martedì 31 marzo 2020
MANOLIS GLEZOS
La scomparsa del compagno greco Manolis Glezos è un momento per ricordare l'importanza della lotta partigiana di Resistenza che durante le occupazioni nel periodo della seconda guerra mondiale e nel periodo antecedente caratterizzarono numerose nazioni europee.
Durante il periodo del conflitto assieme all'amico Apostolos Santas fece un gesto che ebbe molta eco in tutti i movimenti di liberazione del nazifascismo,riuscirono a strappare via la bandiera nazista(la Germania occupò la Grecia nell'ottobre del 1940)sostituendola con quelle greca,e cominciò la lunga sequela di arresti e di torture in quel periodo.
Attivista comunista anche durante la successiva guerra civile e la dittatura dei colonnelli,fu più volte condannato a morte nella sua vita ma riuscì sempre ad evitare l'esecuzione,successivamente militò nel KKE(il Partito Comunista Greco)per approdare a Syriza per uscirne dopo le politiche disattese entrando in una costola di essa(Unità Popolare),continuando a manifestare per i diritti dei greci in linea all'ideologia socialista.
Articolo di Contropiano:ciao-manolis .
Ciao Manolis.
di Michele Franco
In questi giorni di mestizia globale è morto – per una malattia pregressa – ad Atene il compagno Manolis Glezos. Una straordinaria figura umana e politica che incarnava la pluridecennale lotta dei comunisti greci contro il fascismo e per il Socialismo.
Manolis, come molti giovani nativi delle isole della Grecia, dovette trasferirsi, fin da giovanissimo, sulla terraferma dove, iniziò subito, la sua attività antifascista.
Celebre divenne la sua plateale azione propagandistica e di aperta ribellione quando – la notte del 30 maggio del 1941 – sfidando il rigido coprifuoco militare, strappò la bandiera nazista che sovrastava dall’Acropoli di Atene sostituendola con quella della Grecia. In quei duri anni del tallone di ferro nazista Manolis fu più volte incarcerato e perse continuamente il lavoro.
Durante i pesanti anni del dopoguerra, quando il Partito Comunista Greco (KKE) era fuorilegge, continuò in varie forme la sua attività sociale e politica in formazioni socialiste sempre, però, rappresentando posizioni di strenua difesa degli interessi storici e materiali dei settori popolari della società ellenica.
Con la nascita di Syriza – lungo il decennio 2000/2010 che vide lo sviluppo e la generalizzazione di un articolato movimento popolare anti/austerity – si schierò a favore di Tsipras e del suo tentativo di spezzare la gabbia dell’Unione Europea che stava massacrando il popolo greco.
La sua puntuale presenza – nelle piazze e nelle istituzioni – simboleggiava quel filo rosso che legava gli ideali della resistenza all’occupazione nazi/fascista con le lotte contro lo strangolamento finanziario ed economico che la Trojka e i suoi lacchè locali stavano consumando contro i popoli ellenici.
Manolis – che a scanso di una becera vulgata coltivata dalla stampa borghese non è mai stato un “estremista” – comprese subito l’atto politico della capitolazione, ai diktat dell’Unione Europea, che Syriza e il governo Tsipras operarono nel luglio 2013 nonostante un Referendum Popolare avesse votato a maggioranza l’OXI e legittimato il governo greco a “tenere duro verso la pressione della UE”.
Infatti Manolis ruppe con Tsipras e lo ricordiamo ancora alla testa dei cortei a Piazza Syntagma – davanti al palazzone del Parlamento greco – che si scontravano con la polizia del governo e che reclamavano il rispetto della volontà popolare che si era espressa per non accettare supinamente il cosiddetto Terzo Memorandum.
Oggi la Grecia è stata devastata dalla cura “lacrime e sangue” targata Unione Europea, Alexis Tsipras non è più al governo e quel moto sociale che aveva lasciato intravedere una possibilità di rottura con il polo imperialista europeo è dovuto rifluire a causa di cedimenti politici e della mancanza di una adeguata solidarietà internazionale ed internazionalista verso quel passaggio politico del conflitto continentale.
La morte di Manolis – del resto lui stesso lo ha ricordato in numerose testimonianze ed interviste affrontando un bilancio della sua vita politica – non certifica, in alcun modo, l’esaurirsi di una spinta, in Grecia come altrove, della necessità di opporsi al, vecchio come al nuovo, autoritarismo dei mercati, dei padroni e delle loro istituzioni sovranazionali. Del resto, nonostante la pesantezza delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti popolari, in Grecia continua ad agire un qualificato movimento sindacale indipendente e i comunisti, a vario titolo, continuano a svolgere una importante funzione d’avanguardia.
Ed è su questa linea di condotta che – da comunisti da quest’altra parte del mare – che salutiamo il compagno Manolis Glezos!
30 marzo 2020
lunedì 30 marzo 2020
IL PRINCIPIO DEL VIRUS
In questo momento lo scopo principale degli addetti ai lavori è curare e tentare di arrivare ad un vaccino nel più breve termine per contrastare il Covid-19,ma anche scoprirne l'eziologia potrebbe contribuire in futuro a porre rimedi sempre più brevi a questo tipo di epidemie che a volte raggiungono lo status di pandemia.
Questo coronavirus così come le malattie epidemiologiche che hanno caratterizzato le più recenti epidemie virali(Sars,Mers,ebola,Hiv,etc.)hanno in comune la zoonosi,che è la possibilità di trasferire malattie degli animali all'uomo(maiali,galline,zecche,scimmie e dromedari,ora si pensa al binomio pangolino-pipistrello)e quando il genoma del virus riesce a modificarsi per trasmettersi da uomo a uomo la frittata è fatta.
Nei due articoli proposti(greenpeace il-coronavirus-e-il-nostro-futuro-prossimo e www.corriere.it/coronavirus-altre-epidemie )si prende spunto dagli studi riportati da Greenpeace e Wwf dove il legame tra ambiente,cambiamento sociale e climatico e le malattie virali sono in stretta correlazione,grazie sempre nella maggioranza dei casi proprio all'uomo che modifica habitat ed ecosistemi abbattendo barriere naturali mettendo in contatto animali selvatici portatori di malattie che potrebbero modificarsi ed essere trasmesse all'uomo.
Se poi quest'ultimo ne mangia le carni o utilizza parti di questi corpi per altri scopi anche pseudoscientifici più legati ad antiche credenze le possibilità di far nascere nuovi ceppi virali e con questi i relativi contagi,deve fare riflettere sulle future problematiche relative all'inquinamento e allo sfruttamento delle aree naturali,deforestazioni e altri sciacallaggi alla Terra.
Il coronavirus e il nostro futuro prossimo.
di Andrea Pinchera •
Come ormai quasi tutti gli esperti dicono, la pandemia di COVID-19, determinata dal coronavirus (o SARS-CoV-2), ha molto a che fare con l’ambiente e con le campagne di Greenpeace. Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di Genetica molecolare del CNR-IGM di Pavia, spiega per esempio che i fattori coinvolti nella crescente frequenza di epidemie degli ultimi decenni sono molteplici: «Cambiamenti climatici che modificano l’habitat dei vettori animali di questi virus, l’intrusione umana in un numero di ecosistemi vergini sempre maggiore, la sovrappopolazione, la frequenza e rapidità di spostamenti delle persone».
È uno scenario che conosciamo bene, purtroppo. In un rapporto del 2007 sulla salute nel Ventunesimo secolo, l’Organizzazione mondiale della sanità – la stessa che pochi giorni ha definito ufficialmente quella del coronavirus una “pandemia” – avvertiva che il rischio di epidemie virali cresce in un mondo dove il delicato equilibrio tra uomo e microbi viene alterato da diversi fattori, tra i quali i cambiamenti del clima e degli ecosistemi. Altri coronavirus come SARS e MERS, e virus particolarmente gravi come HIV ed Ebola, sono lì a testimoniarlo.
Un campanello d’allarme
La diffusione di questi nuovi virus, in poche parole, sarebbe l’inevitabile risposta della natura all’assalto dell’uomo, come spiega la virologa Ilaria Capua, che dal 2016 dirige uno dei dipartimenti dell’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida: «Tre coronavirus in meno di vent’anni rappresentano un forte campanello di allarme. Sono fenomeni legati anche a cambiamenti dell’ecosistema: se l’ambiente viene stravolto, il virus si trova di fronte a ospiti nuovi».
In altre parole, distruggere la natura finisce quasi sempre per avere un impatto sulla nostra salute: «Se intervieni su un ecosistema e, nel caso, lo danneggi, questo troverà un nuovo equilibrio. Che spesso può avere conseguenze patologiche sugli esseri umani».
È un meccanismo che viene raccontato benissimo da David Quammen, l’autore di “Spillover. L’evoluzione delle pandemie”, saggio che in queste settimane è letteralmente andato a ruba in tutte le librerie italiane.
Lo cito parola per parola, da una intervista che ha appena concesso a Wired:
«Le ragioni per cui assisteremo ad altre crisi come questa nel futuro sono che
1) i nostri diversi ecosistemi naturali sono pieni di molte specie di animali, piante e altre creature, ognuna delle quali contiene in sé virus unici;
2) molti di questi virus, specialmente quelli presenti nei mammiferi selvatici, possono contagiare gli esseri umani;
3) stiamo invadendo e alterando questi ecosistemi con più decisione che mai, esponendoci dunque ai nuovi virus
4) quando un virus effettua uno “spillover” , un salto di specie da un portatore animale non-umano agli esseri umani, e si adatta alla trasmissione uomo-uomo, beh, quel virus ha vinto la lotteria: ora ha una popolazione di 7.7 miliardi di individui che vivono in alte densità demografiche, viaggiando in lungo e in largo, attraverso cui può diffondersi».
Se si presta bene attenzione, il rischio di “spillover” è grande quanto il globo. Nel caso del coronavirus, le ricerche si concentrano sulla giungla della Cina e sulle popolazioni di pipistrelli locali. Ma nei casi di epidemie recenti, il virus sarebbe stato trasmesso da altri animali selvatici: civetta delle palme, dromedari, primati. E i luoghi di origine sono associati ai deserti del Medio Oriente o alle foreste tropicali dell’Africa, così come nuove patologie possono emergere, ed emergono, tanto dall’Amazzonia quanto dalle foreste dell’Australia. Anche il micidiale virus Ebola sarebbe arrivato all’essere umano grazie a un salto di specie, e per quanto ancora l’origine non sia certa, gli scienziati sospettano sempre di più dei pipistrelli: che sono mammiferi come noi, ma volano.
Crisi climatica e virus antichi
Ma il rischio potenziale potrebbe anche essere più esteso, assumendo una “dimensione temporale”. Lo scioglimento di ghiacci e ghiacciai, infatti, potrebbe rilasciare virus molto antichi e pericolosi. Nel gennaio 2020, per esempio, un team di scienziati cinesi e statunitensi ha comunicato di avere rintracciato all’interno di campioni di ghiaccio di 15 mila anni fa, prelevati dall’Altopiano tibetano, ben 33 virus, 28 dei quali sconosciuti.
Tracce del virus della Spagnola sono state ritrovate congelate in Alaska, mentre frammenti di DNA del vaiolo sono riemersi dal permafrost nella Siberia nord-orientale. Proprio il permafrost rappresenta un ambiente perfetto per conservare batteri e virus, almeno fin quando non interviene il riscaldamento globale a liberarli. E che ciò possa avvenire lo testimonia un episodio dell’estate del 2016, quando – sempre in Siberia – l’antrace ha ucciso un adolescente e un migliaio di renne, oltre a infettare decine di persone.
Clima e infezioni viaggiano insieme. A evidenziarne il legame, per esempio, è il “Lancet Countdown Report 2019”, che associa i cambiamenti climatici proprio a un’aumentata diffusione delle patologie infettive: in un pianeta più caldo, virus, batteri, funghi, parassiti potrebbero trovare condizioni ideali per esplodere, diffondersi, ricombinarsi, con un aumento tanto della stagionalità quanto della diffusione geografica di molte malattie.
È un rischio che a Greenpeace abbiamo identificato per tempo: già nel “Rapporto Greenpeace sul riscaldamento della Terra” – che compie trent’anni tondi, essendo del 1990 – l’epidemiologo Andrew Haines, che successivamente sarebbe diventato direttore della London School of Hygiene & Tropical Medicine, avvertiva che tra gli effetti secondari dei cambiamenti climatici «la diffusione dei vettori di malattie dovrebbero essere causa di preoccupazione».
In poche parole, se per il coronavirus il meccanismo identificato dagli scienziati è quello di un salto di specie innescato dalla promiscuità con animali selvatici, amplificato dalla concentrazione di popolazione nelle megalopoli e trasportato dalla globalizzazione, la crisi climatica potrebbe offrire scenari ancora più pericolosi. Ovvero il riemergere dai ghiacci dei Poli o dai ghiacciai dell’Himalaya di virus che il loro “spillover” lo hanno effettuato in tempi remoti e che pensavamo di avere debellato per sempre. O, peggio ancora, di patologie che non conosciamo affatto.
Potere e responsabilità
Come sostiene David Quammen, insomma, «più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo». La soluzione? Può essere solo in un completo ripensamento della nostra relazione con la natura: proteggere la biodiversità, fermare la crisi climatica, frenare la distruzione delle foreste e ridurre il consumo di risorse. Ricorda qualcosa? Sono questioni da sempre al centro delle campagne di Greenpeace, e delle nostre comunicazioni.
Quando la pandemia di coronavirus sarà cessata, bisognerà intervenire sui fattori che l’hanno determinata. Senza operare quel meccanismo tipico di rimozione per il quale politici, giornalisti, opinione pubblica si riempiono della parola “clima” – per esempio – in presenza di uragani, alluvioni o incendi devastanti, salvo dimenticarsene un secondo dopo. Se ciò non avvenisse, se non si agisse sulle cause della diffusione di nuovi virus, che sono anche ambientali, continueremmo a vivere in una condizione di grave rischio potenziale.
Il perché lo spiega ancora Ilaria Capua: «Noi viviamo in un ambiente chiuso. Come se fossimo in un acquario. La nostra salute dipende per il 20 per cento dalla predisposizione genetica e per l’80 per cento dai fattori ambientali. La cura deve studiare, oltre all’organismo in questione, anche il contesto».
«Non possiamo uscire da questa situazione, da questo dilemma», ricorda Quammen: «Siamo parte della natura, di una natura che esiste su questo Pianeta e solo su questo. Siamo troppi, 7,7 miliardi di persone, e consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus».
In altri termini, possiamo dire che la specie umana ha preso da tempo il “comando delle operazioni” sulla Terra, sottomettendo la natura ad azioni spesso irreversibili; è diventata un “agente di trasformazione”, come una forza geologica, tanto che gli scienziati usano il termine “Antropocene” per definire l’epoca attuale.
Come sempre accade, a un potere quasi sconfinato – e distruttivo – bisogna sapere associare criteri di responsabilità altrettanto importanti, per evitare che l’impatto di tali trasformazioni sia devastante e si ritorca contro noi stessi. Mettendo a rischio la stessa specie umana. Non stiamo parlando del Pianeta, ma dei suoi abitanti. Di noi e dei nostri figli.
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Il nuovo studio
Coronavirus e altre epidemie: perché sono legate ai cambiamenti climatici e alla perdita di biodiversità.
C’è una relazione diretta tra le conseguenze dell’azione dell’uomo e la diffusione di malattie devastanti come l’attuale pandemia. Il report del Wwf sul «boomerang» della distruzione degli ecosistemi.
di Alessandro Sala
C’è uno stretto legame tra la perdita di biodiversità, i cambiamenti climatici, le alterazioni degli habitat naturali e la diffusione delle zoonosi, ovvero le malattie trasmesse dagli altri animali all’uomo e di cui anche l’attuale coronavirus che è diventato pandemia fa parte. E per capirlo basterebbe pensare al pangolino.Forse non tutti lo conoscono, soprattutto alle nostre latitudini, ma questo mammifero insettivoro che ha il corpo ricoperto da scaglie che assomigliano ad una corazza da samurai, è una delle specie più a rischio che esistano. Tutte le sue otto varianti sono considerate in via di estinzione dallo Iucn, l’Unione internazionale per la conservazione della natura, e la ragione di questo è da ricercare nel commercio illegale. Antiche credenze hanno fatto diventare questo curioso animaletto un ricercatissimo (e redditizio) oggetto del desiderio, sulla base della credenza anti-scientifica che le sue scaglie e la sua carne possano avere miracolosi poteri taumaturgici e afrodisiaci. Che c’entra dunque il pangolino? Secondo alcuni studi potrebbe essere stato proprio lui la specie «ospite» che ha consentito il transito del coronavirus dal pipistrello all’uomo.
Il report del Wwf
Non tutti gli studi sono concordi sul ruolo del pagolino come vettore, gli italiani del l’Univeristà Campus Bio-Medco di Roma tendono per esempio a scagionarlo. Ma sono state trovate corrispondenze tra il genoma del virus Sars-Cov-2 e quelle dei pangolini comprese tra l’85,5 e il 92,4% degli esemplari esaminati. E anche qualora non fosse lui il «taxi» che ha consentito il passaggio dal pipistrello all’uomo — il cosiddetto spillover raccontato anche nell’omonimo libro del 2012 di David Quammen — quello su cui tutti non hanno dubbi è il fatto che vi sia stato un transito della malattia dagli animali alla nostra specie e che questo sia avvenuto in ambiente urbano. Un passaggio che, sottolinea un report del Wwf pubblicato nei giorni scorsi — «Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi», a cura di Isabella Pratesi, Marco Galaverni e Marco Antonelli e con anche la consulenza scientifica di Gianfranco Bologna e Roberto Danovaro - è strettamente legato ai mutamenti di clima e ambiente causati dall’azione dell’uomo.
Barriere naturali
La tesi è molto semplice: le principali epidemie degli ultimi anni — Ebola, Sars, Mers, influenza aviaria o suina ma anche l’Hiv che causa l’Aids — sono di origine animale. E ad influire la loro diffusione è stata la riduzione delle barriere naturali che per secoli hanno creato un argine al contagio. Le foreste, per esempio, sono sempre state custodi di una vastissima biodiversità e la presenza contemporanea di tante specie animali differenti ha messo i virus di fronte al cosiddetto «effetto diluizione»: avendo la probabilità di attaccare anche specie non ricettive, i virus non trovano un ambiente fertile in cui propagarsi e di conseguenza si bloccano, si indeboliscono, si estinguono. La deforestazione finalizzata alla creazione di pascoli, alla produzione di legname e carta o all’avanzata delle aree urbane ha di fatto cancellato parte di questo «gregge» multiforme e multi-specie che come una sorta di prima linea permetteva di mantenere una maggiore distanza tra i virus che potremmo definire «selvatici» e l’essere umano. Il quale si è invece spinto sempre più, per esplorazione o caccia (anche a specie protette), all’interno delle stesse foreste pluviali, i principali scrigni di biodiversità del pianeta, aumentando i rischi di contagio.
Come se tutto ciò non bastasse, sempre l’uomo ha pensato bene di catturare specie animali selvatiche per farne cibo o per la realizzazione di prodotti derivanti da varie parti dei loro corpi. Del resto, sembra ormai assodato che l’origine dell’attuale coronavirus sia da ricercare nel mercato di animali vivi di Wuhan, uno dei tanti «wet market» cinesi in cui la fauna anche selvatica viene esposta viva e poi macellata al momento (il motivo è spesso la mancanza di frigoriferi o congelatori, che impedisce di mettere in vendita animali già morti). In questo modo si realizza uno spargimento di sangue che favorisce la trasmissione del virus da specie a specie. In ogni caso, che l’ospite sia stato il pangolino o che il contagio sia avvenuto direttamente tra pipistrello e uomo attraverso il sangue poco cambia: il dato di fatto è che all’origine del probabile contagio iniziale c’è una pratica, la vendita di fauna selvatica, che dovrebbe invece essere ostacolata su scala globale. E a dire il vero anche la Cina lo ha capito imponendo divieti a seguito del dilagare della Covid-19.
Bushmeat nel piatto
La carne di animali selvatici, la cosiddetta «bushmeat», viene spesso consumata da persone povere, che non hanno altre risorse alimentari e che per questo nelle zone rurali dei Paesi poveri o in via di sviluppo si adattano a considerare cibo specie che in Occidente mai e poi mai ci sogneremmo di considerare alimento, come per esempio le scimmie, catturate nella natura selvatica (da cui il termine bushmeat). Ma, evidenzia il Wwf, c’è anche un retaggio culturale che spinge famiglie di origine africana (ma anche di altre aree del Sud del pianeta) emigrate in aree urbane e diventate benestanti a chiedere, per il mantenimento di un legame con la tradizione del Paese di origine, questo tipo di carne, che diventa di conseguenza oggetto di commercio internazionale. La circolazione di animali, vivi o morti, provenienti dal cuore delle foreste pluviali contribuisce alla diffusione dei patogeni.
L’equilibrio violato
Insomma, la relazione diretta tra i comportamenti sbagliati dell’uomo, la perdita di habitat e foreste e la diffusione di malattie è abbastanza evidente. L’equilibrio che la natura era in grado di stabilire viene meno per effetto delle attività umane. Di qui anche il riferimento ai cambiamenti climatici: laddove non è la ricerca di nuovi spazi e nuovi terreni a cancellare direttamente le foreste, sono le nostre azioni indirette a farlo. Il rapporto del 2019 dell’Ipbes, il comitato internazionale e intergovernativo scienza-politica che per conto dell’Onu si occupa di biodiversità e ecosistemi, parla chiaro: il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% di quello marino sono stati modificati in modo significativo e circa 1 milione di specie animali e vegetali, come mai si era verificato fino ad oggi nella storia dell’umanità, sono a rischio estinzione. Dati che fanno il paio con quelli del Living Planet Report del Wwf del 2018, che spiega come in circa 40 anni il pianeta abbia perso in media il 60% delle popolazioni di invertebrati. E ancora, su tutto, va considerato che negli ultimi 50 anni la popolazione umana mondiale è raddoppiata, aumentando così il bisogno di risorse che ha portato ad un impoverimento delle risorse naturali e ad un aumento dell’inquinamento: i gas serra, per esempio, sono raddoppiati dal 1980 ad oggi e hanno contribuito fortemente all’ormai acclarato aumento di almeno un grado della temperatura media terrestre rispetto all’epoca preindustriale.
Tutte queste azioni scellerate da parte dell’uomo, che non possono più essere considerate inconsapevoli, hanno non soltanto dei costi umani ma anche dei costi economici notevoli. Basti pensare anche a quanto debbano oggi investire le economie mondiali per fare fronte ai contraccolpi dovuti alla pandemia in corso, che pure è solo agli inizi. «Ecco perché è fondamentale riuscire a proteggere gli ecosistemi naturali, conservare le aree incontaminate del pianeta, contrastare il consumo e il traffico di specie selvatiche, ricostruire gli equilibri degli ecostistemi danneggiati e anche frenare i cambiamenti climatici — commenta Donatella Bianchi, presidente del Wwf Italia —. Serve quello che abbiamo definito un New deal for nature and people, che permetta di dimezzare la nostra impronta sulla terra. Iniziare a ricostruire gli ecosistemi distrutti, che sono la rete di protezione naturale da epidemie e catastrofi, è il primo passo da fare». Anche perché, come recita la citazione di Quammen che apre il report, «là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro, come polvere che si alza dalle macerie».
domenica 29 marzo 2020
CARLO URBANI
Oggi ricorre l'anniversario della morte del medico e microbiologo Carlo Urbani,deceduto diciassette anni fa in Thailandia per le gravi complicazioni dovuti alla polmonite atipica(Sars)contratta in Vietnam dove lavorava per conto dell'Oms(Organizzazione mondiale della sanità)in qualità di consulente per le malattie parassitarie.
Il medico marchigiano specializzato in malattie infettive e tropicali fin dagli inizi della sua carriera si prodigò in azioni solidali e di volontariato che lo fecero avvicinare e diventare membro di Medici Senza Frontiere(cui fu attribuito l'ultimo Premio Nobel per la pace dello scorso millennio)e mandato a lavorare soprattutto nel sud-est asiatico.
Proprio lì si accorse che un paziente che stava curando aveva un tipo di polmonite ancora sconosciuta(la Sars,il cui ceppo di coronavirus responsabile della malattia porta il nome Urbani a sua memoria)e tramite un costante lavoro con l'Oms e vincendo le ritrosie dei governi a chiudere le frontiere per evitare la pandemia,riuscì a salvare un numero indefinito di vite.
L'articolo(huffingtonpost 17-anni-senza-carlo-urbani-medico-martire-della-sars )parla della vicenda con la testimonianza dei parenti e ci fa capire soprattutto in questo periodo dove le somiglianze sono tragicamente simili che solo l'impegno nello studio e nel lavoro e purtroppo a volte il sacrificio possono permettere di curare le malattie,e non le preghiere,le benedizioni e i bei discorsi.
17 anni senza Carlo Urbani, medico martire della Sars.
Come esperto di malattie infettive per l'Oms contribuì a individuare la patologia, che gli fu fatale. Madre e figlio all'Ansa: "Governi faticarono a capire, poi lo ascoltarono".
“Se non riusciamo a fermare il contagio, questa nuova malattia sarà una nuova spagnola”. Parole profetiche, pronunciate nel 2003 da Carlo Urbani, esperto di malattie infettive per l’Oms, vittima, pochissime settimane dopo, il 29 marzo della Sars, la polmonite atipica che aveva contribuito ad individuare come nuova patologia.
Per l’emergenza coronavirus sono state cancellate le iniziative in programma a Castelplanio, la sua città, e in altre località delle Marche, domani per l’anniversario della sua morte. La moglie Giuliana Chiorrini e il figlio Tommaso, oggi 33enne, ricordano con l’ANSA quei giorni drammatici, tra Hanoi dove il medico abitava con moglie e 3 figli piccoli e Bangkok dove morì. “Ci fu un grande scambio di mail con l’Oms e con i governi, che non volevano chiudere le frontiere - raccontano -, ci vollero dieci giorni. Per lui però era troppo tardi”.
Urbani fu una delle oltre 700 vittime della Sars, meno contagiosa del coronavirus ma più letale. “Oggi abbiamo visto le stesse dinamiche - dicono la moglie e il figlio - anche il periodo è molto simile”. Urbani, che è stato anche presidente della sezione italiana di Medici Senza Frontiere, ritirando il Nobel nel 1999 per conto dell’organizzazione, cominciò a sospettare che un paziente dell’ospedale francese di Hanoi con una brutta polmonite fosse in realtà affetto da una nuova malattia infettiva, che aveva contagiato le infermiere che lo assistevano. Dal 28 febbraio cominciò un carteggio con l’Oms, lanciando l’allarme e chiedendo la chiusura di porti e frontiere per evitare la diffusione del contagio. Una decina di giorni dopo il Vietnam e altri Paesi adottarono le prime misure. Ma il 18 marzo lo stesso Urbani, in volo per Bangkok per lavoro avvertì i primi sintomi della malattia: “all’arrivo in aeroporto disse ai colleghi che erano venuti a prenderlo di stare lontani, si fece portare in ospedale per mettersi in isolamento” dice Tommaso, oggi operatore umanitario con Intersos e presidente del”Aicu (Associazione Carlo Urbani). Il medico, attivo in molti Paesi del terzo mondo, si è impegnato per garantire il diritto alla salute di tutti, per curare “le malattie dimenticate”, pagando un prezzo estremo: ma senza il suo allarme il bilancio delle vittime della Sars sarebbe molto più alto.
Inevitabile il paragone con medici, infermieri e operatori sanitari, in prima linea contro il Covid-19. Ma si pensa anche ai malati. “Mi addolora pensare a quelle persone che muoiono senza i loro cari vicino - osserva Giuliana Chiorrini -, io ho avuto la possibilità di stare con Carlo sin quasi all’ultimo, ovviamente con tutte le protezioni, camice, mascherina...”. Oggi a Urbani, il ‘medico-eroe’ della Sars sono dedicati libri, strade, scuole, premi e l’ospedale di Jesi per il quale l’Aicu ha lanciato una raccolta fondi. Per la moglie, i tre figli e la madre fu “un perdita enorme”, ma “poi con il tempo abbiamo capito l’importanza di quello che aveva fatto” dice ancora Tommaso, che ha un fratello e una sorella più piccoli. “Credo che se avesse potuto tornare indietro, avrebbe fatto le stesse cose - aggiunge - e noi saremmo comunque al suo fianco”.
sabato 28 marzo 2020
SEMPRE PIU' INCRINATI I RAPPORTI TRA ROMA E BRUXELLES
Per essere riusciti in meno di una settimana a fare incazzare un uomo pacato come Mattarella, l'Unione Europea sta veramente esagerando con le provocazioni e l'assoluto immobilismo di Bruxelles nella faccenda pandemia.
L'Italia da settimane chiede un supporto non solamente da pacca sulla spalla e andrà tutto per il meglio,vuole aiuti economici e tangibili,rinvii delle scadenze finanziarie,sblocco di tutte le restrizioni e fine dell'austerità in modo che cominci a girare denaro liquido,alla faccia dei dogmi imposti dall'Ue e che risultano fasulli alla fine dei conti.
L'articolo di Contropiano(anche-la-fede-europeista-di-mattarella-ora-vacilla )analizza il discorso di ieri sera del Presidente della Repubblica,anche se non accenna ai limiti imposti in Italia per combattere il coronavirus,dimenticandosi forse di Confindustria e di tutte le pagliacciate dei politici cui anche in questo clima d'emergenza e nonostante gli appelli a volte inascoltati all'unione,continuano a fornire uno spettacolo pietoso per i propri interessi quasi esclusivamente proiettati a future elezioni.
Anche la “fede europeista” di Mattarella ora vacilla.
di Dante Barontini
Un Presidente della Repubblica che si rivolge spesso alla cittadinanza, in un momento terribile, con un’epidemia che appare fuori controllo (nonostante le chiacchiere rassicuranti sparate intorno a cifre sempre più alte), è normale e anche giusto. C’è fin troppa confusione, con “governatori” e sindaci colpiti da manie di protagonismo, “autonomismo” e altre idiozie che andavano di moda nell’altro millennio, ossia poche settimane fa.
La novità del discorso serale di ieri sera, però, sta proprio nel suo contenuto non rituale: l’avviso a tutti che l’Unione Europea, se non riesce neanche stavolta a prendere decisioni contemporaneamente giuste, efficaci, appropriate, proporzionate e rapide rischia la dissoluzione.
E’ la prima volta che la più alta carica dello Stato esprime un qualche setticismo sul percorso che la “casa comune” ha seguito e sta seguendo. Perché alla prova più drammatica della sua storia non è più tempo di mezze frasi, mezze misure e mezze decisioni.
Nelle intenzioni, l’intervento di Mattarella voleva probabilmente essere una “copertura alta” – nei confronti soprattutto di Bruxelles – della posizione assunta da Giuseppe Conte nel corso del Consiglio dei capi dei governi nazionali, che si è chiuso rinviando tutto di nuovo all’Eurogruppo (i ministri dell’economia), solo per evitare una clamorosa rottura.
In qualche misura, ha svolto anche la funzione di “ponte” con le sortite sguaiate di Salvini e Meloni, ottusamente a caccia di qualche briciola nei sondaggi e senza alcun “senso di responsabilità istituzionale”.
Infine, è servita anche a far passare sullo sfondo il gelido silenzio del Pd, che avrebbe magari preferito un Conte meno arrembante e “autonomo” rispetto ai “partner” europei.
Un esercizio complesso, insomma, che solo un vecchio democristiano poteva tentare con qualche successo.
Ma resta il fatto che in ogni caso l’allarme ora è ufficiale, non più rinchiuso nelle stanze – o nelle comunicazioni – tra Palazzo Chigi e Bruxelles.
L’Unione Europea, diciamo sempre, è una struttura governamentale dell’economia, costruita con trattati che favoriscono le economie più forti e penalizzano quelle deboli. In quasi 30 anni, e 20 di moneta unica, le disuguaglianze tra i singoli Paesi sono infatti aumentate enormemente. L’opposto di quella “progressiva convergenza” che viene ancora oggi promessa nelle premesse a trattati, accordi, risoluzioni, note diplomatiche, ecc.
Il “nazionalismo” spudorato che prima veniva imputato soltanto all’ungherese Orbàn o ai leader polacchi, oltre che ai soliti “sovranisti da operetta” (Le Pen, Salvini, ecc), ora è lampante nelle mosse di Germania, Olanda, Austria e l’ondivaga Francia di Macron (prima firma la lettera con cui chiede il lancio di eurobond, poi nasconde la mano).
“Nessuno fa l’europeo“, lamentano anche gli opinionisti europeisti; tutti pensano solo all’interesse nazionale, se non addirittura a quello elettorale.
Ma la gravità sia sanitaria che economica dell’epidemia rende le “vecchie regole” – cui si aggrappano tutt’ora gli “austeri” del Grande Nord – qualcosa di dannoso. Fuori dalla realtà, è arrivato a dire persino Mattarella, fin qui il “garante europeo” persino del fu governo giallo-verde.
Per la precisione: “Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente”.
E’ vero, c’è stato l’intervento di Mario Draghi sul Financial Times, l’altro giorno, che diceva sostanzialmente – e tecnicamente in modo più articolato – le stesse cose. Ma Draghi, per quanto autorevole nell’establishment, è al momento un “libero cittadino”. Quel che dice non impegna nessuno, al di là di se stesso (e delle sue eventuali candidature ad incarichi istituzionali di peso).
Se lo dice il Presidente della Repubblica in carica, e addirittura il Presidente che più ha difeso la centralità dell’Unione anche rispetto alle più gravi scelte di politica economica per l’Italia, è il segno che la crepa non è mai stata così larga.
E che nessuno ha la “cura” per rimarginarla.
Non è un dettaglio. Significa che nessuno sa davvero come andrà a finire. Si è aperto uno scontro interno alla Ue ed è uno scontro per la sopravvivenza, non per “la migliore applicazione delle regole”. E quando è in gioco la sopravvivenza – di un’economia, delle condizioni vita di un popolo peraltro stratificato e diviso quant’altri mai – si sa solo come si entra in campo.
Mai come se ne esce…
venerdì 27 marzo 2020
LA SCUOLA SEMPRE PIU' IN EMERGENZA
L'istruzione,così come vari ambiti della vita quotidiana,è stata travolta dall'emergenza del coronavirus,e come la sanità ed i trasporti,pilastri dei servizi pubblici in uno Stato,è un mondo allo sbando vuoi necessariamente perché siamo davvero in un periodo dove l'eccezione è la regola e vuoi perché la programmazione a lungo termine latita.
Se è vero che l'istruzione negli ultimi anni si è sempre più basata su strumenti e supporti didattici interattivi con una maggiore coscienza multimediale,dall'altro gli strumenti per l'insegnamento a distanza che possa coprire realmente tutto il palco degli utenti,gli studenti,pecca gravemente di mancanze.
Infatti se già alcuni insegnanti non dispongono di mezzi idonei alla didattica a distanza figuriamoci gli studenti che se non hanno il supporto di una famiglia con un reddito che possa permettergli di possedere strumenti adeguati(smartphone,tablet,pc,stampanti,etc.)sono tagliati fuori dall'apprendimento.
L'articolo di Contropiano(la-scuola-perduta-e-la-didattica-emergenziale-a-distanza )parla delle evidenti discrepanze e delle enormi differenza tra studente e studente,per non parlare della distanza fisica dei compagni di tutte le età scolari,dalle primarie all'università,e da certe esercitazioni che per forza devono avvenire dal vivo(biologia,chimica)per uno studio pieno.
Si sta lavorando,e per inciso l'anno scolastico attuale ha grandi possibilità di non terminare sui banchi di scuola,al meglio che niente,e tutto è nelle mani nel lavoro personale e nell'adempimento del proprio dovere sia da parte degli insegnanti che da parte degli studenti,il classico amor proprio per potere divulgare ed apprendere che non si paga in moneta sonante ma con lo spirito d'abnegazione e di sacrificio(un parallelismo con la sanità è d'obbligo).
Vi sono discussioni su come si potrà portare a termine questo anno scolastico,sulla maturità sulle eventuali bocciature,sull'integramento di quello che non si è potuto portare a termine del programma nell'anno successivo,sulla possibilità remota di aprire le scuole questa estate se possibile,insomma una situazione in continua evoluzione dove ci potrebbero essere molte sorprese ma in negativo.
La scuola perduta, e la didattica emergenziale a distanza.
di Maurizio Disoteo
In questi giorni di forzata “sospensione delle attività didattiche” si sono lette molte cose inesatte, o sbagliate, sino al limite dell’assurdo, sulla didattica a distanza.
Anzitutto, se l’attività didattica è sospesa, non si comprende perché il Ministero, a cui hanno fatto subito seguito molti dirigenti, voglia imporne la continuazione in forma telematica. Ogni docente ha il diritto di scegliere quali metodi e strumenti usare per il proprio insegnamento, i momenti d’emergenza non consentono di derogare ai principi fondamentali della Costituzione, tra i quali la libertà della cultura, della ricerca e dell’insegnamento è centrale.
Tuttavia, il grave momento di difficoltà in cui ci troviamo ha comunque motivato la maggior parte degli insegnanti ad accogliere l’invito a proporre dei momenti di lavoro in via telematica ai propri allievi. Si tratta però, nella maggior parte dei casi, di attività che vanno prese nello spirito del “meglio che niente” e che non autorizzano a teorizzazioni sulla didattica a distanza, né per l’oggi né soprattutto per il futuro.
La didattica a distanza ha avuto nell’ultimo decennio un notevole sviluppo nella formazione professionale, anche dei docenti, ma è molto meno, o per nulla, utilizzata nella scuola italiana, soprattutto in quella dell’obbligo. A questa situazione concorrono ragioni ambientali e pedagogiche. Il territorio italiano è oggi organizzato in modo tale che poche sono le situazioni in cui gli allievi non hanno la possibilità di raggiungere la scuola.
Dal punto di vista metodologico, inoltre, la scuola non è più da decenni fondata su metodi depositari e trasmissivi, ma punta sulla relazione dialogica tra docente e studenti, sui laboratori, sul lavoro di gruppo. Questi metodi hanno il loro terreno d’elezione nella scuola e nella didattica in presenza. Il fatto che alcuni docenti, soprattutto nei licei, abbiano aperto dei siti, dei blog, o utilizzino apposite piattaforme per offrire materiali di documentazione o riflessione ai propri allievi non smentisce questa realtà, poiché tali iniziative si pongono come un complemento e un supporto alla didattica in presenza, e non come una sostituzione della stessa.
Resta poi evidente che la didattica a distanza non sembra adatta alla scuola primaria, sia per motivi pedagogici che tecnici, e che anche nella scuola secondaria di primo grado (ma in parte anche in quella superiore) presenta enormi problemi di concentrazione, di comprensione dei messaggi e soprattutto di mancanza di socialità. Gli studenti di questi gradi di scuola non possono e non devono fruire delle tecnologie in solitaria, devono essere assistiti dagli adulti e questo richiede un coinvolgimento dei genitori che non può essere dato per scontato.
Proprio per le ragioni descritte, le scuole italiane sono poco attrezzate per la didattica a distanza e i docenti non sono formati per farla, semplicemente perché ciò non serve, poiché gli studenti sono quotidianamente a scuola. Una vera didattica a distanza non può comunque essere improvvisata a causa di una situazione inattesa, ma deve essere programmata anche tenendo conto delle situazioni della scuola e degli studenti, che devono tutti essere messi in condizione di potervi partecipare.
Oggi si assiste a una gamma diversificata di iniziative. Alcuni istituti propongono praticamente una serie di “compiti a casa”, altri cercano di garantire un contatto via internet tra docenti e studenti, altri ancora si propongono progetti ambiziosi quanto illusori e dannosi. Tra questi ultimi, gli istituti i cui dirigenti vaneggiano di imitare a distanza il normale orario di lezione, senza nemmeno tenere conto che ciò non è possibile né proficuo. Alcune scuole stanno svolgendo o si propongono di svolgere interrogazioni e compiti in classe via internet. Si tratta di iniziative che devono essere respinte.
Le forme di didattica a distanza attualmente in atto non sono in grado di garantire equità nell’esercizio del diritto allo studio. Alcuni studenti non sono in grado, di seguire queste iniziative e qualcuno non è nemmeno coinvolto o connesso. Tra questi ultimi, spesso proprio gli alunni più fragili e in difficoltà che rischiano l’abbandono.
E’ proprio di questi giorni il caso esemplare, a Milano, di molti alunni rom che sono completamente tagliati fuori da questo tipo di didattica, Non si può quindi ipotizzare alcun tipo di valutazione basato sulle iniziative a distanza che si stanno realizzando nelle nostre scuole, realizzate in condizioni emergenziali, non discusse tra i docenti e non concordate con gli studenti e le famiglie all’inizio dell’anno.
Inoltre, si deve anche tenere conto che proprio per la particolare situazione che stiamo vivendo, molti insegnanti affermano di essersi impegnati nelle iniziative a distanza soprattutto per mantenere il contatto tra loro e gli studenti e tra gli studenti stessi, anche per cercare di alleviare lo stress che ha colto molti giovani a causa dell’improvvisa interruzione dell’anno scolastico. La didattica, se si riesce a farla, può essere utilmente indirizzata soprattutto a momenti di riflessione, a colmare lacune pregresse, non certo a voler “tenere il passo” dei programmi e delle scadenze e magari a formulare valutazioni. Nessuna seria valutazione può essere proposta in una situazione come quella odierna.
Una riflessione più ampia, dal punto di vista pedagogico, merita quanto si sta dicendo e scrivendo in questi giorni sulla didattica a distanza. Se ne sente tessere continuamente l’elogio, e va prestata molta attenzione per evitare che ciò diventi, alla fine, una grande trappola per i docenti e per la scuola. Negli ultimi anni il Ministero dell’Istruzione ha sempre più spostato il baricentro del lavoro degli insegnanti verso il ruolo di somministratore di competenze, accompagnato da un’angoscia della valutazione costante ed “oggettiva” che costringe a programmazioni sempre più costrittive in cui trovano sempre meno spazio la riflessione, la criticità e la relazione.
Si deve fare molta attenzione anche alle parole della ministra Azzolina, che ha auspicato che “l’emergenza possa dare la spinta per l’innovazione”. Senza voler far torto alla vera formazione a distanza, che dovrebbe contemplare anche momenti d’interattività, c’è da temere che essa venga usata per una nuova svolta aziendalista e trasmissiva dell’insegnamento.
Non dimentichiamo tra l’altro che alla fine dell’emergenza sanitaria se ne aprirà una economica, che potrebbe essere utilizzata per imporre nuovi piani di austerità. Tali piani potrebbero comportare la sostituzione delle scuole di montagna o di particolari zone a favore della didattica a distanza, oppure vedere i docenti investiti di compiti ancor più gravosi con l’istituzione di classi “virtuali” molto numerose.
Si deve anche considerare che la didattica a distanza si adatta male o per nulla ad alcune discipline scolastiche particolarmente incentrate sulla relazione, come per esempio la musica o l’educazione motoria e anche a tutto quanto concerne l’esperenzialità laboratoriale. Il lavoro di scoperta scientifica, di elaborazione di saperi e concetti a partire dall’esperienza empirica, deve svolgersi in presenza, non attraverso un pc. Un noto esperto d’informatica, Clifford Stoll, osserva:
“È molto facile mostrare simulazioni al computer della crescita delle piante, di rane sezionate e di ecosistemi affollati. Nessuna confusione. Nessun animalista offeso. Ma gli effetti della sostituzione della biologia da laboratorio con la biologia virtuale sono di svuotare di significato la scienza e di eliminare il senso di esplorazione e scoperta che porta infine alla comprensione.
Ma i fisici, i chimici e i biologi professionisti non usano i computer? Certo che si, ma non hanno acquisito le loro competenze professionali grazie a un qualche software, né nelle loro scuole si è mai insegnato attraverso simulazioni. Le simulazioni al computer sono potenti strumenti quando usate all’interno della ricerca scientifica, per trovare risposte a specifiche domande. Ma non forniscono comprensione, non possono spiegare che cosa significhi fare scienza, non sono in grado di ispirare quella curiosità che è così essenziale per diventare scienziati. Essi insegnano scienza simulata“. 1
Non voglio negare che in situazioni specifiche possano essere utili iniziative di docenti o di istituti che rendono disponibili materiali in forma online, ma ciò, come ho accennato, deve costituire un’integrazione a supporto della didattica in presenza e non sostituirla. Peraltro chiunque conosca le modalità dell’e-learning, anche per adulti, sa che la modalità più efficace è quella mista che prevede dei momenti chiave in presenza.
Tanto più assurdo sembra dunque pensare di sostituire integralmente la didattica in classe con la didattica a distanza. In ogni caso, si tratta di iniziative che possono essere prese solo quando si è certi che tutti gli allievi possano egualmente usufruirne e non rischiare l’esclusione dei più poveri, dei più fragili o dei disabili. A questo proposito, appare grave che la circolare ministeriale sull’insegnamento a distanza varata in occasione dell’attuale interruzione delle attività didattiche, citi la “particolare attenzione” da portare ai disabili senza offrire in realtà alcuna concreta indicazione.
Giova anche ricordare che non tutte le scuole hanno una composizione e un contesto sociale uguale. Iniziative “a distanza” che non considerino questo fatto rischiano di aumentare ulteriormente le differenze d’opportunità tra le scuole. Non è un caso che un’indagine condotta in questi giorni dal sito Skuola.net metta in luce il divario nella realizzazione delle attività a distanza tra scuole del Nord e del Sud, dovuto soprattutto all’uso di strumenti tecnologici differenti per qualità ed efficacia.
Inoltre, assistiamo proprio in questi giorni alla proliferazione di offerte di piattaforme e programmi da parte di una quantità di aziende che si sono precipitate sul possibile affare. Alcune case editrici hanno già pubblicizzato corsi sul “vincere la paura” e altro. Si dovrà vigilare in futuro affinché attraverso la didattica a distanza non si finisca con mercantilizzare ulteriormente il mondo della scuola.
Tutte queste considerazioni devono essere tenute presenti sia oggi, di fronte alle pressioni di quei dirigenti che pretendono di non considerare che se l’attività didattica è sospesa non la si può sostituire con iniziative improvvisate, sia al termine dell’anno scolastico quando si potrebbe pretendere che gli insegnanti stilino valutazioni di attività dagli obiettivi confusi e che possono creare discriminazioni tra gli allievi. Ma sono anche da tenere presente nel futuro meno vicino, per impedire che dietro l’esaltazione della didattica a distanza si realizzi l’ennesima stretta aziendalista e mercatista della scuola.
1 C. Stoll: Confessioni di un eretico high-tech. Perché i computer nelle scuole non servono e altre considerazioni sulle nuove tecnologie, Garzanti. Milano, 2001, pp. 31-32.
giovedì 26 marzo 2020
SPUNTA FUORI UN NUOVO UNTORE,L'ULTRA'
Fin da subito nel caso del coronavirus è partita la caccia al possibile paziente zero,agli untori e a chi viene solamente sospettato di essere portatore anche sano di questa malattia,dal ragazzo di Codogno al suo capo di ritorno dalla Germania dopo essere stato in Cina,gli stessi cinesi,i pipistrelli,il vicino che porta a spasso il cane,chi corre a piedi e chi fa la passeggiata:la notizia gira nell'aria da parecchio e solo ora il profilo perfetto dell'untore sta venendo fuori,l'ultrà.
O almeno viene ritenuto il responsabile della strage nella bergamasca,da quel fatidico 19 febbraio giorno dove a San Siro ci fu la storica partita Champions League tra Atalanta e Valencia,con gli spagnoli che a loro volta puntarono il dito contro gli italiani e viceversa,perché poi è saltato fuori che casi c'erano già stati nella città spagnola.
I primi casi del Covid-19 furono quelli dei turisti cinesi a Roma il 31 gennaio,poi vi furono i primi casi accertati(tra cui il codognese che accusava i primi sintomi il 15 e che è andato al pronto soccorso il 18)il 21 febbraio e poi si è andati sempre peggio,ed è storia attuale.
Si ricorda nell'articolo de Il Manifesto(ultras-ovvero-luntore-perfetto )che più di dieci giorno dopo la partita c'era Salvini che urlava di uscire di casa,andare al lavoro e produrre,i sindaci Sala e Gori(di Milano e Bergamo)con i vari Milano non si ferma e Bergamo corre,e ancor più tutta la sperimentazione partita negli stadi per controllare la gente,arrivata a risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Di quei quarantamila che assistettero alla partita di sicuro qualcuno aveva già qualche sintomo se non la quasi certezza di essere o malato oppure portatore sano,mi ricordo oltre naturalmente alla bolgia nello stadio pure gli assembramenti in metropolitana,ma da qui a dire che quella data segnò la bolla da cui tutto nacque è azzardato e comunque per ora non è minimamente dimostrabile.
Quello che è certo sta nel fatto che fino a sabato scorso nelle sole province di Milano,Bergamo e Brescia circa due milioni di persone stavano ancora lavorando,tornavano a casa e avevano,e nella maggioranza dei casi,la possibilità di contagiare le persone a stretto contatto,in una zona della Lombardia cui aggiungo anche le province di Lodi,Cremona e Pavia(tra le più colpite)che avendo un'economia basata prettamente sull'agricoltura e la zootecnia e le relative industrie di lavorazione e trasformazione dei prodotti della terra e di quelli caseari i lavoratori che sono a casa sono una minoranza anche in questi giorni.
Ultras, ovvero l’untore perfetto.
Pandemia e colonne infami. Capro espiatorio perfetto, simbolo della feccia che non piace a nessuno, gli ultras sono diventati gli untori. Mentre le attività produttive, invece, proseguono.
di Luca Pisapia
Dagli all’untore, dagli all’ultras. Nel ventitreesimo capitolo dei Promessi Sposi, raccontando delle unzioni, Alessandro Manzoni scriveva che «il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune».
Oggi la situazione è peggiorata, se possibile. Nel tardo capitalismo il senso comune ci è imposto dall’alto, e noi abbiamo talmente introiettato il sistema di valori dominante che non riusciamo più a mettere in discussione il sistema stesso: i tagli alla sanità, al welfare, la distruzione di ogni tutela sul lavoro. La colpa è di chi trasgredisce.
La responsabilità della diffusione del virus è degli untori. È partita la caccia ai runner, ai passeggiatori. Come cecchini, i cittadini si appostano ai balconi con i telefonini per riprendere il nemico, sui gruppi di quartiere che infestano i social network e le chat si invita al riconoscimento, alla delazione. L’ennesimo decreto di emergenza prevede l’utilizzo dei droni per stanare questi pericolosi criminali. Ma i runner non bastano.
Quelli sono arrivati dopo la quarantena, a cose fatte. C’è bisogno di trovare un colpevole da situare prima che tutto ebbe inizio: l’untore zero. E a leggere i giornali, guardare la televisione e ascoltare la radio in questi giorni, lo abbiamo trovato, mission accomplished.
Il capro espiatorio perfetto è stato individuato, è il tifoso. Tutto è cominciato per colpa della partita di Champions tra Atalanta e Valencia giocata a Milano il 19 febbraio, dove quarantamila persone si sono riunite insieme creando la scintilla che ha fatto esplodere il contagio nel resto del paese. Eccolo l’untore assoluto: è l’ultras.
La cosa non stupisce, da sempre lo stadio è stato considerato un laboratorio politico dove sperimentare la repressione. I tifosi sono i folk devils: la teppa, la feccia, i cattivi a tutto tondo la cui salvezza e redenzione non interessa a nessuno come scriveva Valerio Marchi. Su di loro si collaudarono i manganelli tonfa prima di usarli a Genova.
A loro misura è stata costruita la misura del Daspo (ora è entrato nel linguaggio comune e si usa dappertutto, anche in parlamento, ma l’acronimo parla chiaro: divieto di accedere alle manifestazioni sportive) l’arresto in differita, le misure di limitazione alla libertà personale e collettiva gestite direttamente dalle questure senza bisogno dell’autorizzazione del magistrato, tutti provvedimenti al limite della costituzionalità, o anche oltre, che però, essendo inizialmente previsti solo per questa marmaglia non hanno disturbato nessuno.
L’ultras fa schifo, a destra come a sinistra. Poi queste norme sono state estesi a tutti, ma era troppo tardi. E così anche oggi i padroni hanno deciso, e i giornalisti hanno eseguito: trovato l’untore, trovato l’ultras. La causa di tutto è stata la partita tra Atalanta e Valencia. E via con ricordi, interviste, considerazioni, accuse, confessioni, delazioni. Certo, sarebbe stato meglio giocarla a porte chiuse quella partita, o non giocarla affatto.
Certo fanno davvero impressione le immagini di Parigi, con lo stato vuoto e i tifosi assiepati fuori a migliaia per la partita tra Paris Saint-Germain e Borussia Dortmund; o dello stadio di Anfield strapieno per la partita tra Liverpool e Atletico Madrid, l’ultima partita di pallone di cui si abbia ricordo. Ma queste due partite si sono giocate l’11 marzo, quando noi eravamo già in lockdown, e le abbiamo guardate con occhi diversi: che fanno quei pazzi? Ma era metà marzo, appunto. Atalanta Valencia si è giocata il 19 febbraio.
E allora vediamo un po’ di date. Quasi dieci giorni dopo la partita che per ordine dall’alto deve assumere su di sé il peccato originale del contagio, il 27 febbraio, il sindaco Beppe Sala ancora si bulla sui social con il terribile video #milanononsiferma. Il giorno dopo, 28 febbraio, è il sindaco di Bergamo Giorgio Gori a lanciare #bergamoisrunning. Confindustria rilancia entrambi i video ed entrambi gli hashtag. C’è da lavorare, c’è da fatturare.
Le fabbriche non possono chiudere. Tutti minimizzano, presidenti di Regione e segretari di Partito. Fontana, Conte, Salvini, Zingaretti, a destra e a sinistra tutti invitano a continuare a lavorare, a produrre, per la gloria del plusvalore. Ancora a inizio marzo in Val Seriana non ci sono zone rosse, come invece già hanno predisposto nel lodigiano.
La gente continua ad andare a lavorare, torna a casa, si contagia. Muore.
Quando a metà marzo arriva il lockdown per il resto del paese, nelle province di Milano, Bergamo e Brescia si continua ad andare a lavorare.
Secondo la Regione Lombardia ancora settimana scorsa le cellule dei telefonini dicono il 40% dei lombardi (4mln) ancora si muove. Nessuno aggiunge che probabilmente la maggior parte è costretta a farlo per andare a lavorare. Le fabbriche non chiudono, i padroni e i politici spiegano che la locomotiva non si può fermare, bisogna fatturare.
Secondo le stime di Radio Popolare e di Radio Onda d’Urto, che stanno facendo un lavoro egregio sul campo, solo nelle province di Milano, Bergamo e Brescia, fino a sabato scorso circa due milioni di persone continuavano ad andare a lavorare ogni giorno, oltre la metà di loro nelle filiere non essenziali. Quelle che non servono al paese, ma solo al fatturato dei padroni. E in queste stime manca ovviamente il lavoro nero, nell’agricoltura, nei capannoni, nelle costruzioni, nelle piccole fabbriche.
Numeri che diventano atroci, altro che i quarantamila di Atalanta-Valencia del mese prima. Per oltre un mese la gente andava a lavorare, tonava a casa, contagiava. Moriva. Mentre facevano il giro del mondo le immagini delle terapie intensive sovraccariche, dei camion dell’esercito che si muovevano la notte stracolmi di bare e di cadaveri, cominciava a diffondersi la strategia diversiva cui tutti obbedivano. Tanto a questo sistema di valori non c’è alternativa, come ci ha raccontato Mark Fisher.
Cerchiamo il colpevole, il capro espiatorio cui addossare i peccati del mondo. La violenza e il sacro. Oggi è il runner, ieri era l’ultras: l’untore zero. E ancora sabato sera, con l’ultimo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, quello che avrebbe dovuto chiudere le filiere non essenziali, forse, non si sa, aspettiamo qualche giorno.
Le pressioni di Confindustria, dei politici, dei padroni, amplificate dai media: il fatturato della Lombardia è essenziale. Produci, consuma, crepa. Questa volta per colpa del virus. Le aziende restano aperte. Mentre persone come Sala e Gori cominciano timidamente a chiedere scusa, personaggi come Michele Boldrin scrivono sui loro profili frasi come: «L’infezione non sta nelle fabbriche, delinquenti parassiti di merda».
Eccoli, i parassiti, la feccia, la teppa. Eccoli gli ultras. È colpa loro. La responsabilità non è dei padroni, dei politici, dei sindaci, dei governatori, degli amministratori. La responsabilità del disastro immane in cui ci troviamo tutti quanti è di una categoria ben precisa: i tifosi, i quarantamila che il 19 febbraio si sono recati a San Siro per la partita di Champions tra Atalanta e Valencia. Sono loro gli untori.
Ce lo racconta chiunque: giornali, radio, televisioni. Dimenticatevi il Manzoni, il senso comune ha oramai annientato ogni briciolo di buon senso. C’è bisogno di un nemico che non siamo noi, che non rispetta i valori e le idee che noi abbiamo introiettato nel profondo e senza le quali ci sentiremmo persi nel nulla. Il nemico esterno, quello buono per ogni occasione, cui addossare la colpa di ogni nefandezza. Il tifoso.
Dagli all’untore, dagli all’ultras: il nemico perfetto.
mercoledì 25 marzo 2020
IL GIORNO DI DANTE
Oggi si ricorda Dante Alighieri,il Sommo Poeta che scrisse opere scolpite nella storia mondiale,su tutte la Divina Commedia che fin da subito fu un successo enorme che nel corso dei secoli riuscì ad entrare nelle case in tutti i luoghi della terra facendo(o costringendo gli studiosi)ad imparare un poco del nostro linguaggio,tant'è che Dante è considerato il padre della lingua italiana.
Nell'articolo(indire dantedi-mercoledi-25-marzo-la-giornata-dedicata-a-dante )alcuni commenti a questa data simbolo che non coincide né col giorno della sua nascita e nemmeno con quello della sua dipartita,ma quello dell'inizio del viaggio nell'Inferno nel settecentesimo anniversario della sua morte.
Riporto anche un pezzo del Canto,il trentatreesimo,(wikisource Divina_Commedia/Inferno/Canto_XXXIII )che è il mio preferito fin dai banchi delle medie,quello del Conte Ugolino della Gherardesca e da cui vi sono tratte delle frasi,scritte in endecasillabi,le celeberrime terzine dantesche,tra le più belle e riproposte come"La bocca sollevò dal fiero pasto"(eh sì,una bella immagine horror che si para davanti a Dante e Virgilio con Ugolino che mangia il cranio dell'arcivescovo traditore Ruggieri degli Ubaldini)e"Poscia,più che 'l dolor,poté 'l digiuno"dove il Conte racconta quando morì dopo che i suoi quattro figli lo precedettero uno dietro l'altro rinchiusi nella torre della Muda(della Fame)di Pisa,ma per inedia o dopo aver mangiato la propria discendenza?
Questa giornata deve farci ricordare di leggere di più o cominciare a farlo,se non la Divina Commedia un libro di fantascienza,un saggio,un fumetto o un romanzo,qualche poesia o riprendersi in mano un libro di quando si andava a scuola,un testo di storia o studiare un'atlante,usare meno i social e accendere di più il cervello.
Dantedì, mercoledì 25 marzo la giornata dedicata a Dante.
di Redazione
Il 25 marzo, data che gli studiosi individuano come inizio del viaggio ultraterreno della Divina Commedia, si celebrerà per la prima volta il Dantedì, la giornata dedicata a Dante Alighieri recentemente istituita dal Governo. Il sommo Poeta è il simbolo della cultura e della lingua italiana, ricordarlo insieme sarà un modo per unire ancora di più il Paese in questo momento difficile, condividendo versi dal fascino senza tempo.
L’appuntamento è per le 12 di mercoledì 25 marzo, orario in cui siamo tutti chiamati a leggere Dante e a riscoprire i versi della Commedia.
Il Ministero dell’Istruzione inviterà docenti e studenti a farlo durante le lezioni a distanza. Ma la richiesta è rivolta a ciascun cittadino. E le 12 saranno solo l’orario di punta: le celebrazioni, seppur a distanza, potranno proseguire durante tutta la giornata sui social, con pillole, letture in streaming, performance dedicate a Dante, con gli hashtag ufficiali #Dantedì e #IoleggoDante.
«Cittadini e scuole, il prossimo 25 marzo, potranno unirsi in un momento alto di condivisione. Riscoprire Dante, tutti insieme, sarà un modo per restare uniti, in un momento così complesso, attraverso il filo conduttore della poesia. So che gli insegnanti stanno già facendo sforzi importanti per portare avanti la didattica a distanza, per restare in contatto con i nostri ragazzi. Il Dantedì può essere una bellissima occasione per ribadire che la scuola c’è, per condividere, sui social o sulle piattaforme delle lezioni online, la passione per uno dei testi più importanti della nostra letteratura», ha sottolineato la Ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina.
«Questa prima edizione avviene in un momento particolarmente difficile. Le tante iniziative già previste si spostano sulla rete. Per questo rivolgo un appello agli artisti: il 25 marzo leggete Dante e postate i vostri contenuti. Dante è la lingua italiana, è l’idea stessa di Italia. Ed è proprio in questo momento che è ancor più importante ricordarlo per restare uniti», ha dichiarato il Ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, Dario Franceschini.
Il Mibact e il Ministero dell’Istruzione insieme a scuole, musei, parchi archeologici, biblioteche, archivi e luoghi della cultura proporranno inoltre sui propri account social immagini, video, opere d’arte, rare edizioni della Divina commedia per raccontare quanto la figura del Sommo Poeta nel corso dei secoli abbia segnato profondamente tutte le espressioni culturali e artistiche dell’identità italiana.
Al Dantedì parteciperà attivamente anche la Rai che con Rai Teche ha selezionato le lecturae Dantis interpretate dai maggiori artisti del nostro tempo che saranno programmate in pillole di 30” nelle tre reti generaliste della Rai e su Rai Play.
Sul canale YouTube del Mibact e sul sito del Corriere della Sera sarà inoltre trasmesso un filmato, realizzato appositamente per questa prima edizione del #Dantedì con i preziosi contributi di Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera e promotore della giornata dedicata a Dante, Alberto Casadei dell’Associazione degli italianisti, Claudio Marazzini presidente dell’Accademia della Crusca, Carlo Ossola presidente del Comitato per le celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Dante, del linguista e filologo prof Luca Serianni della Società Dante Alighieri, di Natascia Tonelli dell’Università di Siena e di Sebastiana Nobili dell’Università di Ravenna.
[Fonte: Comunicato stampa Ministero dell’Istruzione, 20/03/2020]
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Inferno-Canto XXXIII
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto. 3
Poi cominciò: "Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli. 6
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme. 9
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo. 12
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino. 15
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri; 18
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso. 21
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, 24
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame. 27
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno. 30
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte. 33
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi. 36
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane. 39
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli? 42
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava; 45
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. 48
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". 51
Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo. 54
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso, 57
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi 60
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia". 63
Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi? 66
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non m’aiuti?". 69
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi, 72
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno". 75
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti. 78
martedì 24 marzo 2020
IL LAVORO NEI SUPERMERCATI IN QUESTO SPECIFICO PERIODO
Tra le categorie più a rischio di contagio dal coronavirus tolti tutti gli operatori sanitari sono gli addetti ai supermercati ad essere in prima linea tutti i giorni(soprattutto in cassa)per un servizio indifferibile e necessario,e nell'articolo di Left(ci-sono-eroi-delle-corsie-anche-nei-supermercati )trovano spazio tante verità e vari spunti per riflessioni che possono riguardare il periodo antecedente all'emergenza sanitaria che future.
Il titolo è fuorviante ma solamente credo per catturare l'attenzione,infatti come diceva Brecht:"sventurata la terra che ha bisogno di eroi",in quanto questi lavoratori sono professionisti e l'appellativo di eroe casca fuori luogo(poi se qualcuno sente di esserlo buon per lui),ma in troppi casi si è proprio in balia degli eventi con dotazioni di sicurezza minime e a singhiozzo,temperature da provare a dipendenti e clienti che sono leggende e uno stress amplificato spesso da una clientela che non ha nessun rispetto per chi si trova davanti e che gli permette di acquistare i prodotti per mangiare,lavarsi e pulire casa.
I casi di violenza diretta,non solo verbale,sono frutto dell'altro stress che è insito anche in chi viene a fare la spesa,non ci si fascia la testa pensando solamente ai propri diritti e dover ma anche agli altri,e le parole di molti politici che in maniera allarmante più del dovuto hanno invitato all'accaparramento hanno fatto molto male.
Ma succede pure il contrario,con gente che viene al supermercato a fare una passeggiata,li si notano subito senza carrello con le mani in tasca,fortunatamente negli ultimi giorni grazie a controlli più severi con le lunghe file agli ingressi per non creare assembramenti(che comunque in certe aree dei negozi ci sono)fanno desistere ai più,e poi prosegue l'antipatica usanza di venire in due(mariti e mogli,padri e figli,famiglie intere)quando il provvedimento di una persona un carrello per nucleo familiare è una regola che esiste da più di una settimana.
Alcune catene della grande distribuzione organizzata hanno da sole imposto limiti più stringenti non aspettando nuove direttive da parte del governo,in modo da tutelare la salute sia dei clienti che dei lavoratori,anche nel caso di ridimensionamento orario sulla giornata e sulle aperture settimanali,quando una certa parte della politica(vedi quella stronza della Meloni)vorrebbe il contrario,aperture ancora più lunghe sempre e anche di notte.
Ecco il tema della salute individuale e collettiva la si vede tutti i giorni,con colleghi e colleghe che si sono ammalati e che ora sono tornati al lavoro nella gran parte dei casi,e comunque con delle assenze dovute ai sintomi della febbre e legate ad altre caratteristiche delle malattie respiratorie,senza contare il numero che potrebbe essere molto elevato di possibili contagiati senza avere sintomi,e che poi tornano a casa dalle loro famiglie.
Capitolo ultimo ma non meno importante è l'importanza che ora si dà a questi lavoratori con il contratto scaduto da un pezzo ed in perenne lotta sindacale,se davvero tra qualche settimana o mese risulteranno così tanto necessari oppure si parlerà nuovamente di esuberi e di chiusure.
Ci sono “eroi delle corsie” anche nei supermercati.
di Leonardo Filippi
Dalle corsie degli ospedali a quelle dei supermarket. Come tutto il personale sanitario, cassiere e commessi sono anch’essi in prima linea. Spesso con strumenti del tutto inadeguati per difendersi dal contagio
«Siamo sfiniti. Stiamo lavorando otto-dieci ore di fila con la stessa mascherina da giorni perché sono introvabili e quelle che sono riusciti a darci sono quelle senza filtro. Ciò nonostante, stiamo dando il massimo. In cassa, nei banchi, nei reparti per rifornire gli scaffali, mentre discutiamo in continuazione con i clienti affinché rispettino la distanza di sicurezza. Talvolta veniamo insultati, presi in giro, perché diciamo che in due non si può entrare, che può accedere a fare la spesa un solo componente a famiglia».
Questa testimonianza di una commessa di una nota catena di supermercati – che ha chiesto a Left di rimanere anonima – è solo una delle molte grida d’allarme che arrivano dai lavoratori del settore. Costretti ad uscire di casa per rifornire scaffali e battere scontrini anche a pandemia in corso, affinché sia garantito un servizio essenziale per i cittadini come l’approvvigionamento di beni alimentari e di prima necessità.
Cassieri, commessi, addetti alle vendite: ogni giorno sfrecciano tra “corsie” diverse da quelle degli ospedali, ma proprio come medici ed operatori sanitari sono “in prima linea” tra chi lotta e resiste ai tempi del coronavirus. E anche loro, sovente, sono costretti ad operare in assenza delle misure minime di sicurezza. Tra scarsità generale di mascherine (a volte portate da casa dai lavoratori), tute protettive che restano un miraggio, vetri divisori in plexiglas alle casse presenti solo in una porzione dei punti vendita, assembramenti difficili da evitare, clienti irresponsabili che escono per comprare prodotti inessenziali o addirittura colgono la possibilità andare al supermarket durante il lockdown come una semplice occasione di svago.
«Siamo allo sbaraglio», «siamo allo sbando», «siamo in balia dei clienti», «[servono] tamponi immediati, siamo stati esposti come gli infermieri e per di più senza tutela» sono le dichiarazioni rilasciate dal personale della categoria ad AdnKronos.
In un supermercato di Mestre il 18 marzo due clienti hanno iniziato a sbeffeggiare senza motivo una cassiera, per poi tossigli in faccia per dispetto. Una delle due donne, successivamente identificata dalle forze dell’ordine, è risultata positiva al coronavirus. La dipendente, alla quale non erano ancora state consegnate le mascherine in dotazione, sotto choc, è stata messa in quarantena. A Livorno il 19 marzo un commesso si è preso un cazzotto da un avventore per avergli chiesto di rispettare la distanza di sicurezza. Accompagnato al pronto soccorso, gli sono stati refertati tre giorni di prognosi. E poi c’è il caso della cassiera 48enne di Brescia, morta il 20 marzo dopo una rapida malattia con sintomi sovrapponibili a quelli del Covid-19.
Vicende drammatiche, che ritraggono lavoratori “in trincea”, tra scaffali ed espositori. I loro numerosi sos hanno portato i sindacati a mobilitarsi, anche dopo il varo del “Protocollo per la sicurezza nelle aziende” in 13 punti firmato da confederali ed organizzazioni datoriali il 14 marzo, che di fatto derubrica a semplici raccomandazioni quelle che dovrebbero essere prescrizioni inderogabili a garanzia dell’incolumità dei lavoratori, come la pulizia dei locali e l’obbligo delle mascherine quando non si può rispettare costantemente la distanza interpersonale di un metro.
Le sigle sindacali hanno chiesto innanzitutto la rimodulazione delle aperture, per dare una boccata d’aria ai lavoratori. «Ridurre il nastro orario di apertura di tutte le attività commerciali e della ristorazione a 12 ore al giorno e chiudere nella giornata di domenica tutti i punti vendita, compresi quelli di generi alimentari» è la richiesta inoltrata dalle sigle di categoria di Cgil, Cisl e Uil al presidente del Consiglio Conte. «In assenza di risposte urgenti da parte del governo – prosegue la nota dei confederali – i sindacati non escludono azioni di protesta spontanee a livello territoriale».
«Restringimento degli orari di vendita al pubblico, una persona per famiglia, guanti e mascherine a norma per tutti, potenziamento della spesa online, chiusura domenicale di tutti gli esercizi commerciali. Perché altrimenti sarà un disastro annunciato. Salvate i soldati della Grande distribuzione organizzata», ha dichiarato Francesco Iacovone, sindacalista dei Cobas Lavoro Privato.
«Quei lavoratori che trovate nei supermercati – scrive Iacovone in un post – oltre ad essere esposti a un rischio altissimo, non sono preparati psicologicamente ad affrontare tutto questo. Non hanno il “pelo sullo stomaco” degli eroi della sanità. Non hanno le giuste protezioni e la paura vincerà sulla loro psiche già troppo provata. Non ho una soluzione stavolta, mi sento fragile anche io. Devo ripensare questa nuova condizione. Ma so che non ce la faranno a reggere per troppo tempo. Non sanno come abbracciare i propri figli al rientro a casa, a baciare le mogli e i mariti. Sempre in tensione per sperare in una distanza che non c’è mai. Sempre attenti a non togliere una mascherina che non ti protegge affatto perché logora e non a norma, quando c’è. Ecco, io non so come finirà tutta questa storia, ma loro – eroi per puro caso – ne usciranno a pezzi. Se ne usciranno. Se ne usciremo. A voi il mio sostegno e il mio affetto».
Le richieste dei sindacati, in alcuni casi, sono state recepite. Non dal governo, che al momento non ha disposto alcuna limitazione agli orari di apertura dei supermercati – neanche nel decreto del 22 marzo con cui viene estenso il fermo produttivo – ma dalle Regioni. Al momento: Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Sicilia, Campania e Calabria hanno disposto la chiusura di supermarket e alimentari la domenica e nei giorni festivi. Nel Lazio, invece, orari ridotti sia durante la settimana (8.30 – 19) che la domenica (8.30 – 15).
Anche alcune catene della Grande distribuzione organizzata, le insegne dove facciamo la spesa, si sono mosse autonomamente. Per prima lo ha fatto Coop, optando per due chiusure domenicali e la rimodulazione degli orari. A seguire molte altre aziende hanno modificato le proprie fasce di apertura, con misure in genere più blande.
Scelte che senza dubbio allentano la pressione sul personale dei supermercati in questo momento difficile e quindi non possono – da questo punto di vista – che essere applaudite. Scelte che vanno incontro anche all’esigenza di commessi e scaffalisti di poter rientrare agilmente a casa a fine turno, dato che in alcune zone d’Italia gli orari dei mezzi pubblici sono stati rivisti. Ma la riduzione delle aperture pone anche alcuni dubbi.
Secondo alcuni, il rischio è che i nuovi orari facciano aumentare gli assembramenti dentro e fuori i supermercati, e dunque incrementare le occasioni di contagio, specie se non vi sarà un salto di qualità della “maturità” dei clienti. Senza contare altre possibili maggiori difficoltà. Per gli operatori nel gestire gli accessi scaglionati a regime orario ridotto. Per chi continua a lavorare (personale sanitario, forze dell’ordine, ecc.) nel poter fare agilmente la spesa. Un altro effetto collaterale potrebbe essere il senso di allarme e urgenza che genera nelle persone l’idea che l’accesso agli esercizi commerciali sia disponibile per minor tempo, specie in un momento in cui il rifornimento di generi alimentari è avvertito come una preoccupazione primaria, circostanza che potrebbe generare ulteriori accalcamenti (come quello avvenuto all’Esselunga di Prato il 21 marzo, la cui foto è già diventata un simbolo).
Ora, a margine di queste previsioni, la cui validità potrà essere valutata con più accuratezza nei prossimi giorni – e fermo restando che le rivendicazioni di lavoratori e sindacati sono urgentissime, inderogabili e fuori discussione – sorge spontanea una considerazione. Nella settimana tra il 9 marzo e il 15 marzo le vendite dei supermercati sono state superiori in valore del 16,4% rispetto allo stesso periodo del 2019 a parità di negozi, secondo le stime di Nielsen. E anche le due precedenti settimane avevano visto un trend positivo a doppia cifra. Mentre se andiamo ad analizzare la crescita dell’e-commerce, ossia della “spesa online”, dal 17 febbraio al 15 marzo lo stesso istituto registra una crescita del 79,8%. Un andamento prevedibile, viste le inevitabili abitudini maggiormente “domestiche” degli italiani. Perché dunque non chiedere uno sforzo in più alle insegne dei supermercati?
Al di là delle pur lodevoli iniziative di beneficenza di cui le catene della Grande distribuzione organizzata si sono rese protagoniste – e mentre Federdistribuzione in una nota già si mostra preoccupata per il futuro calo dei consumi interni post emergenza Coronavirus – di fronte a queste cifre monstre relative alle vendite le principali insegne dei supermercati potrebbero dimostrare davvero attenzione per i consumatori e senso di responsabilità verso il Paese realizzando un serio piano di assunzioni per permettere una maggior turnazione dei lavoratori nei punti vendita – dove spesso, lo ricordiamo, operano non solo dipendenti ma anche personale reclutato dalle agenzie interinali e operatori di cooperative esterne, in una scala discendente di diritti e di tutele. Lavoratori che, gradualmente, potrebbero essere inseriti in pianta stabile negli organici dei supermercati ad emergenza conclusa. Perché il problema dell’eccessivo carico di lavoro dei commessi è esploso col coronavirus, certo, ma ha origini ben più radicate.
Una parte di questo personale potrebbe lavorare sia “sul campo” che in smart working per garantire la funzionalità della spesa online, in questo momento quasi impossibile da effettuare in tempi accettabili, come ha dimostrato una inchiesta del Salvagente. E questo a prescindere dalla modulazione degli orari di apertura.
Ai commessi, nei giorni scorsi, è arrivato un plauso persino da Walter Ricciardi, membro dell’esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza: «Vostro lavoro importantissimo, grazie», scrive su Twitter. Sarebbe il momento che anche le insegne dei supermercati ringrazino davvero i propri “eroi delle corsie”, e pure i consumatori che stanno garantendo loro extra profitti, non soltanto permettendo che si possa fare la spesa ed operare nei punti vendita in completa sicurezza (è il minimo), ma compiendo un investimento importante perché un servizio essenziale sia garantito nel migliore dei modi e nel rispetto della salute fisica e mentale del personale. Un ringraziamento non a parole, ma nei fatti. Vale la pena che governo e sindacati lo suggeriscano ai Big della distribuzione.
lunedì 23 marzo 2020
BIENVENIDOS A CREMA!
Sono arrivati ieri alla Malpensa e saranno operativi fin da domani i 52 operatori sanitari cubani che stanzieranno a Crema presso il nosocomio cittadino avamposto fin dalla prima ora nell'emergenza Coronavirus in Lombardia(madn lemergenza-allospedale-di-crema )e nell'ospedale militare da campo allestito nel parcheggio adiacente a fianco dell'ex tribunale.
Sono 25 medici,15 specialisti di medicina generale,6 specialisti di emergenza oltre che di malattie infettive(molti di loro impegnati col virus ebola in passato),3 pneumologie 3 intensivisti che in nome dell'umanità,daranno il loro contributo a far fronte ad un emergenza che sta provocando vittime ed ammalati ancora ad un ritmo troppo elevato sia in numeri che di gravità in una delle zone più colpite.
L'articolo del Fatto quotidiano(coronavirus equipe-di-medici-e-infermieri-cubani )parla dell'arrivo di questi 52 medici(giusto una trentina in meno dell'equipaggio della Granma)che staranno per alcune settimane ospiti graditi della nostra città che sta facendo a gara per far sì che la loro permanenza sia la più cara per noi e per i malati.
Un gesto che assieme ad altri di molte nazioni che in tutto il mondo si sono mobilitate per aiutare concretamente e non a parole l'Italia,vedi anche la Cina(madn la-lezione-cinese ),il Venezuela e la Russia,nazioni che da una certa parte della popolazione sono invise,che fanno della solidarietà senza tornaconto una questione morale e di principio.
Bienvenidos:-)
Coronavirus, atterrata a Malpensa equipe di medici e infermieri cubani. Andrà ad aiutare il personale degli ospedali lombardi.
di Alex Corlazzoli | 22 Marzo 2020
“Li accogliamo a braccia aperte (purtroppo solo metaforicamente parlando, per ora) e nutriamo fiducia che saranno grandissimi alleati nella lotta al virus, nella cura dei nostri concittadini malati e anche in un poco di sgravio per i nostri operatori sanitari, ormai stremati”. Sono le parole della sindaca di Crema, Stefania Bonaldi, che domenica sera ha accolto in città 52 medici e infermieri provenienti da Cuba e destinati all’ospedale da campo allestito dall’esercito e dalla protezione civile che ospiterà 33 pazienti affetti da coronavirus. Un arrivo atteso da tutta la comunità cremasca e soprattutto dai sanitari che dal 21 febbraio lavorano incessantemente in emergenza.
Per i 52 cubani si è mossa l’intera città: dalla diocesi di Crema che ha messo a disposizione una struttura per l’alloggio di 25 persone a chi in queste ore ha raccolto biciclette per permettere loro di muoversi; all’associazione “Uniti per la provincia di Cremona” che ha donato 100mila euro per attivare l’ospitalità del personale sanitario e militare. Intanto già da lunedì i cubani saranno al lavoro. Si tratta di personale altamente specializzato che è già intervenuto in altre situazioni di emergenze sanitarie, per esempio nei paesi dell’Africa occidentale colpiti dall’epidemia di ebola nel 2014. Atterrati domenica alle 18 all’aeroporto di Malpensa sono stati presi in carico dalla protezione civile e portati a Crema dove alloggiano nella struttura della diocesi e presso l’hotel “Ponte di Rialto”.
“Non abbiamo previsto – spiega Stefania Bonaldi – un benvenuto ufficiale al loro arrivo a Crema. Lo rimanderemo alla visita dell’assessore alla Sanità Giulio Gallera, che sarà a Crema nei prossimi giorni. La festa vera, con loro e con tutti gli operatori, sarà in occasione della loro partenza, perché vorrà dire che avremo debellato questo maledetto virus. Una promessa e una certezza. Il nostro grazie, pieno di commozione e di riconoscenza, parte però da subito, a loro, alle loro famiglie che ne hanno accettato e pure ne sostengono il sacrificio e al loro generoso Paese”.
La prima cittadina di Crema in questi giorni, mentre veniva allestito l’ospedale da campo, è rimasta colpita dalla generosità dei suoi concittadini: “Da quando i militari sono qua non manca mai chi porta loro pizza e biscotti. Serviva del materiale per finire il campo e il gruppo Cammi ha regalato ciò che era necessario. Un distributore per il caffè ha installato una macchinetta gratuitamente presso l’ex tribunale dove alloggiano i militari. Un’impresa di pulizie si è offerta di sanificare l’alloggio. Un’azienda casearia ha fatto avere il formaggio. Un altro si è messo a disposizione per fare le pizze a tutto l’ospedale da campo. Nemmeno il carro attrezzi che è venuto a spostare alcune macchine nel parcheggio dove doveva essere installato l’ospedale ha chiesto soldi. La solidarietà si tocca con mano. Sono subissata da offerte di persone che vogliono fare l’interprete dei medici e degli infermieri cubani”.
Intanto c’è chi si è mosso in maniera spontanea per dare il proprio contributo. Tra questi l’associazione dei clown in ospedale di Crema e Lodi: “Sabato mattina – racconta Angela Buscaino, presidente Vip Crema – mi ha chiamato un’amica dall’hotel “Ponte di Rialto” dicendomi che arrivavano questi medici e che non sapevano come farli spostare dall’albergo all’ospedale da campo. Parlando con lei abbiamo pensato a delle biciclette. Alle 9.15 ho mandato un messaggio su WhatsApp ad alcuni gruppi tra cui quello dei clown e a mezzogiorno avevamo già la disponibilità di un’ottantina di bici. Abbiamo selezionato i comuni dove c’è stato più riscontro in modo da organizzare i permessi e abbiamo reperito un furgone con una persona che ha fatto il giro dei paesi che hanno messo a disposizione le bici: Paullo, Tribiano, Zelo Buon Persico, Madignano, Trescore Cremasco, Monte Cremasco, Crema. A Trescore Cremasco un ciclista ha donato otto bici e su una ha scritto un messaggio di accoglienza in spagnolo per i medici cubani. Sabato alle 22 ne abbiamo consegnate quaranta”.
A dare il benvenuto ai cubani domenica c’era il presidente della Caritas Claudio Dagheti: “Noi gestiremo tutta la struttura messa a disposizione della diocesi di via Medaglie d’Oro. Chiederemo solo un rimborso spese e nulla di più. La scelta è proprio quella di mettere a disposizione del territorio un luogo senza gravare sulla comunità. Ospiteremo 25 persone. Ci occuperemo di ogni loro bisogno, saremo un loro punto di riferimento. Lo stesso Vescovo, monsignor Daniele Gianotti, li incontrerà al più presto. E’ stato lui stesso a mettere a disposizione la struttura. Questa attività va ad aggiungersi a quello che continuiamo a fare ogni giorno come Caritas: abbiamo lasciato aperto il dormitorio accogliendo 18 persone che non hanno una casa. Il tutto fatto con meno volontari perché gli ultra65enni è meglio che restino a casa”. Ad essere felici dell’aiuto dato dalla truppa cubana sono soprattutto i medici dell’ospedale di Crema: “Sono in arrivo persone specializzate nella gestione di malattie infettive, si sono occupati in particolare dell’Ebola. Hanno sicuramente – spiega Michele Gennuso, medico e assessore alle politiche sociali della città – la capacità di gestire queste situazioni che non sono immediate per tutti. Va gestita la situazione del contatto con il paziente, va fatta una vestizione adeguata prima di entrare in reparto. Questi medici sono destinati alla gestione dell’ospedale da campo. Aiuteranno ad alleggerire il carico dei reparti. Ad oggi abbiamo più di 260 ricoverati e ora mancano medici e infermieri perché molti sono in quarantena”.
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