giovedì 25 marzo 2021

SANTE,BANDITO SENZA TEMPO

Negli scorsi giorni è morto Sante Notarnicola,persona prima che personaggio che ha indelebilmente segnato pagine sia di cronaca che di poesia e rivoluzioni a partire dagli anni sessanta,pugliese emigrato  Torino da ragazzo e da lì è nata la ribellione e la militanza comunista:assieme ad alcuni amici fece parte della banda Cavallaro cui ne seguì tutta la storia e le vicissitudini fino al carcere per quasi trent'anni.
Ed è proprio da qui che la sua lotta fece avere ai carcerati di un'intera nazione,avvezzi a pratiche di detenzione disumane,dei miglioramenti tangibili anche attraverso rivolte,e lui fu sballottato in tutta Italia nei decenni di reclusione,compreso un tentativo di fuga a Favignana.
Negli articoli presentati(contropiano sante-notarnicola-dal-vivo infoaut li/in-ricordo-di-sante-notarnicola-bandito-rivoluzionario-e-poeta )ricordi e cronache,sensazioni e pensieri a corollario di un uomo che ha pagato le conseguenze delle sue scelte e che ha saputo affermarsi e farsi amare in un contesto molto difficile da comprendere e da spiegare.
Lui che fu comunista,bandito e rivoluzionario,generoso e pronto sempre ad offrire il proprio aiuto,che trovò a fine detenzione con i domiciliari momenti di difficoltà e anche di riscatto e di confronto con una generazione che per forza di cose si era anestetizzata,e che per la maggior parte dei casi lo è tutt'ora,che guarda con nostalgia ai tempi passati e con speranza verso tempi di lotta e di ribellione futuri.

Sante Notarnicola, dal vivo.

di  Francesco Piccioni  

Non so da dove cominciare. Avevo, come tutti, divorato il suo libro L’evasione impossibile. E dopo aver letto pensavo di aver capito, se non proprio di conoscerlo. Ero giovane, a quel tempo. Non avevo molta esperienza da confrontare. E senza quella, è meglio stare zitti. Sempre, anche oggi.

Pochi anni dopo ero già uno “vecchio”, ossia uno che ne aveva passate parecchie, e dunque sapevo che tra il fare e il raccontare la differenza è tanta. E che, se sei una persona seria, le cose più importanti spesso ti restano nella penna.

Quando sono arrivato nelle carceri speciali, però, ho visto che anche l’essenziale era in qualche modo sgocciolato dalla penna di Sante. Sarà che l’Asinara era proprio come te l’aspettavi, dopo due traghetti e un’ora di viaggio in jeep verso Fornelli, al capo opposto di Cala d’Oliva. Tra un mare che non si vede da nessun’altra parte e facce da bruti in divisa. Senza manette, “perché tanto, ‘ndo vai?”

Nelle carceri speciali c’erano solo compagni arrestati per “cose serie”, come sempre divisi per gruppi organizzati differenti. Oppure “detenuti comuni” che erano in genere davvero fuori dal comune. A quel tempo le rapine erano affare di piccole “batterie”, gruppi di amici nati come noi nei quartieri e poi cresciuti insieme. I sequestri di persona avvenivano a decine, anche contemporaneamente, e chi li faceva – una volta preso – finiva lì, mica nella “casa circondariale” vicino casa. 

Tutta gente che pensava alla fuga, e ne era capace. Che “si pesava” per quel che aveva dimostrato di saper fare, non per le chiacchiere. Se non sai fare, stai zitto. E impari.

Pochi i mafiosi, e minori; pochi quelli della ‘ndrangheta. Ancora non erano diventati “nemici” da combattere. E anche di camorristi, nel 1980, non ce n’erano tantissimi. Niente spacciatori, nix papponi.

Tanti gruppi, tante “etiche”, tante appartenenze diverse. Sante viaggiava a un altro livello. Si era guadagnato negli anni il rispetto di tutti, a prescindere dal “reato” e dal “giro”.

L’epopea della “banda Cavallero” era finita da oltre un decennio. Ci aveva fatto un film Carlo Lizzani, a metà strada tra il riconoscimento e la condanna (neanche il Pci, allora, poteva ignorare che quei “banditi” erano nati a Mirafiori, tra i suoi militanti che sognavano la Rivoluzione). E non era già più il tempo in cui qualche attrice famosa “chiedeva i colloqui” per conoscerlo.

Non era per quello che tutti lo salutavano. Era quello che aveva fatto dentro il carcere che girava di bocca in bocca, di generazione in generazione di detenuti. Grandi e piccole cose, magari solo la certezza che – se arrivavi a tarda sera, dopo cena, dove c’era lui – ti sarebbe arrivato un piatto di pasta, un caffè, qualche sigaretta. Sei qui, sei dei nostri, non sei solo in mezzo alle guardie. E non devi dare nulla in cambio.

C’era stato il periodo delle rivolte, quando “i dannati della terra” erano stati capaci di rivendicare una dignità che la “società perbene” negava loro. E lui era stato tra i maestri silenziosi, senza strepiti e “coatteria”. Seminava consapevolezza, coscienza, conoscenza, attenzione al vicino di cella, previsione delle mosse del nemico, cura nel racconto per far capire “fuori” cosa succedeva “dentro”. 

Aveva insegnato, insomma, a superare il “paradosso del prigioniero”, che porta all’isolamento e all’inazione; a scoprirsi simili in quella condizione, quindi con interessi comuni e diritti da rivendicare. Cose da fare insieme, costruendo fiducia reciproca nell’universo più individualista che c’è.

A lui, spesso, i detenuti affidavano le trattative rognose. Quelle da fare con i direttori e gli sbirri durante una rivolta. Quando devi essere calmo, lucido, sapere dove vuoi andare e capire “il nemico” cosa intende fare. “Piccolo grande uomo”, proprio come nel film di Arthur Penn…

Lo avevano chiamato, per questo, anche a Favignana, un’Asinara di Sicilia, con le celle nel fossato di un vecchio castello sulla collina. Un detenuto comune, uno qualsiasi che chissà cosa voleva, aveva “sequestrato” il giovane magistrato di sorveglianza con cui aveva “chiesto udienza”.

Erano anni strani, questi gesti avvenivano spesso, anche per obbiettivi individuali (un trasferimento più vicino casa, un colloquio negato, ecc). Ma i carabinieri di Dalla Chiesa a volte intervenivano quasi motu proprio, in quelle situazioni. Facendo strage “imparzialmente”, di detenuti e ostaggi. Senza remore, come ad Alessandria, nel 1974.

La “trattativa” da fare in quel caso era semplice ma definitiva. Bisognava convincere il detenuto a lasciar libero il magistrato, entro poco tempo. Le teste di cuoio stavano già scalpitando al portone d’ingresso.

Chiamarono Sante e non altri, perché solo da lui quel povero matto di prigioniero avrebbe potuto forse accettare un consiglio. E salvarsi la vita.

Sante lo convinse e a chi lo ringraziava – il direttore, qualche impiegato civile – rispose che lo aveva fatto solo perché gli interessava la vita del suo compagno di galera.

Lo ringraziò anche il magistrato, che sapeva quanto lui cosa sarebbe successo in caso contrario. Era destinato a una grande carriera, quel giovanissimo giudice, Giovanni Falcone…

La grandezza di Sante era nel saper stare da solo, se necessario, in un mondo dove è importante – spesso decisivo – “stare in gruppo”. Fuori da ogni organizzazione, “batteria”, gruppo omogeneo. Poteva parlare con tutti, e tutti lo ascoltavano. Restando ognuno quel che era, trovando il modo per farlo.

Era stato inserito nella lista dei 13 prigionieri di cui le Brigate Rosse, ad un certo punto, chiesero la libertà in cambio della vita di Aldo Moro. Un “grande”, insomma, di cui si parlava in ogni carcere d’Italia.

E lui scriveva poesie, quando la porta veniva chiusa sbattendo e le due mandate di serratura ti auguravano la buonanotte. Cercava di mantenere l’irrequietezza della vita tra muri di cemento armato. E ci riusciva.

Se le scambiava, nel cortile, con gli altri poeti prigionieri. Con Horst Fantazzini, Agrippino Costa, con chiunque provasse la stessa inquietudine.

Quando pubblicò la sua prima raccolta di versi, finì che una copia venne fatta arrivare a Primo Levi. Oggi un intellettuale “affermato”, che magari vale un’unghia dell’autore di “Se questo è un uomo”, griderebbe alla provocazione, chiamerebbe carabinieri e giornalisti per levarsi di dosso l’ombra del sospetto di una simpatia verso un prigioniero di quelle “dimensioni”.

Il partigiano che era sopravvissuto ad Aushwitz rispose. Apprezzando, commentando, consigliando, “entrando nel merito”. La grandezza si riconosce reciprocamente, a prima vista. Se hai visto certe cose, parli la stessa lingua. E non la può capire nessun altro.

Visse con noi, ex ragazzi di un’altra generazione, la nostra sconfitta, le divisioni, i tradimenti, le dissociazioni. In una “sezione” di carcere li vedevi trasformarsi di giorno in giorno, mutare lo sguardo, svuotare di vita gli occhi, assumere la postura di chi simula qualcosa che non è più. E poi una mattina, o una sera, venivano portati via, verso carceri più accoglienti. 

Quando comunque si scherzava, quasi ogni giorno, lo potevi sentir rivendicare il paese dov’era nato, Castellaneta, vicino Taranto. Perché c’era nato pure Rodolfo Valentino, e dunque…

Qualche anno dopo, nella solita alternanza tra periodi durissimi e momenti di “allentamento”, qualcuno decise che poteva cominciare ad uscire. Dopo “venti anni, otto mesi e un giorno”, come scrisse in una delle prime poesie da semilibero. Perché anche quel singolo giorno, lui, se lo ricordava.

Ci salutò, nello “speciale” di Cuneo, quasi scusandosi di lasciarci lì mentre lui andava a riveder le stelle e a dilatare finalmente gli occhi per raggiungere un orizzonte più lontano del muro di cinta. Noi gli facevamo festa, lo spingevamo fuori, “che cazzo stai a fare ancora qui?”. A parole, certo, ognuno dalla sua cella. Sante era libero, o quasi. 

Trovò un altro mondo. Tra sbirri in borghese che ne scrutavano ogni passo e compagni disperatamente ingenui, generosi e casinisti. Restò fuori da ogni “giro” organizzato, anche questa volta. Preferendo la libertà di parlare solo se voleva e come sapeva. Di raccontare per far sapere, non per indottrinare. Scegliendo gli amici con cura, per carattere e per prudenza. Non gli piaceva restare deluso dalle persone che accoglieva.

Preferì rischiare anche con il lavoro. Invece di restare nelle pieghe e nelle piaghe del “privato sociale”, delle cooperative più o meno dipendenti dalla mangiatoia del Pds-Pd o come si chiama adesso, aprì il Mutenye, pub del Pratello subito meta della compagneria bolognese. Un luogo dello spirito, finché ebbe le forze per stare dietro il bancone tutte le sere.

La sua militanza si concentrò sulla Storia e le storie. Non c’è stato professore decente, dalle sue parti, che non finisse a parlare con lui, a impostare una ricerca, un’idea. La Resistenza sui colli era stata dura, cruenta e dimenticata nel solito modo della “sinistra” di merda. Rendendola un’icona da tirar fuori una volta l’anno, facendo l’opposto per 364 giorni.

Mi portò, pochi anni fa – perché i meno vecchi di lui uscirono anche loro dopo “venti anni…” e più – ai Sabbioni, sull’orlo del piccolo abisso dove i nazisti avevano fucilato un mucchio di partigiani. Mi portò a Monte Sole, sulle colline di Marzabotto, a stare in silenzio in quel dannato cortile di una strage di massa, coi buchi delle pallottole ancora sui muri e la tomba di Giuseppe Dossetti davanti ai piedi.

A misurare l’enormità delle contraddizioni rivelate quel prete tra i fondatori della Democrazia Cristiana e persino presidente (un altro…), che era stato fascista e poi partigiano e alla fine aveva voluto essere seppellito lì.

La ricerca su Monte Sole si trova ancora, da qualche parte. Io la farei leggere a tanti…

Non so come finire. Una vita così lunga, ricca, faticosa, piena, un compagno e un amico… è quasi un’offesa rinchiuderla in così poche battute. Spero che non me vorrai. Tu sei più bravo a dire molto con poche parole. Ciao, Sante.

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IN RICORDO DI SANTE NOTARNICOLA. BANDITO, RIVOLUZIONARIO E POETA 

Lunedì 22 marzo 2021 è morto, a 82 anni, il compagno Sante Notarnicola. 

Bandito, rivoluzionario, poeta

Sante, nato a Castellaneta, provincia di Taranto, nel 1938, a soli 13 anni emigrò al nord, a Torino. “Venni dal Sud con la valigia di cartone”, scriverà lui stesso. Proletario immigrato dal mezzogiorno, a Torino svolse diversi lavori e frequentò le sezioni del PCI e della FIGC ma dalla politica istituzionale si allontanò presto, attratto piuttosto dalle idee dei gruppi della sinistra rivoluzionaria.

Nel 1963 incontra Pietro Cavallero e nel quartiere operaio della periferia torinese Barriera di Milano nasce il gruppo di rapinatori passato alla storia come Banda Cavallero. Cavallero, Sante Notarnicola e compagni – come spiegheranno loro stessi – non erano animati tanto dal problema della fame, ma dal desiderio di giustizia sociale. I loro punti di riferimento erano rivoluzionari, comunisti e anarchici, e banditi della storia. Con le rapine, la Banda Cavallero attaccava il potere borghese e capitalista. Per Sante e gli altri era un modo per combattere e sabotare un sistema ingiusto, prendendosi la ricchezza da esso sottratta ai proletari e alla povera gente, senza farsi sfruttare in fabbrica, in cantiere o in altri luoghi di lavoro.

Il 3 ottobre 1967 Sante Notarnicola e Pietro Cavallero furono arrestati. Durante la loro ultima rapina, il 25 settembre al Banco di Napoli a Milano, la Polizia era riuscita a intervenire prima della loro fuga. Ne nacque un inseguimento con sparatoria e il bilancio fu di 4 morti. Nel processo, che si svolse tra giugno e luglio del 1968, Sante Notarnicola (così come Pietro Cavallero) fu condannato all’ergastolo.

Per Sante è l’inizio di una nuova battaglia. Insieme agli altri detenuti, lotta contro le le dure condizioni carcerarie cui erano costretti riuscendo, attraverso alcune rivolte, a conquistare una serie di diritti fino ad allora negati: tra questi la possibilità di avere carta e matita per scrivere o detenere più di un libro in cella. In carcere fu attivo anche nella lotta sul decreto di amnistia per i detenuti politici incarcerati durante “l’autunno caldo” e poi contro l’introduzione delle carceri speciali e del regime carcerario del 41bis. Partecipò alla stagione delle rivolte che segnarono la storia carceraria italiana per tutto il periodo antecedente e successivo alla legge Gozzini. Nel novembre del 1976, con altri quattro detenuti, tenta di evadere dal carcere di Favignana attraverso un tunnel sotterraneo, che viene però scoperto dagli agenti. Nel 1978 fu il primo nella lista dei 13 nomi indicati dalle Brigate rosse come detenuti da liberare in cambio del rilascio del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro.

In prigione Sante ha studiato, scritto libri come il celebre “L’evasione impossibile”, pubblicato da Feltrinelli nel 1972, e raccolte di splendide poesie come “La nostalgia e la memoria” (1986).

Nel 1995 gli fu concessa la semi-libertà e durante il giorno, per cinque anni, gestì il pub Mutenye, a Bologna, dove si stabilì dal 2000 quando, giunto il fine pena, fu finalmente libero.

In questa trasmissione dedicata a Sante, il ricordo di Pinuccio, storico compagno dell’Autonomia bolognese e amico di Sante Notarnicola, e – soprattutto sulla sua produzione poetica e letteraria – di Cristiano Armati, compagno romano ed editore indipendente con RedStar Press e amico di Sante. Nel podcast anche le parole pronunciate da Sante a margine del funerale dell’amico e compagno Prospero Gallinari nel 2013, la lettura della poesia “I numeri” dell’attore Gian-Maria Volonté, le canzoni “La nostalgia e la memoria” di Assalti Frontali (con la voce dello stesso Sante), “Bandito senza tempo”, The Gang, “Omaggio a Sante” degli Onda Rossa Posse e un breve stralcio da “Quale ordine”, del rapper milanese Lord Bean. Ascolta o scarica.

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