martedì 14 settembre 2010

PRIMI CONTI IN ROSSO PER I GUINZAGLIATI DEL REGIME

Per oggi propongo un articolo di"Senza Soste"che racchiude al suo interno due pezzi tratti dal sito Wall Street Italia che analizzano i primi tornaconti negativi di due tra le voci più importanti per quanto riguarda l'informazione nel nostro paese,ovvero il Tg1 ed il Corriere della sera,che negli ultimi tempi hanno investito(sia in denaro che in propaganda)verso il regime del premier pappone.
Il primo contributo,il più interessante,è del giornalista de"La Repubblica"Francesco Merlo dove il dato principale è il forte calo degli ascolti del telegiornale in prime time dell'emittente ammiraglia della tv di Stato a favore del nuovo format informativo che ha portato Enrico Mentana alla direzione del tg de"La 7".
A differenza del cagnolino Minzolini reggente del tg 1 Mentana non è che faccia miracoli ma racconta notizie senza manipolarle o addirittura senza nasconderle come faceva il guinzagliato"coatto"servo di Berluscojoni,insomma non si danno nemmeno troppi meriti all'ex direttore del tg 5 fuggito dalle reti Mediaset perché non più libero di svolgere un lavoro onesto e leale.
Il secondo articolo che riprende un lavoro di Vittorio Malagutti scritto per"Il fatto quotidiano"studia la situazione dal punto di vista economico riguardante gli investitori del quotidiano principe del giornalismo italiano.
Il fatto che parecchi investitori noti e meno abbiano perso milioni di Euro tra le pagine del giornale che per antonomasia ha sempre seguito la linea politica del governo in carica,è da mettere in correlazione col fisiologico calo di vendite dei quotidiani e dalla linea che il Corriere ha attuato soprattutto dopo l'arrivo del Lodo Alfano.

La propaganda costa. Crollo di Tg1 e Corriere della Sera .

Tenere in piedi la propaganda berlusconiana ha i suoi costi. Se ne è accorto il Corriere della Sera, che teorizzò di un Berlusconi "centro del sistema politico" all'indomani della bocciatura del Lodo Alfano. E se ne sono accorti i pubblicitari che vedono crollare l'audience del tg1 di Minzolini.
Vi proponiamo due articoli da un sito di analisi finanziaria. Segno che il costo della propaganda di Berlusconi comincia ad essere sotto analisi di chi le perdite le finanzia davvero. Per capire se c'è ancora convenienza.

Minzolini affossa il TG1. Crolla l'audience mentre sale Mentana.

Mercoledì ha perso 850mila spettatori, fuga verso il TG7. La débâcle il giorno dopo l'editoriale pro-voto. Il direttore: "Troppa politica, ho sbagliato". "Vicinanza al governo deleteria. E l'arrivo di Mentana peggiora le cose".

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – L'uno sale e l'altro scende, Enrico Mentana tocca il record positivo di ascolti e Augusto Minzolini quello negativo, il primo giganteggia con la normalità e il secondo si nanifica con la propaganda. Sono gli esiti opposti di due vite parallele e forse ci vorrebbe un Plutarchino per spiegare la discesa dell'uno e la salita dell'altro, il tonfo di Minzolini, che voleva imprigionare il potere e ne è prigioniero, e il successo di Mentana, che è stato allevato nelle corti e nei palazzi, ma è riuscito a non cantare né le corti né i palazzi.

Di sicuro la fuga dal Tg1 al Tg7 è già la moda dell'autunno-inverno e in fondo è vero che per capirla basta guardare e confrontare il telegiornalismo che vela con il telegiornalismo che svela. Per principio, Minzolini infratta i guai di Berlusconi, dal caso Mills alla Mignottocrazia alla grande crisi del centrodestra, è l'evoluzione antropologica del Rossella che su 'Panoramà gli faceva l'editing tricologico: quello gli nascondeva la calvizie e questo gli nasconde gli affanni. Poi, però, con ingenua ed appassionata riverenza Minzolini difende il capo e commenta, imbronciato, le vicende che non racconta.

Mentana invece non nasconde nulla ma non prende posizione, presenta tutti i fatti ma non ne commenta nessuno. Prendete l'immagine di Fini che alza e agita il dito dicendo a Berlusconi: "Che fai, mi cacci?". Non c'è dubbio che quel quadretto racchiude e persino spiega la vicenda politica che stiamo vivendo
e, comunque lo si voglia leggere, ha persino un profumo di poesia. Ebbene, Mentana, quasi con indifferenza, l'ha mostrato mille volte, ha fatto un tormentone di una scena che Minzolini non ha mandato in onda ma ha deplorato e condannato. Mentana vuole mostrare e non dimostrare, Minzolini pretende di dimostrare senza mostrare.

Mentana è sempre stato convinto che "il giornalismo migliore è come lo Stato migliore di Churchill, quello che non si vede", con il paradosso che senza grandi inviati né mezzi tecnici né tante immagini di repertorio, oggi occupa tutta la scena pretendendo di mettersi dietro la scena, allena i fatti come si fa con gli atleti, ha la sapienza di descriverli, la visione politica per organizzarli, l'agilità di arrampicarsi su di essi ma senza mai appendervi un pensiero forte e limpido che forse non ha.

È un bel giornalismo, certo. Ma è Minzolini che lo rende fenomeno. All'opposto di Mentana infatti Minzolini è diventato la caricatura del direttore autorevole e austero, si fa riprendere davanti a una montagna di libri che non ha letto e neppure pratica, indossa abiti firmati con la disinvoltura e il fisico di un bagnino e subito si capisce che, nonostante il sussiego pomposo o forse proprio per quello, è ancora il romanaccio che i cronisti di Montecitorio con delicata acidità chiamavano 'er coatto', e non solo per il dialetto, per le giacche a quattro bottoni, per le auto, la palestra e le belle squinzie, ma anche perché il suo era un giornalismo appunto di periferia, vissuto ai margini, dietro un muro, sotto un tavolo, a ingigantire sfondi e scorci, a decifrare gli spifferi.

Il punto è che a Mentana riesce oggi quel che Minzolini sognava di fare ieri, quando era il migliore nel razzolare fuori campo e collezionare cianfrusaglie, quando alzava i tappeti per aspirarne la polvere. Mentana impagina un giornale completo, ingrandisce i dettagli, fa parlare i veri protagonisti di giornata e, certo, li mette a loro agio ma non li serve come fa, per esempio, Bruno Vespa. È affidabile perché gli spettatori "sentono" che modi e tempi della professione non sono dettati dai funzionari del berlusconismo e della politica. Mentana fornisce i documenti che gli altri nascondono o manipolano. Tutti sanno che non è neutrale, ma obliquo, sghembo e che rischia l'ipocrisia pur di essere trasversale. E infatti dell'ormai famosa intervista a Fini anche Il Giornale ha apprezzato l'irritazione sulla casa di Montecarlo:"Pure lei, Mentana, fa Novella Tremila?".

Gli editoriali di Minzolini invece, che vorrebbero essere fragorose e roboanti difese di Berlusconi, finiscono con il somigliare alle parodie comiche e sembra quasi di sentire ancora il vecchio intercalare del coatto di Montecitorio: "v'o dico cò franchezza..". E difatti in quella babele di portavoce che servono Berlusconi come tanti interruttori qualcuno mi dice che "Minzolini perde ascolti non perché è berlusconiano ma perché non è televisivamente bravo"; e che il telespettatore, anche quello di centrodestra, percepisce solo il furore entusiasta del soldato goffo e primitivo; e che non basta essere la voce del potere per dare potere a una voce; e che la direzione del Tg1 gli serve per vivere da grand'uomo... e insomma, "si vede che il direttorissimo gode troppo di se medesimo".

E aggiunge un dettaglio che è un'esegesi dell'eccesso minzoliniano: "Quel che più lo fa soffrire è il non far parte degli irriducibili che contano, Feltri Belpietro e Sallusti, quelli che ormai neppure Berlusconi riesce a domare". Azzardiamo dunque una previsione: nel centrodestra che fermenta e prende già l'odore scorante di materia in decomposizione e di roba smessa, presto anche la fanfara Minzolini cercherà di dare la linea a Berlusconi. Per vincere dunque la battaglia d'autunno e diventare persino un eroe del giornalismo libero, Mentana deve solo continuare così. È la anormalità del Tg1 che lo fa somigliare al protagonista del disperato erotico stomp di Lucio Dalla:"Ma l'impresa eccezionale / dammi retta è essere normale".

Copyright © La Repubblica. All rights reserved.

Gli azionisti del patto di sindacato Rcs cercano di mascherare il crollo di valore della società. Il campione delle perdite è Giuseppe Rotelli, padrone di cliniche e ospedali, con l'11%. Ha investito 300 milioni, ne ha persi 150 (e lo tengono pure fuori dal patto di sindacato!). Un titolo senza flottante. E la Consob come al solito, tace.

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Il campione delle perdite per il momento è lui, Giuseppe Rotelli, padrone di cliniche e ospedali. Per conquistare un posto al sole tra i grandi soci del Corriere della Sera ha speso 350 milioni e ne ha già bruciati 150 (circa) nel gran falò dei mercati dal 2007 in avanti. Peggio ancora. Mercoledì, per l’ennesima volta il patto di sindacato che governa le sorti del Corrierone ha deciso di non prendere neppure in considerazione il suo ingresso, forte di una quota dell’11 per cento, nel gruppo di comando del gruppo.

Un disastro, insomma. Ma almeno Rotelli, che è l’unico azionista delle aziende che dirige, ha perso solo soldi suoi. Lo stesso non si può dire per molti dei grandi soci della Rcs media, la società quotata in Borsa che pubblica, tra l’altro, il più blasonato tra i quotidiani italiani. Nomi altisonanti del capitalismo nazionale, dagli Agnelli a Giampiero Pesenti, da Salvatore Ligresti a Marco Tronchetti Provera, comandano al Corriere grazie ai soldi degli altri. E cioè i piccoli azionisti delle loro aziende. Per di più, l’investimento nel quotidiano di via Solferino finora non ha fruttato granché. Anzi, nei bilanci si accumulano svalutazioni e perdite per decine di milioni. Un discorso simile vale anche per i gruppi finanziari azionisti del Corriere: Mediobanca, Generali, Banca Intesa.

Ma vediamo, numeri alla mano, come stanno le cose. Si parte da un dato fondamentale. Tre anni fa le azioni Rcs quotavano in Borsa intorno ai 4 euro. Adesso viaggiano vicino a 1,20, dopo essere scese fino a 0,5 euro a marzo 2009. Questo terremoto ha finito per avere conseguenze pesanti per il povero (si fa per dire) Rotelli. Ma anche altri protagonisti della vicenda, a cominciare dai soci più influenti del patto di sindacato, si sono trovati in bilancio azioni acquistate a quotazioni di gran lunga superiori rispetto a quelle correnti. E allora, nel tentativo di limitare i danni, gli azionisti di comando hanno escogitato le soluzioni più diverse. Giochi contabili, peraltro perfettamente legali, per attutire l’effetto Rcs sui conti delle loro aziende.

Ecco qualche esempio. La Pirelli di Tronchetti già nel 2008 ha svalutato per 65 milioni la sua quota nel Corriere (il 5,3 per cento). La perdita sarebbe stata ancora maggiore se si fosse mantenuta la quotazione di Borsa come criterio di valutazione. La Pirelli, però, ha sfoderato una perizia che fissa in 1,7 euro per azione il cosiddetto "valore d’uso" della partecipazione. E questo basta per evitare di allineare la voce di bilancio al prezzo di Borsa. Un fatto, quest’ultimo, che avrebbe obbligato la Pirelli a contabilizzare una perdita maggiore. L’Italmobiliare di Pesenti si è mossa nello stesso modo. Nel 2008 il gruppo del signore del cemento ha perso 55 milioni su Rcs (7,7 per cento del capitale). Ma questa volta il valore d’uso è inferiore: 1,6 euro. Anche questo calcolo è certificato da una perizia ad hoc.

A Mediobanca invece sono ottimisti. Per loro la società del Corriere vale 1,9 euro per azione. Ovviamente anche qui è tutta questione di valore d’uso. Nel bilancio al 30 giugno 2009, l’ultimo disponibile, gli amministratori della banca all’epoca guidata da Cesare Geronzi spiegano una valutazione tanto distante dalla quotazione di Borsa con "l’unicità di taluni asset posseduti" da Rcs. Come dire: di Corriere ce n’è uno solo e il marchio di per sé fa la differenza. C’è poco da festeggiare, però. Mediobanca, primo azionista con una quota del 14,3 per cento, l’anno scorso ha perso più di 90 milioni sulla sua partecipazione editoriale. Intesa invece ha bruciato 78 milioni.

Anche Ligresti viaggia in rosso, almeno a giudicare dai bilanci. La sua Fondiaria infatti è in crisi e passa da un piano di ristrutturazione all’altro. Poco male. Le ambizioni di Ligresti di dire la sua nella gestione del Corriere hanno causato perdite supplementari per 109 milioni nel bilancio 2008 della compagnia. Probabilmente i piccoli azionisti del gruppo assicurativo ne avrebbero fatto volentieri a meno. Nei conti della Fiat, invece, la voce Corriere vale 131 milioni. In Borsa la quota del 10,1 per cento in mano agli Agnelli costerebbe circa 90 milioni. Svalutare? Nemmeno per sogno, perchè, come si legge nella relazione degli amministratori, "la misurazione in base ai valori borsistici è poco significativa".

Molti analisti concordano in pieno su questa conclusione. E il motivo è presto detto. Il flottante in Borsa, cioè il numero di titoli che può essere venduto e comprato sul mercato, è ormai ridotto al lumicino. Se si sommano le quote bloccate nel patto di sindacato (63,5 per cento) con un altro 21 per cento di proprietà di altri grandi azionisti, come Rotelli, Toti e Benetton), si arriva a sfiorare l’85 per cento a cui va sommato per lo meno un altro 5 per cento riconducibile a investitori istitutzionali e quindi di difficile smobilizzo. Risultato: sul mercato resta il 10 per cento, forse meno. Troppo poco perchè il titolo non diventi facile preda della speculazione. Ma per la Consob è tutto regolare.

Copyright © Il Fatto Quotidiano. All rights reserved

Nessun commento: