Aumentano i “lavoratori poveri” in Europa. Avere un lavoro non basta più.
di Stefano Porcari
In dieci anni, dal 2010 al 2019 nell’Unione Europea i “lavoratori poveri” – o working poor – sono aumentati del 12%. Praticamente quasi un lavoratore europeo su dieci (9,4%) è sceso al di sotto della soglia di rischio povertà definita dall’Eurostat (cioé con redditi inferiori al 60% della media della popolazione).
Secondo una indagine dei sindacati europei, su dati Eurostat, in Italia i lavoratori considerati poveri sono passati dal 9,5% al 12,2% della popolazione lavorativa, con un aumento del 28%
I lavoratori poveri sono aumentati soprattutto in Ungheria (58%), Gran Bretagna (51%), Estonia (43%). Cresciuto di poco o nulla cioè l’1%, solo in Svezia e Austria.
La ricerca della “Benchmarking Working Europe 2020” della Ces, evidenzia che i più colpiti sono i lavoratori giovani, quelli immigrati e quelli con contratti a termine, anche se si sono registrati aumenti di working poor in ogni categoria di lavoratori, inclusi quelli che hanno un orario a tempo pieno e con contratto a tempo indeterminato.
Secondo lo studio, solo quattro Stati membri hanno salari minimi legali al di sopra della soglia salariale considerata a rischio di povertà.
Un anno fa il gruppo di ricerca “Working, Yet Poor (WorkYP)”, nel quadro del programma Horizon della Ue segnalava che uno dei problemi è anche la rilevazione della soglia di povertà in base ai salari minimi esistenti nei vari paesi europei.
La distribuzione della povertà sul lavoro, infatti differisce in modo sostanziale in Europa, sia a causa delle diverse dinamiche dei sistemi sociali, sia in conseguenza delle diverse politiche attuate dal singolo Stato membro. Le disparità regionali sono tali che per essere considerati lavoratori poveri in Romania bisogna guadagnare meno di 200 euro ma in Lussemburgo la soglia arriva a meno di 2000 euro mensili.
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