Nell'ultima settimana la lotta No Tav ha segnato passi importanti contro la devastazione e la militarizzazione della Val Susa,con i fatti relativi al presidio di San Didero e la spaventosa violenza poliziesca che ha provocato anche un grave ferimento ad una manifestante,con gli sbirri che hanno sparato lacrimogeni ad altezza delle persone durante un successivo concentramento per portare solidarietà ai manifestanti che resistono su di un tetto.
Il nemico interno.
di Alexik
Nella storia giudiziaria del movimento No TAV, l’esempio più eclatante di “sovra-dimensionamento del fatto di reato“, è sicuramente quello relativo al cd “processo del compressore”, che vide nel 2013 quattro militanti No TAV accusati di terrorismo a fronte del danneggiamento di un mezzo di cantiere. Ma anche nel “processo del casello”, la dismisura dell’imputazione salta agli occhi, nel definire “violenza” il fatto di incanalare gli automobilisti verso un varco aperto, o attribuire l’interruzione di pubblico servizio in assenza di un blocco della circolazione disposto dai manifestanti. L’incriminazione di Nicoletta, che davanti a quel casello non aveva fatto altro che reggere uno striscione, di Dana, che non aveva fatto altro che parlare al megafono, di Stella – oggi ai domiciliari – che distribuiva volantini, si è articolata grazie all’utilizzo del concorso di persone, una modalità per attribuire qualsiasi reato commesso durante una manifestazione non solo, e non tanto, all’eventuale artefice ma alla generalità dei presenti. Una modalità di uso molto frequente per i processi No TAV
[La sera di lunedì 12 aprile, in pieno coprifuoco, oltre 1000 agenti antisommossa con idranti e lacrimogeni hanno scortato le ruspe fino ai terreni dell’ex autoporto di San Didero, caricando il presidio No TAV che da mesi occupa quest’area boschiva per impedire la costruzione di un ulteriore ecomostro.
Da allora in questa parte della Valsusa vige un sostanziale stato d’assedio, con una massiccia presenza poliziesca che in questi giorni si è distinta per le cariche sui manifestanti, l’uso dei gas fin dentro il paese di San Didero, l’incendio di una macchina di una attivista No TAV, lo spargimento nei campi di cartucce di lacrimogeni inesplose, lo schieramento di truppe per impedire l’apertura del mercato cittadino.
Tutta questa violenza è finalizzata a proteggere il cantiere per la costruzione di un nuovo autoporto, un’opera funzionale al progetto complessivo del TAV Torino/Lione, irrazionale rispetto alle sue funzioni dichiarate e foriera di un impatto ambientale pesante e permanente sugli abitati vicini (qui i dettagli).
Nel pomeriggio di ieri il movimento No TAV ha risposto con migliaia di persone, unite in un bellissimo corteo contro questa ulteriore aggressione.
Un corteo che ha espresso tutto il suo caloroso affetto alle compagne e ai compagni che non hanno potuto parteciparvi perché privati della libertà personale. A loro dedichiamo l’articolo che segue.]
Da giovedì scorso Dana è finalmente a casa, anche se non è ancora libera. Il processo che ha portato alla sua carcerazione, oltre a quella di Fabiola (che è ancora alle Vallette) e, prima ancora, di Nicoletta, riassume in sé ed estremizza alcune caratteristiche ricorrenti nella criminalizzazione giudiziaria del movimento No TAV.
I fatti all’origine delle loro condanne sono noti.
Il 3 marzo del 2012 circa 300 manifestanti occuparono per mezz’ora il casello dell’autostrada Torino-Bardonecchia all’altezza di Avigliana al grido di “OGGI PAGA MONTI”, per contestare sia la politica dei sacrifici voluta dal governo tecnico che la complicità della Sitaf (società gestrice dell’autostrada) con il progetto del TAV Torino/Lione.
In quell’occasione venne alzata la sbarra del casello permettendo agli automobilisti di uscire senza pagare il pedaggio, mentre si provvedeva ad un volantinaggio e speakeraggio per spiegare le motivazioni alla base della protesta.
Erano giorni di forti mobilitazioni, giorni in cui Luca Abbà lottava fra la vita e la morte dopo la folgorazione e la caduta da un traliccio dell’alta tensione in seguito all’inseguimento di un poliziotto.
La manifestazione al casello era una fra le tante di quel periodo, e si concluse defluendo senza nessun incidente o contatto con le forze di polizia. Il danno alla Sitaf per mancati introiti venne quantificato in 777,00 euro.
Per questo episodio puramente dimostrativo 12 compagn*, fra cui Dana, Fabiola e Nicoletta, sono stat* condannat* ad un totale di 18 anni di carcere con le accuse di violenza privata e interruzione aggravata di servizio di pubblica necessità, al termine di una vicenda processuale che può essere considerata emblematica della gestione penale della questione No TAV.
Alessandro Senaldi, nella sua analisi1 su 151 procedimenti penali contro il movimento (che abbiamo commentato nei capitoli precedenti) identifica, fra gli elementi ricorrenti nei processi, la tendenza al “sovra-dimensionamento del fatto di reato“, cioè l’attribuzione di imputazioni abnormi rispetto alla realtà dei fatti contestati.
“Nel materiale studiato è presente un sovra-dimensionamento del fatto di reato, operato principalmente attraverso due strade, per un verso, con una elefantiasi delle imputazioni, …. per un altro verso, utilizzando largamente gli istituti del concorso di persone e delle aggravanti. Tale sovra-dimensionamento produce alcuni importanti effetti dal punto di vista giuridico, infatti: permette alla procura di richiedere ed ottenere le misure cautelari, l’eventuale proroga delle indagini preliminari e l’uso di strumenti probatori invasivi e lesivi delle libertà individuali; rende praticamente impossibile il raggiungimento della prescrizione; comporta – rispetto a fatti analoghi – un indurimento delle pene comminate dai giudici”.
Nella storia giudiziaria del movimento No TAV, l’esempio più eclatante di “sovra-dimensionamento del fatto di reato“, è sicuramente quello relativo al cd “processo del compressore”, che vide nel 2013 quattro militanti No TAV accusati di terrorismo a fronte del danneggiamento di un mezzo di cantiere2.
Ma anche nel “processo del casello”, la dismisura dell’imputazione salta agli occhi, nel definire “violenza” il fatto di incanalare gli automobilisti verso un varco aperto, o attribuire l’interruzione di pubblico servizio in assenza di un blocco della circolazione disposto dai manifestanti.
L’incriminazione di Nicoletta, che davanti a quel casello non aveva fatto altro che reggere uno striscione, di Dana, che non aveva fatto altro che parlare al megafono, di Stella – oggi ai domiciliari – che distribuiva volantini, si è articolata grazie all’utilizzo del concorso di persone, una modalità per attribuire qualsiasi reato commesso durante una manifestazione non solo, e non tanto, all’eventuale artefice ma alla generalità dei presenti.
Una modalità di uso frequente per i processi No TAV, rilevata da Senaldi in più di un terzo dei procedimenti presi in esame nella sua indagine
“Una delle connotazioni della modernità, nel diritto, è il carattere personale della responsabilità penale, proclamato, nel nostro sistema, dal primo comma dell’art. 27 della Carta fondamentale…
Eppure, nei processi per fatti “di piazza” la tendenza a dilatare la responsabilità, con una sorta di proprietà transitiva, a tutti i partecipi a manifestazioni nel corso delle quali vengono commessi reati, pur in assenza di specifiche condotte individuali antigiuridiche e/o della prova di un previo accordo con gli autori dei delitti commessi, è un classico. Di ciò v’è ben più che una traccia nelle ordinanze cautelari emesse nei procedimenti valsusini per resistenza, violenza e lesioni”3.
L’uso abituale del concorso quale forma di punizione collettiva, così come il ripetersi di imputazioni abnormi, rafforza l’ipotesi, descritta da Xenia Chiaramonte4, di una sperimentazione da parte della Procura e del Tribunale di Torino di una giustizia funzionale alla sconfitta di un fenomeno, di “un diritto che si fa arma di lotta, al posto che strumento di garanzia“.
In pratica, di un “diritto penale di lotta” che, a differenza del “diritto penale del nemico”, basato sullo stato di eccezione, s’inscrive ancora dentro a una logica “normale”, mantenendone intatta la forma ma forzandone la sostanza.
La sentenza contro Dana e le altre compagne e compagni è una delle espressioni di questa continua forzatura, che si esprime anche nell’ammontare della condanna a due anni, laddove per la violenza privata si poteva tendere alla pena minima di 15 giorni.
Una scelta eloquente soprattutto se comparata ad altre decisioni dello stesso tribunale, molto meno severe davanti a differenti tipologie di imputati.
Due anni per Dana dopo una dimostrazione simbolica stridono parecchio, per esempio, a confronto con i quattro anni (sicuramente riducibili in appello) comminati dallo stesso tribunale al patron dell’Eternit Stephan Schmidheiney per la morte di due operai dello stabilimento di Cavagnolo, in seguito all’esposizione all’amianto5.
Al “diritto penale d’autore”, per il quale conta chi sei e non quello che fai, nel caso di Dana si è affiancato anche il “diritto penitenziario d’autore”, quando il tribunale di sorveglianza di Torino le ha negato, lo scorso settembre, le misure alternative al carcere, per quanto fosse incensurata e avesse un lavoro stabile, e nonostante la diffusione del COVID-19 alla Vallette.
Sorprendenti le motivazioni del rifiuto: la mancata presa di distanza di Dana dal Movimento No TAV e il fatto di abitare in Val di Susa.
“La lunga carriera militante della Lauriola è perdurata fino a epoca recentissima, dando prova della sua incrollabile fede negli ideali politici per i quali non ha mai esitato di porre in essere azioni contrarie alle norme penali … La collocazione geografica del domicilio del soggetto coincide con il territorio scelto come teatro di azione dal movimento No TAV“.
Motivazioni molto simili a quelle utilizzate, due anni fa, per negare le misure alternative a Luca Abbà, e che stanno sedimentando pessimi precedenti.
L’assurdità della condanna di Dana e della sua detenzione in carcere sono riuscite a smuovere un vasto movimento di opinione, che ha coinvolto giuristi, artisti solidali, associazioni, finanche Amnesty International, preoccupata per la tutela del diritto alla libera espressione pacifica del dissenso. Presa di posizione inimmaginabile fino a qualche anno fa, che rende l’idea della misura della contrazione degli spazi di agibilità politica in questo paese.
Forse di tale involuzione ce ne eravamo già accorti da un pezzo, ma è innegabile il fatto che il messaggio, sia che provenga dal ministero degli interni che dalla magistratura, diventi sempre più chiaro.
“Niente resterà impunito”, nemmeno un sit in gandhiano, qualora ci si ponga il problema di ostacolare veramente i progetti di devastazione sociale e dei territori. Tantomeno ora, alla vigilia della “rinascita della patria” a suon di grandi appalti ad altissimo impatto ambientale, in serbo nel prossimo Recovery Plan.
La strada per reagire a tutto questo, come al solito, ce la mostrano quei testardi valligiani: non lasciare indietro nessun*, non arrendersi, non farne passare una, mettere in conto le conseguenze giudiziarie del proprio agire, organizzarsi e trasformare, se capita, anche la carcerazione in un momento di mobilitazione e di lotta.Stampa, crea PDF o invia per email
1.Alessandro Senaldi, I dati dei processi contro i/le No Tav: un contributo al dibattito, in “Studi sulla questione criminale“, 17 dicembre 2020.
2.Xenia Chiaramonte, Bisogna davvero difendere la società? I processi penali a carico degli attivisti No Tav tra difesa sociale e difesa dello stato, Sociologia del diritto 2/2019, p. 163-189.
3.Livio Pepino, La Val Susa e il diritto penale del nemico, in Come si reprime un movimento. Il caso TAV. Analisi e materiali giudiziari, Intra Moenia, 2014.
4.Xenia Chiaramonte, Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No TAV, Meltemi, 2019
5.Sarah Martinenghi, Eternit, l’imprenditore Schmidheiny condannato a quattro anni di carcere per omicidio colposo, La Repubblica, 23 maggio 2019.
Fonte: Carmilla online, dove Alexik ha pubblicato anche le altre sette puntate che precedono questa de “Il nemico interno”