sabato 26 ottobre 2019

CON IL CELTIC,SENZA SE,SENZA MA


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Prima durante e dopo il match valido per l'Europa League tra Celtic Glasgow e la Lazio ci sono stati episodi vergognosi cui siamo abituati quando sono in gioco i merdosi tifosi biancocelesti,dichiaratamente di estrema destra che con i loro cori e saluti romani inneggianti al ventennio hanno lordato la città scozzese.
La risposta l'hanno avuta nello stadio con striscioni dedicati loro,un bel Lazio"vaffanculo",un bel Mvssolini di loretiana memoria e un Brigate Verde con una bella stella al centro,e per questo l'Uefa ha deciso di mettere sotto indagine la tifoseria del Celtic(secondo articolo proposto:www.calciotoday.it ),mentre per il momento ai laziali ci ha pensato la polizia arrestando cinque ratti di fogna(primo contributo:www.ecn.org/antifa ).
Il ritorno,con la curva della Lazio merda chiusa per insulti razzisti durante la partita col Rennes,vedrà novemila scozzesi verso la capitale per quella che si annuncerà una giornata ricca di tensioni nella capitale,col rischio di rappresaglie ed agguati da parte dei fascisti infami.

Lazio, arrestati cinque ultrà per rissa e saluti fascisti, a Glasgow.

Rissa e saluti fascisti, sono queste le accuse rivolte ai sostenitori biancocelesti.

 Ancora una volta guai in vista per i tifosi della Lazio. Sono 5 gli ultrà arrestati a Glasgow in seguito a saluti fascisti e soprattutto a una rissa avvenuta al margine del match di Europa League contro il Celtic perso dai biancocelesti per 2-1. Secondo quanto riportato dal sito del giornale scozzese Scotsman, sono molti i sostenitori laziali a essere stati filmati mentre salutavano con il braccio teso, nel momento in cui avanzavano verso lo stadio scortati dalla Digos. La stessa scena si sarebbe ripetuta anche dopo la partita su Buchanan Street.
 Europa League, Celtic-Lazio 2-1: le foto del match

 Dei 5 arrestati, 4 sono accusati di violazione della pace e uno di possesso di alcol e resistenza a pubblico ufficiale. Altri 5 tifosi sono stati allontanati dallo stadio durante la partita con relativa denuncia. "Siamo a conoscenza di altre segnalazioni e la ricerca di nuove informazioni è in corso", ha affermato un portavoce delle forze dell'ordine.

 Secondo la polizia di Glasgow sarebbero circa 1500 i laziali che hanno viaggiato per la città. I momenti di tensione non si sono verificati solo il giorno del match: anche la sera precedente un gruppo di ultrà biancocelesti incappucciati ha causato nervosismo nel centro di Glasgow.

 I fatti hanno suscitato la rabbia del club: "La posizione della società è dura e di tolleranza zero. Sono azioni che danneggiano la società e quindi potremmo chiedere il risarcimento danni. Non possiamo impedire l'accesso di questi razzisti allo stadio, per quanto noi attuiamo tutto quello che è possibile per limitare questi episodi". Lo ha detto Arturo Diaconale, responsabile comunicazione della Lazio, "Dobbiamo separare le responsabilità, nel senso che noi possiamo fare il nostro poi però altri devono fare il loro", ha spiegato ai microfoni di Radio Punto Nuovo. "Accostare Hitler alla Lazio è un errore: sbagliato generalizzare perché si tratta di alcuni e non tutta la tifoseria. La stragrande maggioranza dei tifosi della Lazio detesta la maglietta con la faccia di Hitler. Il fenomeno della politicizzazione delle curve - ha continuato - ha portato alla creazione di una sensazione secondo cui all'interno delle curve degli stadi un certo tipo di politica o manifestazioni politiche potessero avere rilevanza. Noi quindi - ha concluso Diaconale - paghiamo un fenomeno sociale che si è diffuso negli anni".

 Ancora guai dunque, dopo i saluti romani dello scorso 3 ottobre che costeranno alla Lazio una gara interna di Europa League con la Curva Nord chiusa.

 https://www.sportmediaset.mediaset.it/calcio/europa-league/lazio-arrestati-5-ultr-per-rissa-a-glasgow_10291354-201902a.shtml

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Celtic-Lazio, rissa dopo gara, tre arresti. Uno è un tifoso biancoceleste. Bhoys a rischio sanzioni

Lazio, saluti romani dei tifosi: tensione a Glasgow

Alla fine della notizia dei cinque sostenitori della Lazio, che sarebbero stati arrestati a Glasgow nella prima mattinata di oggi, secondo quanto scritto dal giornale scozzese Scotsman, non c’è stato riscontro. Di certo c’è invece che tre persone sono state arrestate per una rissa dopo la partita tra due tifosi scozzesi e uno laziale, tutti fermati e saranno processati per direttissima.

Quanto accaduto invece durante la partita con schermaglie tra le due tifoserie caratterizzate da elementi che hanno richiamato alla politica, sono oggetto di indagini in corso della polizia. La stampa locale ha ripreso i saluti romani da parte della tifoseria laziale durante il corteo prima della sfida e allo stadio non è mancata la risposta dei tifosi scozzesi, che hanno esposto uno striscione con su scritto “Follow your leader” con l’immagine di Benito Mussolini appeso a testa in giù, a simboleggiare la sua morte a piazzale Loreto a Milano.

Celtic a rischio sanzioni dalla Uefa

Non è tutto. In queste ore la Uefa sta analizzando i filmati all’interno dello stadio con particolare attenzione al grande striscione esposta dalla Green Brigade, ovvero un grande telo verde con al centro una stella bianca all’interno di un cerchio, che tanto richiama alla somiglianza con l’emblema delle Brigate Rosse, la scritta sopra è eloquente: Brigate verde.

Celtic-Lazio, le accuse per i tifosi biancocelesti

Priva di fondamento anche la notizia che la polizia avrebbe fermato 5 sostenitori: quattro di loro con l’accusa di violazione della pace, un altro per alcol e resistenza a pubblico ufficiale. Le forze dell’ordine ritengono che circa 1500 laziali abbiano viaggiato per Glasgow e uno dei portavoce ha dichiarato: “Siamo a conoscenza di altre segnalazioni e la ricerca di nuove informazioni è in corso“.

La Lazio intanto sarà costretta a disputare la prossima gara di Europa League, il 7 novembre sempre contro il Celtic, con la Curva Nord chiusa in seguito ai saluti romani apparsi con il Rennes nella sfida del 3 ottobre scorso.

venerdì 25 ottobre 2019

IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE SCONFITTO DAL POPOLO ECUATORIANO


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Dopo le insurrezioni che si sono verificate in Ecuador egli scorsi giorni ecco che i risultati sono stati raggiunti ed il popolo ha vinto,il paquetazo fortemente voluto dal Fmi(fottuti merdosi imperialisti come diceva una canzone dei Kna,altro che fondo monetario internazionale)tramite il Presidente Moreno.
L'articolo di Contropiano(news-economia )parla di questo dietrofront dell'esecutivo ecuatoriano succeduto a quello di Correa,che ai tempi del suo governo aumentò il controllo pubblico dell'economia trovando nel Fmi un nemico che è riuscito ad avvelenare il suo successore che con privatizzazioni selvagge,aumento delle tasse e del carburante stava portando via quello che di buono era stato portato a casa(vedi:madn lecuador-in-rivolta ).
Come si sia arrivati a questo punto ce lo spiega qui sotto il contributo che viaggia a ritroso nel tempo proprio al governo Correa fino ad arrivare al prestito miliardario concesso dal famigerato fondo ma a caro prezzo,con un'economia interna non in una situazione di tracollo immediato come in Grecia ma che ha fatto sì che l'austerità e il dio denaro sembravano avercela fatta ad infettare lo Stato sudamericano.
La cura giusta era spingere ancora di più sulla strada di Correa rendendo l'economia sempre più pubblica ovviamente rendendo tristemente infelice l'Fmi che con le ricchezze dei privati e le speculazioni dei capitalisti sopravvive.

Lezioni dall’Ecuador: la lotta paga, l’austerità arretra.

di  Coniare Rivolta* 
In questi giorni abbiamo assistito a forti insurrezioni popolari in Ecuador. Per comprendere meglio il quadro politico, occorre fare un piccolo passo indietro nel tempo, partendo da una figura centrale per quel Paese, l’ex presidente Rafael Correa.

Nel suo primo mandato, Rafael Correa fece riscrivere, attraverso la convocazione di un’assemblea costituente, la Costituzione del paese per poter aumentare il controllo pubblico sull’economia. In questo modo, durante la sua presidenza (2007-2017), l’Ecuador sperimentò una fase storica e politica estremamente favorevole per le classi più povere. Per dare una misura dei traguardi raggiunti, tra il 2008 e il 2016, il governo ha aumentato di cinque volte la spesa sanitaria media annua rispetto al periodo 2000-2008. Sono stati costruiti nuovi ospedali pubblici, il numero di dipendenti pubblici è aumentato significativamente così come gli stipendi. Nel 2008, il governo ha introdotto una copertura previdenziale universale e obbligatoria. Per quanto riguarda i risultati economici, il livello di povertà nel 2007 in termini di reddito è stato del 36,7% e nel 2015 era sceso al 23,3%, indicando che più di un milione di ecuadoriani hanno superato la soglia di povertà; per ciò che concerne l’indicatore della povertà estrema, l’Ecuador ha registrato una diminuzione di otto punti percentuali rispetto al 2007, attestandosi nel 2015 all’8,5%, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica e Censimenti nella sua indagine nazionale del 2015. Tra il 2007 e il 2013, il paese sudamericano ha abbassato il suo coefficiente Gini (un indice che misura la disuguaglianza dei redditi) di 6 punti (da 0,55 a 0,49), mentre nello stesso periodo l’America Latina l’ha ridotto di soli due punti (da 0,52 a 0,50). Secondo la relazione presentata dalla Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (ECLAC) nel dicembre 2015, il PIL è cresciuto in media del 3,9% tra il 2007 e il 2015, rispetto al 2,9% in America Latina.

Tutto questo ci serve per capire come Rafael Correa goda di enorme gradimento tra la gente. Al termine del suo mandato, fu Correa stesso a proporre e sostenere come suo successore Lenin (come sa essere beffardo il destino alle volte!) Moreno. Quest’ultimo ha poi vinto le elezioni promettendo la continuità del processo politico da tempo avviato. La sua linea, tuttavia, si è dimostrata fin da subito impopolare e contraria a quella del suo predecessore avviando un proficuo dialogo con la destra liberale. I risultati della sua scellerata agenda parlano chiaro: forte riduzione della spesa pubblica, liberalizzazione del commercio, avviamento di un processo di privatizzazioni, riduzione delle aliquote fiscali per le grandi imprese e flessibilità del lavoro. Questo quadro rappresenta chiaramente una politica di austerità, ribaltando completamente le politiche di sviluppo e ridistribuzione del precedente mandato.

Un disastro, nonché un massacro annunciato per le classi più povere dell’Ecuador. In questo clima infuocato, sarebbe bastata la famosa ultima goccia per far traboccare il vaso. E, puntualmente, è arrivato un temporale.

Due settimane fa, dopo la firma del decreto 883 che ha eliminato, tra le altre cose, il sussidio per il carburante, sono state scatenate proteste sociali in tutto il paese. Per essere chiari, tale sussidio rappresenta la possibilità materiale per le classi più povere di comprare il carburante. Ma non finisce qui. La serie di misure adottate dal governo ha incluso una riduzione delle retribuzioni fino al 20% dei contratti a tempo determinato del settore pubblico, la riduzione delle ferie da 30 a 15 giorni per i dipendenti pubblici e la sottrazione di un giorno di stipendio al mese da devolvere al governo. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Richard Martínez, ha dichiarato che questi aggiustamenti rispondono all’accordo raggiunto a febbraio dal governo con il Fondo Monetario Internazionale (toh eccolo di nuovo!), grazie al quale il paese ha ottenuto l’accesso a crediti per 4,209 milioni di dollari in tre anni, di cui 900 milioni di dollari sono già stati consegnati. La ricetta del FMI per il “risanamento” delle finanze di un paese è sempre la stessa: in cambio di una concessione di prestiti (o investimenti), si impone al governo di turno un’agenda politica caratterizzata da una deregolamentazione del lavoro, privatizzazioni selvagge, riduzione dei sussidi e aumenti delle imposte indirette.

Eppure, gli scempi del Fondo Monetario Internazionale sono ancora sotto gli occhi di tutti per quanto accaduto alla più vicina Grecia. Nel 2009, di fronte ad una crisi economica senza precedenti intervenne la cosiddetta Troika in suo “soccorso”: Commissione europea, Banca centrale e proprio l’ineffabile FMI. Un intervento accuratamente subordinato alla sottoscrizione di un Memorandum, un documento in cui il governo greco si impegnava ad implementare una serie di dettagliatissime misure di politica economica: dai tagli alla spesa pubblica agli aumenti delle tasse e all’abolizione delle tutele dei lavoratori. L’effetto di queste misure, come noto, è stato devastante dal punto di vista sia economico che sociale.

Insomma, la ricetta-ricatto del Fondo Monetario Internazionale (FMI) è una vera e propria macelleria sociale, un banchetto al quale partecipano i falchi (dell’austerità) e gli avvoltoi (capitalisti). Ma, purtroppo, nulla di nuovo sotto al sole.

Eppure, la situazione in Ecuador è molto diversa da quella in cui si trovava la Grecia nel 2009. L’Ecuador non ha i sintomi di un’economia in procinto di default pubblico o, più in generale, di crisi imminente. L’economia è caratterizzata da una bassa inflazione e una disoccupazione relativamente contenuta. Né sembrano esserci problemi di bilancia dei pagamenti, come vedremo tra poco. Tuttavia, alcuni mesi fa il governo ha deciso di avviare un accordo con il Fondo monetario internazionale. Perché? Vediamo le possibili ragioni.

L’Ecuador è un’economia dollarizzata dal 2000, anno in cui è stato sostituito il sucre ecuadoriano con il dollaro statunitense. La dollarizzazione altro non è che un sistema monetario nel quale i residenti di un dato Paese utilizzano strumenti monetari e finanziari denominati nella valuta di un altro Paese (in questo caso il dollaro statunitense). La dollarizzazione può avvenire in modo ufficiale o di fatto. Nel primo caso, una valuta straniera ha corso legale in un Paese dove la banca centrale non esiste oppure ha un ruolo molto limitato, e questo è proprio il caso dell’Ecuador. La presenza di un tasso di cambio fisso e la mancanza di una politica monetaria completamente indipendente fanno perdere un importante meccanismo di aggiustamento nel caso in cui un paese dollarizzato sia in condizioni economiche molto diverse rispetto al paese della valuta di riferimento. In particolare, non è possibile per questo paese svalutare la propria valuta e recuperare in questa maniera competitività internazionale.

Per un’economia dollarizzata, solitamente, l’instabilità economica deriva da una crisi della bilancia dei pagamenti, che al momento non sembra essere il problema dell’Ecuador. Ora cercheremo di spiegare perché.

A tal proposito dobbiamo entrare nel dettaglio della bilancia dei pagamenti. Questa è formata da due voci: le partite correnti, principalmente rappresentata dal saldo netto delle esportazioni (ossia il valore delle esportazioni meno il valore delle importazioni) e il conto finanziario. La somma di questi due capitoli fornisce il saldo della bilancia dei pagamenti. Dal 2010 l’Ecuador presenta un persistente deficit commerciale, dunque una passività delle partite correnti, compensato da un attivo del conto finanziario grazie agli investimenti diretti esteri (acquisto di attività da parte di investitori privati stranieri), ai flussi finanziari a breve termine (acquisto di titoli privati con scadenza ravvicinata) e ai prestiti al governo.

In un contesto caratterizzato da un deficit commerciale strutturale, l’Ecuador ha continua necessità di flussi finanziari a breve termine in entrata per garantire l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Un Paese può attrarre capitali esteri semplicemente alzando il tasso di interesse interno, che è la remunerazione del capitale; l’Ecuador, però, stretto tra la necessità di evitare tassi troppo elevati sul debito estero privato ed il peggioramento della bilancia dei pagamenti indotto dalla forte contrazione del prezzo del greggio (-20% tra settembre 2018 e gennaio 2019), ha deciso di arginare gli squilibri commerciali attraverso un prestito concordato con il Fondo Monetario Internazionale, che avrebbe concesso al Paese 6 miliardi di dollari per tre anni.

I prestiti del Fondo Monetario sono però sempre condizionati all’attuazione di politiche economiche liberiste: se vuoi i loro soldi, devi accettare il loro modello di sviluppo, che è quello della globalizzazione e della deregolamentazione selvaggia. Così, nel marzo 2019, il Fondo Monetario osserva che i salari sono cresciuti in Ecuador al di sopra della produttività nell’ultimo decennio (governo Correa), e che questa dinamica avrebbero compromesso la “competitività” del Paese, lasciando il tasso di cambio reale “sopravvalutato”. Il problema della competitività può essere risolto facendo leva sul tasso di cambio, ma questo richiederebbe l’abbandono della dollarizzazione; piuttosto, il FMI traccia un’altra strada per l’Ecuador, quella della deflazione interna, ossia la compressione dei salari. Eppure, soprattutto per un paese in via di sviluppo come l’Ecuador, la via maestra sarebbe quella di potenziare la capacità produttiva interna, in modo tale da costruire un’indipendenza economica dalle merci estere e limitare le importazioni. Al contrario, per l’Ecuador la soluzione peggiore è proprio quella di aprirsi al mercato internazionale, accettando l’ancoraggio al dollaro, perché ciò non risolve il problema strutturale del deficit commerciale ma lo perpetua, lasciando il Paese alle dipendenze dei capitali stranieri.

Una via alternativa a quella indicata dal FMI richiederebbe un massiccio intervento pubblico nell’economia, e questo era la strada tracciata giustamente dal presidente Correa. Ma un’economia con una forte presenza pubblica lascia poco spazio al profitto privato, ed è dunque una minaccia per gli interessi che il Fondo Monetario difende con i suoi dollari. Diventa dunque una condizione fondamentale per il FMI imporre un regime di austerità fiscale, affinché il governo rinunci ad un ruolo rilevante nell’economia, lasciando spazio e settori economici alla sete di profitto dei capitalisti. Tuttavia, affinché questi possano ottenere un (mai abbastanza soddisfacente, per loro) profitto bisogna creare un divario tra il prezzo delle merci e il costo del lavoro necessario a produrle. Ora è più facile comprendere come la ricetta del Fondo Monetario chiuda perfettamente il cerchio, attraverso l’imposizione di una deregolamentazione del lavoro e una forte riduzione dei salari.

Perseguendo la logica dell’austerità, il surplus primario del bilancio pubblico ha caratterizzato l’Ecuador nel 2018 e nel 2019: il governo attuale segue fedelmente le ricette imposte dal FMI per indebolire il peso dello Stato in economia e mettere in ginocchio i lavoratori. Le implicazioni sociali e politiche dell’austerità non hanno tardato, come sappiamo, ad arrivare. Già a marzo, tra l’altro, il FMI aveva affermato molto chiaramente che politiche di questo tipo avrebbero scatenato una resistenza sociale.

Ed eccoci giunti all’attualità. Fortunatamente, le classi subalterne si sono sollevate manifestando per giorni il loro fermo dissenso alle politiche antipopolari del governo. La repressione poliziesca si è prontamente manifestata in forme gravissime lasciando sul campo feriti e morti. Malgrado tutto, la pressione popolare è riuscita ad ottenere un risultato straordinario: il ritiro del pacchetto di misure imposte dal FMI e annunciate dal presidente Moreno.

Manifestiamo la nostra più profonda solidarietà al popolo ecuadoriano nella speranza che le lotte sociali contro il neoliberismo, l’austerità e le politiche di classe mosse contro la maggioranza sociale possano continuare a sortire i loro frutti.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

giovedì 24 ottobre 2019

COME AI TEMPI DI PINOCHET


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Le sanguinose repressioni che sono in atto in Cile per le proteste di piazza che stanno imperversando non solo nella capitale Santiago ma in tutto il resto del paese,sono frutto di una situazione che è sfuggita di mano da parte del Presidente del centro destra Sebastián Piñera che come accade in tutto il mondo(anche da noi)vive assieme ad una rappresentativa elitaria sotto ad una bolla dove tutto è bello e crede che al di fuori ci sia lo stesso.
Evidentemente queste persone narcotizzate non guardano ai bisogni primari di un'intera popolazione che vive un clima di disagio sociale ed economico che la maggior parte dei media ha espresso nella protesta dell'aumento della tariffa della metropolitana,in una nazione dove tutta l'acqua è privatizzata  e ci sono salari e pensioni misere,la questione aperta dei Mapuche(madn i-mapucheil-popolo-della-terra ),le lotte studentesche(madn la-marcha-estudiantil-in-cile )oltre che la solita ingerenza statunitense che qui ha avuto le pagine più atroci di tutta la storia sudamericana con Pinochet(vedi:madn ni-perdonni-olvido ).
Ed è proprio dai tempi del dittatore che il Cile non vede applicato lo stato d'emergenza e dove ci sono morti ammazzati per le strade dovute all'intervento militare e dei carabineros che sempre si sono prestati ai soprusi dei politici,articolo di Contropiano:internazionale-news .

Cile. Oggi, 23 ottobre, è sciopero generale contro lo stato d’emergenza.

di  ************* 
Il Cile affronta la più grande crisi politica e sociale dalla fine della dittatura militare. L’epidemia sociale innescata dagli aumenti dei trasporti collettivi ha rivelato la rabbia contenuta e il malcontento per le politiche promosse negli ultimi decenni, aumenti permanenti dei servizi di base, stipendi stagnanti, commercializzazione dei diritti sociali.
 Di fronte a questo, il governo sta realizzando un vero e proprio “colpo di stato”, usando la più grande delle pratiche antidemocratiche che consiste nell’utilizzare la Forze Armate per imporre la “pace sociale” attraverso la forza e in tale contesto imporre le sue politiche anti-popolari su pensioni, tasse, orario di lavoro, ecc. Il governo con le sue azioni, ha paralizzato il paese con il clima di violenza installato con la presenza dei militari nelle strade.

Sebastián Piñera non capisce i motivi alla base della diffusa protesta dei cittadini su tutto il territorio, con il suo atteggiamento è chiaro che non è in grado di continuare a guidare il paese.

Pertanto, in primo luogo, nell’ambito della legge e in relazione a ciascun caso, nessun lavoratore dovrebbe mettere a repentaglio la sua integrità, né partecipare ai suoi lavori se le condizioni non esistono.

Le organizzazioni sindacali presenti, in una riunione di emergenza dell’unità sindacale, chiedono al governo di ripristinare l’istituzionalità democratica, che in primo luogo significa ritirare lo stato di emergenza e riportare i militari nelle loro caserme.

Solo una volta ritirato lo stato di emergenza, ci saranno condizioni che permetteranno di avviare in modo reale, un dialogo sociale e politico, con le organizzazioni che rappresentano i lavoratori e i movimenti sociali, che risponderanno alle richieste che hanno generato questo stato di indignazione sociale .

Le organizzazioni presenti, esprimono la nostra decisione di chiamare un grande sciopero generale che svuoti le strade del paese. Se non vi è alcuna risposta da parte del governo e una rapida uscita all’attuale stato di crisi delle istituzioni democratiche, questo sciopero partirà da mercoledì 23 ottobre.

Facciamo un appello categorico all’opposizione e al progressismo affinchè raccolgano e legiferino considerando le richieste popolari e ad agire per il bene del paese con criteri di unità attorno alle esigenze e alla gravità del momento. Immediatamente, chiediamo di interrompere ogni azione legislativa qualora venga mantenuto lo stato di emergenza, dando vita ad uno uno sciopero parlamentare.

Siamo certi che la prima responsabile della violenza sia questa arrogante e insensibile élite che per decenni ha abusato dell’impunità e mercificato anche i diritti più elementari; essi non sono un esempio di nulla ma sono quelli che hanno portato questo paese alla grave esplosione sociale che stiamo vivendo oggi.

Ma con la stessa chiarezza condanniamo nel modo più forte la violenza irrazionale generata dall’atteggiamento del governo, che ha permesso azioni di vandalismo e delinquenza dei gruppi minoritari, mentre la stragrande maggioranza del paese ha manifestato pacificamente e in modo organizzato in tutto il territorio. È assurdo distruggere la metropolitana che non viene utilizzata dai potenti ma dai lavoratori o il saccheggio delle imprese, alcune delle quali sono di piccoli commercianti, la distruzione di beni pubblici è riprovevole. Quella violenza irrazionale è funzionale solo ai potenti per giustificare la repressione e la militarizzazione del Paese. Ma abbiamo anche sollevato la questione della sospetta assenza di sorveglianza della polizia e protezione della rete della metropolitana, delle imprese e degli edifici, proprio quando questi gruppi di appartenenza sconosciuta e dubbia hanno operato.

Infine le organizzazioni sindacali riunite oggi, ribadiscono e fanno propria la dichiarazione e petizione sull’Unità Sociale, che contiene le esigenze dell’intera cittadinanza dal 19 ottobre, sotto il motto: Nos cansamos, nos unimos

Centrale unitaria dei lavoratori – Coordinatore Non Più AFP – Associazione nazionale dei dipendenti fiscali ANEF – CONFUSAM – FENPRUSS – Coordinatore confederale dei sindacati e dei servizi finanziari – FEDASAP – Confederation Banking – CONFEDEPRUS – Intedempresa Lider SIL – Collegio degli insegnanti – FENATS National

Aderiscono: CONES – CONFECH – Chile Mejor Sin TLC – Cumbre de los Pueblos – FECH – FENAPO – FEUARCIS.

giovedì 17 ottobre 2019

VIA LIBERA DA FACEBOOK PER L'AVANZATA DI ERDOGAN


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Nelle ultime ore parecchi siti di controinformazione che hanno condannato l'invasione turca nel nord della Siria(madn l'attacco e le minacce di erdogan )sono stati censurati e sono a rischio chiusura per avere espresso la verità su di un attacco perpetrato in maniera vigliacca e che sta facendo discutere il mondo anche se ancora nulla di concreto si è organizzato per fermare questa avanzata,a parte le truppe di Assad e qualche azione dell'esercito russo che ha occupato le postazioni lasciate dagli statunitensi.
Il comunicato congiunto di diverse espressioni d'informazione italiana(articolo preso da Contropiano:la-censura-aiuta-la-guerra-di-erdogan )elenca la scelta di Facebook di censurare tutti i post che parlano male di Erdogan,una scelta che praticamente nemmeno loro sanno bene il perché(arrampicarsi sugli specchi,vedi l'articolo successivo:contropiano la-politica-estera-dei-social-network-e-pro-erdogan )causa algoritmi ciechi che in base a certe parole o foto bloccano automaticamente le notizie diffuse tramite il social network balzato alla ribalta solo poco tempo fa per avere bloccato in toto le pagine di alcune organizzazioni fascistoidi(madn dal-virtuale-al-reale ).

La censura aiuta la guerra di Erdoğan.

di  Contropiano, DinamOPRESS, Globalproject.info, Infoaut, milanoinmovimento.com, Radiondadurto 

Comunicato di: Contropiano, Dinamopress, Globalproject.info, Infoaut, milanoinmovimento.com, Radiondadurto

Tra ieri sera e questa mattina, Facebook ha chiuso le pagine di alcune testate indipendenti e legate ai movimenti sociali. Altre sono state raggiunte da messaggi ufficiali della piattaforma in cui si comunica il rischio della chiusura.

I contenuti oggetto dell’operazione sono strettamente legati a post in cui si evidenziava il sostegno alla causa curda e si esprimeva il legittimo dissenso a quanto sta succedendo in Siria del Nord a opera della Turchia. Una guerra che aggiunge anche la questione dell’informazione e della comunicazione nel novero dei terreni di contesa, che si sommano ai più evidenti aspetti economici, politici e militari. Evidentemente, l’espansionismo  di Recep Erdoğan non è solo territoriale, ma si propaga anche nell’intelligence digitale.

Gli attacchi che stanno subendo queste pagine non hanno nulla di casuale. È chiaro a tutti che sono ben organizzati e coordinati. Erdoğan ha il problema di ricostruire consenso intorno alla sua figura per questo vuole mettere a tacere tutte le voci critiche.

Riteniamo che il sostegno di Facebook all’offensiva comunicativa del regime turco violi i più basilari dettami della libertà di stampa. Anche per il social network vale la Costituzione, che all’articolo XXI stabilisce: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».

Inoltre Facebook – agendo da piattaforma proprietaria – confonde scientemente la “neutralità” dei suoi contenuti con una vera e propria censura nei confronti di chi sta denunciando il massacro militare di civili, il rafforzamento di Daesh – che era stato sconfitto grazie alla resistenza curda – e la produzione di una nuova emergenza migratoria forzata.

Mr Zuckerberg vuole sostenere questa campagna propagandistica? Fare da sponda alla censura e a un regime che ha scatenato una guerra d’invasione fa parte degli standard della community del social più utilizzato al mondo?

Come testate che hanno da sempre sostenuto istanze di libertà e democrazia reale, ribadiamo che continueremo a essere in prima linea nel documentare e sostenere le lotte per la giustizia, l’uguaglianza e i diritti in ogni angolo del mondo. Allo stesso tempo ci appelliamo a chiunque creda nei valori e nell’azione di una informazione libera e indipendente di denunciare questo grave atto di censura attraverso tutti gli strumenti a sua disposizione.

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La politica estera dei social network? E’ pro-Erdogan.

di  Redazione Contropiano  
Un algoritmo ammazza l’intelligenza. O, se volete, l’intelligenza artificiale è politicamente un potente idiota. Che lavora per chi dice di voler combattere.

La pagina Facebook di Contropiano è stata nascosta, al pari di decine di altre che in questi giorni ha scritto o postato contenuti filo-curdi e contro Erdogan.

La motivazione, come sempre, non c’è. La frase che “giustificherebbe” questa decisione è di singolare stupidità: “Sembra che un’attività recente sulla tua Pagina non rispetti le Condizioni delle Pagine Facebook”. In pratica avrebbero dovuto scrivere: “non sappiamo neanche noi perché la tua pagina sia stata bloccata, perché abbiamo creato degli algoritmi ciechi che scattano automaticamente quando incontrano certe parole o foto”. Ma avrebbero fatto una pessima figura…

L’intenzione dichiarata di Facebook è combattere “l’odio”, che naturalmente è come dire che vuoi combattere l’aria. Non è infatti possibile alcuna definizione universalmente condivisa dell’”odio”, così come non lo è del “terrorismo”, perché in un mondo pieno di conflitti chiunque combatta – per ragioni sacrosante oppure ignobili – ha (e dà) un’idea ottima di sé e totalmente negativa dell’avversario. Per combattere, insomma, bisogna amare sé stessi (la propria parte, il proprio popolo, la propria causa) e odiare il nemico.

Chi è estraneo da un particolare conflitto può giudicare assurdo o disdicevole che quel conflitto ci sia, e che si manifesti informe aspre come una guerra, una guerriglia, ecc. Ma non può mai, sul piano logico e “ontologico”, dare di quel conflitto una definizione accettabile per tutti.

Per questo, qualsiasi cosa si faccia dentro un conflitto, non si è mai “al di sopra delle parti” ma sempre al fianco di una delle parti. Come nella Resistenza, l’”area grigia” della popolazione è stata di fatto al fianco dei nazifascisti finché questi sono stati dominanti, per poi riversarsi in un’istante dal lato degli americani una volta finita la guerra.

Ma Facebook, Instagram e gli altri social che in questi giorni stanno oscurando migliaia di pagine solidali con il popolo curdo sotto l’attacco di Erdogan sono qualcosa di molto peggio. Costituiscono infatti il tentativo di creare un campo delle opinioni ammissibili a livello mondiale che prescinde dalle ragioni dei conflitti in atto.

Per somma vergogna, questo tentativo non è fatto attraverso la definizione di scelte politiche ufficialmente rivendicate – e dunque contestabili come ogni altra – ma sulla base di un politically correct arbitrariamente definito dai vertici delle varie società e affidato alla gestione di algoritmi. I quali, per loro natura, rispondono a seconda di come sono stati scritti. 

E una “morale universale”, oltre a non esistere in un mondo conflittuale, è anche impossibile da tradurre in linee di codice. E’ come scrivere le istruzioni di un navigatore e non prevedere che un viadotto possa crollare o una strada sparire per frane o terremoto.

Facebook aveva ricevuto diversi consensi quando aveva deciso la chiusura delle pagine di CasaPound e Forza Nuova. Noi, da antifascisti militanti, avevamo visto l’assurdità di un “antifascismo” affidato ad una società informatica di dimensione globale. Quegli stessi algoritmi, infatti, “punivano” sia i siti fascisti che quanti scrivono per condannare e combattere il fascismo. 

L’algoritmo cieco, paradossalmente, è incapace di distinguere tra like  e unlike (e infatti Zuckerberg aveva dovuto mettere il famoso “bottone”, che ogni umano clicca o no, secondo criteri umani e non algoritmici).

La strage di pagine filo-curde è ovviamente un appoggio esplicito a Erdogan. Vogliano o non vogliano Facebook, Instagram e simili.

Probabilmente, in qualche riga dell’algoritmo, scatta l’allarme rosso alla parola “curdi” che, secondo la logica politica di Erdogan, è sinonimo di “terrorismo”.

In queste ore hanno subito la nostra stessa sorte persone e collettivi ampiamente conosciuti per il loro impegno umano e/o politico. Ad esempio Instagram ha bloccato il reporter Michele Lapini, per una foto scattata durante il corteo in solidarietà con il popolo curdo svoltosi a Bologna mercoledí 9 ottobre. Nell’immagine, si vedeva infatti uno striscione con su scritto «Erdogan assassino». Alla protesta del reporter il social ha risposto nel solito modo: «viola gli standard in materia di persone e organizzazioni pericolose».

Nelle stesse ore e con identica motivazione, Facebook ha oscurato la pagina Binxet – Sotto il Confine, con un documentario di Luigi D’Alife che racconta la resistenza del Rojava e le responsabilità dell’Europa nelle atrocità del confine turco-siriano. Con la voce narrante di Elio Germano, il video aveva già superato il mezzo milione di visualizzazioni.

Chiuse anche molte pagine della Rete Kurdistan, del centro culturale Ararat. Nei mesi scorsi erano inciampati nella censura “artificialmente intelligente” anche la campagna Rojava Calling. Facebook, qualche giorno dopo, bloccò una vignetta di Zerocalcare con la scritta Cizira-Botan Resiste, per denunciare il massacro di Cizre dell’esercito turco contro uomini, donne e bambini (28 morti ed oltre 100 feriti). 

Stessa sorte per il profilo di Davide Grasso, autore di Hevalen, di ritorno dal fronte in Rojava contro l’Isis.

Ma anche nel resto del mondo non si contano le censure a pagine di supporto alla lotta dei curdi contro l’Isis (nel 2015 il sito francese Streetpress denunciò la censura della campagna Fuck Daesh, support PKK).

La stupidità degli “algoritmi intelligenti” è nota anche ai vertici dei social network, che hanno reclutato nel mondo centinaia di “pulitori umani” delle pagine dubbie. Il problema è che si tratta di precari che lavorano dieci ore al giorno, pagati spesso a cottimo (più pagine “pulisci”, più guadagni), reclutati senza alcuna selezione politically correct. E che dunque rispondono da un lato alle assurde “condizioni delle pagine” (Facebook o Instagram, ecc), dall’altra ai propri convincimenti. 

E quindi ti puoi tranquillamente trovare una “squadretta turca” che fa tabula rasa dei filo-curdi (molto più difficile assumere una “squadretta curda” che operi in senso contrario, vista la situazione), così come fanno le “squadrette israeliane”  con chi appoggio la lotta dei palestinesi… 

P.s.

Come accaduto ad altre pagine che stanno denunciando quello che sta accadendo in Siria del Nord, ieri sera Facebook ha nascosto la pagina di Ya Basta Êdî Bese e ha fatto la stessa con Globalproject.info questa mattina.

Su quest’ultima, prima dell’oscuramento, sono stati cancellati contenuti relativi a manifestazioni di sostegno alla causa curda, cosa che Globalproject.info ha sempre documentato, anche prima della rivoluzione del Rojava. I contenuti – a detta di Facebook- violerebbero gli “standard di comunità”. Facebook ha chiuso anche la pagina di “Milano in Movimento”, alle 10.39 di mercoledì mattina.

mercoledì 16 ottobre 2019

SERVE DI PIU' DELL'ABOLIZIONE DEL SUPER TICKET


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L'abolizione del super ticket per le prestazioni sanitarie pubbliche che dovrebbe essere attiva dal primo settembre del 2020 è una goccia in un mare di problemi in cui versa la sanità italiana(madn lemergenza-annunciata-della-sanita.pubblica ),e questo superamento dei 10 Euro a ricetta oppure anche cifre maggiori nelle regioni che hanno scelto di tassare in base ai redditi,è un piccolo passo fortemente voluto dal nuovo Ministro della sanità Speranza,che è riuscito ad ottenere anche qualche milione di Euro in più per il sistema sanitario pubblico nazionale.
L'articolo di Contropiano(non-ce-speranza )oltre a tracciare la storia del ticket voluto per disincentivare prestazioni inutili e per compartecipare il cittadino alla spesa pubblica,parla delle altre emergenze sanitarie,delle lunghe attese per gli esami e le visite,di un sistema sempre più votato verso le assicurazioni e le prestazioni private(madn assicurazioni-sanitarielamericanizzazione della salute )e di un bene che deve essere gratuito ed accessibile a tutti,sia al ricco che al povero.
Siccome che questo in Italia grazie alle leggi liberticide e le scelte politiche sempre più votate al profitto privato magari usando soldi pubblici,c'è la possibilità di fare pagare qualcosa di più a chi ha un reddito maggiore rispetto a chi ne ha meno o non ne ha addirittura,che ha il sacrosanto diritto di curarsi in caso di bisogno.
Si parla pure dell'esercizio della professione privata utilizzando ambulatori pubblici(intramoenia)da parte dei medici e degli specialisti che operano in strutture pubbliche,e chi ha avuto a che fare con questo sa benissimo che sia la durata che le qualità delle visite sono estremamente differenti.

Non c’è Speranza per un servizio sanitario universale.

di  Coniare Rivolta * 
Da diversi giorni si dibatte sull’intenzione annunciata dal Ministro della sanità Speranza di modificare il sistema di tasse sulle prestazioni sanitarie, ossia il conosciutissimo ticket. La proposta sembra vertere su una rimodulazione dei ticket in base alle fasce di reddito e sull’abolizione del super-ticket, un obolo di 10 euro che dal 2007 si somma al ticket ordinario su ogni prestazione già gravata dalla tassa.

Il cosiddetto ticket sanitario esiste formalmente in Italia dal 1989 e venne applicato per la prima volta nel 1993. Nato come tassa simbolica con l’intenzione di disincentivare la domanda smodata di sanità frenando gli abusi, con il tempo è diventato sempre più elevato acquisendo un peso molto consistente che negli anni più recenti si è attestato mediamente a circa 4-5 miliardi di euro annui complessivi di spesa compartecipata (ossia proveniente direttamente dai cittadini che pagano il ticket). Il ticket colpisce una quantità cospicua di farmaci e tutte le visite mediche diagnostiche, e può superare la cifra di 40-50 euro per diverse prestazioni a seconda delle regioni.

Il sistema, sin dagli inizi, ha garantito delle fasce di esenzione legate a fattori di reddito, condizioni di salute ed età. Attualmente è prevista l’esenzione solo per:

persone sopra i 60 anni e bambini sotto i 6 anni che appartengono ad un nucleo familiare con reddito inferiore a 36.000 euro annui lordi;

disoccupati che appartengono ad un nucleo familiare con reddito inferiore agli 11.000 euro lordi annui;

soggetti affetti da determinate malattie croniche.

La gran parte delle persone, dunque, anche se povere ed anche se affette da svariate patologie croniche non incluse nella lista delle esenzioni, si ritrovano a pagare il ticket per ogni prestazione sanitaria.

Gli argomenti usati per giustificare l’esistenza dei ticket sono essenzialmente due:

1.il primo, già menzionato e usato come cavallo di Troia per spianare la strada all’introduzione della tassa, è il presunto effetto disincentivante al fine di favorire un utilizzo appropriato della sanità;

2.il secondo, emerso in modo crescente negli anni a venire con il consolidamento delle politiche di austerità in Italia e in Europa, è la presunta necessità di garantire un cofinanziamento a carico del paziente in un contesto di scarsità e difficoltà di reperimento delle risorse pubbliche.

Rispetto al primo elemento, va rilevata la profonda iniquità di un approccio che vorrebbe sostituire la sacrosanta educazione sanitaria di medici e pazienti, utile ad evitare un sovra-utilizzo abusivo delle strutture sanitarie, con l’arma del disincentivo economico che colpisce a pioggia tutti i soggetti, venendo così a creare un pericoloso effetto ‘distorsivo’ sulla prevenzione e la cura anche laddove, sia la prevenzione che la cura, fossero pienamente giustificate ed utili. Politiche di controllo dei medici curanti e campagne di sensibilizzazione ed educazione sanitaria capillari sortirebbero, viceversa, un effetto potenziale di moderazione degli abusi senza gravare sulle tasche dei cittadini bisognosi di percorsi di indagine diagnostica e di cura.

Il secondo elemento, base essenziale delle politiche economiche adottate nell’ultimo trentennio, va smontato radicalmente dalle fondamenta: non esiste scarsità di risorse pubbliche in un sistema economico con una disoccupazione a doppia cifra lontanissimo dal pieno impiego. Lo Stato potrebbe spendere risorse in deficit creando occupazione, crescita e servizi per il cittadino, compresi quelli sanitari; inoltre, anche in un sistema che, per ipotesi, abbia raggiunto il pieno impiego, le risorse per un sistema sanitario andrebbero reperite tramite uno sforzo collettivo di tipo progressivo che gravi in modo crescente, tramite la tassazione diretta, sui redditi più alti e sulla generalità delle persone anziché sulla persona in stato di bisogno sanitario.

E’ infatti evidente la forte regressività di una tassa quale il ticket sanitario che colpisce con cifre fisse una prestazione, indipendentemente dal reddito del soggetto che ne usufruisce, andando dunque a gravare in modo infinitamente più forte sul povero rispetto al ricco. E’ altresì evidente la regressività che quella tassa genera rispetto allo stato di bisogno, indipendentemente dal reddito percepito, nella misura esatta in cui colpisce il malato, il bisognoso, colui che deve intraprendere un percorso diagnostico per necessità e non invece colui che quel percorso ha la fortuna di non doverlo intraprendere perché è in buone condizioni di salute.

Tornando alla proposta di Speranza, che ricalca peraltro una proposta già annunciata nel 2014 dal governo Renzi e poi mai attuata, l’idea di una rimodulazione dei ticket sanitari sulla base dei livelli di reddito potrebbe a prima vista sembrare ragionevole nella misura in cui introduce dei minimi elementi di progressività in quell’impianto che, come abbiamo visto, impone una tassa in somma fissa dagli effetti gravemente regressivi.

Eppure le cose non sono così ovvie e ci sono ottime ragioni per ritenere l’approccio della proposta viziato all’origine.

Partiamo da una prima considerazione: l’accesso alle cure e il mantenimento della salute è un diritto universale, tra i più basilari che una società dovrebbe riconoscere ad una persona. La malattia, la sofferenza, lo stato di bisogno psico-fisico sono esigenze che sorgono per accidenti della vita e non certo per responsabilità individuali (se non in casi molto marginali). Si tratta quindi di un bisogno di cui l’intera società dovrebbe farsi carico con risorse collettive senza che sia il bisognoso di turno a sostenerne il costo. Si potrebbe obiettare: ma se il bisognoso è ricco non avrà certo problemi a finanziare almeno in parte il costo di un percorso diagnostico ed aiuterà così il sistema a reperire risorse per i più poveri! L’obiezione è sbagliata per almeno due motivi.

Il primo motivo è che ricchi e poveri devono essere discriminati a monte nel processo di imposizione fiscale, e non a valle al momento dell’accesso ad un servizio a buona ragione giudicato universale. E’ la progressività generale delle imposte, vergognosamente ridotta al lumicino nel sistema italiano degli ultimi decenni, a garantire, all’origine, la progressività del finanziamento di un servizio come quello sanitario. Il vero obiettivo, dunque, dovrebbe essere quello di incrementare drasticamente il grado di progressività del sistema tributario (in direzione diametralmente opposta rispetto alla proposta leghista della flat tax) nella sua struttura facendo pagare tante imposte a chi può permetterselo e poi finanziare con questo gettito i servizi pubblici universali per tutti, al netto peraltro dell’ampia possibilità di finanziamento in deficit.

Voler ripristinare la progressività perduta a valle rappresenta un palliativo non solo iniquo, ma anche inefficace e persino pericoloso. Iniquo, perché si decide di tassare il benestante malato e bisognoso al posto della generalità dei benestanti. Inefficace, perché è ben noto che i più ricchi non fanno uso della sanità pubblica, ricorrendo nella maggioranza dei casi a diagnostica e cura privata coperta da laute assicurazioni. Pericoloso, infine, perché apre la pista ad un nuovo concetto di stato sociale che da anni, non solo in ambito sanitario, si tenta di affermare nei Paesi europei sulla scia del modello anglosassone e sulla spinta delle politiche di austerità: ossia quello di uno Stato sociale compassionevole con i soggetti più poveri e che viene finanziato, di fatto, da quelli un po’ meno poveri tramite sistemi impositivi sempre meno progressivi.

Lo Stato sociale universalistico di molte nazioni europee si sviluppò nel corso del Novecento e in particolare nei tre decenni che seguono la fine della seconda guerra mondiale sulla base di un principio generale: lo Stato è in grado di intervenire nell’economia garantendo a tutti servizi socialmente rilevanti, che devono essere sottratti alla logica del mercato, e che possono essere finanziati collettivamente, o tramite ricorso al deficit o tramite imposte fortemente progressive. Istruzione e sanità hanno rappresentato da sempre i capisaldi dello Stato sociale universalistico assieme ad altri ambiti parzialmente o integralmente sottratti alla logica del mercato.

Il modello di stato sociale anglosassone di marca statunitense è sempre stato invece di natura ben diversa: lo Stato interviene coprendo con servizi essenziali diretti o finanziando monetariamente l’uso di servizi privati, le esigenze primarie della popolazione più povera, mentre tutti gli altri, compresa la gran massa della classe media e medio-bassa, non povera ma certo non ricca, si pagano cure, istruzioni e servizi di ogni altro genere da sé in genere tramite un sistema assicurativo privato. Il tutto basato su un sistema di imposizione fiscale meno progressivo degli omologhi europei che implica un forte carico sulla classe media.

Si chiama Stato sociale compassionevole, limitato alla popolazione più povera, basato non sull’idea del diritto sociale universale ma su quella dell’assistenza minima e spesso scadente, limitata agli indigenti. Un sistema che nei fatti implica una redistribuzione di risorse dalla classe media e medio-bassa ai più poveri (quindi interna alla classe lavoratrice) mentre i ricchi godono senza affanni di servizi privati di eccellenza e finanziano solo marginalmente i limitati servizi universali. Un sistema che, come noto, in ambito sanitario crea mancato accesso alle cure, alla prevenzione e una spesa privata abnorme a tutto vantaggio di assicurazioni e sanità privata.

In campo sanitario, per fortuna, l’Italia è ancora lontana dall’aver adottato il modello nord-americano, potendo vantare uno dei sistemi di cura della malattia universalistici più avanzati e accessibili al mondo. Tuttavia, nell’ambito diagnostico e di prevenzione il processo di mercificazione e privatizzazione è in corso da molti anni e in via di preoccupante avanzamento. Il ticket sempre più esoso e, ancora di più, le liste di attesa chilometriche che implicano attese fino ad un anno per prestazioni anche importanti, hanno spianato volutamente la strada alla sanità privata o ad odiosi sistemi intermedi come l’Intramoenia di uso semi-privato di strutture pubbliche che consentono, pagando di più, di scavalcare le liste estenuanti. A ciò si aggiunge il grave processo di regionalizzazione avviato dal 2001 con la Riforma del Titolo V che ha creato pesanti disparità territoriali in termini di qualità, costo ed entità delle liste di attesa.

Di fronte a questa situazione emergenziale la proposta del ministro Speranza, al netto del condivisibile proposito di abolizione erga omnes del super-ticket, non introduce alcun vero cambiamento di prospettiva, ma finisce per cristallizzare molte delle tendenze in atto. Limitarsi a rimodulare i ticket facendo pagare meno ai poveri e presumibilmente di più ai meno poveri (la proposta avanzata da Speranza è, infatti, a tutti gli effetti, una riforma a costo zero e a parità di introiti sanitari), coprendo ideologicamente il tutto con l’esempio del tutto marginale del ricco che finalmente pagherà di più per accedere a servizi iniquamente garantiti sotto-costo, ha un significato e delle implicazioni molto chiare.

L’adozione di una proposta simile significa rinunciare in modo ufficiale all’universalità del servizio sanitario; significa praticare una redistribuzione interna alla classe lavoratrice tra redditi medi e bassi ovvero una guerra tra poveri e un po’ meno poveri; significa infine trascurare il fatto che la mercificazione e la privatizzazione strisciante del sistema di prevenzione e diagnostica sono dovute sia alla presenza dei ticket gravanti sulla generalità della fasce di reddito medie e basse, sia, soprattutto, alle mostruose liste di attesa che spostano fette crescenti della popolazione dal pubblico al privato a tutto beneficio di cliniche private lautamente convenzionate e assicurazioni private. Una situazione scandalosa che vede il servizio pubblico di diagnostica e prevenzione non solo sempre più costoso, ma spesso semplicemente inesistente poiché attendere un anno per poter ottenere delle analisi la cui utilità si misura in giorni o settimane significa, di fatto assenza conclamata del servizio.

Una vera alternativa, se così vuole chiamarsi, in campo sanitario, dovrebbe dunque basarsi: sul ripristino della centralità del servizio pubblico gratuito e universale; sulla totale abolizione del ticket per tutti; la riduzione drastica delle liste di attesa attraverso, ad esempio, cospicui investimenti nella sanità pubblica, che prevedano la costruzione di ospedali nuovi e che contemplino nuove e maggiori assunzioni di medici e infermieri; sul riorientamento della spesa pubblica oggi destinata a centri privati a favore di più capillari servizi pubblici; sull’abolizione di sistemi semi-privati come l’intramoenia; ed infine sulla ricentralizzazione territoriale del servizio per superare le intollerabili asimmetrie regionali oggi esistenti.

Un’impostazione che richiede, a monte, lo scardinamento del dogma della scarsità delle risorse imposto dall’austerità fiscale di matrice europea, una drastica inversione di tendenza nelle politiche tributarie a favore di sistemi che siano realmente progressivi e la fine dell’assoggettamento dell’interesse pubblico agli interessi del capitale privato in ambito sanitario e in ogni ambito della vita economica.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

martedì 15 ottobre 2019

LA SENTENZA POLITICA DI MADRID PER I CATALANI


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Come era già stato in parte preventivato e tenendo conto dei rastrellamenti della Guardia Civil in Catalunya lo scorso mese(madn la-catalunya-e-la-repressione-della guardia civil )ecco che quello tra i più grandi ed importanti processi politici degli ultimi decenni ha visto pesanti condanne per i leader indipendentisti catalani indagati per la proclamazione dell'indipendenza di due anni fa.
Pene che potevano essere ancor più gravi se si considera che i 25 anni richiesti per ribellione non sono stati accolti,mentre comunque le sentenze che vanno dai 9 ai 13 anni per sedizione ed appropriazione indebita sono comunque un macigno per persone che vengono accusate per un'idea e non per le loro azioni.
L'articolo di Infoaut(la-catalogna-in-piazza )parla di questa decisione e delle proteste partite subito in tutto il territorio catalano coinvolgendo il blocco dell'aeroporto di Barcellona,della stazione di Girona e di altri manifestazioni di piazza che hanno coinvolto migliaia di persone.

La Catalogna in piazza dopo le condanne agli indipendentisti.

A quasi due anni dai fatti contestati, la Corte Suprema di Madrid mette in atto la vendetta dello stato spagnolo nei confronti delle principali figure dell'indipendentismo catalano.

Sono stati condannati a pene tra i 9 e i 13 anni alcuni degli esponenti ritenuti responsabili dei fatti accaduti intorno alla convocazione del referendum per l'indipendenza della Catalogna lo scorso 1 ottobre. Una sentenza farsa, palesemente politica, a poche settimane dal 10 novembre quando il paese tornerà alle urne dopo il mancato accordo per la formazione di un governo tra Psoe e Podemos, su cui ha pesato anche la visione divergente sulla questione catalana.

La condanna più dura è per l'ex vicepresidente della Generalità Oriol Junqueras, a 13 anni. Per il presidente, Carles Puigdemont, la corte ha sancito un mandato di arresto internazionale. 12 anni a Romeva, Turull e Bassa, mentre l'ex speaker del parlamento catalano Carmen Forcadell è condannata ad 11 anni e mezzo. Dieci anni e mezzo vanno a Forn e Rull, 9 anni e mezzo per Sanchez e Cuixart. Le accuse sono di sedizione e appropriazione indebita.

Non è stata accolta la richiesta di condanna per ribellione che avrebbe potuto significare pene fino a 25 anni di carcere. Puigdemont si è scagliato contro le condanne, stigmatizzare anche dall'attuale presidente della Generalità Quim Torra. Sia Pablo Iglesias che la sindaca di Barcellona Colau stanno tenendo una posizione ambigua, di fatto di neutralità, molto difficile da sostenere con condanne così pesanti.

A testimonianza del radicamento della prospettiva indipendentista, anche il Barcellona, club calcistico tra i principali al mondo, si è scagliato contro la sentenza. "La pena preventiva non ha aiutato a risolvere il conflitto, non lo farà la pena detentiva inflitta ora, perché la prigione non è la soluzione", recita un comunicato ufficiale del club.

Subito lanciate mobilitazioni in risposta da parte delle organizzazioni e delle formazioni studentesche indipendentiste e non solo, molte delle quali riunite nella sigla Tsunami Democratic. Da tempo i movimenti erano d'accordo nel rispondere subito alla sentenza, il cui esito del resto era abbastanza scontato.

Migliaia di persone si stanno dirigendo a partire dalle 13 verso l'aeroporto di Barcellona con l'intenzione di bloccare gli arrivi e in generale di mettere sotto scacco un luogo cardine del complesso turistico, tra le principali fonti economiche della città. In diverse zone del capoluogo catalano ci sono stati tafferugli tra polizia e manifestanti che intendevano praticare blocchi stradali, mentre mercoledì partiranno diverse marce dalle principali città catalane con l'obiettivo di raggiungere in due giorni Barcellona.

La tensione è molto alta, Barcellona stessa è come ovvio fortemente militarizzata. I Mossos sono intenti a presidiare le infrastrutture principali, in un contesto in cui è stata annunciata la convocazione da parte delle sigle sindacali vicine l'indipendentismo di uno sciopero generale della Catalogna per il prossimo venerdì 18 ottobre. La repressione tra l'altro non si ferma. Sta facendo scalpore il caso di Ferran Jolis, attivista dei Comitati per la Difesa della Repubblica arrestato lo scorso 23 settembre e tuttora in isolamento senza possibilità di incontrare il proprio legale.

venerdì 11 ottobre 2019

L'ECUADOR IN RIVOLTA


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Benché al momento la situazione siriana scavalchi le proteste di Hong Kong,supportati dai media mondiali in quanto la Cina non è che sia molto simpatica,rischia di passare in sottofondo la protesta degli equatoriani contro le politiche sempre più liberali e contro il popolo del Presidente Lenin Moreno(madn lenin+moreno )successore di Correa e socialista come lui.
Ma subito dopo le elezioni del 2017 le cose sono cambiate e precipitate in quanto Moreno fin da subito ha coinvolto la destra conservatrice nelle azioni di governo di fatto riducendo nettamente la spesa pubblica liberalizzando il commercio per non parlare delle leggi che hanno affossato i diritti dei lavoratori.
Insomma in pochi mesi l'Ecuador è passato da fiore all'occhiello del Sud America ad una nazione mediocre se non pessima riguardo i diritti della popolazione,soprattutto verso gli indigeni che nelle ultime settimane si sono ribellati costringendo addirittura il Presidente a fuggire temporaneamente nell'enclave di destra di Guayaquil.
L'articolo di Infoaut(ecuador-la-rivolta-dei fannulloni )parla di queste proteste iniziate per l'aumento spropositato dei prezzi del carburante che si somma a tutto quello detto sopra,con scontri violenti tra i manifestanti e la polizia nella capitale Quito dove si hanno notizie di morti e feriti.

Ecuador, la "rivolta dei fannulloni" occupa il Parlamento, duri scontri con la polizia.

In Ecuador continua la mobilitazione popolare contro le politiche del governo di Lenin Moreno. Sotto esame è il “paquetazo” di riforme economiche approvato dal governo, che porta l'ispirazione del Fondo Monetario Internazionale, nella più classica delle storie latinoamericane ai tempi della globalizzazione capitalista degli ultimi 50 anni.

Martedì scorso l'esecutivo infatti aveva annunciato nuove riforme "definitive" di taglio fortemente anti-operaio, togliendo i sussidi governativi alla benzina e aumentandone così il prezzo. Un costo che si ripercuote direttamente sui lavoratori, che necessitano di mezzi personali per spostarsi, raggiungere i luoghi di lavoro o le loro abitazioni.

 Ogni presidente che in passato ha provato a varare questo tipo di misure restrittive non ha però resistito alla piazza, e anche questa volta si ripropone la stessa situazione. E anche questa volta per il governo non sembra mettersi bene. In difficoltà di fronte alla pressione esercitata da migliaia di manifestanti, in grandissima parte indigeni, il governo si è ritirato a Guayaquil, principale porto del paese e governato da più di venti anni dalla destra populista, lasciando la capitale Quito alla gestione della polizia.

 Polizia che spara, e uccide. In particolare nel parco El Arbolito, preso dai manifestanti come base logistica e organizzativa, con ospedali da campo e cucine popolari a sostenere la mobilitazione di quella che è stata ribattezzata “La Comune di Quito”. Il parco, usuale punto di ritrovo delle comunità indigene quando raggiungono la capitale per manifestare, si trova a poca distanza dalla Casa della Cultura e dal parlamento ecuadoriano, l'Assemblea Nazionale. Questa è stata ieri oggetto di un tentativo di occupazione da parte dei manifestanti. Un gruppo di persone è riuscito a entrare nell'edificio (per quanto vuoto da lunedi), rompendo il dispositivo poliziesco a base di gas lacrimogeni ma anche di veri spari una volta calata la notte.

 E' ancora incerto il bilancio delle vittime, ma è evidente che la reazione del governo a una sorta di riedizione del que se vayan todos ( nelle piazze si grida "né Moreno, né Lasso, né Nebot, né Bucaram, né Correa", ovvero si manifesta l'opposizione ad ogni profilo politico della storia istituzionale recente del paese) è quella di una fuga precipitosa dalle proprie responsabilità e dell'affidamento ad una gestione militare, tramite anche la convocazione dello stato di emergenza, della questione politica posta dalla piazza.

 Così come in Venezuela, le contraddizioni di un modello di sviluppo iper-estrattivista si risolvono in uno scontro istituzioni-cittadini che sicuramente è visto con positività anche da interessi di potenze straniere, ma che non si può leggere in alcun modo in una eterodirezione. I problemi esistono, e sono pure grossi. Le assemblee popolari non a caso cresciute sin da subito per forza e intensità sin dall'annuncio del “paquetazo”, con l'obiettivo dichiarato di lottare fino all'annullamento delle riforme.

 Il presidente ecuadoriano Moreno ha chiamato i manifestanti delinquenti e fannulloni, e la mobilitazione stessa è stata ribattezzata “la rivolta dei fannulloni” dagli uomini e dalle donne in lotta per i propri diritti. Contro Moreno si è in seguito scagliata la CONAIE - Confederación de Nacionalidades Indígenas de Ecuador - che ha definito “criminale” il governo e la sua gestione delle proteste di piazza.

 Migliaia e migliaia di appartenenti alle comunità indigene del paese stanno ancora raggiungendo in queste ore la capitale, ed è probabile che anche oggi ci saranno ulteriori mobilitazioni. Proprio l'ingresso delle comunità indigene nella capitale è stata altra occasione di scontro negli scorsi giorni, con mezzi cingolati dell'esercito dati alle fiamme e reparti della polizia stessa tenuti sotto scacco dai movimenti urbani cittadini, con lo scopo di togliere alle forze repressive uomini e mezzi impegnati nell'impedire alle comunità di raggiungere il paese.

 La pacificazione dei movimenti sociali attuata negli ultimi anni dal governo di Rafael Correa ora sembra saltare sull'onda della crisi economica. Seguiranno aggiornamenti...

giovedì 10 ottobre 2019

L'ATTACCO E LE MINACCE DI ERDOGAN


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Le incursioni turche nel nord della Siria al momento sotto il controllo(è anche il loro territorio)curdo stanno proseguendo senza che il mondo intero faccia qualcosa di concreto,ci sono condanne e pure minacce ma dal canto suo il sultano Erdogan parla di aprire il rubinetto versando tre milioni e mezzo di profughi in Europa,ma questa storia del ricatto l'abbiamo già sentita molte volte,vedi:madn la-questione-curda-sempre-piu-di.stretta attualità .
Pure la stessa Unione Europea ha tirato le orecchie all'assassino di Ankara,e l'altrettanto vergognosa Nato ha le mani imbrattate di sangue dicendo che la Turchia fa bene ad agire per la sua sicurezza...meglio togliersi di mezzo da questa setta che ormai è obsoleta ed andrebbe distrutta.
Poi la questione dei prigionieri Isis nelle prigioni sovraffollate di tutta la zona cuscinetto che vorrebbe la Turchia e che sono a serio pericolo di fuga,d'altronde Ankara assieme all'Arabia Saudita e gli emirati arabi sono sempre stati foraggiatori dei tagliagola di Daesh.
L'articolo di Left(sulla-pelle-dei-curdi )parla delle vicissitudini curde nell'ultimo ventennio e nel secolo precedente,una sorta di malaugurio aleggia sulle teste di questo popolo tanto fiero quanto osteggiato se non addirittura oggetto di epurazione,e fa capire che sotto traccia la Turchia aveva già da anni pianificato questo intervento facendo investimenti nell'area del Rojava ridiventata nuovamente teatro di guerra(vedi anche:madn erdoganil-consenso-e-la-guerra ).

Sulla pelle dei curdi.

di Tahar Lamri
Per i curdi – i loro leader – vale il detto: “la storia serve a perfezionare gli errori”. Sempre traditi dall’alleato di turno. Dalla Repubblica di Ararat (ottobre 1927 – settembre 1930), quando vennero traditi dai turchi che li hanno usati per massacrare gli armeni, all’effimera Repubblica di Mahabad (22/01/1946 – 15/12/1946) quando vennero traditi dai sovietici, al trattato firmato dal leader curdo Mustapha Barazani con il presidente iracheno Saddam Hussein nel 1970, alle promesse di Rifondazione comunista al leader del PKK Abdullah Ocalan di un asilo politico in Italia nel 1998, promesse tradite dal governo D’Alema che convinse lo stesso Ocalan ad andare in Kenya: praticamente lo consegnò ai turchi, al recente tradimento nordamericano…. Sfiga? Ingenuità? Non lo so.

Ora, dopo questo tradimento nordamericano, si torna a parlare di curdi (e accessoriamente di Siria), di imminente invasione turca, di massacro di curdi (come se in Siria ci fossero solo curdi e non anche o soprattutto altri siriani), si pubblicano foto di donne – bionde – curde con i capelli al vento e il kalashnikov in mano, si torna a parlare della bellissima – con 20 “S” – esperienza del confederalismo democratico. Insomma tornano i curdi. Tornano solo per essere traditi un’altra volta.

Ma la Turchia intende davvero invadere il nord della Siria? O Lo ha già invaso tanto tempo fa?

Nel 1998, il presidente siriano Hafez El Assad aveva già concesso una zona di sicurezza larga 30 chilometri all’esercito turco per perseguire i ribelli del PKK (un altro tradimento perché H. El Assad era ufficialmente amico dei curdi). Questo accordo si basava sul Misaq Melli (o patto nazionale) approvato dal parlamento ottomano nel 1920…

Già. Ora invece, a livello militare, 200 gruppi militari a Idlib, Jarabulus e Afrin hanno deciso di unirsi per formare un esercito chiamato “Esercito nazionale” (100 mila combattenti) sotto la guida del generale Salim Idris, ex capo dell’Esercito Libero Siriano. Idris ha rapporti eccellenti con il Pentagono. La riunione dei capi di questi gruppi si è tenuta nella città turca di Sanliurfa (O Urfa). Già la Turchia aveva costituito, armato e finanziato un corpo di polizia locale in quelle città. Inoltre, l’agenzia turca Anadolu ha pubblicato ieri le foto di addestramenti militari, per prepararsi ad affiancare l’esercito turco, dei battaglioni Hamza e Suleiman Shah, dell’Esercito Libero Siriano, a Afrin. Il giornale turco, vicino al partito di Erdogan, Yeni Safak dice che questo esercito unificato sarà il referente della Turchia in zona.

Ma è a livello culturale e sociale che la Turchia sta facendo un grande lavoro. L’università turca di Gaziantep ha aperto recentemente tre facoltà in Siria (nella zona frontaliera): la facoltà di studi amministrativi e economici a El Bab, la facoltà di scienze islamiche a Azaz e la facoltà di pedagogia a Afrin per un totale di 2900 studenti.

Le Poste turche avevano da tempo aperto filiali a Afrin, Jarabulus, Azaz, Ciuban Bek, El Bab e Mari’ ed è già da tempo che la Turchia sta popolando quelle zone con turkmeni e arabi filo turchi.

Nel suo discorso di apertura dell’anno legislativo del parlamento turco, Rejep Tayyip Erdogan ha dichiarato: “E’ tempo per i rifugiati siriani di tornare a casa. Una zona di sicurezza di 30 Km in territorio siriano sarà posta sotto la responsabilità dell’esercito [turco]. Sistemeremo 1 milione di persone in 50 nuove città di 30mila abitanti e in 140 villaggi di 5mila abitanti ciascuno”. Questa sistemazione si farà lungo tutta la frontiera turco-siriana. Così nessun curdo potrà più pensare a uno stato indipendente in quella zona.

Questo progetto trova tutti d’accordo: gli iraniani risolvono il loro problema con i loro curdi, i russi potranno finalmente scrivere la nuova costituzione per la Siria, questa volta per una sorta di “confederazione culturale” e non più su base amministrativa come era nella prima bozza osteggiata in Siria da varie forze politiche, gli americani che delegano così tutto alla Turchia e al nuovo comandante del nuovo “esercito nazionale” sotto la guida del loro alleato Salim Idris, L’Europa che risolve così il problema rifugiati. I grandi perdenti come sempre: i curdi. Fra qualche settimana o qualche mese sentiremo parlare di ricostruzione della Siria. Ovvero le 30 nuove città e 140 villaggi di Erdogan….

(Nella foto cartello a Idlib – Siria – con scritto – più o meno -: Vaffanculo la democrazia. Vostri fratelli jihadisti)

mercoledì 9 ottobre 2019

A CREMONA APPLICATE LE DIRETTIVE UE


Risultati immagini per sentenza emilio visigalli
Sentenza ridicola quella emessa a Cremona per l'aggressione fascista ai compagni del centro sociale Dordoni nella città delle tre"T",nella quale sono stati puniti di più gli aggrediti rei solamente di essersi difesi che i veri assalitori di Fogna Povnd.
Reato derubricato da tentato omicidio a lesioni gravissime,sette anni e due mesi per l'imputato Guido Vito Taietti e due anni e sei mesi per l'ex capo degli squadristi Gianluca Galli mentre per gli altri condannati fascisti(Matteo Bassanetti,Andrea Visigalli,Michael Gorini,Rubens Rubini,Riccardo Scandolara e Alessandro Piacentini)una pena irrisoria mentre estranei ai fatti sono risultati gli altri due caccapovndisti Lorenzo Ranelli e Stefano Zaffanella.
Lo stesso Emilio Visigalli è stato a sua volta condannato a tre anni e due mesi,dopo avere passato un lungo periodo in coma tra la vita e la morte dopo quel tragico 18 gennaio 2015(madn assalto-nazifascista-al-dordoni-con-un ferito grave )cui seguì una manifestazione antifascista a carattere nazionale(vedi:madn a-cremona-non-ci-fu-devastazione-e saccheggio e links)dove le polemiche fioccarono come ad essere in Himalaya.
Una sentenza che di giustizia non ha nulla,che puzza di invasione reazionaria tra queste toghe che hai voglia essere politicizzate a sinistra,la verità è che i fasci sono e saranno sempre tutelati e difesi da sbirraglia ed altri apparati dello Stato,un primo risultato della politica europea di equiparazione tra comunismo e nazifascismo(madn la-mozione-anticomunista-del-parlamento.europeo ).

CREMONA: PER IL TRIBUNALE L’AGGRESSIONE FASCISTA AD EMILIO NON FU TENTATO OMICIDIO. CONDANNE ANCHE AI COMPAGNI DEL CSA DORDONI

Nel primo pomeriggio dell’8 ottobre 2019 il Tribunale di Cremona ha emesso la sentenza in relazione all’aggressione fascista nei confronti di compagne e compagni del centro sociale Dordoni del 18 gennaio 2015. In quell’occasione, in seguito allo scontro con i fascisti di Casa Pound, il compagno Emilio finì in coma per i colpi ricevuti alla testa.

Il collegio dei giudici non ha ritenuto sussistere il reato di tentato omicidio di cui erano accusati i due di Casapound per i quali il pm aveva chiesto la pena più alta, 8 anni.

Per uno dei due è stato riconosciuto, oltre alla rissa, il reato di lesioni gravissime nei confronti di Emilio, e la condanna per lui è stata di 7 anni e 2 mesi di reclusione. Condanna a 2 anni e 6 mesi per rissa e porto di spranghe e bastoni invece per l’altro fascista, Gianluca Galli, all’epoca capo di Casa Pound Cremona.

Ma non sono stati condannati solo gli aggressori fascisti, il Tribunale ha condannato anche 7 compagni che ha ritenuto colpevoli di essersi difesi. Tra questi anche lo stesso Emilio, condannato a 3 anni e 2 mesi. 4 anni e 4 mesi la condanna, pesantissima, per un altro compagno cremonese. Due compagni ad un anno a testa, altrettanti ad 1 anno e 4 mesi ed un altro a 2 anni e 2 mesi. A nessuno di loro è stata concessa la sospensione della pena.

Qui sotto il commento rilasciato sui social dal Centro Sociale Dordoni di Cremona:

• un colpo al cerchio ed uno alla botte. La giustizia non risiede nelle aule dei tribunali •

Oggi è arrivata la sentenza in primo grado per l’aggressione fascista avvenuta il 18 gennaio 2015 fuori dal CSA Dordoni. Dovremo aspettare 90 giorni per leggere le ragioni della sentenza, ma le condanne comminate mostrano come il tribunale di Cremona abbia voluto equiparare aggressori e aggrediti, alimentando la retorica che a partire dalle indagini e dagli arresti era stata diffusa per mezzo stampa.

Cade l’accusa per tentato omicidio a carico di due esponenti di Casapound, soltanto per uno di loro viene riconosciuta l’aggravante di lesioni gravissime. La maggior parte dei fascisti è stata condannata a pene irrisorie. 

Per controbilanciare la condanna a 7 anni a carico dello squadrista che mandò in come Emilio, il collegio giudicante ha inflitto pene sproporzionate per gli antifascisti: Emilio stesso è stato condannato a 3 anni e 2 mesi, Are a 4 anni e 4 mesi.  Due compagni ad un anno a testa, altrettanti ad 1 anno e 4 mesi ed un quinto a 2 anni e 2 mesi.

Libertà per gli antifa! Difendersi dalle aggressioni fasciste è giusto e doveroso.

martedì 8 ottobre 2019

ANCORA SUI METODI PER TASSARE


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I proclami di questi giorni,parole gettate al vento che vorrei rileggere già nel giro di poche settimane,sono incentrati su dove attingere dalle tasche degli italiani per giungere ad una manovra economica senza disturbare troppo i sonni delle popolazioni.
L'idea di fondo su di un'ulteriore contrasto all'evasione fiscale potrebbe dare certamente una mano ma solo questo non basterà,perché tutto il sommerso che viene scoperto e che viene aggiustato con chi ha sgarrato e che comunque se beccato ci guadagna lo stesso,è solo una piccola percentuale rispetto alla somma totale degli ammanchi totali.
L'articolo che riprende il comunicato sindacale Usb(contropiano.org/news/news-economia )non dice cose nuove ma ragionevoli,esempi pratici di come dovrebbe essere gestita una politica tributaria solo che non si fa il conto con l'oste perché di patrimoniale qui ancora non si parla,argomento molto tabù,dell'Iva meglio non parlarne perché qui si parla di un calo se non di un abbattimento totale dell'imposta sul valore aggiunto per i beni necessari e primari,nonché delle assunzioni di massa per combattere la disoccupazione e cominciare davvero"a fare girare"l'economia aumentando i redditi e di conseguenza i consumi.
Non confondo questo fatto col mero consumismo e capitalismo,ma di certo se in tasca non ho nulla da spendere anche le attività dalle piccole alle grandi stanno male di conseguenza,un cane che si morde la coda,un'economia stagnante che fa comodo solo al padrone ed agli arricchiti delle speculazioni finanziarie.

Abbassare l’Iva, patrimoniale, progressività. Queste le priorità per battere l’evasione fiscale.

di  Unione Sindacale di Base 
Improvvisamente il tema della lotta all’evasione, anzi “contrasto duro all’evasione” per ripetere le parole spese da Giuseppe Conte incontrando gli amici Cgil,Cisl e Uil, sembra essere tornato al centro del dibattito politico.

Con l’inevitabile seguito di indiscrezioni su possibili interventi normativi che dovrebbero consentire di recuperare una parte (7 miliardi) di quel gigantesco ammanco determinato dall’evasione fiscale (circa 190 miliardi).

Su tutto aleggia l’eterno ricatto dell’aumento dell’Iva e della necessità di recuperare risorse necessarie per scongiurarlo: dal taglio delle detrazioni fiscali ad aumenti selettivi dell’Iva, magari con un sistema di penalizzazioni per chi paga in contante.

In mancanza di proposte concrete e strutturate non possiamo non rilevare una certa schizofrenia che da sempre accompagna il tema dell’evasione fiscale: dalle “manette agli evasori” al “Fisco amico”, dall’innalzamento del tetto per l’uso del contante alla lotta contro il contante.

E proprio mentre il governo rivolge tutta la sua attenzione (giustamente) verso chi non emette scontrini o ricevute, uno studio della CGIA di Mestre registra, invece, che l’entità dell’evasione delle grandi aziende è superiore di ben 16 volte rispetto a quella delle piccole aziende!

E qui entrano in  campo tutti quei provvedimenti normativi che, nel corso degli anni, hanno così tanto allargato le maglie della legge da consentire al mondo delle grandi imprese e alle banche di conseguire indebiti vantaggi di imposta, pur tenendo formalmente un comportamento “legale”.

Quello che manca, oramai da decenni a questa parte, è una seria riflessione sul nostro sistema fiscale e sulla sua funzione sociale: perché dovrebbe essere esattamente questa riflessione ad orientare le politiche fiscali.

L’USB è convinta da sempre che l’attività sindacale deve coniugare le sacrosante rivendicazioni salariali con la difesa della funzione sociale che anche all’interno del settore fiscale siamo chiamati a svolgere.

Investire sui lavoratori attraverso un piano massiccio di assunzioni, determinare percorsi di valorizzazione del personale, difendere la presenza degli uffici sul territorio quale presidio di legalità sono strumenti indispensabili per combattere la piaga dell’evasione fiscale, perché politiche sul personale espansive e politiche fiscali socialmente eque sono strettamente connesse.

In altre parole non si può fare una seria lotta all’evasione in presenza di una contrazione degli organici e di politiche retributive che, lungi dal riconoscere le professionalità, hanno sistematicamente mortificato i lavoratori.

Allo stesso tempo occorre mettere al centro del dibattito il tema della lotta alle diseguaglianze perché è sotto gli occhi di tutti la trasformazione del Fisco da strumento di giustizia sociale attraverso il principio di progressività dell’imposta, a strumento che ha acuito ed approfondito le diseguaglianze sociali.

Ed allora è a livello sistemico che bisogna intervenire non limitandosi ad interventi  spot che magari recuperano qualche risorsa qua e là ma riproducono quella insopportabile iniquità fiscale che caratterizza il nostro sistema.

La bussola deve essere l’articolo 53 della Costituzione poiché è all’interno di questo ragionamento che si deve collocare la politica fiscale.

Occorre tornare ad un sistema fiscale allineato con la nostra Costituzione, a partire da una vera riforma dell’Irpef, e relegando le imposte indirette, in particolare l’IVA, il cui peso negli anni si è notevolmente accresciuto, ad una funzione marginale: è nota a tutti, infatti, la natura regressiva di tale imposta che grava nella stessa maniera sui redditi più bassi così come su quegli più alti.

L’USB ha, quindi, da tempo individuato proposte concrete volte proprio a riallineare il nostro sistema fiscale al dettato costituzionale:

-Abolire l’IVA sui beni di prima necessità;

–  Reintrodurre una forte progressività dell’imposta rideterminando aliquote e scaglioni di reddito affinché chi guadagna di più paghi di più e contestualmente si alleggerisca il carico fiscale sui redditi da lavoro dipendente e pensionati;

–   Introdurre una patrimoniale sulle grandi ricchezze per colpire lo stock di ricchezza accumulata nel tempo se superiore a un determinato tetto.

Non si tratta del libro dei sogni, ma di intervenire sulla redistribuzione del reddito, precondizione per favorire un aumento dei consumi e quindi della domanda aggregata, della produzione e dell’occupazione.

Su questi argomenti l’USB vuole aprire una riflessione a tutto campo con i lavoratori perché per riportare il dibattito nei giusti binari occorre far emergere la voce e il punto di vista del mondo del lavoro e in particolare di chi quotidianamente lavora nel settore.

lunedì 7 ottobre 2019

ERDOGAN,IL CONSENSO E LA GUERRA


Risultati immagini per curdi attacco imminente turchia
Lo squallore della notizia di un Erdogan sempre più in crisi in Turchia di volere attaccare la zona curda nella Siria del Nord è pari a quella che nessuno per ora abbia direttamente intenzione di fermare questo boia che vuole la soluzione finale alla maniera dai nazisti verso la popolazione dei curdi.
Negli articoli proposti(contropiano.org/news/internazionale e infoaut accordo-trump-erdogan )si parla per ora di una forte preoccupazione soprattutto dell'Onu e della decisione degli Stati Uniti di allontanarsi dalla zona dove erano alleati proprio con i curdi per la repressione dell'esercito daesh,cosa effettivamente portata a termine in Siria con città liberate mese dopo mese.
Erdogan,come già detto,è in calo nei gradimenti in Turchia,e cosa migliore di una guerra contro i tanto odiati curdi cosa c'è?Va tenuto pure presente dei milioni di rifugiati siriani che non stanno molto simpatici ai turchi,e penso che la zona del Rojava che vogliano liberare dai legittimi abitanti potrebbe essere destinata proprio a campi profughi per tutti i siriani fuggiti dalla guerra.
A breve ci saranno comunque novità,Putin deve ancora esprimersi così come la Cina,mentre l'Ue meglio proprio che stia zitta perché se proprio deve parteggiare lo fa sempre verso i più forti e mai contro i deboli,e se si parla del Kurdistan e della rivoluzione confederale.

Tamburi di guerra ad Ankara.

di  Nick Brauns * 
Il Presidente turco Erdogan annuncia ingresso in Siria del nord»Forse oggi, forse domani« l’esercito turco per la salvaguardia di »interessi di sicurezza« inizierebbe un’offensiva aerea e di terra in Siria del nord. Lo ha dichiarato il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan sabato davanti a membri del partito di governo religioso-nazionalista AKP a Ankara. Al confine della zona di autogoverno nota come Rojava, ormai si sono schierate decine di migliaia di soldati nonché un »esercito nazionale siriano« costituito da mercenari jihadisti (compresi ex membri di Stato Islamico, IS, e di Al-Qaeda).

Prima dell’Assemblea Generale dell’ONU alla fine di settembre, Erdogan aveva presentato di nuovo il suo piano di un »corridoio di pace« sotto il controllo dell’esercito turco che entri per 30 chilometri in territorio siriano. In questa zona di occupazione dovrebbero essere costruite oltre 100 nuove città per i 3,5 milioni di profughi siriani che attualmente vivono in Siria. Dato che si tratta in maggioranza di arabi provenienti da altre parti della Siria, questo risulterebbe in un cambiamento demografico a spese della popolazione curda nel Rojava.

Quando già all’inizio di agosto incombeva un ingresso turco, gli USA e la Turchia si erano accordate sull’istituzione di un centro operativo comune. In negoziati indiretti con le Forze Democratiche Siriane (FDS), considerate terroriste da Ankara ma sostenute da Washington nella lotta contro IS, è stato pattuito un »meccanismo di sicurezza«. In seguito le FDS hanno smantellato le loro postazioni difensive lungo il confine, si sono ritirate per cinque chilometri all’interno del Paese e hanno consegnato il controllo sulla zona di confine ai consigli militari costituiti da forze locali.

Da settembre in questa striscia si svolgono regolarmente pattugliamenti militari turco-statunitensi e sorvoli. Che questo non gli bastasse, Erdogan lo aveva reso chiaro fin dall’inizio. La sua intenzione ora sembra essere di spingere con minacce di guerra permanenti, il Presidente USA Donald Trump, che con lo sguardo già orientato alle elezioni presidenziali negli USA punta sulla calma sul fronte siriano a ulteriori concessioni.

Anche se il portavoce del Pentagono Sean Robertson sabato ha ripetuto il mantra dell’amministrazione statunitense »Ogni operazione militare non coordinata da parte della Turchia sarebbe estremamente preoccupante, dato che minerebbe il nostro interesse comune per una Siria del nord sicura e una sconfitta permanente di IS«, questa assicurazione non tranquillizza la regione di autogoverno.

»La probabilità che la Turchia attacchi la regione è elevata«, ritiene Amjad Othman, il portavoce del locale Consiglio Democratico Siriano in una dichiarazione resa all’agenzia stampa curda Anha. »Non esiteremo a trasformare ogni attacco da parte turca in una guerra complessiva lungo tutto il confine siriano per difendere il nostro popolo«, ha chiarito intanto il portavoce delle FDS Mustafa Bali su Twitter.

Per Erdogan, ammaccato tra l’altro dalle elezioni amministrative perse a Istanbul e Ankara, si tratta anche di obiettivi di politica interna. Di fronte allo scenario della crisi economica, in parti della popolazione turca è fortemente cresciuto il malumore nei confronti dei profughi siriani. Una guerra contro i curdi spezzerebbe di nuovo l’avvicinamento dell’opposizione costituita dal CHP kemalista e l’HPD di sinistra radicata sopratutto tra i curdi, che si è prodotto [a partire] dalle elezioni a Istanbul, questo il calcolo di Erdogan.

Solo lo scorso fine settimana in occasione di una »Conferenza sulla Siria«, il CHP, caratterizzato dalla sua fissazione sullo Stato, aveva segnalato la sua approvazione rispetto a un’operazione militare oltreconfine contro »terroristi«. Un insediamento di profughi in Siria del nord tuttavia richiederebbe un accordo con il governo di Damasco, così il CHP.

da: junge Welt – https://www.jungewelt.de/artikel/364229.nordyrien-t%C3%BCrkei-kriegstrommeln-in-ankara.html

Tradotto e pubblicato da Rete Kurdistan Italia

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=3329021913782403&id=931878953496723

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Attacco imminente della Turchia alla rivoluzione confederale: il comunicato delle Forze democratiche siriane (SDF).
“Ai media e all’opinione pubblica internazionale,
 Nonostante tutti gli sforzi che abbiamo fatto per evitare conflitti, il nostro impegno per l’accordo sul meccanismo di sicurezza e l’adozione delle misure necessarie a garantire la pace, le forze statunitensi non hanno adempiuto alle loro responsabilità e si sono ritirate dalle aree di confine con la Turchia. L’attacco non provocato della Turchia ai nostri territori avrà un impatto negativo sulla nostra lotta contro l’ISIS e sulla stabilità e la pace che abbiamo creato nella regione negli ultimi anni. Come Forze democratiche siriane, siamo determinati a difendere la nostra terra a tutti i costi. Chiediamo al nostro popolo curdo, arabo, assiro e siriaco di rafforzare la propria unità e sostenere l’SDF in difesa della propria terra.

Comando generale delle Forze democratiche siriane – Federazione della Siria del Nord 7 ottobre 2019″

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Accordo Trump-Erdogan: imminente invasione Turca del Rojava.

Via al ritiro delle truppe Usa dal Nord della Siria. Nella notte la Casa Bianca ha diffuso un comunicato in cui sancisce pubblicamente l’accordo con Erdogan di ritirare le proprie truppe al fine di lasciare mano libera all’esercito turco per istituire una “fascia di  sicurezza” lungo il confine Nord della Siria e ad est dell’Eufrate, liberando di fatto la strada per l’invasione del Rojava e per attaccare la Rivoluzione Confederale.
Inoltre nell’accordo si dichiara di voler affidare i prigionieri di Daesh alle autorità turche, aprendo di fatto alla possibilità che migliaia di miliziani dello Stato Islamico, ritornino in libertà, visto che proprio la Turchia in questi anni li ha foraggiati economicamente e aiutati sul campo di battaglia.
L’intenzione di Erdogan di invadere la il Rojava, dopo aver occupato militarmente il cantone di Afrin nel 2018, viene giustificata dall’annuncio di voler trasferire le migliaia di profughi siriani che vivono in Turchia, nella fatidica “Safe Zone” al confine turco-siriano. È lampante come dietro questa abominevole operazione di ingegneria demografica si nasconda il tentativo di minare l’integrazione sociale della Rivoluzione Confederale, poiché la maggioranza degli sfollati che si vorrebbe deportare sono originari di altre regioni siriane.
Erdogan nuovamente, cerca di uscire dalla più forte crisi interna di sempre, sia economica che di consenso per il governo, usando la carta della guerra contro i curdi, intenzione divenuta chiara nei giorni scorsi dopo i suoi annunci all’Onu.
Da parte della Federazione della Siria del Nord arriva la promessa di resistenza ad ogni costo per fermare l’attacco fascista turco, e l’appello alla solidarietà internazionale.