Il governo, per ora, porta a casa la pelle e il Mes a Bruxelles.
di Sergio Cararo
Nella votazione al Senato sull’adesione dell’Italia alla “riforma del Mes” (sic!) l’asticella dei voti a favore si è fermata a 156 sì. Non era necessario arrivare a 161, ma è comunque di un segnale. Il rischio è che nei prossimi passaggi decisivi, a partire dalla legge di bilancio, potrebbe non esserci una vera maggioranza politica al Senato.
Unica consolazione è che la ratifica della riforma del Mes secondo quanto si apprende non avverrà in Parlamento prima di marzo, dando così tempo per le rese dei conti al M5S verso i parlamentari che hanno mantenuto il loro dissenso dall’ennesimo trattato-garrota che la Ue vuole imporre all’Italia.
Sarà interessante verificare nei prossimi mesi se il No al Mes potrà diventare una iniziativa politica più significativa di una semplice opposizione parlamentare.
Con il voto favorevole di Camera e Senato alla cosiddetta “riforma del Mes”, Conte deve ora affrontare la discussione sul bilancio europeo portando in dote lo scampato pericolo, ma sapendo bene che le fibrillazioni interne sul Recovery Fund sono destinate a durare. Su queste è saltato ieri il Consiglio dei Ministri e non è previsto un chiarimento neanche in prossimità del ritorno del premier dal Consiglio Europeo.
Ma i fratelli coltelli dentro la maggioranza di governo ormai non si limitano solo a Renzi e ai renziani. Si capisce che la posta in gioco – decine e decine di miliardi di finanziamenti europei – ha scatenato gli spiriti animali di tutte le cordate economiche/finanziarie, a livello nazionale e locale, che premono per poter partecipare alla spartizione del malloppo.
Lo fa intendere bene il capogruppo Pd alla Camera Delrio quando pretende che “Conte sia umile come Papa Francesco. Ascolti parti sociali ed enti locali e non commissari il Parlamento”. La traduzione è che i soldi del Recovery Plan vanno accuratamente concertati e spartiti con Confindustria, Regioni, Città metropolitane, Terzo Settore e Cgil Cisl Uil.
Ma se il capogruppo Pd alla Camera cerca di imbrigliare Conte, quello al Senato, Zanda, addirittura plaude in aula a Renzi che ha lanciato una sorta di ultimatum al Presidente del Consiglio., raccogliendo gli applausi anche dal centro-destra con cui, da tempo, c’è una affinità elettiva mai celata.
Intanto oggi Conte ha potuto di fatto usufruire di una sorta di “quotidiano a reti unificate”. Interviste e servizi comparsi nello stesso giorno su Corriere della Sera, La Stampa e la Repubblica.
Nell’ intervista con il Corriere della Sera Conte ha affermato che: “Non mi spaventa il confronto tra alleati, l’importante è che la dialettica si traduca in ricchezza di idee, non in sterili polemiche”. E poi ha assicurato che: “Sul Recovery Plan abbiamo appena iniziato a discutere, avendo bene in mente gli obiettivi di funzionalità e semplificazione” anche perché, riferendosi ai contestati consulenti della task force “non c’è scritto da nessuna parte quanti dovranno essere”. Per Conte però serve una struttura che assicuri il monitoraggio dei cantieri e il rispetto dei tempi e per questo si farà un apposito decreto legge.
Sullo stesso tema, in una intervista a La Stampa, Conte ha affermato che sulla task force “Nel testo della norma non c’è scritto da nessuna parte che ci saranno 300 consulenti” e che anche se “la struttura di governance è stata concepita come molto snella, i responsabili di missione ci saranno” e “non avranno poteri espropriati dalle amministrazioni centrali o locali”.
Infine in retroscena su La Repubblica, sempre Conte ha avvertito che nella partita in ballo non vince o perde lui, ma “vince o perde l’Italia”, di fronte all’Europa, “che aveva pregiudizi verso di noi e che li sta superando” e si è detto disponibile a “trattare” per salvare il governo.
Insomma non è un mistero che ormai sono in molti che vorrebbero far saltare Conte e sostituirlo con un premier di maggiore fede eurosubordinata e maggiore predisposizione alla concertazione/spartizione politica. I fratelli coltelli abbondano sia nelle aule parlamentari sia nei corridoi di Palazzo Chigi che nelle redazioni di giornali e Tg.
Deve suonare come un monito l’affermazione del capogruppo del Pd alla Camera Delrio secondo cui: “Il Pd è entrato nel governo per recuperare la vocazione europeista. Se ci fosse uno stop sul percorso che noi riteniamo fondamentale e che tanti benefici ha portato al Paese, non avrebbe più senso portare avanti questa esperienza”.
Ma mentre leggiamo le parole di Delrio, e la negativa ipoteca che rappresentano, la mente va a quello che la Commissione europea è tornata a pretendere dalla Spagna alle prese, come gli altri paesi, con l’emergenza pandemica e la crisi sociale che ne deriva: abbassamento delle pensioni e totale precarizzazione del mercato del lavoro.
Ma non ci avevano raccontato che la pandemia avevo reso tutti più saggi, anche a Bruxelles, e messo uno stop alla logica dell’austerity?
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