Il profitto non è la giusta cura.
di Marco Bersani
Di numeri e statistiche inutili, durante la pandemia, ne continuano a circolare a bizzeffe. Se però si prova a mettere insieme qualche cifra che abbia un senso, la realtà di un anno di pandemia mostra una realtà abbastanza leggibile che ha elementi piuttosto precisi quanto drammatici. La produzione industriale, ad esempio, non se la cava affatto male, ben altra realtà raccontano il quasi mezzo milione di persone che hanno perso il lavoro e il milione intero di nuovi poveri. Pagano prezzi pesantissimi, che vanno dalla strage al profondo disagio psico-sociale: anziani, donne, adolescenti e bambini. Si continua ad alimentare, poi, una narrazione che colpevolizza i comportamenti individuali che, al netto di casi deprecabili ma quantitativamente insignificanti, sono stati additati come la ragione principale (o perfino unica) della diffusione del virus e della moltiplicazione delle sue varianti, indicando ogni volta l’untore di turno. Un anno dopo, possiamo prenderne atto e gridare che non sono i profitti delle imprese a determinare il benessere della società?
Dall’inizio della pandemia, e senza soluzione di continuità fra governo Conte e governo Draghi, le misure messe in atto per fronteggiarla hanno seguito sei precise traiettorie:
a) ridurre al minimo le restrizioni all’attività delle imprese, che, quasi ovunque, hanno continuato a produrre senza vincoli;
b) intervenire con sussidi, il 70% dei quali per sostenere le imprese stesse e il restante 30% per tamponare in qualche modo la disperazione sociale;
c) nessun intervento sul sistema sanitario, che ha continuato ad essere privo di ogni intervento territoriale e ad essere focalizzato sull’ospedalizzazione come risposta al bisogno di cura, determinandone la saturazione ad ogni nuova ondata di contagi;
d) nessun intervento sul sistema dei trasporti pubblici locali, che hanno continuato ad essere veicoli di contagio per le persone costrette ad utilizzarli;
e) focalizzazione delle scuole come problema, con la sostanziale chiusura per due anni scolastici di scuole superiori e università, e chiusure continue, in alcune regioni continuative, anche delle scuole dell’obbligo;
f) narrazione colpevolizzante dei comportamenti individuali, raccontati come la causa primaria di ogni aumento dei contagi.
La narrazione che sottende l’insieme di queste traiettorie si basa sull’idea che il benessere delle imprese determina il benessere della società e che, di conseguenza, quest’ultima deve adattarsi alle necessità delle stesse.
E’ una narrazione che, al di là di tatticismi politici contingenti, ha visto l’adesione di tutte le forze politiche, non a caso approdate al governo di unità nazionale.
Una domanda tuttavia sorge spontanea: c’è qualcuno che, a un anno distanza dall’arrivo dell’epidemia, ha l’onestà intellettuale di fare un bilancio serio sull’efficacia delle misure prese, a partire dal disastroso bilancio di oltre 105.000 morti (ad oggi) e da un trend di decessi giornalieri di 3-4 centinaia?
Non si direbbe. E, mentre l’eccellenza lombarda raggiunge quotidianamente nuovi traguardi di cinismo e ferocia, un commissario vestito da alpino annuncia fantasmagorici dati sui futuri vaccini e il ministro della salute cerca invano di corrispondere al suo cognome.
Se questo è il quadro, alcune parole di verità sulle misure finora prese vanno dette, a partire da dati inequivocabili.
Partiamo dai dati sulle imprese che dimostrano, ancora una volta, come l’unica strategia che alberga in Confindustria sia il “chiagn’e fotte”. Secondo i dati di Eurostat (marzo 2021), la produzione industriale da dicembre scorso è in continua crescita, mentre il dato di gennaio 2021 è inferiore a quello di gennaio 2020 solo del 2,4%, un dato che assomiglia molto più a una normale oscillazione congiunturale che non all’esito di un anno di pandemia. E che spiega molto più di mille analisi perché nei distretti più industrializzati d’Europa -Bergamo e Brescia- la pandemia si sia trasformata in una carneficina.
Dunque l’industria, se non proprio bene, male non sta. Vale lo stesso per la società?
Non si direbbe proprio, a partire dal mercato del lavoro che, nonostante il blocco dei licenziamenti, nel 2020 ha registrato il record di 456mila posti di lavoro persi.
Un anno di pandemia porta con se un disastroso bilancio delle politiche
Nel frattempo la povertà ha fatto un balzo in avanti senza precedenti e, secondo i dati dell’Istat sul 2020, ha registrato un milione di nuovi poveri, che porta il totale delle persone in stato di profondo disagio a 5,6 milioni (una su dieci). Tra questi, 1 milione e 346mila sono bambini (209mila in più).
Facile intuire come la gran parte di questi effetti sia stata scaricata sulle donne, che sono le prime a perdere il posto di lavoro e a doversi far carico del lavoro di cura familiare in condizioni di isolamento e di fortissimo disagio economico, sociale, relazionale (come dimostra l’aumentato numero di violenze subite all’interno delle mura domestiche).
Nel frattempo, per poter permettere alle imprese di continuare indisturbate nella produzione, si sono prese di mira le scuole, additate a più riprese come i luoghi principali del contagio (e non come i luoghi del sicuro tracciamento dello stesso), consegnando un’intera generazione di giovani e bambini ad una vita sospesa davanti a un computer, priva di sogni e di socialità.
Anche su questo versante i dati sono più che allarmanti, con un aumento tra il 30 e il 40% del disagio psicosociale fra bambini e adolescenti.
In un anno di interventi, una generazione (gli anziani) è stata falcidiata, un’altra è stata consegnata all’isolamento e al disagio (infanzia e adolescenza), mentre l’insieme delle famiglie è stato costretto alla precarietà, scaricandone gli effetti in particolare sulle donne.
Tutto questo per evitare quello che avrebbe dovuto essere fatto già all’inizio: un vero, completo e molto più breve lockdown, a cui far seguire una strategia di tutela delle fasce più fragili della società, con un reddito di emergenza per tutti, investimenti massicci per una sanità pubblica e territoriale, per una scuola aperta e sicura, per trasporti locali degni.
Tutto questo avrebbe messo in discussione le priorità del modello economico-sociale in cui viviamo, mettendo al centro il prendersi cura al posto dei profitti, la coesione sociale al posto del “Bergamo is running”, l’interdipendenza fra le persone al posto della solitudine competitiva.
Proprio per evitare tutto questo, si è costruita e si continua ad alimentare una narrazione di colpevolizzazione dei comportamenti individuali che, al netto di casi deprecabili ma quantitativamente insignificanti, sono stati additati come la ragione unica della diffusione del virus e della moltiplicazione delle sue varianti, indicando ogni volta l’untore di turno.
Un anno dopo, possiamo prendere atto che non sono i profitti delle imprese a determinare il benessere della società?
Possiamo lasciar chiagnere Confindustria (è il suo mestiere) ma evitare per una volta di farci fottere? Possiamo dire che è l’economia a doversi mettere al servizio dell’ecologia e della società e non il contrario?
Possiamo scendere nelle piazze e urlare che non abbiamo bisogno di alcun Recovery Plan che rilanci l’esistente, ma di un Recovery PlanET per progettare assieme una diversa società?
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Il “tesoretto” di Anagni. Pronte da mesi milioni di dosi di vaccino AstraZeneca.
di Sergio Cararo
In Italia ci sono almeno 29 milioni di dosi del vaccino AstraZeneca. E non solo. Ci sono probabilmente anche quelli della Johnson&Johnson, e la produzione di vaccini AstaZeneca ad Anagni era cominciata già da ottobre 2020, anche senza il via libera dell’Ema.
Questi vaccini si trovano ad Anagni, in provincia di Frosinone, dentro lo stabilimento della Catalent, una multinazionale statunitense. E sono pronte per essere spedite all’estero, mentre le forniture dello stesso vaccini all’Italia scarseggiano.
Ma sono state scoperte dalle autorità italiane dopo una segnalazione della Commissione europea. In realtà l’esistenza di questo tesoretto di vaccini prodotti in Italia, ma destinati altrove, era stata segnalata già il 17 marzo sul Financial Times.
Non solo. Cercando meglio, si scopre che nello stabilimento della Catalent di Anagni, la produzione dei vaccini AstraZeneca era iniziata addirittura già ad ottobre 2020.
La Catalent, ..multinazionale Usa con sede a Somerset, nel New Jersey, nel 2019 ha acquistato lo stabilimento della ex Bristol di Anagni. Risulta però avere in Italia anche uno stabilimento ad Aprilia (provincia di Latina).
Fonti tedesche rivelano che nello stabilimento di Anagni è addirittura da ottobre 2020 che si stanno producendo i vaccini per AstraZeneca, anche quando il via libera dell’Agenzia Europea del Farmaco era ancora al di là da venire. Secondo una dirigente della stessa Catalent, la produzione era già stata avviata “confidando nell’idoneità del vaccino, sviluppato sulla base di meccanismi già studiati in passato”.
La Catalent è il principale fornitore globale di tecnologie avanzate di consegna, sviluppo e produzione di soluzioni per farmaci, farmaci biologici, terapie cellulari e geniche e prodotti per la salute dei consumatori; ha annunciato una partnership ampliata non solo con AstraZeneca ma anche con con Janssen Pharmaceutica NV e Janssen Pharmaceuticals, Inc., ossia due delle divisioni farmaceutiche della Janssen, proprietaria della Johnson & Johnson.
Per quest’ultima, la Catalent Biologics aumenterà in modo significativo la sua capacità di produzione per la fornitura commerciale su larga scala del vaccino Covid-19 proprio presso lo stabilimento di produzione di Anagni, compresi i processi di infialamento, ispezione, etichettatura e confezionamento delle fiale di vaccino.
La Catalent ha una trentina di stabilimenti produttivi nel mondo: negli Stati Uniti, in Europa (in Belgio, Germania, Francia, Svizzera, Italia e Gran Bretagna), in Asia (Giappone, Cina e Singapore) e in America Latina (Argentina, Brasile, Uruguay). Ha una capacità produttiva di 70 miliardi di dosi l’anno su una gamma di quasi 7mila prodotti. Dispone di una estesissima rete di distribuzione globale che hanno portato ad entrate fiscali di ben 2,5 miliardi di dollari nel 2018.
E’ venuto fuori che almeno due dei lotti di Astrazeneca individuati nella Catalent di Anagni sono partiti con destinazione Belgio. La successiva destinazione al momento è ignota.
Ad ammetterlo è stato in Parlamento lo stesso Presidente del Consiglio Draghi annunciando che i lotti di vaccini rimasti dentro lo stabilimento della Catalent sono adesso sotto sorveglianza. Le forze dell’ordine stazionano da ieri pomeriggio intorno allo stabilimento.
Lo stesso premier ha rivelato che “Sabato sera ricevo una telefonata della presidente della Commissione Ue su alcuni lotti che non tornavano nei conti della Commissione e che sarebbero stati giacenti presso lo stabilimento di Anagni”, dove vengono infialati i vaccini di AstraZeneca.
“Mi si suggeriva un’ispezione. La sera stessa ho chiamato il ministro Speranza, da cui dipendono i Nas, e i Nas sono andati immediatamente e la mattina successiva, dopo aver lavorato tutta la notte, hanno identificato dei lotti in eccesso che a quel punto sono stati bloccati. Due oggi sono stati spediti in Belgio, dove c’è la casa madre. Ma sono lì, da lì dove andranno non so, ma intanto la sorveglianza continua per i lotti rimanenti”.
La destinazione finale dei vaccini infialati e stoccati ad Anagni non è certo un fatto secondario perché – se diretti in Gran Bretagna – scatterebbe il blocco, dato che l’Unione Europea èora orientata a bloccare l’export di vaccini prodotti nei paesi membri al di fuori dalla Ue. Diverso sarebbe se la destinazione fosse davvero il Belgio cioè un paese dell’Unione.
Immediata la replica di AstraZeneca, secondo cui “Attualmente non sono pianificati export al di fuori dei paesi che aderiscono al piano COVAX. Ci sono 13 milioni di dosi di vaccino in attesa del controllo di qualità per essere poi spediti a COVAX come parte del nostro impegno per fornire milioni di dosi a paesi a basso reddito, il vaccino è stato prodotto fuori dalla Ue e poi portato allo stabilimento di Anagni per l’infialamento – scrive la multinazionale nella sua nota – Ci sono altre 16 milioni di dosi che sono pronte per essere spedite in Europa. Quasi 10 milioni di dosi saranno consegnate ai paesi Ue nell’ultima settimana di marzo. Non è corretto definire questo carico come scorta. La produzione del vaccino è un procedimento molto complesso che richiede tempo”.
Ma questo richiamo ai tempi lunghi, che AstraZeneca mette continuamente avanti, stride con il fatto che – ad esempio – la Catalent di Anagni ha una capacità produttiva di 70 miliardi di fiale o che la produzione dei vaccini fosse stata iniziata già ad ottobre 2020, prima ancora che l’EMA desse il via libera.
Queste “sinergie” tra multinazionali del farmaco – come quelle tra AstraZeneca, Catalent, Johnson&Johnson – possono poi contare su reti di distribuzione comuni con numeri da paura. Una perfetta macchina da profitto che però si intoppa e si arena solo quando deve in qualche modo fare “sinergia” con gli interessi collettivi.
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