In questo momento lo scopo principale degli addetti ai lavori è curare e tentare di arrivare ad un vaccino nel più breve termine per contrastare il Covid-19,ma anche scoprirne l'eziologia potrebbe contribuire in futuro a porre rimedi sempre più brevi a questo tipo di epidemie che a volte raggiungono lo status di pandemia.
Questo coronavirus così come le malattie epidemiologiche che hanno caratterizzato le più recenti epidemie virali(Sars,Mers,ebola,Hiv,etc.)hanno in comune la zoonosi,che è la possibilità di trasferire malattie degli animali all'uomo(maiali,galline,zecche,scimmie e dromedari,ora si pensa al binomio pangolino-pipistrello)e quando il genoma del virus riesce a modificarsi per trasmettersi da uomo a uomo la frittata è fatta.
Nei due articoli proposti(greenpeace il-coronavirus-e-il-nostro-futuro-prossimo e www.corriere.it/coronavirus-altre-epidemie )si prende spunto dagli studi riportati da Greenpeace e Wwf dove il legame tra ambiente,cambiamento sociale e climatico e le malattie virali sono in stretta correlazione,grazie sempre nella maggioranza dei casi proprio all'uomo che modifica habitat ed ecosistemi abbattendo barriere naturali mettendo in contatto animali selvatici portatori di malattie che potrebbero modificarsi ed essere trasmesse all'uomo.
Se poi quest'ultimo ne mangia le carni o utilizza parti di questi corpi per altri scopi anche pseudoscientifici più legati ad antiche credenze le possibilità di far nascere nuovi ceppi virali e con questi i relativi contagi,deve fare riflettere sulle future problematiche relative all'inquinamento e allo sfruttamento delle aree naturali,deforestazioni e altri sciacallaggi alla Terra.
Il coronavirus e il nostro futuro prossimo.
di Andrea Pinchera •
Come ormai quasi tutti gli esperti dicono, la pandemia di COVID-19, determinata dal coronavirus (o SARS-CoV-2), ha molto a che fare con l’ambiente e con le campagne di Greenpeace. Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di Genetica molecolare del CNR-IGM di Pavia, spiega per esempio che i fattori coinvolti nella crescente frequenza di epidemie degli ultimi decenni sono molteplici: «Cambiamenti climatici che modificano l’habitat dei vettori animali di questi virus, l’intrusione umana in un numero di ecosistemi vergini sempre maggiore, la sovrappopolazione, la frequenza e rapidità di spostamenti delle persone».
È uno scenario che conosciamo bene, purtroppo. In un rapporto del 2007 sulla salute nel Ventunesimo secolo, l’Organizzazione mondiale della sanità – la stessa che pochi giorni ha definito ufficialmente quella del coronavirus una “pandemia” – avvertiva che il rischio di epidemie virali cresce in un mondo dove il delicato equilibrio tra uomo e microbi viene alterato da diversi fattori, tra i quali i cambiamenti del clima e degli ecosistemi. Altri coronavirus come SARS e MERS, e virus particolarmente gravi come HIV ed Ebola, sono lì a testimoniarlo.
Un campanello d’allarme
La diffusione di questi nuovi virus, in poche parole, sarebbe l’inevitabile risposta della natura all’assalto dell’uomo, come spiega la virologa Ilaria Capua, che dal 2016 dirige uno dei dipartimenti dell’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida: «Tre coronavirus in meno di vent’anni rappresentano un forte campanello di allarme. Sono fenomeni legati anche a cambiamenti dell’ecosistema: se l’ambiente viene stravolto, il virus si trova di fronte a ospiti nuovi».
In altre parole, distruggere la natura finisce quasi sempre per avere un impatto sulla nostra salute: «Se intervieni su un ecosistema e, nel caso, lo danneggi, questo troverà un nuovo equilibrio. Che spesso può avere conseguenze patologiche sugli esseri umani».
È un meccanismo che viene raccontato benissimo da David Quammen, l’autore di “Spillover. L’evoluzione delle pandemie”, saggio che in queste settimane è letteralmente andato a ruba in tutte le librerie italiane.
Lo cito parola per parola, da una intervista che ha appena concesso a Wired:
«Le ragioni per cui assisteremo ad altre crisi come questa nel futuro sono che
1) i nostri diversi ecosistemi naturali sono pieni di molte specie di animali, piante e altre creature, ognuna delle quali contiene in sé virus unici;
2) molti di questi virus, specialmente quelli presenti nei mammiferi selvatici, possono contagiare gli esseri umani;
3) stiamo invadendo e alterando questi ecosistemi con più decisione che mai, esponendoci dunque ai nuovi virus
4) quando un virus effettua uno “spillover” , un salto di specie da un portatore animale non-umano agli esseri umani, e si adatta alla trasmissione uomo-uomo, beh, quel virus ha vinto la lotteria: ora ha una popolazione di 7.7 miliardi di individui che vivono in alte densità demografiche, viaggiando in lungo e in largo, attraverso cui può diffondersi».
Se si presta bene attenzione, il rischio di “spillover” è grande quanto il globo. Nel caso del coronavirus, le ricerche si concentrano sulla giungla della Cina e sulle popolazioni di pipistrelli locali. Ma nei casi di epidemie recenti, il virus sarebbe stato trasmesso da altri animali selvatici: civetta delle palme, dromedari, primati. E i luoghi di origine sono associati ai deserti del Medio Oriente o alle foreste tropicali dell’Africa, così come nuove patologie possono emergere, ed emergono, tanto dall’Amazzonia quanto dalle foreste dell’Australia. Anche il micidiale virus Ebola sarebbe arrivato all’essere umano grazie a un salto di specie, e per quanto ancora l’origine non sia certa, gli scienziati sospettano sempre di più dei pipistrelli: che sono mammiferi come noi, ma volano.
Crisi climatica e virus antichi
Ma il rischio potenziale potrebbe anche essere più esteso, assumendo una “dimensione temporale”. Lo scioglimento di ghiacci e ghiacciai, infatti, potrebbe rilasciare virus molto antichi e pericolosi. Nel gennaio 2020, per esempio, un team di scienziati cinesi e statunitensi ha comunicato di avere rintracciato all’interno di campioni di ghiaccio di 15 mila anni fa, prelevati dall’Altopiano tibetano, ben 33 virus, 28 dei quali sconosciuti.
Tracce del virus della Spagnola sono state ritrovate congelate in Alaska, mentre frammenti di DNA del vaiolo sono riemersi dal permafrost nella Siberia nord-orientale. Proprio il permafrost rappresenta un ambiente perfetto per conservare batteri e virus, almeno fin quando non interviene il riscaldamento globale a liberarli. E che ciò possa avvenire lo testimonia un episodio dell’estate del 2016, quando – sempre in Siberia – l’antrace ha ucciso un adolescente e un migliaio di renne, oltre a infettare decine di persone.
Clima e infezioni viaggiano insieme. A evidenziarne il legame, per esempio, è il “Lancet Countdown Report 2019”, che associa i cambiamenti climatici proprio a un’aumentata diffusione delle patologie infettive: in un pianeta più caldo, virus, batteri, funghi, parassiti potrebbero trovare condizioni ideali per esplodere, diffondersi, ricombinarsi, con un aumento tanto della stagionalità quanto della diffusione geografica di molte malattie.
È un rischio che a Greenpeace abbiamo identificato per tempo: già nel “Rapporto Greenpeace sul riscaldamento della Terra” – che compie trent’anni tondi, essendo del 1990 – l’epidemiologo Andrew Haines, che successivamente sarebbe diventato direttore della London School of Hygiene & Tropical Medicine, avvertiva che tra gli effetti secondari dei cambiamenti climatici «la diffusione dei vettori di malattie dovrebbero essere causa di preoccupazione».
In poche parole, se per il coronavirus il meccanismo identificato dagli scienziati è quello di un salto di specie innescato dalla promiscuità con animali selvatici, amplificato dalla concentrazione di popolazione nelle megalopoli e trasportato dalla globalizzazione, la crisi climatica potrebbe offrire scenari ancora più pericolosi. Ovvero il riemergere dai ghiacci dei Poli o dai ghiacciai dell’Himalaya di virus che il loro “spillover” lo hanno effettuato in tempi remoti e che pensavamo di avere debellato per sempre. O, peggio ancora, di patologie che non conosciamo affatto.
Potere e responsabilità
Come sostiene David Quammen, insomma, «più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo». La soluzione? Può essere solo in un completo ripensamento della nostra relazione con la natura: proteggere la biodiversità, fermare la crisi climatica, frenare la distruzione delle foreste e ridurre il consumo di risorse. Ricorda qualcosa? Sono questioni da sempre al centro delle campagne di Greenpeace, e delle nostre comunicazioni.
Quando la pandemia di coronavirus sarà cessata, bisognerà intervenire sui fattori che l’hanno determinata. Senza operare quel meccanismo tipico di rimozione per il quale politici, giornalisti, opinione pubblica si riempiono della parola “clima” – per esempio – in presenza di uragani, alluvioni o incendi devastanti, salvo dimenticarsene un secondo dopo. Se ciò non avvenisse, se non si agisse sulle cause della diffusione di nuovi virus, che sono anche ambientali, continueremmo a vivere in una condizione di grave rischio potenziale.
Il perché lo spiega ancora Ilaria Capua: «Noi viviamo in un ambiente chiuso. Come se fossimo in un acquario. La nostra salute dipende per il 20 per cento dalla predisposizione genetica e per l’80 per cento dai fattori ambientali. La cura deve studiare, oltre all’organismo in questione, anche il contesto».
«Non possiamo uscire da questa situazione, da questo dilemma», ricorda Quammen: «Siamo parte della natura, di una natura che esiste su questo Pianeta e solo su questo. Siamo troppi, 7,7 miliardi di persone, e consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus».
In altri termini, possiamo dire che la specie umana ha preso da tempo il “comando delle operazioni” sulla Terra, sottomettendo la natura ad azioni spesso irreversibili; è diventata un “agente di trasformazione”, come una forza geologica, tanto che gli scienziati usano il termine “Antropocene” per definire l’epoca attuale.
Come sempre accade, a un potere quasi sconfinato – e distruttivo – bisogna sapere associare criteri di responsabilità altrettanto importanti, per evitare che l’impatto di tali trasformazioni sia devastante e si ritorca contro noi stessi. Mettendo a rischio la stessa specie umana. Non stiamo parlando del Pianeta, ma dei suoi abitanti. Di noi e dei nostri figli.
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Il nuovo studio
Coronavirus e altre epidemie: perché sono legate ai cambiamenti climatici e alla perdita di biodiversità.
C’è una relazione diretta tra le conseguenze dell’azione dell’uomo e la diffusione di malattie devastanti come l’attuale pandemia. Il report del Wwf sul «boomerang» della distruzione degli ecosistemi.
di Alessandro Sala
C’è uno stretto legame tra la perdita di biodiversità, i cambiamenti climatici, le alterazioni degli habitat naturali e la diffusione delle zoonosi, ovvero le malattie trasmesse dagli altri animali all’uomo e di cui anche l’attuale coronavirus che è diventato pandemia fa parte. E per capirlo basterebbe pensare al pangolino.Forse non tutti lo conoscono, soprattutto alle nostre latitudini, ma questo mammifero insettivoro che ha il corpo ricoperto da scaglie che assomigliano ad una corazza da samurai, è una delle specie più a rischio che esistano. Tutte le sue otto varianti sono considerate in via di estinzione dallo Iucn, l’Unione internazionale per la conservazione della natura, e la ragione di questo è da ricercare nel commercio illegale. Antiche credenze hanno fatto diventare questo curioso animaletto un ricercatissimo (e redditizio) oggetto del desiderio, sulla base della credenza anti-scientifica che le sue scaglie e la sua carne possano avere miracolosi poteri taumaturgici e afrodisiaci. Che c’entra dunque il pangolino? Secondo alcuni studi potrebbe essere stato proprio lui la specie «ospite» che ha consentito il transito del coronavirus dal pipistrello all’uomo.
Il report del Wwf
Non tutti gli studi sono concordi sul ruolo del pagolino come vettore, gli italiani del l’Univeristà Campus Bio-Medco di Roma tendono per esempio a scagionarlo. Ma sono state trovate corrispondenze tra il genoma del virus Sars-Cov-2 e quelle dei pangolini comprese tra l’85,5 e il 92,4% degli esemplari esaminati. E anche qualora non fosse lui il «taxi» che ha consentito il passaggio dal pipistrello all’uomo — il cosiddetto spillover raccontato anche nell’omonimo libro del 2012 di David Quammen — quello su cui tutti non hanno dubbi è il fatto che vi sia stato un transito della malattia dagli animali alla nostra specie e che questo sia avvenuto in ambiente urbano. Un passaggio che, sottolinea un report del Wwf pubblicato nei giorni scorsi — «Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi», a cura di Isabella Pratesi, Marco Galaverni e Marco Antonelli e con anche la consulenza scientifica di Gianfranco Bologna e Roberto Danovaro - è strettamente legato ai mutamenti di clima e ambiente causati dall’azione dell’uomo.
Barriere naturali
La tesi è molto semplice: le principali epidemie degli ultimi anni — Ebola, Sars, Mers, influenza aviaria o suina ma anche l’Hiv che causa l’Aids — sono di origine animale. E ad influire la loro diffusione è stata la riduzione delle barriere naturali che per secoli hanno creato un argine al contagio. Le foreste, per esempio, sono sempre state custodi di una vastissima biodiversità e la presenza contemporanea di tante specie animali differenti ha messo i virus di fronte al cosiddetto «effetto diluizione»: avendo la probabilità di attaccare anche specie non ricettive, i virus non trovano un ambiente fertile in cui propagarsi e di conseguenza si bloccano, si indeboliscono, si estinguono. La deforestazione finalizzata alla creazione di pascoli, alla produzione di legname e carta o all’avanzata delle aree urbane ha di fatto cancellato parte di questo «gregge» multiforme e multi-specie che come una sorta di prima linea permetteva di mantenere una maggiore distanza tra i virus che potremmo definire «selvatici» e l’essere umano. Il quale si è invece spinto sempre più, per esplorazione o caccia (anche a specie protette), all’interno delle stesse foreste pluviali, i principali scrigni di biodiversità del pianeta, aumentando i rischi di contagio.
Come se tutto ciò non bastasse, sempre l’uomo ha pensato bene di catturare specie animali selvatiche per farne cibo o per la realizzazione di prodotti derivanti da varie parti dei loro corpi. Del resto, sembra ormai assodato che l’origine dell’attuale coronavirus sia da ricercare nel mercato di animali vivi di Wuhan, uno dei tanti «wet market» cinesi in cui la fauna anche selvatica viene esposta viva e poi macellata al momento (il motivo è spesso la mancanza di frigoriferi o congelatori, che impedisce di mettere in vendita animali già morti). In questo modo si realizza uno spargimento di sangue che favorisce la trasmissione del virus da specie a specie. In ogni caso, che l’ospite sia stato il pangolino o che il contagio sia avvenuto direttamente tra pipistrello e uomo attraverso il sangue poco cambia: il dato di fatto è che all’origine del probabile contagio iniziale c’è una pratica, la vendita di fauna selvatica, che dovrebbe invece essere ostacolata su scala globale. E a dire il vero anche la Cina lo ha capito imponendo divieti a seguito del dilagare della Covid-19.
Bushmeat nel piatto
La carne di animali selvatici, la cosiddetta «bushmeat», viene spesso consumata da persone povere, che non hanno altre risorse alimentari e che per questo nelle zone rurali dei Paesi poveri o in via di sviluppo si adattano a considerare cibo specie che in Occidente mai e poi mai ci sogneremmo di considerare alimento, come per esempio le scimmie, catturate nella natura selvatica (da cui il termine bushmeat). Ma, evidenzia il Wwf, c’è anche un retaggio culturale che spinge famiglie di origine africana (ma anche di altre aree del Sud del pianeta) emigrate in aree urbane e diventate benestanti a chiedere, per il mantenimento di un legame con la tradizione del Paese di origine, questo tipo di carne, che diventa di conseguenza oggetto di commercio internazionale. La circolazione di animali, vivi o morti, provenienti dal cuore delle foreste pluviali contribuisce alla diffusione dei patogeni.
L’equilibrio violato
Insomma, la relazione diretta tra i comportamenti sbagliati dell’uomo, la perdita di habitat e foreste e la diffusione di malattie è abbastanza evidente. L’equilibrio che la natura era in grado di stabilire viene meno per effetto delle attività umane. Di qui anche il riferimento ai cambiamenti climatici: laddove non è la ricerca di nuovi spazi e nuovi terreni a cancellare direttamente le foreste, sono le nostre azioni indirette a farlo. Il rapporto del 2019 dell’Ipbes, il comitato internazionale e intergovernativo scienza-politica che per conto dell’Onu si occupa di biodiversità e ecosistemi, parla chiaro: il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% di quello marino sono stati modificati in modo significativo e circa 1 milione di specie animali e vegetali, come mai si era verificato fino ad oggi nella storia dell’umanità, sono a rischio estinzione. Dati che fanno il paio con quelli del Living Planet Report del Wwf del 2018, che spiega come in circa 40 anni il pianeta abbia perso in media il 60% delle popolazioni di invertebrati. E ancora, su tutto, va considerato che negli ultimi 50 anni la popolazione umana mondiale è raddoppiata, aumentando così il bisogno di risorse che ha portato ad un impoverimento delle risorse naturali e ad un aumento dell’inquinamento: i gas serra, per esempio, sono raddoppiati dal 1980 ad oggi e hanno contribuito fortemente all’ormai acclarato aumento di almeno un grado della temperatura media terrestre rispetto all’epoca preindustriale.
Tutte queste azioni scellerate da parte dell’uomo, che non possono più essere considerate inconsapevoli, hanno non soltanto dei costi umani ma anche dei costi economici notevoli. Basti pensare anche a quanto debbano oggi investire le economie mondiali per fare fronte ai contraccolpi dovuti alla pandemia in corso, che pure è solo agli inizi. «Ecco perché è fondamentale riuscire a proteggere gli ecosistemi naturali, conservare le aree incontaminate del pianeta, contrastare il consumo e il traffico di specie selvatiche, ricostruire gli equilibri degli ecostistemi danneggiati e anche frenare i cambiamenti climatici — commenta Donatella Bianchi, presidente del Wwf Italia —. Serve quello che abbiamo definito un New deal for nature and people, che permetta di dimezzare la nostra impronta sulla terra. Iniziare a ricostruire gli ecosistemi distrutti, che sono la rete di protezione naturale da epidemie e catastrofi, è il primo passo da fare». Anche perché, come recita la citazione di Quammen che apre il report, «là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro, come polvere che si alza dalle macerie».
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