice degli Appalti che erano state approvate nei mesi della pandemia con lo scopo, almeno quello dichiarato, di poter intervenire con rapidità e urgenza nel pieno dell’emergenza: in particolare viene alzato l’importo massimo sotto al quale si possono assegnare lavori pubblici senza fare nessuna gara, ma procedendo con un’assegnazione diretta o con una snella ‘procedura negoziata’, condotta in privato tra la centrale pubblica appaltante e una cerchia ristretta di ditte; oltre a questo, si prolunga anche la validità delle deroghe che mettono al riparo il padrone vincitore di un appalto da accuse di danno erariale ed abuso d’ufficio. Nonostante la tanto sbandierata rivoluzione verde e sostenibile, i tempi concessi alle autorità preposte per effettuare una Valutazione di Impatto Ambientale, prerequisito necessario per valutare se una determinata opera pubblica devasta la natura circostante o meno, vengono dimezzati con l’accetta; inoltre, si predispone un binario blindatissimo e di fatto al di sopra di ogni controllo per otto grandi opere, tra cui linee di alta velocità e interventi sulle infrastrutture portuali. Ciliegina sulla torta, si liberalizza, di fatto incentivandolo, il ricorso al sub-appalto. Con tale nome si intende la procedura per la quale l’azienda X, che risulta vincitrice di un appalto per un lavoro pubblico, affida una parte delle proprie incombenze e dei lavori da svolgere all’azienda Y, scelta dall’azienda X in sostanziale libertà. Il sub-appalto – una pratica che storicamente ha permesso ad aziende dalla trasparenza discutibile e spesso con connessioni con il mondo criminale di mettere le mani su porzioni sostanziose di finanziamenti pubblici – è anche uno strumento grazie al quale le imprese risparmiano sui costi, attraverso peggiori condizioni per i lavoratori coinvolti e una minore qualità nei lavori realizzati. La percentuale massima di lavoro che può essere sub-appaltata aumenterà gradualmente fino al 1° novembre, quando cesserà di esistere del tutto. Ciò implica che non esisterà più alcun vincolo per le imprese a ricorrere all’opaca pratica del sub-appalto.
◦Il secondo pilastro del Decreto Semplificazioni riguarda la gestione e l’attuazione del PNNR, con la definizione esplicita di chi dovrà fare cosa. L’elemento cardine è l’accentramento dei poteri decisionali presso la Presidenza del Consiglio, che avrà la facoltà di sostituirsi e commissariare le amministrazioni che ritardano nell’applicazione delle misure previste dal PNRR o che si rifiutano per ragioni di dissenso sui contenuti. Si prevede inoltre la creazione di una Segreteria Tecnica, con funzioni di supporto alla cabina di regia deputata all’attuazione del PNRR, che rimarrà in carica anche dopo la fine della legislatura, fino al 2026. In altri termini, questo organo vigilerà sui prossimi governi per evitare che l’esecutivo di turno faccia scelte diverse da quelle intraprese dall’attuale governo.
Il legame evidente e rivendicato tra il Decreto ‘semplificazioni’ e il Recovery Fund mostra in maniera evidente quali siano i veri scopi degli ‘aiuti’ europei. Si parte ora con le semplificazioni, si continuerà domani con la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, come abbiamo più volte mostrato.
Infatti, a fronte di un ammontare di risorse assolutamente insufficiente per la ripresa economica, il Recovery Fund rappresenta un fortissimo strumento di pressione e di ricatto, una clava che viene usata per dare l’assalto ai residui di protezione sociale e regolamentazione del mercato presenti in Italia.
Il Governo Draghi, in questo scenario, svolge in maniera estremamente efficiente e competente il ruolo che gli è stato ritagliato addosso fin dal momento del suo insediamento.
Imbevuto di una visione economica fortemente liberista, in virtù della quale l’intervento pubblico si deve limitare a rimuovere tutti i vincoli all’operato delle fantomatiche forze di mercato, l’esecutivo continua metodicamente, un provvedimento dopo l’altro, a curare meticolosamente gli interessi di una piccola minoranza di privilegiati, mentre i molti soccombono, tra pandemia e crisi economica.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
giovedì 3 giugno 2021
LA GIUSTIZIA COME MERCE DI SCAMBIO
Brusca esce dal carcere in base a leggi che tutti hanno votato in Parlamento.
di S.C.
Chi oggi sbraita contro le Leggi sui pentiti che hanno portato alla scarcerazione del mafioso Brusca, dopo 25 anni di carcere in quanto “collaboratore di giustizia”, è un imbroglione di prima categoria, che mente alla società sapendo di mentire anche con se stesso.
Negli ultimi trenta anni ci sono state ben tre leggi sui pentiti approvate quasi all’unanimità dai partiti presenti in Parlamento nel 1980, nel 1991 ed infine nel 2001.
La prima è del 3 febbraio 1980, voluta soprattutto dal gen. Dalla Chiesa contro le BR e le altre organizzazione armate della sinistra. Venne inserita dentro al pacchetto di Leggi Speciali che portano il nome dell’allora presidente del consiglio Cossiga. Dovevano essere leggi d’emergenza ed invece sono diventate leggi permanenti.
La seconda è del 15 marzo 1991, voluta soprattutto da magistrati come Falcone che puntava ad estendere la precedente legge sui pentiti “contro il terrorismo” anche alla mafia. Questa legge introdusse la figura del “collaboratore di giustizia”, come Brusca o Buscetta, dunque.
La terza e ultima è quella del 13 febbraio 2001. Ha introdotto la figura del “testimone di giustizia”. Il testo della legge del 2001 andò a riformare l’originaria disciplina risalente al 1991, infatti, ferme restando le riduzioni di pena e l’assegno di mantenimento concesso dallo Stato.
Tra le modifiche introdotte vi è quella secondo cui il pentito non accede immediatamente ai benefici di legge, ma solo dopo che le dichiarazioni vengano verificate come importanti e inedite. Inoltre il “pentito” detenuto deve scontare almeno un quarto della pena.
L’allora procuratore Piero Grasso attaccò la legge, in una intervista al Corriere della Sera del 18/3/2001, perché “troppo morbida”.
Ma il principio fondativo delle tre leggi sui pentiti è identico: lo Stato rinuncia a esercitare la condanna piena – a vita, in genere – in cambio di informazioni che solo quel “pentito” è in grado di fornire e che possono risultare decisive per smantellare l’organizzazione di provenienza. Moralmente un’infamia, ma proprio per questo vecchia come il mondo. Lasciate perdere le stronzate sulla “sincerità del pentimento”. E’ uno scambio di merci, fatto in una caserma invece che al mercato.
Lo Stato che accetta di fare questo scambio non può poi dolersi di vedere un “verru” tornare libero, perché ha derubricato “la giustizia” a questione di utilità. E ancor meno possono farlo quei partiti e quei media che hanno invocato e poi plaudito a quella soluzione.
Quando vediamo gli esponenti della destra come Meloni e Salvini, ma anche manettari “di sinistra”, starnazzare contro la scarcerazione di Brusca – anche se è vero che nel 1980 erano appena nati o bambini, o che nel 1991 e nel 2001 erano ancora all’inizio della loro carriera politica – è bene rammentare che i loro partiti (MSI/AN per la Meloni e la Lega per Salvini) votarono a favore di quelle leggi. E altrettanto fece il Pds/Pd.
Per documentazione è bene andarsi a leggere le argomentazioni dei commissari della Commissione parlamentare sulla criminalità e la mafia del 2002. Li ci sono gli interventi di esponenti di AN e di Fi come del Pds che avevano sostenuto la legge sui pentiti approvata nel 2001.
http://www.senato.it/service/
In secondo luogo, alcune personalità ed alcuni parenti delle vittime invocano il “no” alla scarcerazione di Brusca motivandolo con il fatto che i pentiti “non hanno detto quello che si vorrebbe sapere sui mandanti delle stragi di mafia”.
Delle due, l’una: se tra questi mandanti, oltre ai boss mafiosi, ci sono anche esponenti dello Stato, difficilmente un “pentito” che si mette nella mani dello Stato per assicurarsi la sopravvivenza può dire qualcosa – se ne è conoscenza – contro uomini o apparati dello Stato. Significherebbe finire dalla padella alla brace.
In secondo luogo, se si fanno leggi per ottenere la collaborazione dei pentiti, alla fine o rispetti i patti – per quanto orrendi e riprovevoli essi siano – o di pentiti disposti a collaborare non ne trovi più.
E quando hai da smantellare strutture in crescita e ramificate come la n’drangheta o la mafia, ormai perfettamente inserita nel business legale dopo la trattativa Stato-mafia del 1993, se non arrivano “voci dall’interno” le indagini non vanno lontano.
Dunque chi strepita così tanto contro la “legge sui pentiti”, prima benedetta perché “indispensabile”, fa sorgere il legittimo sospetto che, in nome delle “condanne ostative”, se ne intenda chiedere quanto prima l’abolizione. Proprio uno dei punti che la mafia aveva inserito nella “trattativa”, e non certo in nome dell’orrore che una legge del genere dovrebbe suscitare in uno Stato di diritto.
Non sarebbe del resto la prima volta che dietro la bandiera della forca si nascondono, perfettamente a loro agio, i beneficiari del “voto di scambio”…
Resta infine la sfera morale. Rimettere in giro uno che – tra l’altro – ha sciolto un ragazzino nell’acido è moralmente impossibile da accettare. Ma a questo punto la cosa non dipende dalla giustizia dei tribunali. Per alcuni c’è quella divina, per altri quella della coscienza umana.
Entrambe non sono di competenza dello Stato.
martedì 1 giugno 2021
ALLA FINE I BENETTON CI GUADAGNANO ANCORA
Autostrade. Lo Stato si svena per arricchire i Benetton.
di Dante Barontini
Autostrade torna allo Stato dopo 22 anni. Ma il passaggio avviene con le modalità di un crimine ai danni del paese e un regalo mostruoso a degli imprenditori privati che hanno lasciato andare in malora migliaia di chilometri di infrastrutture strategiche.
Il crollo del Ponte Morandi a Genova, ormai tre anni fa, ha certificato quel che ognuno già sapeva: i privati pensano solo a far soldi, nel modo più facile possibile, senza altri “inutili problemi” come la manutenzione di un bene che, nella proprietà, era rimasto pubblico.
E’ anche la dimostrazione del fallimento delle “privatizzazioni all’italiana”, più macabre e sguaiate delle media. Fatte, sembra assurdo ma è così, persino in contrasto con lo “spirito del capitalismo”.
Che senso ha, infatti, privatizzare la gestione di un monopolio naturale come le autostrade? Nessuno farà mai concorrenza costruendone un’altra su un percorso grosso modo parallelo. E’ solo un modo per garantire un business comodissimo a dei “prenditori” che si siedono al casello a riscuotere i pedaggi (cresciuti mostruosamente nel corso del tempo, fino a fare delle autostrade italiane le più costose d’Europa).
I ventidue anni trascorsi, insomma, hanno solo dimostrato quel che logica e storia avevano già anticipato.
Il crollo del Ponte Morandi e i 43 morti lì registrati hanno costretto tutti – la immonda classe politica e gli stessi Benetton – a “fare qualcosa” per mostrare di aver registrato l’indignazione del Paese.
A quel punto c’erano due sole strade possibili: a) la revoca della concessione pubblica ad Atlantia (la società dei Benetton che controlla Aspi), b) l’acquisto di Aspi da altri imprenditori famelici o dallo Stato.
La prima soluzione – di gran lunga preferibile, perché sembra più che evidente che il “concessionario” non abbia tutelato il bene pubblico che gli era stato affidato) – era formalmente ostacolata da un contratto di concessione apparentemente scritto per “blindare” la posizione dei Benetton, garantendoli da qualsiasi contenzioso con una penale insensata (22 miliardi).
Ma uno Stato che mostra spesso tutta la sua forza contro chi non ha alcun potere (prendiamo il caso degli esuli di Parigi e qualsiasi movimento di resistenza popolare o territoriale) aveva ed ha mille possibilità di imporre la propria decisione anche a termine di contratto (per esempio addebitando al “concessionario” i danni provocati dalle mancate manutenzioni, i costi di ricostruzione del Ponte, e cento altre voci ipotizzabili), fino ad azzerare l’esborso della penale.
La seconda soluzione, comunque “difettosa” (riconosce ai Benetton un titolo di proprietà che andava messo in discussione), avrebbe potuto essere gestita minimizzando i costi per lo Stato (nelle vesti di Cassa Depositi e Prestiti) e il guadagno immorale per i Benetton. Anche in quel caso, addebitando loro – e dunque scalando dal prezzo – i danni provocati con la pessima gestione degli ultimi 22 anni.
E invece no.
L’operazione di vendita è stata gestita come una “normale operazione di mercato”, come se Atlantia fosse un’impresa seria e non una macchina distruttiva di beni e di vite. Fino a considerare “congrua” una valutazione pari a 9,3 miliardi di euro.
Atlantia, dunque, incasserà circa 8 miliardi per l’88,06% dalla controllata.
Ieri l’assemblea dei soci di Atlantia ha dato il via libera alla cessione al consorzio guidato da Cassa depositi e prestiti (Cdp) assieme a Blackstone e Macquarie.
Ora tocca a Cassa depositi e prestiti, che da pochi giorni ha come nuova guida Dario Scannapieco (ex vicepresidente della Banca Europea degli Investimenti, uomo di Draghi al 1.000%), che dovrà trovare “una configurazione di mercato” per la nuova gestione.
Invece che la galera ai Benetton è stata garantita una ricca dote per lanciarsi in altri investimenti (in Patagonia, per esempio, dove hanno fama di Dracula).
Allo Stato, invece, un’infrastruttura da rimettere in piedi, sommando i costi di nuovi investimenti al prezzo assurdo pagato per riaverla dopo averla costruita con i soldi delle tasse di tutti i cittadini.
Non è una nazionalizzazione. E’ un crimine.