La “normalità” della mattanza in carcere.
di Francesco Piccioni
Nel guardare il video dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere le sensazioni – in un essere umano “normale”, ossia ancora capace di distinguere e capire – sono di autentico orrore.
Non c’è infatti possibile giustificazione per tutta quella violenza arbitraria praticata da una torma di “agenti in divisa”, armati di manganelli, caschi, scudi, e singoli detenuti privi di alcuna difesa.
Non si può neanche invocare il “pericolo” – come usano fare le polizie nei suoi rapporti su eventi che accadono “fuori”, nelle strade. Pensate ad Aldrovandi, Magherini, ecc, o anche agli innumerevoli omicidi di polizia negli Usa. Una singola persona, per quanto violenti possano essere stati i reati commessi in precedenza, nulla può contro dieci, venti, trenta uomini addestrati e armati.
Di sicuro non può essere invocato il “pericolo” nel caso dell’anziano in carrozzella, bastonato ripetutamente anche lui, forse con un po’ meno di violenza, perché anche nel più infame balugina un attimo di incertezza sul che fare, quando – nella serialità del pestaggio di un detenuto alla volta – scopre di star “uccidendo un uomo morto”.
Nelle cronache, i giorni precedenti al pestaggio di massa, parecchie carceri erano state teatro di rivolte in seguito alla scoperta di focolai di Covid-19. Nessun agente era stato fatto prigioniero dai reclusi, nessuno era stato ferito.
Solo dopo i pestaggi, come usano fare tutte le forze di “polizia”, un po’ di agenti si erano fatti refertare – da medici della stessa amministrazione penitenziaria, inevitabilmente “compiacenti” – qualche giorno di prognosi per “contusioni”, “stress” e malori vari. Qualche giorno di ferie, in fondo, non fa mai male. E’ quasi un premio concesso dopo “l’eroica operazione”.
Insomma, ad una persona “normale” può sembrare assolutamente inspiegabile quella mattanza indiscriminata.
Chi nella sua vita è passato, qualche volta, tra due ali di picchiatori liberi di sfogarsi sul suo corpo – pensando “corri, non cadere perché ti saranno tutti addosso, copriti la testa e guarda i piedi degli sbirri, qualcuno proverà a sgambettarti” – sa invece che quella è “la normalità” del carcere in Italia. Anche se, ovviamente, non solo in Italia.
Scrivo “la normalità” senza alcuna intenzione di “minimizzare”. Anzi, per il motivo esattamente opposto. Quello è il carcere di tutti i giorni, quando i detenuti provano ad alzare la testa. Come dicono i “rappresentanti sindacali” degli agenti: “abbiamo ripristinato la legalità“. Questo orrore, intendo per “legalità”.
La differenza col passato sta nei video. Ora tutti possono vedere quel che accade e giudicare, soprattutto nelle strade e solo raramente in carcere.
In tutti gli altri casi – per esempio a Modena, in quegli stessi giorni – è molto più facile per un magistrato frettoloso “prendere per buone” le relazioni degli agenti e dell’amministrazione. E quindi derubricare nove omicidi – nove, quasi una strage, anche se a termini di codice penale è un “omicidio plurimo” – a “suicidi involontari”.
Due parole sulla storia di questa “normalità” sono dunque necessarie. Quello che tutti potete vedere è quel che accade da sempre dopo una protesta, una rivolta (tecnicamente: detenuti che non tornano nelle celle, ma occupano i corridoi o i cortili, salgono sui tetti, ecc, a seconda della possibilità di farlo).
E’ quello che accadeva nei racconti anche di 60 anni fa, poi fatti diventare letteratura a disposizione di tutti dal lavoro di Sante Notarnicola.
E’ quello che è avvenuto nella caserma di Bolzaneto (non a caso “gestita” dalla polizia penitenziaria) o alla scuola Diaz, a Genova 2001. E non riguardava “detenuti pericolosi”, ma normali manifestanti, persino dell’organizzazione cattolica Mani Tese (nel senso di “dare aiuto”).
E’ quello che è accaduto a Trani, nel 1980, dopo la rivolta per ottenere la chiusura dell’Asinara – in combinazione con il sequestro del giudice D’Urso.
Anche lì, dopo l’intervento delle “teste di cuoio”, i carabinieri del Gis, i prigionieri furono portati sul tetto, costretti a sdraiarsi sotto la minaccia dei mitra, con le mani sul bordo mentre venivano scalciati da dietro, verso il vuoto.
Anche lì il lungo percorso – dal tetto, “terzo piano”, fino ai cortili – tra due ali di “agenti della polizia penitenziaria” che manganellavano come ossessi.
Quel che c’è di differente, rispetto ad allora, sono i rapporti di forza, politici e sociali, certo, ma anche militari. Le mattanze nelle carceri provocavano vasta indignazione sociale, e non solo nei settori “di movimento” più sensibili al tema.
Esistevano ancora gli “ambienti democratici” (al contrario di oggi), vasti aggregati di opinione pubblica che pretendevano dallo Stato un comportamento corrispondete al dettato costituzionale. Si potevano contare decine di parlamentari pronti a fare interrogazioni, chiedere dimissioni, ottenere interviste. Decine di cantanti, intellettuali, persino qualche giornalista, che prendevano parola e alzavano la voce. De Andrè, ma non solo lui… (inutile ricordarlo a Fabio Fazio, lo censurerebbe…)
Ed anche sul piano militare, le cose stavano in modo tale che anche i più fanatici tra gli addetti alla repressione preferivano centellinare quelle esibizioni di violenza cieca. La morte del generale Galvaligi, per esempio, a 48 ore dalla violenta repressione della rivolta di Trani, di cui era stato guida operativa, era un episodio dentro una dinamica di scontro effettivo, se non proprio di guerra.
La “normalità” di quelle mattanze tornò più tardi, dopo la fine della lotta armata comunista. A rapporti di forza ristabiliti, ovviamente a favore del potere, non ci furono più limiti.
Fu istituito il Gom (Gruppo operativo mobile), composto di agenti specializzati nei pestaggi (non tutti sono disponibili, bisogna ricordare), selezionati in vari carceri e pronti all’uso là dove serve.
Una “pensata” del generale Ragosa – il primo ufficiale delle guardie penitenziarie ad ottenere quel grado – approvata a fatta sua da Oliverio Diliberto, forse l’espressione peggiore dei presunti “comunisti” che si erano “fatti Stato”.
Quel gruppo inaugurava – per così dire – ogni nuovo carcere, speciale e non, dopo la costruzione o una ristrutturazione. E stabiliva l’imprinting nel rapporto tra guardi e detenuti. Pestaggi sistematici, perquisizioni continue, telecamere nelle celle, arbitrio totale e copertura integrale da parte del governo.
E dunque anche dei media.
Quella “normalità”, per essere capita, va confrontata con la “banalità del male”. Con quel percorso di disumanizzazione che va oltre il rapporto di guerra – tra combattenti ci si ferisce uccide, ovviamente – e diventa “atteggiamento impiegatizio”. Come nei lager, gli aguzzini si sentono pienamente nel giusto, legittimati dall’”ordine superiore”, moralmente deresponsabilizzati dall’”obbedire”.
Con in più – nel caso delle carceri italiane – quel tanto di “privatizzazione del comportamento repressivo” che si alimenta di spirito corporativo, lamentazioni da “usciere ministeriale”, vittimismo paraculo, fancazzismo prepotente.
La normalità dell’orrore quotidiano dice su questo paese più di quel che si può descrivere nel più perfetto dei saggi. Guardate e almeno immaginate l’audio. Capirete meglio.
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