giovedì 29 novembre 2018

QUATTRO CARABINIERI CONDANNATI PER IL CASO MARRAZZO


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Più che di mele marce l'arma dei carabinieri è un cesto quasi pieno visti i numerosi fatti di cronaca che vedono imputati militari appartenenti a questo corpo in questi ultimi mesi,dopo un lungo periodo di silenzio sulle loro malefatte.
E non confondiamo questo aumento di casi sottoposti alla mercé mediatica con un altrettanto incremento di condanne perché le statistiche non sono parallele,ma nel caso proposto oggi grazie al contributo di Contropiano(caso-marrazzo-condannati-quattro-carabinieri )si parla di pene che vanno dai tre ai dieci anni per il caso dell'ex Presidente della regione Lazio Piero Marrazzo.
Oltre alla cronaca dei fatti accaduti nel 2009 quando il giornalista ed ex politico Pd venne pizzicato da quattro carabinieri con un transessuale e ricattato con un video che non venne mai reso pubblico per l'intercessione di Berlusconi,si parla dell'arretratezza della scelta delle persone che giungono a svolgere questa mansione.
Ebbene si sono avute queste condanne,anche pesanti in relazione al fatto che assassini conclamati se la siano passata con molto meno(almeno per il momento)e per il fatto che ormai il dio carabiniere ormai è un personaggio da favole(madn consip-e-armaun-cesto-pieno-di-mele marce ).

Caso Marrazzo, condannati quattro carabinieri. Altre mele marce da dimenticare il prima possibile.

di  Alessio Ramaccioni 
Quattro carabinieri condannati, per reati che vanno dalla concussione alla rapina: sono quelli coinvolti nell’ “affaire” Marrazzo, l’ennesima eccezione alla regola per quel che riguarda forme di devianza all’interno di apparati dello Stato italiano.

Ricordate la vicenda? L’allora governatore del Lazio sorpreso da quattro militari insieme ad una transessuale e poi ricattato. Una vicenda scabrosa e piena di strani retroscena, che ha avuto il suo esito giudiziario.

Dieci anni di reclusione per i carabinieri Nicola Testini e Carlo Tagliente, sei anni e mezzo a Luciano Simeone, tre anni ad Antonio Tamburrino.

Per Testini, Tagliente e Simeone è scattata anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; solo di cinque anni quella di Tamburrino. Tutti e quattro dovranno risarcire i ministeri dell’Interno e della Difesa.

La condanna è riferita ai reati di concorso in concussione e rapina; per Tamburrino anche quello di ricettazione.

Quattro criminali in divisa: questo dunque ha dichiarato il Tribunale. Non abbiamo dubbi, nei prossimi giorni leggeremo ed ascolteremo commenti ormai consueti. Ve ne anticipiamo addirittura un paio: “hanno disonorato la divisa che indossano”, “erano mele marce”.

Il che è vero, sia chiaro. Ma non è forse il caso che un numero così alto di “mele marce” faccia venire il dubbio che forse esiste un problema alle radici, tanto per proseguire con le metafore “vegetali”? In un paese normale sarebbe già avviato da tempo un confronto sul modello di selezione e formazione dei membri delle forze dell’ordine. Ma, ormai è chiaro, la normalità è qualcosa di molto distante da noi, purtroppo.

mercoledì 28 novembre 2018

USA ED UE ANCORA IN DIFESA DELL'UCRAINA


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La difesa ad oltranza di quasi tutto il mondo occidentale nei confronti dell'Ucraina,ribadisco zeppa di nazisti instauratisi dopo violenze degne pienamente di appellativi come crimine di guerra,sta proseguendo in queste settimane dopo i continui bombardamenti nelle zone di confine di Donetsk e Lugansk e per ultimo la crisi del Mare d'Azov.
L'articolo di Contropiano parla principalmente di quest'ultima sfida ucraina nei confronti della Russia(mar-dazov-provocazione-ucraina-anche-a-fini-interni )e della concreta possibilità che si scateni una guerra ancor più pesante di quella in corso negli ultimi anni e che ha provocato diecimila vittime.
Gli enormi affari che girano attorno ai principali porti di questo settore nord del Mar Nero sono il principale soggetto delle controversie,e la zona dello stretto di Kerc è quella attualmente più presidiata dalla marina russa che già da tempo sottopone le navi mercantili ucraine a rigorosi controlli mentre domenica c'è stato un vero e proprio attacco partito da Kiev con delle piccole unità militari.
Risultato di questo il sequestro di tre battelli che hanno violato le acque territoriali russe e il fermo dei marinai a bordo delle imbarcazioni ucraine,mentre Usa ed Ue come al solito hanno condannato Mosca e la Nato per ora sottovoce sta facendo intimidazioni verso i russi.
Da sottolineare pure il fatto che l'ipotesi di legge marziale presentata nell'articolo è stata attuata(contropiano mar-dazov-sara-legge-marziale-in-ucraina )su tutto il territorio dell'Ucraina,fatto che avvantaggia l'attuale presidente Poroshenko che in vista delle prossime elezioni presidenziali ha percentuali in crollo,voto che con questo stato di militarizzazione sarebbe rinviato,aiutando pure le oligarchie di Kiev ad intraprendere la lotta armata per la difesa dei propri interessi(così come quelli delle oligarchie russe)in un paese sempre più affamato ed in crisi(madn il-crollo-dellucraina ).

Mar d’Azov: provocazione ucraina, anche a fini interni.

di  Fabrizio Poggi 
Dunque, per ora, la provocazione navale ucraina nel mar d’Azov sembra rientrata, anche se i tre battelli “Berdjansk”, “Nikopol” e “Jany Kapu”, che domenica mattina hanno violato le acque territoriale russe, sono tuttora trattenuti a Kerč, insieme ai 23 uomini d’equipaggio. Secondo il consigliere presidenziale ucraino Jurij Birjukov, le unità di Kiev avrebbero aperto il fuoco, cui hanno risposto le motovedette russe. Tre marinai ucraini feriti leggermente sarebbero stati ricoverati all’ospedale di Kerč.

La tensione nel bacino chiuso di Azov sta salendo da tempo, con reciproci sequestri di pescherecci e naviglio mercantile, ma quella di ieri è stata la prima vera provocazione armata con l’intervento di piccole unità militari. Al momento, la conseguenza meno improbabile, sarebbe l’introduzione della legge marziale in Ucraina, proposta dal segretario del Consiglio di sicurezza, Aleksandr Turčinov nel corso della seduta del “gabinetto di guerra” della notte scorsa,

Secondo la Russia, le unità ucraine avrebbe violato i punti 19 e 21 della Convenzione ONU per il diritto marittimo, tanto che Mosca ha chiesto la convocazione straordinaria del Consiglio di sicurezza ONU per questo pomeriggio. RIA Novosti scrive infatti che i battelli ucraino sono stati intercettati e fermati alle coordinate di 44 gradi nord e 23 gradi est, cioè a circa 20 chilometri dalla costa russa e 50 km a sudovest del normale transito attraverso lo stretto di Kerč.

La marina russa ha trattenuto le unità ucraine che, non riconoscendo lo status della Crimea e delle acque circostanti, non avevano risposto all’intimazione russa di invertire la rotta. Mosca ha poi bloccato l’accesso al mar d’Azov anche ai vascelli non militari, ancorando una grossa unità mercantile sotto l’arcata centrale del ponte sullo stretto di Kerč.

Appena la scorsa settimana l’ex vice Capo di stato maggiore ucraino Igor Romanenko aveva parlato della probabilità di una “guerra di grossa portata” tra Russia e Ucraina in caso di chiusura del mar d’Azov alle navi di Kiev. I clan oligarchici ucraini (e anche russi) detengono non pochi interessi nell’area e già nei mesi scorsi il Ministro degli esteri golpista Pavel Klimkin aveva annunciato la prossima denuncia da parte di Kiev del trattato sul mar d’Azov, in base al quale tale bacino e lo stretto di Kerč sono considerati acque interne di due paesi, con conseguente libero accesso del naviglio di Russia e Ucraina. Poi però, la primavera scorsa, Kiev aveva sequestrato l’unità da pesca russa “Nord” e la petroliera “Pogodin” e da allora la guardia costiera russa controlla tutte le unità ucraine, con tale meticolosità che portano via anche diversi giorni.

Anche se è difficile immaginare qualche passo – qualunque passo – della junta nazigolpista di Kiev, intrapreso senza ordine d’oltreoceano; e pure se negli ultimi tempi Washington e Bruxelles hanno fatto di tutto per spingere il alto la tensione nell’area, pare che per il momento, mentre si attendono reazioni ufficiali della Casa Bianca, la NATO non abbia particolare fretta di intervenire e consiglia anzi a Kiev di non inasprire la situazione.

Mentre USA, Gran Bretagna e anche Danimarca assegnano all’Ucraina (rimasta praticamente all’asciutto di propri mezzi navali) proprie vecchie unità in disarmo, Mosca ribadisce che non permetterà di trasformare il mar d’Azov, il cui accesso è praticamente sbarrato dalle penisole di Taman e di Kerč, in un’ulteriore zona di tensione. In risposta, NATO e UE insistono nell’ordinare alla Russia di cessare le “ispezioni eccessive” delle navi ucraine.

E’ così che, da tempo, il mar Nero e specificamente il porto di Odessa sono diventati teatro di presenza pressoché permanente di squadre navali USA e britanniche, tanto che il Ministro della difesa di Londra, Gavin Williamson, lo scorso 21 novembre, ha annunciato la realizzazione entro il 2019 di una propria base navale a Odessa, che ospiterà vascelli e fanteria di marina.

Kiev ha annunciato l’intenzione di costruire a Berdjansk una base militare per motovedette corazzate. Nelle scorse settimane, tirando un po’ il freno, Kiev aveva rinunciato alle previste manovre navali con la NATO nello stesso bacino d’Azov; ma la solita Federica Mogherini aveva comunque minacciato “concrete misure” della UE, ovviamente contro Mosca e a sostegno delle regioni ucraine interessate alla questione del bacino. In risposta, Mosca sta accelerando il concentramento nell’area di naviglio costiero, motovedette e corvette, sottratte alle flotte del Baltico, del Caspio e, con navigazione interna, anche dal lago d’Aral.

Stamani la situazione non è perfettamente chiara, dato che Porošenko continua a richiedere a Mosca il rilascio delle tre unità ucraine scortate al porto di Kerč, ma RIA Novosti scriveva già ieri che i tre battelli avevano fatto rientro alla base di Berdjansk.

Il senatore russo Aleksej Puškov si è detto sicuro che l’ordine di sconfinamento sia giunto alle unità ucraine direttamente da Petro Porošenko, in risposta all’incontro Putin-Erdogan della settimana scorsa e la posa del primo tratto subacqueo del “Turkish stream”. Petro cercherebbe inoltre ogni mezzo per tentare di sollevare il proprio rating interno che, quando mancano pochi mesi alle presidenziali previste per la primavera, è crollato al 5%, contro il 21% di Julija Timošenko.

Non a caso, una delle prime conseguenze dell’introduzione della legge marziale proposta dal Consiglio di sicurezza, insieme al rinvio a tempo indeterminato delle elezioni presidenziali, potrebbe essere la messa fuori legge anche di partiti pienamente filo-occidentali quali, per l’appunto, “Patria” della Timošenko, che più direttamente insidia le posizioni di Petro.

Nel corso della seduta notturna del “gabinetto di guerra”, Porošenko avrebbe dichiarato di aver concordato con lo speaker della Rada, il nazista Andrej Parubij, il sostegno del parlamento all’introduzione della legge marziale per 60 giorni su tutto il territorio ucraino e le notizie parlano della possibile adozione del provvedimento già nella giornata di oggi. “La legge marziale non significa che l’Ucraina condurrà azioni offensive; noi difenderemo il nostro territorio. E non significa nemmeno l’inasprimento della contrapposizione nell’est dell’Ucraina” avrebbe dichiarato Porošenko, mentre le artiglierie naziste bombardavano, con una intensità non usuale per gli ultimi tempi, la stessa periferia di Donetsk. Petro ha aggiunto che la legge marziale non significa l’immediata mobilitazione della popolazione, che permetterebbe di portare l’esercito a 1 milione di uomini nel giro di due giorni, ma “solo” la messa in allarme “della leva di prima linea”.

Cosa comporterebbe l’approvazione della legge marziale? Pieni poteri speciali al Presidente; rinvio di ogni elezione; obbligo del lavoro – senza paga anche per studenti e disoccupati – e sua militarizzazione, per le esigenze dell’industria di guerra; coprifuoco generale, a partire dalle aree delle regioni di Donetsk e Lugansk controllate da Kiev; regime speciale di ingresso e uscita dal paese. Inoltre, controlli a tappeto su tutto e tutti, su media e tipografie, più di quanto non stia avvenendo da cinque anni: a questo proposito, nella riunione notturna del “gabinetto di guerra”, Porošenko avrebbe insistito particolarmente nel ricordare a giornalisti e pubblicisti “i doveri” imposti dal momento. Prevedibile anche la proibizione di ogni azione di protesta; sequestro di beni: locali, mezzi di trasporto e generi alimentari, ecc.

Durante la legge marziale, non è possibile sciogliere il parlamento o dichiarare l’impeachment per il Presidente. Non è però detto che alla Rada si raggiunga la maggioranza per il voto sulla legge marziale, dato che non sono pochi gli aspiranti alla successione a Petro, che non desiderano affatto il rinvio delle presidenziali. In caso di voto contrario del parlamento, Petro Porošenko non avrebbe quindi fatto altro che confermare l’assunto del grande Mao a proposito di tutti i reazionari.

martedì 27 novembre 2018

BERNARDO BERTOLUCCI

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Dopo una lunga malattia il regista Bernardo Bertolucci è morto a settantasette anni lasciando un vuoto culturale che sarà difficile colmare,soprattutto perché il suo mestiere è sempre stato al passo coi tempi e con poche probabilità tematiche sociali e introspezioni nell'animo umano saranno trattate come lui sapeva fare magistralmente.
Nell'articolo preso da Il Manifesto(il-desiderio-e-rivoluzione )c'è scritto molto di quello che ha diretto dagli esordi fino alla fine della carriera,e tutto quello che si poteva ambire come trofeo nel mondo del cinema l'ha conquistato,non che un bel film debba proprio per forza essere condito da premi e riconoscimenti.
La sua vicinanza al mondo della sinistra,almeno quella di una volta,il sapere adattarsi a fare cinema sia con budget ristretti che con investimenti hollywoodiani non hanno mai tolto il suo impegno personale,la sua intima poesia che è riuscita a trasmettere sulla pellicola i sentimenti provati.

Il desiderio è rivoluzione.

Addio Novecento. Scompare a 77 anni Bernardo Bertolucci, i suoi film hanno raccontato il sentimento della modernità. Il ’68 di «The Dreamers», l’Italia del «Conformista» fino alla cantina di «Io e te», una reinvenzione del mondo nell’immaginario.

di Cristina Piccino 
È sempre difficile affrontare una notizia che ti coglie impreparato. È vero, era malato da tempo Bernardo Bertolucci però nonostante questo continuava a fare progetti, a lasciare porte aperte, «vita al lavoro», con un nuovo film in scrittura che contava di girare, forse «piccolo» come il precedente e magnifico Io e te (2012) e altrettanto spiazzante, con una energia imprevista e imprevedibile che mentre lo guardavo pensavo: sembra il film di un ragazzo. Ma lui lo era, un ragazzo…Invece all’improvviso non c’è più, ed ecco che il tempo corre, scrivere, dire qualcosa, ripensare tutti i film, nel rewind che è anche quello della vita in cui quei film sono entrati con prepotenza delicata diventando una «guida» irriverente per lo sguardo.

COSA ci ha insegnato il cinema di Bertolucci? Cosa ci insegna e ci insegnerà? Il desiderio e la rivoluzione,la sensualità della macchina da presa e quel «Non si può vivere senza Rossellini» (in Prima della rivoluzione) quasi un «Non si può vivere senza Bertolucci» anche se nel nostro cinema lui è rimasto una singolarità. E non si tratta soltanto di inquadrature o mise en scene o storie. È qualcos’ altro, molto di più, molto diverso, lo spazio dell’immaginario, il piacere di filmare, la scoperta del mondo insieme alla sua invenzione. E poco importa se avviene in una cantina (Io e te) o nella Città proibita della Cina imperiale all’inizio del secolo scorso (L’ultimo imperatore), le sue «scene madri» – citando il libro di Enzo Ungari, che è stato tra gli autori proprio di L’Ultimo imperatore – restituiscono la trama complessa della realtà e del suo tempo in un sentimento universale, libero e critico, che scuote le certezze, interroga la propria materia senza mai mettersi al riparo di una «ideologia». E quella capacità di trasportare nel mondo le radici, di aprire il cinema a una dimensione mondiale che, al di là della circostanza produttiva, continua però a portare in sé la propria impronta.

TUTTI i film di Bertolucci vivono su un confine, un gioco di specchi tra interno/esterno, la messa in campo di un punto di vista consapevole di sé che dichiara la presenza dell’autore con la sua esperienza trasformata in narrazione, la sua cinefilia più atto d’amore che citazione, gli amici, i miti, l’infanzia a Parma. Le scene di ballo anche queste passaggio «obbligato» nel deserto o in un oriente dei film amati o ancora nella villa in Toscana dove vive il suo romanzo di formazione una giovane americana (Io ballo da sola, 1996) – ma in fondo lo sono un po’ tutti i suoi film romanzi di formazione. Lui è lì, con le sue storie che amava raccontare, narratore raffinato che non ci si stancava mai di ascoltare, aggiungendo ogni volta qualche variante.

AVEVANO messo al rogo – letteralmente – Ultimo tango a Parigi nell’Italia clericale e ipocrita del 1972, privando Bertolucci dei diritti civili per cinque anni; era indigesto quel film per come capovolgeva la rappresentazione della sessualità, i rapporti uomo e donna dentro alla visione Nouvelle Vague di unire il cinema europeo e americano… E a distanza di decenni la polemica continuava con le accuse di avere devastato – psicologicamente – Maria Schneider nella scena del «burro». Eppure lei, il suo personaggio di ragazza che vive due vite, una dentro e l’altra fuori quell’appartamento gli è molto vicina, forse persino più di quello di Brando, l’icona di un cinema americano contrapposta ai fantasmi della Nouvelle vague, il tremore per quel desiderio (ancora e sempre) di trasgressione che stride col mondo oltre le pareti di Passy ove avvengono i loro incontri.
Novecento (1976) venne attaccato dal Pci – almeno dalla generazione più vecchia – che lo accusava di essere non realista, mai un figlio di contadini poteva essere amico col figlio dei padroni come accade tra Olmo (Depardieu) e Alfredo (De Niro) nati entrambi il 27 gennaio del 1901, il giorno della morte di Verdi. Ma la fonte era la sua infanzia nella campagna emiliana – Bertolucci era nato a Parma nel 1941 – quando da ragazzino giocava coi figli dei contadini e, come amava ricordare, aveva scoperto la parola «comunista». Lui, Bertolucci, non ne occupa il posto, al contrario mantiene la coscienza del suo essere borghese e questo gli permette di passare dalla realtà come è all’utopia della rivoluzione. E del cinema. Questa è la sostanza politica delle sue immagini incomprensibile alla critica italiana del tempo che metteva avanti il «contenuto». Ma Bertolucci guardava altrove, viaggiava nel tempo e nello spazio, si immergeva nell’inconscio per cogliere i conflitti, l’io e il noi.

IL ’68 era Pierre Clementi (protagonista di Partner, scritto insieme a Gianni Amico) che portava il pavet parigino tra i sanpietrini romani – «Aspettavano le sue storie» diceva Bertolucci. E saranno poi i ragazzi di The Dreamers, chiusi anche loro in un appartamento per uscire infine in strada e scegliere nel confronto con la realtà diverse posizioni separati per sempre – nella sinergia tra Bertolucci e il biondo Michael Pitt – sognatori che uniscono ancora una volta l’immaginario e il vissuto in un unico respiro.

CINEMA, desiderio, rivoluzione. La memoria di una notte sussurrata sulla spiaggia di Sabaudia (dove era la sua casa) con la Madre – nello struggente melò che è La luna – e il seno che succhia bimbo L’ultimo imperatore. Ma l’inconscio è sempre quello dell’umano, di un Paese, della storia. Del Novecento e del contemporaneo. Non a caso Bertolucci nella famiglia alle prese col rapimento del figlio forse mai avvenuto – La tragedia dell’uomo ridicolo – è l’unico regista italiano che nell’81 illumina con precisione lo spaesamento della politica, della sinistra di fronte alla lotta armata, il grande tabù del nostro immaginario.

ALL’INIZIO c’era stato Pasolini (con cui scrive il suo esordio, La commare secca, 1962), una foto li ritrae insieme entrambi con la giacca e la cravatta (la moda per i giovani non c’era ancora) Bertolucci ricciuto e bello. Tra le sue storie c’era quella del loro primo incontro, quando Pasolini era venuto a cercare il padre, il poeta Attilio, a casa, mentre riposava. E Bernardo lo aveva tenuto sulla porta un po’ brusco. Il padre lo aveva molto rimproverato, e da lì era iniziato un legame profondo, una trasmissione anche se con visioni del mondo diverse. «Pier Paolo raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell’Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli che quell’innocenza contadina che lui riteneva sparita c’era ancora» diceva Bertolucci ancora a proposito di Novecento.

E POI? Ci sono nove premi Oscar (L’ultimo imperatore), una dimensione sempre più internazionale data non solo dal lavoro con attori di tutto il mondo, la passione e la curiosità, l’eleganza e le storie, ma soprattutto l’amore per il cinema. Che non è mai fine a sé stesso, mai presunzione del filmare, pure se l’occhio di Bertolucci riesce a comporre la spettacolarità in ogni dettaglio, ma sentimento della modernità. E la scommessa nelle sue variazioni di essere ancora capace di sorprendersi.

sabato 24 novembre 2018

NON UNA DI MENO SCENDE PER STRADA


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Il comunicato che presenta la manifestazione nazionale di Roma di oggi e l'assemblea che avrà luogo il giorno successivo indetti da chi aderisce al percorso di Non una di meno,nell'occasione della giornata contro la violenza sulle donne,va oltre a questa tematica e abbraccia e rivendica molti aspetti della vita quotidiana che ci vengono tolti o che sono in progetto di essere cancellati.
Partendo dal fatto che i femmicidi non si sono arrestati e che le violenze sulle donne nascono quasi esclusivamente nell'ambito familiare,la società che questo governo vuole plasmare è di chiara matrice maschilista e sessista,partendo dal tanto criticato decreto Pillon(madn la-famiglia-perfetta-dei-timorati-di-dio )arrivando ad una politica sociale senza welfare con una privatizzazione quasi totale di scuola e sanità(con un aumento impressionante di casi di medici obiettori)ed una precarietà disarmante.
Il redazionale di Contropiano(24-novembre-2018 )parla molto dell'attuale esecutivo,pronto a parole per la difesa delle donne strumentalizzando stupri e morti violente ma che nei fatti non fa nulla per porre fine a queste emergenze quotidiane,al punto che Non una di meno ha annunciato lo stato di agitazione permanente,in vista anche del futuro sciopero che le donne potrebbero fare il prossimo otto marzo.

24 Novembre 2018: Manifestazione nazionale di Non una di meno a Roma.

di  Redazione Contropiano 
Non Una Di Meno in stato di agitazione permanente: manifestazione nazionale contro la violenza di genere e le politiche patriarcali e razziste del governo

24 novembre 2018 Roma h. 14 Piazza della Repubblica

Siamo la marea femminista che in Italia e nel mondo ha levato il suo grido globale contro la violenza maschile, di genere e razzista e contro i governi che la legittimano.

Da più di due anni siamo nelle piazze e nelle strade a ribadire che i femminicidi sono la punta di un iceberg fatto di oppressione: la violenza maschile comincia nel privato delle case ma pervade ogni ambito della società e diventa sempre più strumento politico di dominio, producendo solitudine, disuguaglianze e sfruttamento.

Il governo Salvini-Di Maio si è fatto portatore di una vera e propria guerra contro donne, migranti e soggettività lgbt*qia+, attraverso misure e proposte di legge che insistono su un modello patriarcale e autoritario che  vorrebbe schiacciare e ridurre al silenzio la nostra libertà.

Contro le donne si scaglia il Ddl Pillon su affido e mantenimento dei figli per difendere la famiglia tradizionale e ristabilire ruoli e gerarchie di genere che negano l’autodeterminazione delle donne. La libertà di decidere sul nostro corpo e delle nostre vite è sempre più attaccata da campagne fondamentaliste di criminalizzazione dell’aborto che oggi trovano spazio in ogni parte del mondo e rappresentanza nel governo. Noi rispondiamo che la libertà di abortire non si tocca e che il Ddl Pillon non si riforma, si blocca!

Mentre dichiara di voler porre fine alla povertà, questo governo pianifica misure che intensificano la precarietà e accentuano la dipendenza economica che ci espone ancora di più alla violenza e alle molestie sul lavoro. Smantellano il welfare e pretendono che le donne, italiane o migranti, gratuitamente o in cambio di un salario da fame si occupino del lavoro domestico e di cura. La precarietà è donna e per questo la nostra lotta contro la violenza è anche una lotta contro la precarietà e lo sfruttamento. Vogliamo un reddito di autodeterminazione , universale e individuale, un salario minimo europeo, welfare universale e servizi, per uscire dal ricatto della povertà e della violenza.

Riconosciamo scuole e università come luoghi di formazione e di lavoro che producono e riproducono le dinamiche violente della società razzista e patriarcale in cui viviamo. Per questo vogliamo farli rivivere di saperi femministi e antirazzisti, educazione alle differenze e educazione sessuale a tutti livelli.

Attraversiamo città rese sempre più cupe e ostili dalla privatizzazione dello spazio pubblico, dalla militarizzazione delle strade, da provvedimenti per la sicurezza che divengono apartheid. In tutto il mondo continuiamo a urlare che le strade sicure le fanno le donne e le soggettività libere che le attraversano, costruendo le città femministe che meritiamo di vivere. Vogliamo una Casa per dormire, consultor* per amare, centri antiviolenza per vivere e sognare, …

Non ci stiamo al gioco razzista che strumentalizza stupri e femminicidi La violenza contro le donne non ha colore: è sempre violenza maschile. Patriarcato e razzismo sono due facce della stessa medaglia: rifiutiamo la paura, l’odio e la violenza del decreto Salvini, costruendo mobilitazione e solidarietà diffusa, in primo luogo con le migranti esposte a violenze reiterate e sulla cui pelle si gioca in modo ancora più tragico la partita della destra al governo. Rivendichiamo la libertà di muoverci e di restare, diritto d’asilo, cittadinanza e un permesso di soggiorno europeo senza condizioni, svincolato da lavoro, matrimonio e studio.

Ci volete sottomesse, ricattate e sfruttate, ci avrete ribelli! Noi siamo il cambiamento.

Il 24 novembre a Roma sarà marea femminista senza bandiere e simboli identitari e di partito, Privilegiamo i contenuti, la costruzione di rete e relazioni. Abbiamo un Piano femminista contro la violenza maschile e di genere con cui vogliamo trasformare la società, il mondo intero.

Il 25 novembre ci ritroveremo in assemblea nazionale verso lo sciopero globale delle donne dell’8 marzo.

Lo stato di agitazione permanente è appena cominciato.

giovedì 22 novembre 2018

22 NOVEMBRE 1975:L'ESECUZIONE DI PIERO BRUNO


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Esattamente quarantatré anni fa veniva ucciso barbaramente il militante romano di Lotta Continua Piero Bruno,prima colpito alla schiena e poi ammazzato con un colpo in testa come in una vera e propria esecuzione.
Quel giorno ci fu un corteo nei pressi dall'ambasciata dello Zaire per sostenere l'indipendenza dell'Angola,ma davanti all'edificio un plotone di carabinieri e polizia,molti in borghese,spararono ad altezza d'uomo colpendo mortalmente Piero,freddato poi come detto sopra.
L'articolo di Infoaut(storia-di-classe )ripercorre la cronaca di quella tragica giornata riportando ciò che accadde con le testimonianze di persone che sì fecero identificare gli assassini,ma che poi come solitamente avviene vennero assolti,privando della parola giustizia la morte di questo giovane ragazzo che ancora oggi viene ricordato alla Garbatella presso il Centro Sociale La Strada cui è dedicata la scuola popolare.

22 novembre 1975: muore Piero Bruno.

Quando il corteo giunge all’altezza dell’Ambasciata dello Zaire una decina di manifestanti si stacca per andare a compiere un’azione contro tale sede, simbolo di uno dei paesi il cui regime ha preso parte attiva nell’attacco imperialista all’Angola.

Ma arrivato sul posto il gruppo trova ad attenderli un nutrito schieramento di polizia e carabinieri che al grido di “Eccoli!” comincia a sparare ad altezza uomo contro i manifestanti, che scappano coprendo la propria fuga con il lancio di alcune bottiglie molotov.

Vengono esplosi decine di proiettili: Piero Bruno, studente diciottenne e militante di Lotta Continua, crolla a terra colpito alla schiena, mentre altri due vengono presi di striscio alla testa ma riescono a proseguire la fuga fino a mettersi in salvo.

Un compagno si avvicina a Piero per cercare di trascinarlo via ma le forze dell’ordine continuano a sparare all’impazzata in una sorta di tiro al bersaglio contro chiunque tenti di raggiungere il corpo del giovane militante.

Uno degli agenti si avvicina al corpo ormai agonizzante di Piero Bruno e, puntandogli la pistola a pochi centimetri, urla: “Così ti ammazzo!”.

E così è: ancora una volta i fedeli esecutori della Legge Reale sparano per uccidere.

Una donna testimonierà: “La mia attenzione è stata immediatamente attratta da un giovane disteso per terra in Via Muratori, sul lato opposto alla mia abitazione a circa 5 o 6 metri dal piazzale antistante l'ambasciata; ho notato poliziotti o carabinieri, anzi credo più poliziotti disporsi alla fine di Via Muratori, evidentemente per isolare la zona. Ho quindi sentito che il ragazzo disteso per terra si lamentava e contemporaneamente ho visto un uomo in borghese sbucare attraverso i poliziotti che si è avvicinato di corsa al ragazzo disteso per terra urlando, presso a poco “ Ti pare questo il modo di ammazzare un collega” e quindi, “ Cane, bastardo, carogna ”, ho quindi visto che l'uomo ha puntato la pistola verso il ragazzo disteso per terra, urlando “Ti ammazzo” ed ho sentito il clic del grilletto. Il ragazzo ha gridato “No ” ed ha fatto il gesto di coprirsi il volto con le mani. Quindi l'uomo, chinandosi sul ragazzo gli ha detto “ ma io ti ammazzerei veramente ” e lo ha scosso.”

Piero Bruno muore il giorno successivo mentre è ancora piantonato in ospedale.

I suoi assassini verranno identificati nel tenente dei carabinieri Bosio, nel suo collega Colantuono e nell’agente in borghese Tammaro che, come per i molti altri casi di omicidi eseguiti con freddezza all’ombra della Legge Reale, verranno tutti assolti con abili giri di parole ed insabbiamenti delle prove.

mercoledì 21 novembre 2018

LA MANOVRA DELLA DISCORDIA


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Come pronosticato l'Unione Europea ha bocciato l'impianto della manovra economica italiana,in particolar modo per il debito,e ha considerato questo uscire fuori dai dettami europei un affronto e una provocazione(personaggi come Salvini non aiutano certo in questo senso)e quindi le sanzioni sono pronte.
C'è da vedere ancora come colpiranno l'Italia,ma se l'andazzo sarà questo è certo che la punizione sarà molto dura viste le gravità delle accuse sull'economia italiana,che è al di fuori delle regole comunitarie e che hanno innescato le proteste di molti paesi membri.
Se l'invito a rivedere la manovra in brevi tempi non sarà ascoltato entro il mese di febbraio queste sanzioni cadranno come una scure sulla testa dell'Italia,mentre la politica nostrana sta già cominciando a fare propaganda elettorale visti i sempre più evidenti contrasti tra leghisti e grillini.
Articolo preso da Contropiano:lunione-europea-boccia-la-manovra-grilli-leghista .

L’Unione Europea boccia “la manovra” Lega/M5S.

di  Redazione Contropiano 
«La nostra analisi di oggi suggerisce che il criterio del debito deve essere considerato non rispettato. Concludiamo che l’apertura di una procedura per deficit eccessivo basata sul debito è quindi giustificata».

In conferenza stampa Valdis Dombrovklis ha confermato quel che già si poteva leggere in tarda mattinata nel rapporto della Commissione Ue. «Tutti i paesi della zona euro fanno parte della stessa squadra e giocano secondo le stesse regole. Queste regole esistono per proteggerci. Garantiscono certezza, stabilità e fiducia reciproca», ha spiegato il commissario lettone. Anche gli amici di Salvini come Orban o Kurz si sono rivelati “fratelli coltelli” votando contro l’Italia.

Il «non rispetto particolarmente grave» delle regole di bilancio, in particolare delle raccomandazioni dell’Ecofin dello scorso 13 luglio, comporta dunque l’apertura della procedura di infrazione. La decisione era ovviamente attesa, ma le conseguenze che può innescare sono davvero molteplici.

La “soluzione istituzionale”, come avvenuto altre volte, sarebbe già pronta e ufficializzata ieri da Berlusconi al termine di un incontro con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: un governo Lega-Forza Italia. Siccome non avrebbe i voti sufficienti, è abbastanza ovvio che dovrebbe assumere le forme di un governo “quasi-tecnico”, che “rassicuri i mercati” sul piano economico e lasci Salvini libero di impazzare scatenando le varie polizie contro chiunque.

lunedì 19 novembre 2018

MINNITI IL MIGLIOR CANDIDATO PER LA DESTRA...NO PER IL PD



Risultati immagini per minniti fascista
Non c'è limite al peggio in casa Pd,già decimato dall'ultima consultazione elettorale e che ora ha aperto la fase congressuale con le dimissioni da segretario di Martina e la campagna elettorale intestina che vedrà candidato anche l'ex ministro dell'interno che è di destra almeno come quello attuale(vedi:madn mai-piu-minniti-al-potere ).
L'articolo di Contropiano(se-lalternativa-di-sinistra-e-lestrema-destra-rispunta-minniti )parla di uno dei gesti più vergognosi di quando fu ministro del governo Gentiloni,lo sgombero dei rifugiati in Piazza Indipendenza a Roma la scorsa estate(madn accoglienza-dei-rifugiati-roma ),ma non dimentichiamoci il decreto liberticida e anticostituzionale,quello dei salotti buoni dei centri città con relativo allontanamento di poveri e disperati.

Se l’alternativa “di sinistra” è l’estrema destra: rispunta Minniti.

di  Sergio Scorza 
“Devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa spaccategli un braccio”. Questo fu l’ordine che alti funzionari agli ordini dell’allora ministro degli interni del governo Gentiloni, Marco Minniti, impartirono alle forze dell’ordine che, il 19 agosto 2017, stavano sgomberando gli sgomberati. Avvenne in piazza Indipendenza, a Roma, a pochi passi dalla stazione Termini, dove erano accampati da cinque giorni centinaia di rifugiati e richiedenti asilo eritrei, mandati via da un palazzo occupato da tempo in via Curtatone.

L’operazione di sgombero si concluse con il ferimento di 5 persone e 4 arresti.

L’operazione fu avviata all’alba, quando la polizia in assetto antisommossa si presentò in piazza Indipendenza per disperdere i rifugiati eritrei che stavano ancora dormendo o si erano appena svegliati, usando idranti e manganelli.
«Sono venuti questa mattina presto e ci hanno detto di andarcene. Ci hanno picchiato», raccontò tra le lacrime una ragazza eritrea. «Hanno picchiato diverse persone, anche delle donne», raccontò un rifugiato eritreo che al momento dello sgombero si trovava al primo piano del palazzo insieme a una cinquantina di persone, tra cui venti bambini. Una violenza inaudita documentata anche da un video di Repubblica, dai medici di MSF e da tanti testimoni presenti.

Ecco, Marco Minniti ha ufficializzato stamattina la sua candidatura alla guida del #PD. L’ex ministro dell’Interno di Paolo Gentiloni si presenta come “autonomo e indipendente da tutte le correnti”, ma è il candidato alla segreteria di Matteo Renzi e del suo gruppo cui viene affidato il compito di compattare attorno a sé anche altri pezzi del partito. O come volete chiamarlo…

domenica 18 novembre 2018

UNA RAZZISTA PER I DIRITTI UMANI



L'ennesima persona saltata fuori dal nulla,anzi in questo caso verosimilmente da un fogna,e che avrà un ruolo importante nonostante una storia di studi e soprattutto sociale praticamente corrispondente allo zero,è la tal Stefania Pucciarelli che sarà a capo della commissione per i diritti umani.
Nell'articolo di Left(vilipendio-di-diritti-umani )una critica giusta e dura nei confronti non solo di questa figura vergognosa della politica italiana,ma anche a chi ce l'ha messa come presidente di quella commissione visti i precedenti di odio razziale e discriminatorio che hanno alzato un polverone su tale scelta.
Che poi sono i leghisti ed i grillini da sempre a braccetto quando bisogna sparare sui più deboli,un continuo di intenti che non è nato solo da questo esecutivo ma da molto tempo prima,altro che matrimonio contro natura,questi ci sguazzano stando assieme al potere.

Vilipendio di diritti umani.

di Giulio Cavalli
Ci sono due correnti di pensiero in giro tra quelli che si ostinano a non sopportare la bruttura che infondono alcuni atti di questo governo: c’è chi dice che non bisogna cadere nella tentazione di rispondere alle provocazioni per non dare più risalto del dovuto ai provocatori e c’è chi invece ritiene alcune pessime decisioni (e azioni) di questo governo ben più di semplici provocazioni e ritiene necessario ribattere. Sempre. Colpo su colpo. Senza cedere alla fatica. Personalmente non amo la tanatosi degli opossum, fingersi morti aspettando che passi, e allora tocca parlare di Stefania Pucciarelli, eletta ieri presidente della commissione per la tutela dei diritti umani con i voti, badate bene, di Lega e 5 Stelle.

Le competenze, innanzitutto, in tema di meritocrazia: Stefania Pucciarelli (il suo curriculum è qui) è in possesso di licenza media e si dichiara casalinga. Nessun elitarismo, per carità, ma su un tema così spesso, vasto e impegnativo sarebbero molti ad avere le vertigini ritrovandosi in ruolo di tale responsabilità. Lei no. Stefania Pucciarelli si dichiara orgogliosa e emozionata, pronta a lavorare “pancia a terra”.

Ma chi è Stefania Pucciarelli? È una leghista appassionata di ruspe (ma va?) che esultava lo scorso 8 novembre per l’abbattimento di un campo nomadi abbattuto “finalmente – scrive Pucciarelli – per ristabilire la legalità”. Poco male, direte voi. Aspettate. La scorsa estate sul suo profilo Facebook aveva pensato bene di mettere un mi piace su un commento di un suo fan sui migranti che recitava testualmente così: «Certe persone andrebbero eliminate dalla graduatoria dal tenore di vita che hanno. E poi vogliono la casa popolare. Un forno gli darei». È indagata per odio razziale. Poi ovviamente (come è loro abitudine) ha detto di essersi sbagliata. Come al solito. Benissimo. È famosa per le sue battaglie contro i “finti profughi” (chissà come li riconoscerà poi, quali abilità d’indagine nascosta): “spreco di soldi per i migranti” aveva dichiarato fiera lo scorso 23 agosto meritandosi addirittura un articolo su “Città di Sarzana”.

E poi. Il 23 settembre scorso ha applaudito le ronde di Casa Pound parlando di “isteria e ipocrisia antifascista segno di una sinistra finita”. E poi. Ha definito un “palese atto di egoismo e inaccettabile pretesa” il dibattito sulla genitorialità degli omosessuali. Ha applaudito le azioni di polizia contro “i questuanti” nella città di Sarzana. Non è finita: nel luglio 2012 scrisse che “se uno deve pagare per essersi difeso, è meglio che la mira la prenda per bene” riferendosi alla vicenda di Ermes Mattielli, il cittadino veneto condannato per avere sparato a dei ladri.

Ne ha anche per gli alleati grillini: “Ora capisco perché le zecche dei centri sociali non vanno a tirar sassi nei comizi del Pd e dei 5 Stelle: in loro hanno trovato chi li tutela” scrisse nel 2015 quando il Movimento 5 Stelle si dichiarò a favore dell’introduzione del reato di tortura (ah, bei tempi andati).

Cos’è la nomina di una persona così in una commissione del genere? Vilipendio ai diritti umani. Vilipendio alla dignità delle cariche pubbliche. Una schifezza perpetrata in un lurido tempo con il colpevole assenso degli alleati. E forse sarebbe il caso di chiamare le cose con il loro nome: questo non è populismo, questo è letame che puzza dello stesso odore di altri pessimi tempi.

Come scrisse Arthur Schnitzler «Quando l’odio diventa vile si mette in maschera, va in società e si fa chiamare giustizia». Oppure presidente di commissione.

Buon giovedì.

mercoledì 14 novembre 2018

RUSPE A ROMA


L'assalto al presidio romano dove decine di migranti con l'aiuto e l'assistenza dell'associazione Baobab sono stati accolti,(contropiano roma-la-polizia-assalta-il-presidio )è l'ennesima dimostrazione della sindaca Raggi che tanto si dice contro il fascismo ma che nei fatti segue i dettami del ministro di tutto Salvini,non facendo nulla per impedire lo sgombero di questo spazio che tra l'altro accoglieva molte persone cacciate dalla stazione Tiburtina mesi fa.
Mentre i fascisti del terzo millennio di CagaPovnd se ne stanno agiati nella loro fogna dorata(vedi:madn sgombero-cantine-e-fogne )la questura capitolina ha deciso per la politica della ruspa senza aspettare l'esito del dialogo del comune di Roma con la stessa associazione per collocare questi disperati,forse un tentativo della Raggi di pararsi il culo e dire che in fondo il suo ruolo è stato scavalcato da altri per motivi di pubblica sicurezza.
La verità è che lei ed il suo movimento non vedono per nulla di buon occhio queste situazioni di solidarietà e queste situazioni al limite della legalità(o al di fuori come piace dire al capo coglione leghista),più volte si sono dimostrati contro gli ultimi e pieni di un razzismo represso che spesso sfocia in atti come questo,non c'è da stupirsi quindi del loro accoppiamento con la Lega in questo esecutivo.

Roma. La polizia assalta il presidio di piazzale Maslax, gestito da Baobab.

di  Redazione Contropiano 
Dall’alba di stamattina un imponente quanto inutile spiegamento di forze di polizia sta sgomberando il presidio di piazzale Maslax, a Roma. Qui, da qualche tempo, erano finite un centinaio di persone assistite dall’associazione Baobab, dopo un altro sgombero nella zona della stazione Tiburtina.

Gli agenti hanno bloccato gli ingressi al presidio, impedendo sia l’uscita che l’entrata a chiunque.

Un messaggio twitter di Baobab informa che “Stanno sgomberando il presidio di piazzale Maslax. Ci sono circa 100 persone che ancora dormono in strada non ricollocate dal Comune. Raggiungeteci”.

A quanto pare, la questura ha deciso di intervenire senza attendere gli sviluppo di del dialogo in corso con il Comune di Roma, o forse per impedire che si potesse verificare una soluzione da quella indicata dal cosiddetto ministro dell’inferno: sgombero sempre, di tutto e comunque.

La scorsa settimana l’assessore alle politiche sociali, Laura Baldassarre, aveva iniziato a predisporre una road map per consentire agli aventi diritto “di essere accolti presso le strutture di Roma Capitale”. Un calendario di pochi giorni, che la polizia ha deciso di stroncare prima ancora che diventasse operativo.

Le forze dell’ordine, stando a quanto riportano gli attivisti di Baobab, avrebbero chiuso i cancelli e circondato il campo non consentendo a nessuno di entrare né di uscire.

Sono partiti due bus con 60 persone verso l’ufficio immigrazione di via Patini. Altri bus arriveranno. Ci sono almeno altre 70 persone al campo. Il Comune è presente solo con la sos, ma non offre nessuna soluzione alternativa.
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lunedì 12 novembre 2018

L'ATAC NON SARA' PRIVATIZZATA


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Il flop per il referendum indetto dai radicali e dal Pd,supportati da Forza Italia e Confindustria per privatizzare l'azienda municipale Atac che si occupa di trasporto pubblico,non era una certezza fino a mezzogiorno di ieri quando solo il 4% degli aventi diritto al voto si era recata alle urne.
Serviva il quorum di almeno un terzo dei votanti,si è arrivati nemmeno alla metà con il 16,3% e se non proprio l'esultanza almeno un compiacimento di chi era contrario,per motivi diversi visto la variegata composizione di chi era per il no,che ora però pressano il comune affinché svolga un lavoro di costante miglioramento sia dal punto di vista occupazionale che del parco mezzi.
Articolo di Contropiano:roma-il-referendum .

Roma. Il referendum per la privatizzazione dell’Atac fa flop. Sconfitta l’operazione Radicali/Pd.

di  redazione di Roma 
A Roma si è votato domenica sul referendum voluto da Radicali e Pd che chiedeva la privatizzazione dell’Atac, l’azienda municipalizzata dei trasporti pubblici. Ma alle urne si sono presentati solo il 16% degli aventi diritto al referendum. Il dato non è sufficiente per il raggiungimento del quorum (almeno il 33,3% degli aventi diritto al voto). Complessivamente hanno votato circa 386.900 cittadini su 2.363.989 iscritti al voto. I municipi dove l’affluenza è stata più alta sono quelli più ricchi (e dove con molta probabilità sono pochi quelli che ricorrono ai mezzi pubblici), al 25.25%, come il secondo municipio di Trieste-San Lorenzo-Parioli e il primo municipio ossia il centro storico. Quello dove si è votato meno è il sesto, quello più periferico di Tor Bella Monaca. Tra i votanti, il Sì avrebbe raggiunto il 70%.

Per il Si alla privatizzazione dell’Atac, oltre ai Radicali, si erano schierati il Pd, FI, Unindustria e il quotidiano La Repubblica. Per il No si erano pronunciati M5S, Lega, LeU, Potere al popolo e sindacati di base.

Qui di seguito il comunicato emesso dall’Usb alla luce dei risultati del referendum

Bocciato il referendum consultivo promosso dai radicali sulla privatizzazione del trasporto pubblico pubblico di Roma. Un vero e proprio fallimento di partecipazione: per tutta la giornata si sono registrati bassi livelli di affluenza, tanto che il quorum del 33% richiesto per convalidare il referendum è stato un miraggio fin dalla rilevazione delle ore 12, quando aveva votato il 4% degli aventi diritto, saliti alle 16 all’8,95%. Un segno inequivocabile che il referendum è stato respinto e con esso la volontà dei radicali di strumentalizzare il malcontento dei cittadini. È tempo adesso che l’amministrazione comunale faccia la sua parte, chiedendo alla Regione Lazio e al Governo finanziamenti adeguati e lavorando seriamente ad un progetto di ripubblicizzazione al 100% di tutto il trasporto pubblico romano, che preveda la reinternalizzazione di tutte le attività e di tutti i lavoratori.

domenica 11 novembre 2018

TAV:LO SVILUPPO E IL PROGRESSO MADE IN 'NDRANGHETA


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Ieri c'è stata la grande mobilitazione del movimento Si Tav,per il presunto ed autoreferenziato progresso e sviluppo,e c'erano assieme i soliti affiliati Pd e Forza Italia(uniti anche oggi per privatizzare il trasporto pubblico a Roma),ma anche gli industriali,la 'ndrangheta,la Lega e i sindacati(articolo di Contropiano:movimento-si-tav-lo-promuove-pure-la-ndragheta ).
Un calderone vergognoso cui è stato dato parecchio risalto mediatico nonostante gli stessi attivisti non è che siano poi stati così tanti e anche per il fatto che questo movimento a favore dello scempio di un territorio siano stati assoldati dalla mafia calabrese,e così come la storia c'insegna ecco che quando si parla di grandi opere la criminalità organizzata,complici politici assecondanti e corrotti,ci arriva a piè pari(madn ennesimi-arresti-per-le-grandi-opere ).

Movimento sì Tav? Lo promuove pure la ‘ndrangheta.

di  Redazione Contropiano 
Che la ‘ndrangheta e altre mafie siano sempre state mooolto interessate ai lavori per le “grandi opere infrastrutturali” non è un segreto. Decine di inchieste, nel dopoguerra, hanno certificato che dove ci sono sbancamenti, ruspe, piloni e trasporto materiali – insomma: nelle “grandi opere” – le cosche infilano sempre le mani. E sempre negli stessi modi. Ossia tramite amministratori locali, nazionali, funzionari, partiti di destra e “democratici”, ecc.

Adesso veniamo a sapere che le cosche promuovono anche “movimenti politici”, sfruttando esattamente lo stesso personale che deve garantire loro appalti e subappalti. Movimenti “sì tav”, ovviamente, proprio come quelli che a Torino sono scesi in piazza per sostenere l’inutile sventramento della Val Susa, con pubblica apparizione di dirigenti Pd, Pdl, qualche leghista e naturalmente “imprenditori apolitici” (di quelli che pagano chiunque governi, per capirsi).

La notizia viene dai magistrati che stanno indagando sui subappalti della Tav per il “terzo valico”, tra Piemonte e Liguria. E agli atti risultano anche intercettazioni tra affiliati al clan calabrese Raso-Gullace-Albanese, originario di Cittanova. Oltre alle solite chiacchiere su come arraffare pezzi di finanziamenti pubblici tramite amici degli amici, c’è la rivelazione: “Guarda che sto facendo un movimento: Sì Tav!”, dice tal Francesco Sofio allo zio Orlando, impaziente e incazzato con “i politici” che tardano a dare seguito alle promesse, che “intascano i nostri voti” e poi si negano al telefono.

Una novità, questa della “’ndrangheta movimentista”, pienamente confermata dall’ordinanza del gip Barbara Bennato, costretta a sottolineare il ruolo positivo – di contrasto all’opera e dunque anche della malavita nella sua scia – del Movimento No Tav locale: “Sfruttando il difficile inizio dei lavori, ostacolato dalle iniziative intraprese dal comitato No Tav per il Terzo Valico, oltre che dai ricorsi alla giustizia amministrativa contro i provvedimenti di esproprio dei terreni interessati dai costituendi cantieri,  Sofio Orlando, oltre a impegnarsi ‘politicamente’ per infiltrarsi nei lavori relativi all’infrastruttura, si è schierato a favore del movimento Sì Tav per accelerare l’inizio dei lavori”.

Al centro della vicenda si colloca tal Libero Pica, “consigliere comunale Pdl di Novi Ligure nonché dipendente della ditta ‘Itinera spa’, sedente a Tortona, operante nel settore dell’edilizia industriale e stradale, con numerose partecipazioni in altre aziende, collegata al consorzio Co.Ci.V. general contractor per la costruzione del Terzo Valico”. L’azienda Itinera ora si difende definendolo “solo un fattorino”, per giunta immediatamente licenzito. Ma ci vuol poco a ripulirsi così, dopo che l’indagine ormai è arrivata a destinazione con la accolta delle prove.

Il fatto decisivo per noi resta quello evidenziato: il tentativo di inventarsi un “movimento sì tav” – come quello che sta giostrando per Torino stamattina – non può che far felici certi interessi inconfessabili, fino e oltre il limite delle mafie. Pdl, Pd e Lega dovrebbero saperlo bene…

In fondo il movimento No Tav lo dice fin dall’inizio. E anche molte altre inchieste gli hanno dato – involontariamente, certo, e anche controvoglia – dato ragione. Con qualche interessante “coinvolgimento” di alcuni dei peggiori esempi di “sì tav” antemarcia…

Qualche link per rinfrescare la memoria:

http://www.nuovasocieta.it/tav-e-ndrangheta-i-ros-inguaiano-esposito-il-senatore-non-ho-ricevuto-avvisi-di-garanzia/

https://www.linkiesta.it/it/article/2012/03/01/no-tav-il-leader-alberto-perino-denuncia-minacciato-dalla-ndrangheta/5366/

https://www.ilblogdellestelle.it/2016/07/ndrangheta_ad_a.html

https://www.lastampa.it/2015/09/25/cronaca/esposito-favor-la-ndrangheta-per-partecipare-alla-tav-KaK5PVS6PskY92gYjoXjvM/pagina.html

http://www.notav.info/post/tav-aderenze-politiche-di-imprenditore-coinvolto-in-processo-per-mafia-per-lui-interventi-del-senatore-esposito/

http://contropiano.org/news/politica-news/2014/07/04/ndrangheta-procura-e-stampa-tutti-contro-i-no-tav-025052

sabato 10 novembre 2018

VERDINI IL COLLEZIONISTA DI CONDANNE



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Fino a non molto tempo fa senza Denis Verdini era impossibile fare politica,da ex braccio destro di Berlusconi a stampella indispensabile del governo Renzi l'ex senatore era un personaggio di estrema importanza nello scacchiere politico italiano,uno pronto a cambiare sponda per i propri interessi personali ma scaricato da tutti quando è risultato molto più che impresentabile.
Dopo essere stato salvato a più riprese sia dalle leggi di Forza Italia che del Pd,sempre in sintonia per commettere danni e magagne,dallo scorso anno(madn mazzata-per-verdini? )sono pesati i nove anni di condanna chiesti per vari reati come corruzione e truffa ed ora la condanna a 4 mesi e 4 anni di reclusione per bancarotta sono un altro tassello per questo mestierante della politica,importante sì ma con un nome non altisonante come quello dei suoi ex complici che se la sono cavata meglio.
L'articolo preso dal Corriere(bancarotta-ancora-condanna )parla di quest'ultimo caso che ha visto implicato l'ex senatore di Ala e la sua banca fallita che aveva cercato di aiutare imprenditori legati alla sua cerchia.

Bancarotta, ancora una condanna per Denis Verdini: 4 anni e 4 mesi

Era accusato di aver provocato il crac di un'impresa edile collegata alla banca dell'ex senatore di Ala. E' la terza condanna  in pochi mesi per l'ex parlamentare.

di Marco Gasperetti

FIRENZE – Ancora una condanna per Denis Verdini, ex senatore di Ala e ancor prima braccio destro di Silvio Berlusconi in Forza Italia. Stavolta Verdini è stato riconosciuto colpevole di bancarotta preferenziale dal tribunale di Firenze che lo ha condannato a 4 anni e 4 mesi di reclusione. Il processo faceva riferimento al fallimento di una società di costruzioni di Campi Bisenzio che aveva avuto rapporti con il Credito cooperativo fiorentino, la banca (fallita) dell’ex senatore. Insieme a Verdini sono stati condannati anche Marco e Ignazio Arnone, titolari dell’impresa edile fallita, con pene rispettivamente di 2 anni e 4 mesi e 3 anni e 4 mesi.
 
Nella requisitoria il pm Luca Turco aveva chiesto sei anni per Verdini e un anno e tre mesi per gli altri due imputati. Secondo l’accusa gli Arnone avrebbero dirottato gran parte dei proventi dell’appalto alla banca di Verdini con l’obiettivo di ridurre la loro l'esposizione debitoria. Accusa sempre negata da Verdini. Denis Verdini ha subito ultimamente tre condanne per altrettanti crac. Oltre a quella di stasera, 7 novembre, l’ex parlamentare è stato condannato a 5 anni e sei mesi sempre dal tribunale di Firenze per il fallimento della Ste, la Società toscana edizioni, che editava `il Giornale della Toscana´ e precedentemente a 6 anni e 10 mesi per il crac del Credito cooperativo fiorentino, fallita nel 2012.

Durante il processo di oggi Verdini ha chiesto ai giudici di fare una dichiarazione spontanea nella quale ha ricordato che i fatti «si sono verificati mentre la era in corso alla banca un'ispezione di Banca d'Italia e un successivo commissariamento», e sottolineando che «i lavori erano stati assegnati a clienti di vecchia data della banca, furono fatti e la banca li pagò».

venerdì 9 novembre 2018

ESULTARE PER UN DECRETO PEGGIORATIVO PER LA SOCIETA'


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Il tanto discusso decreto sicurezza a firma Lega e Cinque Stelle come nella prassi degli ultimi governi ha dovuto sottostare al voto di fiducia,strumento liberista abusato più volte e votato più su un maxiemendamento che su un testo ufficiale.
Un decreto che destabilizza ancor più la questione migranti e che non pone fine ma anzi creerà ancora più situazioni limite con migliaia di rifugiati e richiedenti asilo che non vedranno accolte le loro richieste che diventeranno clandestini e più propensi a commettere atti contro la legalità.
Da sottolineare che questo provvedimento contrastato dal Pd è nato da personaggi come Minniti,Orlando ed Esposito,precursori di questo insieme di leggi razziste e al limite delle norme costituzionali se non oltre.
Nell'articolo di Left(via-libera-a-insicurezza-disuguaglianza-repressione )non solo ciò che concerne la situazione immigrazione ma un deciso indebolimento dei diritti sociali di protesta che vengono anzi criminalizzati,con un occhio particolare anche alla lotta alla mafia che con delle norme diventerà più forte potendo acquistare nuovamente i beni a loro tolti.
Vedi anche:madn un-decreto-figlio-di-quello-di-minniti .

Via libera a insicurezza, disuguaglianza, repressione: il Senato approva il decreto di Salvini.

di Checchino Antonini
Scontatissimo via libera del Senato al decreto sicurezza grazie al voto di fiducia. I voti a favore sono stati 163, i no 59. E già sabato prossimo, 10 novembre, un segnale di sfiducia arriverà dal corteo nazionale di Roma contro il razzismo, le disuguglianze e questo decreto liberticida. Ma nella maggioranza il clima non è dei migliori anche per via delle tensioni sul tema della prescrizione, e mentre Palazzo Madama sospendeva il dibattito per stabilire la fiducia, a Montecitorio è stata una convulsa giornata di scontri parlamentari. Tanto che fonti 5S fanno trapelare, magari alzando i toni ad arte, che se la Lega non sarà leale sulla prescrizione, il decreto sicurezza sarà a rischio. Tensione tra Lega e M5s, culminata nella serata di martedì con il fallimento di un vertice a tre tra Conte, Di Maio e Salvini, annunciato da fonti di Palazzo Chigi e poi negato brutalmente dal leader leghista. «Ma quale vertice? Io stasera ho un vertice con rigatoni, ragù e Champions League», ha dichiarato Salvini con il consueto spessore di statista.
Il vicepremier leghista era appena atterrato dal Ghana, probabilmente convinto di poter festeggiare il voto definitivo sul decreto a lui più caro, quello che prevede una stretta significativa sui migranti e una repressione mai vista contro i movimenti sociali, da quelli che rivendicano il diritto all’abitare a quelli che danno vita a forme non violente di conquista della visibilità come i blocchi stradali. Nel decreto, infatti, si ereditano le aspirazioni autoritarie bipartisan di parecchi dei governi che si sono avvicendati nel nuovo secolo. L’idea di trasformare il blocco stradale nel reato di sequestro di persona deriva da una proposta di legge di Stefano Esposito, Pd, uomo bandiera del partito della Tav, ossessionato dal fatto che i suoi concittadini da oltre vent’anni resistono alla devastazione del territorio della Val Susa e alla repressione di quella che chiamano la “procura con l’elmetto”, quella di Torino. Già il suo predecessore Minniti, con il collega Orlando, aveva varato pacchetti sicurezza e immigrazione che servivano anche a limitare la libertà di movimento e l’agibilità politica, ad esempio con i fogli di via preventivi a militanti e sindacalisti, e anche diverse procure negli anni avevano provato a cucire ipotesi di associazione a delinquere contro movimenti che volevano “estorcere” diritti. Il decreto, approvato all’unanimità dal governo, rivendicato da entrambi i colori di questa maggioranza politica, riesce a coronare quel sogno anticostituzionale.
Nel corso della giornata di ieri, per ben due volte, Salvini aveva previsto il via libera ma lo scontro d’Aula, le proteste delle opposizioni, i ritardi della bollinatura del maxiemendamento, e chissà, forse anche le polemiche sulla prescrizione, hanno fatto slittare il voto ad oggi. Ma Salvini festeggia lo stesso: «Con questo decreto si sarà più seri, più europei, più rigorosi e selettivi, per me è motivo di vanto». Per tutta la giornata Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno e braccio destro del ministro, ha seguito con attenzione il complicato iter del provvedimento. Da giorni si parlava di fiducia, strumento largamente abusato da tutti i governi di questo ciclo liberista e iperliberista. I senatori di Forza Italia hanno adottato una forma inedita di protesta: al momento del voto nominale, passando sotto il banco della Presidenza hanno recitato questa formula: «Sono presente ma non voto». I senatori forzisti (come i post-fascisti di Meloni) vogliono così evidenziare il loro dissenso al governo, ma non al decreto che avrebbero approvato, se non ci fosse stata la fiducia. Scontata l’uscita dall’emiciclo dei quattro 5S cosiddetti ribelli.
«Il gruppo di Liberi e Uguali voterà no a questa fiducia chiesta dal Governo – dice in aula la capogruppo di LeU Loredana De Petris nelle dichiarazioni di voto – voi con l’eliminazione della protezione umanitaria, con la riduzione del sistema di accoglienza, con l’induzione alla irregolarità e clandestinità non produrrete più legalità, state spingendo migliaia di persone verso un limbo di illegalità». E denuncia «la violazione sistematica dell’articolo 3 della Costituzione che è l’architrave perché riconosce l’uguaglianza» e anche «l’articolo 10» che conforma l’Italia alle leggi internazionali. Inoltre rivolta alla Lega: «Avete l’interesse personale di voler aumentare le pulsioni antirazziste in questo Paese». «Voterò contro il decreto Salvini e vi spiego brevemente il perché. Dovrebbe risolvere il problema dell’immigrazione, ma lo complica», scrive Pietro Grasso, senatore di LeU, in un post su facebook: «Negare la protezione umanitaria trasformerà decine di migliaia di immigrati regolari in clandestini. Potenzia le forze dell’ordine, ma su giustizia e contrasto alla mafia si fanno passi indietro. Lo scandalo, ad esempio, non è la vendita dei beni confiscati ma che il ricavato non sia interamente destinato a progetti di utilità sociale. E il Senato è ostaggio delle liti della maggioranza».
Nel corso della discussione alla prima Commissione Affari costituzionali, gli emendamenti Anci riguardanti l’immigrazione non sono stati accolti mentre tra gli emendamenti del governo accolti, i comuni segnalano in particolare quello che abolisce di fatto i riferimenti alle linee guida dello Sprar e alla presentazione della domanda di contributo, ridimensionando ulteriormente il Sistema.
«Il rischio è quello che si riduca la qualità degli standard di accoglienza dei progetti Sprar e l’entità del contributo ai progetti, abbassando quindi la quantità di servizi che possono essere offerti ai beneficiari, rischiando di omologare i servizi Sprar a quelli erogati nei Cas».
Ricapitolando i contenuti: si va dall’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari (sostituito da permessi speciali temporanei, prolungati per motivi sanitari) all’allungamento da 3 a 6 mesi del trattenimento nei Centri per i rimpatri; dalla possibilità di trattenere gli stranieri da espellere anche in strutture della pubblica sicurezza, dilatando la possibilità di abusi in divisa, in caso di indisponibilità dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), alla possibilità di revocare la cittadinanza italiana per “terrorismo”. Nel maxiemendamento che ha sostituito il testo ci sono novità tra l’altro sulla videosorveglianza, gli sgomberi degli immobili occupati abusivamente, il Fondo per la sicurezza urbana, l’utilizzo dei droni. Il procuratore antimafia userà la polizia penitenziarie per raccogliere informazioni nelle carceri. Ma il fulcro è sui richiedenti asilo: per quelli che compiono gravi reati è prevista la sospensione dell’esame della domanda di protezione ed è possibile l’obbligo di lasciare il territorio nazionale. In caso di condanna in primo grado è previsto che il questore ne dia tempestiva comunicazione alla Commissione territoriale competente, «che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotta contestuale decisione». Il decreto riserva esclusivamente ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati i progetti di integrazione ed inclusione sociale previsti dallo Sprar (Sistema protezione e richiedenti asilo e rifugiati). Questi ultimi, la cosiddetta accoglienza diffusa nei Comuni, sono ridimensionati. I richiedenti asilo troveranno invece accoglienza nei Cara. Ci sono poi tutta una serie di altre misure, dal taser (la pistola elettrica) anche ai vigili urbani alla stretta sui noleggi di auto e furgoni per evitare che vengano usati dai jihadisti contro la folla, come avvenuto a Nizza, Londra e Berlino. Inoltre un Daspo urbano più severo. Si stanziano quasi 360 milioni fino al 2025 per «contingenti e straordinarie esigenze» di Polizia e Vigili del fuoco «per l’acquisto e potenziamento dei sistemi informativi per il contrasto del terrorismo internazionale», compreso il rafforzamento dei nuclei Nbcr (nucleare, biologico, chimico e radiologico). Dei 360 milioni, 267 sono per la pubblica sicurezza e 92 per i pompieri. I Comuni con più di 100 mila abitanti potranno dotare 2 poliziotti municipali di taser in via sperimentale per un periodo di sei mesi. I poliziotti locali, inoltre, se «addetti ai servizi di polizia stradale» e «in possesso della qualifica di agente di pubblica sicurezza» possono accedere al Centro elaborazione dati (Ced) delle forze di polizia. Il decreto amplia le zone dove può scattare il Daspo urbano, includendo i «presidi sanitari», le zone di particolare interesse turistico, le «aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati pubblici spettacoli». Previsti anche il Daspo per coloro che sono indiziati per reati di terrorismo e una stretta sulle occupazioni. I blocchi stradali tornano ad essere sanzionati penalmente e non più in via amministrativa. E ancora, l’utilizzo del braccialetto elettronico sarà possibile anche nei confronti degli imputati dei reati di maltrattamento in famiglia e stalking. Infine il potenziamento dell’Agenzia per i beni confiscati. Il provvedimento ne consente la svendita, col rischio che tornino alle cosche, estende di ulteriori 70 unità la pianta organica dell’agenzia ed individua le aziende confiscate «di rilevante interesse socio-economico» che necessitano di supporto per il proseguimento dell’attività.

giovedì 8 novembre 2018

UN ANNO DALL'INDIPENDENZA UNILATERALE CATALANA,MADRID PRESENTA IL CONTO


Risultati immagini per condanne indipendentisti catalani
Sono passati poco più di dodici mesi dalla proclamazione di indipendenza unilaterale della Catalunya(madn e-repubblica ),mai accettata dalla Spagna e mai ufficializzata dall'Unione Europea,che Madrid sta chiedendo pesanti condanne per gli imputati al processo che vedono parecchi leader del movimento di autodeterminazione catalano alla sbarra.
Si parla di pesanti condanne che arrivano fino ai 25 anni per la guida di Esquerra Republicana Junqueras e altre di decine di anni oltre a multe,e che comprendono anche i vertici dei mossos d'esquadra(la polizia autonoma catalana),con accuse che vanno dalla ribellione al tradimento.
Nell'articolo di Marco Santopadre,uno dei più profondi ed attenti conoscitori della questione catalana,(contropiano.org/news/internazionale-news )tutto quello che c'è da sapere su questo momento storico di vendetta del governo spagnolo nei confronti di Barcellona oltre al nuovo profilo politico del governo iberico in un periodo d'ingovernabilità con le forze politiche basche e catalane che possono essere l'ago della bilancia per il futuro dell'esecutivo stesso.

Madrid chiede condanne tombali per gli indipendentisti catalani.

di  Marco Santopadre 
Entra nel vivo il processo contro i leader indipendentisti catalani e si manifesta quello spirito di vendetta nei confronti della dirigenza di Barcellona che ha contraddistinto l’operato degli organismi e delle istituzioni spagnole negli ultimi due anni.

Venerdì scorso la Procura Generale dello Stato guidata dalla ‘progressista’ Maria José Segarra (indicata dal governo socialista) ha infatti chiesto una raffica di condanne draconiane, per un totale di 210 anni di reclusione, nei confronti di 18 leader politici e sociali promotori del referendum per l’indipendenza del Primo Ottobre e della dichiarazione unilaterale di indipendenza del 27 ottobre 2017.

L’accusa ha chiesto 25 anni di carcere e l’inabilitazione per l’ex vicepresidente e leader di Esquerra Republicana Oriol Junqueras, 16 anni e l’inabilitazione per l’ex ‘ministro’ degli Interni Joaquim Forn e per altri quattro ex consiglieri del governo catalano: Josep Rull, Jordi Turull, Raül Romeva e Dolors Bassa.
 Il pubblico ministero accusa del gravissimo reato di ribellione anche l’ex leader dell’Assemblea Nazionale Catalana Jordi Sànchez e il presidente di Òmnium Cultural, Jordi Cuixart, e l’ex presidente del Parlament Carme Forcadell, e chiede per tutti loro una condanna a 17 anni di carcere e l’inabilitazione. La tesi accusatoria è che avrebbero incitato la popolazione a ribellarsi contro lo Stato e le forze dell’ordine. “Il piano secessionista contemplava – dicono i procuratori dello stato – l’utilizzo di tutti i mezzi necessari per raggiungere l’obiettivo, incluso, di fronte alla certezza che lo Stato non avrebbe accettato la situazione, l’uso della violenza necessaria per assicurare il risultato criminale preteso” anche attraverso l’utilizzo dei Mossos d’Esquadra, la polizia autonoma catalana che nelle settimane precedenti il voto venne commissariata e i cui vertici sono anch’essi sotto processo per il loro atteggiamento tollerante nei confronti di un referendum dichiarato illegale e duramente represso dalle istituzioni statali.

Per ovviare al fatto che il delitto di “ribellione” dovrebbe essere utilizzato soltanto contro i promotori di una protesta violenta (il che ha spinto la magistratura tedesca e di altri paesi dell’UE a respingere le richieste di estradizione dell’ex presidente Puigdemont e di altri esponenti catalani rifugiatisi all’estero), la Procura parla dell’uso di una “forza intimidatrice” esercitata attraverso le continue e massicce mobilitazioni promosse in particolare dalle due grandi associazioni indipendentiste, l’ANC e Òmnium. A riprova di questo “uso violento delle masse” la Procura cita il fatto che il presidente di Omnium Cultural, Jordi Cuixart chiese, ai manifestanti “la stessa determinazione mostrata durante la guerra civile attraverso l’uso dell’espressione ‘¡no pasarán!” nel corso delle proteste popolari contro l’ondata di arresti realizzati il 20 settembre dalle forze di sicurezza statali e dai militari.

Una pena di un anno e otto mesi di reclusione, l’inabilitazione e una multa di 30 mila euro vengono richieste dalla Procura dello Stato nei confronti dei componenti della Presidenza del Parlament sciolto d’autorità dal governo centrale dopo la proclamazione d’indipendenza. Lluís Corominas, Anna Simó, Lluís Guinó, Joan Josep Nuet e Ramona Barrufet sono accusati di disobbedienza per aver messo in votazione o permesso la discussione di provvedimenti legislativi sospesi dal Tribunale Costituzionale. Analoga richiesta nei confronti dell’ex deputata della CUP (sinistra indipendentista) Mireia Boya.

Un’altra tranche del processo riguarda i vertici della polizia autonoma catalana. La Procura dell’Audiencia Nacional di Madrid ha chiesto 11 anni di carcere per Josep Lluis Trapero, l’ex comandante dei Mossos, accusato anch’egli del delitto di ‘ribellione’. La stessa pena – fino a venerdì il reato contestato era quello di sedizione, meno grave – chiesta per l’ex direttore dei Mossos Pere Soler e per l’ex segretario generale del Dipartimento alla Sicurezza della Generalitat César Puig. Quattro anni vengono richiesti per l’intendente Teresa Laplana, accusata invece di ‘sedizione’. Anche in questo caso i fatti più gravi, insieme alla tolleranza dimostrata dai Mossos nei confronti del referendum illegale, risalirebbero alle manifestazioni di massa del 20 e 21 settembre, quando gli agenti della polizia autonoma avrebbero agito in complicità con i “capi della ribellione contro le legittime autorità statali”.

Alla fine del processo la Procura dovrà confermare il mantenimento o meno delle accuse rese note venerdì, il cui alleggerimento è stato invano chiesto da vari cattedratici di diritto e da alcuni esponenti politici. Nel caso di una conferma, i leader catalani sarebbero accusati di “ribellione” così come avvenne nel caso dei golpisti guidati nel 1981 dal colonnello della Guardia Civil, il fascista Tejero.
 Da parte sua l’Avvocatura Generale dello Stato ha comunicato che non accuserà i leader indipendentisti catalani di “ribellione” ma “solo” di sedizione e malversazione di fondi pubblici. L’organismo che difende gli interessi dello Stato ha comunque chiesto la condanna di Oriol Junqueras a 12 anni di reclusione, e pene inferiori per gli altri ex ministri dell’esecutivo catalano. Comunque una enorme sproporzione rispetto al fatto che oggetto del procedimento penale sono decisioni politiche adottate da esponenti politici ed istituzionali nell’esercizio delle loro funzioni e sostenuti da un’ampia maggioranza parlamentare (in territorio catalano, ovviamente) ma che hanno scatenando le ire dell’estrema destra spagnola (PP. Ciudadanos, Vox) oggi mobilitata nelle località basche di Pamplona e Altsasua per ‘sostenere le forze dell’ordine’ in quella che appare l’ennesima provocazione nazionalista spagnola.

Il fatto che a governare a Madrid da alcuni mesi siano i socialisti, sostenuti da Podemos, e non più la destra postfranchista, non sembra cambiare molto gli equilibri, dimostrando per l’ennesima volta che il problema della Spagna non è il Partito Popolare ma il “regime del ’78” (il sistema politico, istituzionale e ideologico partorito dal processo di autoriforma del franchismo) nel suo complesso.

Le accuse dell’avvocatura dello Stato, pur meno ingenti di quelle della Procura, sembrano esplicitare la posizione di un esecutivo socialista che non può e non vuole rinunciare a considerare le rivendicazioni catalane una questione di ordine pubblico piuttosto che una richiesta politica da affrontare e risolvere attraverso il negoziato.

La posizione del governo e degli organi giudiziari da esso dipendenti potrebbe chiudere definitivamente la strada all’approvazione della legge di bilancio varato dal PSOE e da Podemos. Le due formazioni non hanno infatti la maggioranza in Parlamento e almeno per quanto riguarda il Congresso i voti dei partiti baschi e catalani sono fondamentali. Ma né ERC né il PdeCAT del President Torra potranno facilmente tenere in piedi Sanchez in mancanza di una inversione di rotta sul tema dei prigionieri politici. Al Senato saldamente in mano al Partito Popolare (149 seggi su 266 totali) l’asse PSOE-Podemos non ha invece alcuna speranza di affermarsi. Da questo punto di vista la bozza di Finanziaria varata dall’esecutivo Sanchez e contenente alcune misure economiche e sociali in controtendenza con la logica dell’austerity e dei sacrifici a senso unico degli ultimi dieci anni potrebbe essere letta come un bluff. Il provvedimento si troverebbe la strada sbarrata ma concederebbe alle due formazioni attualmente al governo di potersi presentare alla prossima tornata con un “ci abbiamo provato”, nella speranza di aumentare i propri consensi.

Ma tutti gli istituti demoscopici indicano che la più o meno consistente ascesa dei socialisti avverrà a scapito di Podemos, con una parte dell’elettorato del movimento guidato da Iglesias che tornerà alla casa madre socialista. Nel campo avverso si registra una sfrenata competizione tra il Partito Popolare, in discesa netta, e l’altro movimento liberista e nazionalista Ciudadanos, che invece dovrebbe aumentare nettamente il proprio peso. Ma anche qui il saldo sembra essere vicino alla zero: i voti persi dal PP andrebbero quasi tutti a C’s, e per la prima volta un partito esplicitamente neofascista come Vox potrebbe ottenere abbastanza voti da fare il suo ingresso alle Cortes. E questo nonostante il netto spostamento a destra del Partito Popolare, guidato ora da quel Pablo Casado che rappresenta le pulsioni più reazionarie della formazione nata dall’ala dura del franchismo, quella che alla fine degli anni ’70 rifiutò la cosiddetta “Reforma”.

Un generale spostamento a destra, in senso nazionalista, liberista e autoritario, del panorama politico spagnolo, che i socialisti non sembrano in grado di controbilanciare, e che potrebbe costringere le attualmente disorientate e sparpagliate formazioni catalane a ricompattarsi di fronte alla mancanza di un qualsiasi spiraglio di trattativa da parte dello Stato e delle sue istituzioni.

mercoledì 7 novembre 2018

TUTTI FELICI PER LE ELEZIONI DI META' MANDATO USA


Risultati immagini per midterm elections 2018
Le elezioni di metà mandato statunitensi non hanno visto la tanto prevista e in certi casi auspicata netta vittoria dei democratici che però hanno riconquistato la Camera dei Deputati mentre i repubblicani si sono tenuti anche con un certo aumento il Senato,ma questo scenario potrebbe mettere lo stesso in difficoltà Trump sia a livello personale che politico.
Nel primo contributo(contropiano internazionale-news )c'è più una geografia del voto,sottolineando il fatto che gli stati dell'Ovest devono ancora essere conteggiati ma comunque senza grosse sorprese finali,e la puntualizzazione che si sono votati anche diversi governatori oltre che tutti i deputati e un terzo dei senatori.
Nel secondo(infoaut midterm-usa-nessuna-sorpresa )una sorta di commento disilluso nel quale tutti gioiscono,un poco come accaduto nelle ultime elezioni italiane dove anche chi prende batoste è felice lo stesso di non averne prese troppe,e le rivalse legittime dei democratici che ora hanno i mezzi per indagare Trump per tutte le situazioni fumose nelle quali è implicato.

Usa. I Democratici si riprendono la Camera. Boom di elette, ma l’onda anti Trump non sfonda.

di  Rino Condemi 
Negli Stati Uniti procede il conteggio per le elezioni di metà mandato, ma dai dati è ormai certo che i Democratici Usa hanno riconquistato la Camera dei Deputati, mentre il Senato resta in mani repubblicane. Per Trump si tratta di un primo serio rovescio dopo che fino ad oggi aveva potuto godere dell’appoggio di entrambe le camere del Congresso Usa.

I Democratici ora sono in grado di bloccare i progetti di legge a firma repubblicana e di tenere il presidente sulla graticola con indagini sulle sue zone grige finanziarie e sulle interferenze russe nelle elezioni 2016. Non è escluso inoltre che possano lanciare un procedimento di impeachment.

Con le elezioni di medio termine erano in gioco i 435 seggi della Camera (dove il mandato ha durata biennale) e 35 dei 100 seggi del Senato (dove invece si resta in carica sei anni. Due di questi seggi, però, saranno occupati solo per due anni perché si tratta di elezioni speciali, necessarie per le dimissioni dei senatori in carica. Inoltre 36 Stati su 50 hanno votato anche per eleggere il proprio governatore.

I risultati mostrano che i Democratici hanno conquistato seggi in circoscrizioni repubblicane in Colorado, Florida, Kansas, Minnesota, New Jersey, Pennsylvania, Texas e Virginia. I Repubblicani hanno mantenuto (anzi lievemente incrementato) la maggioranza al Senato e vinto di stretta misura alcune sfide individuali per i governatori, come in Florida.

Alla Camera dei rappresentanti si è avuto il numero più alto di candidate elette. Anche la deputata più giovane del Congresso è una donna. Alexandria Ocasio-Cortez, con i suoi 29 anni, sarà la più giovane rappresentante del parlamento americano nella storia. I media italiani sottolineano soltanto questo dato “esteriore”, ma omettono di spiegare in cosa consista la sua “agenda radicale”, con cui ha conquistato il Bronx e New York: il socialismo. Declinato all’americana, ovviamente, come fa Bernie Sanders (per l’ennesima volta rieletto nel Vermont), ma si tratta pur sempre dello sdoganamento ufficiale di una parola – e un immaginario politico – fin qui assolutamente vietato e maledetto negli Stati Uniti.

Tra gli scranni siederanno per la prima volta due rappresentanti native americane: Sharice Davids e Debra Haaland.

Veronica Escobar e Sylvia Garcia, entrambe democratiche, saranno le prime ispaniche a rappresentare alla Camera lo stato del Texas.

Nei sondaggi prelettorali si era ventilata l’impressione di una “ondata blu” dei Democratici. I dati mostrano un risultato parziale. La Camera è stata riconquistata ma l’ondata blu non c’è stata.

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Midterm USA: nessuna sorpresa.

Prime considerazioni sul voto americano di midterm.

I Democratici hanno riconquistato la maggioranza alla Camera, mentre i Repubblicani hanno mantenuto quella al Senato. E' questo il risultato delle elezioni di midterm americane, più importanti di altre volte poiché test sulla presidenza Trump a due anni dalla sua per molti inaspettata elezione.

I democratici avranno il controllo dei lavori dell'assemblea legislativa e potranno eventualmente anche avviare ( ma non concludere, causa mancata maggioranza al Senato ) le procedure di impeachment verso Trump. Quest'ultimo manterrà però il potere di nomina di alcuni ruoli-chiave in ambito governativo, come ad esempio la Corte Suprema dove recentemente è stato eletto Brett Kavanaugh nonostante le accuse di violenza sessuale che gli erano state rivolte da una donna in un dibattimento che è stato tra gli elementi più discussi della campagna elettorale.

Proprio questo è un primo dato: non c'è stata un'ondata di sostegno femminile ai Democratici, o quantomeno è stata fortemente limitata. L'elettorato femminile che ha votato Trump sembra averlo riconfermato, dimostrando ancora una volta che l'economia domina sulle politiche identitarie al momento del voto. Le quote di sostegno ai Dem da parte di donne, giovani, minoranze etniche sono cresciute rispetto al 2016 ma non al punto di poter parlare di un vero e proprio processo mobilitativo.

E' proprio l'economia ad aver probabilmente assicurato a Trump i voti necessari: in questo momento i dati sulla disoccupazione sono ai minimi storici e per la finanza le cose non sono mai andate così bene in termini di profitti, a dieci anni dalla crisi globale. Il tycoon, che proprio sul riportare il lavoro in America ha costruito la sua vittoria del 2016 e questa campagna elettorale, ha puntato tutto su questo tema e sull'ostilità manifesta verso stati come la Cina e l'Iran, contro cui sono appena state reimposte le sanzioni cancellate nel 2015 con l'accordo sul nucleare.

Sul lungo periodo però, le previsioni sull'economia Usa sono fosche, sia per le conseguenze della guerra commerciale con la Cina, sia per gli effetti di lungo periodo dei tagli alle tasse per quanto riguarda il debito del paese, sia per i tagli al welfare per le fasce medio-basse della popolazione effettuati nei primi due anni di governo, che ne ridurranno probabilmente la propensione al consumo.

Su questo il fatto che uno Stato come il Michigan, che ospita la “Motor City” Detroit, sia tornato ai Dem può essere visto come un primo segnale della disillusione verso le politiche di Trump sul lavoro e sul ritorno della produzione manifatturiera negli Stati Uniti. Quella di Trump in questi due anni è stata una bolla in ambito economico che non è detto duri fino al 2020. Su questo dato probabilmente si giocherà la prossima campagna elettorale.

Inoltre la differente guida tra le due camere rallenterà l'azione di governo di Trump nei prossimi due anni, per quanto in passato chi si è trovato in questa situazione abbia sempre descritto gli avversari come “ostruzionisti” provando a scaricare la colpa dell'inazione. Dall'altra parte infatti molte figure del rinnovamento democratico hanno perso elezioni che si pensava potessero essere loro appannaggio in stati come ad esempio la Florida. E Trump senza dubbio è riuscito a mobilitare la sua base, assicurandosi la tenuta al Senato e evitando ogni prospettiva di “onda blu”.

Lo scenario sembra dunque non aver riservato nessuna particolare sorpresa, in un contesto globale dove da un lato l'ondata trumpiana prende forza con l'elezione di Bolsonaro in Brasile, dall'altro le convulsioni dei pro-Brexit iniziano a gettare luce sul consenso popolare alle dinamiche di isolazionismo e protezionismo. Prossima tornata elettorale rilevante per capire le tendenze a livello globale, le elezioni europee del 2019.