venerdì 29 gennaio 2021

IL TEAM DI BIDEN:MOLTI FALCHI,POCHE COLOMBE

La squadra preparata dal Presidente Usa Biden è quasi pronta e molti dei nomi che contano soprattutto per quanto riguarda la politica estera più che quella nazionale non lascia di certo buoni auspici per quattro anni di tranquillità.
Come da tradizione quando i democratici sono al potere l'istinto già innato per gli statunitensi di attaccare qualcosa o qualcuno con massicci bombardamenti lievita maggiormente(vedi:madn giusto-esultare-per-biden? )e dopo l'esultanza del primo mandato conferito ad Obama bisogna stare con i piedi per terra nonostante l'indiscusso cambio di passo dopo la presidenza dello sciacallo Trump.
Gli articoli proposti(contropiano biden-alla-casa-bianca e contropiano un-falco-liberale-per-la-biden-squad )parlano dei possibili scenari con alcuni personaggi,Blinken e la Nuland su tutti,che hanno un passato di aggressioni e di coperture importanti,dalla guerra contro Assad in Siria alla legittimazione dei nazi al potere in Ucraina.
Perché anche se i repubblicani con molto rumore ormai sono stati detronizzati,non è che la sinistra è salita d'un tratto al potere negli Usa,non se ne sono andati gli zoticoni conservatori razzisti per l'arrivo di un nuovo rinascimento americano,ma è salita al potere un nuovo tipo di destra diciamo più progressista ma sempre lontana anni luce da quello che potrebbe rappresentare una reale forza socialista.

Nessuno si faccia illusioni con Biden alla Casa Bianca.

di  Atilio Boron*   

Può sembrare un consiglio vano, ma dobbiamo ricordare il torrente di aspettative illusorie che il trionfo di Barack Obama aveva suscitato nel 2008.

Riflesso della profonda penetrazione del messaggio neocoloniale, i canti trionfalisti che hanno cantato importanti intellettuali del “progressismo” europeo e latinoamericano alla vigilia dell’inaugurazione del loro mandato, sono stati rapidamente messi a tacere non appena l’afroamericano si è messo al lavoro (affiancato proprio da Joe Biden) ed ha dedicato enormi sforzi per salvare le banche dalla “crisi dei mutui subprime” dimenticandosi del milioni che sono stati truffati da quelli.

Dato che si stanno già ascoltando alcune litanìe simili a quelle del 2008, seppur con un tono soffice, sembra opportuno richiamare questi antecedenti per non cadere in nuove – e prevedibili – frustrazioni.

Biden arriva alla Casa Bianca con una squadra etnicamente più diversificata rispetto a quella di Donald Trump, che era quasi interamente composta da maschi bianchi.

Ma in tutti i casi sono persone che, al di là della loro diversità etnica e culturale, sono strettamente legate al grande capitale nordamericano. Il Dipartimento di Stato sarà guidato da Anthony Blinken, un falco moderato, ma comunque un falco, che ritiene che il suo Paese avrebbe dovuto rafforzare la sua presenza in Siria per impedire l’arrivo della Russia. 

Blinken ha sostenuto l’invasione dell’Iraq del 2003 e l’intervento armato in Libia che è culminato nella distruzione di quel paese e nel linciaggio di Muammar El Gheddafi. Ha detto che “la forza deve essere un necessario complemento della diplomazia”, ​​in linea con il pensiero dell’establishment tradizionale, tanto per intendersi.

Il capo del Pentagono proposto da Biden è un afro-discendente, Lloyd Austin, un generale a quattro stelle con 41 anni di servizio nell’esercito e la cui ratifica al Senato potrebbe essere compromessa per due motivi. Primo, perché la legge stabilisce che questa posizione può essere ricoperta solo da un militare che ha lasciato il servizio almeno sette anni prima, e Austin lo ha fatto solo nel 2016. 

Secondo, perché fino a poco tempo fa era un membro del Consiglio di amministrazione di Raytheon, uno dei giganti del complesso militare-industriale, grande fornitore delle forze armate statunitensi. Inoltre, Austin, uomo con un buon fiuto per gli affari, è anche partner di un fondo di investimento dedicato alla vendita di attrezzature militari. 

Piccole incompatibilità, diranno i media egemonici, sempre così compiaciuti di quanto sta accadendo a Washington.

La seconda linea del Dipartimento di Stato ha come protagonista, nella posizione di sottosegretario agli Affari politici, nientemeno che Victoria Nuland. Questo personaggio è un super falco che, nella piazza Euromaidan di Kiev, ha incoraggiato e distribuito bottigliette d’acqua e dolci alle orde (simili a quelle che hanno devastato il Campidoglio il 6 gennaio a Washington) che hanno assediato la casa governativa dell’Ucraina e, nel febbraio 2014, hanno rovesciato il governo legittimo di quel paese.

Una conversazione telefonica tra l’ambasciatore statunitense in Ucraina e Nuland, trapelata inaspettatamente alla stampa, rimarrà per sempre negli annali della storia diplomatica, perché quando l’ambasciatrice gli ha fatto sapere che l’Unione Europea non era del tutto d’accordo con il rovesciamento del governo di Yanukovych, la Nuland ha risposto con un secco “Fanculo l’Unione Europea!” 

Vale la pena aggiungere che questa bella persona è sposata con Robert Kagan, autore di estrema destra di diversi libri dove esalta il destino manifesto degli Stati Uniti, difende apertamente l’occupazione israeliana della Palestina e rimprovera ai governi europei la loro codardia nell’accompagnare gli Stati Uniti nella loro crociata universale di civiltà. Tutto è in famiglia.

Come se quanto sopra non bastasse a dissipare ogni speranza in relazione alla sostituzione presidenziale negli Stati Uniti, concludo con due citazioni da un articolo che Joe Biden ha pubblicato sulla rivista Foreign Affairs: [1] Si intitola “Perché gli Stati Uniti dovrebbero guidare di nuovo. Salvare la politica estera dopo Trump ”e lì lancia un furioso attacco contro Russia e Cina. 

Del primo, afferma che la società civile russa resiste coraggiosamente all’oppressione del “sistema autoritario e alla cleptocrazia di Vladimir Putin”. Sulla Cina ribadisce la necessità di “inasprire la nostra politica” nei confronti del colosso asiatico. In caso contrario, dice, la Cina continuerà a “rubare tecnologia e proprietà intellettuale” alle nostre aziende. [2]

È difficile che con persone come quelle che ha assunto per posizioni chiave nella sua amministrazione e con una retorica come quella che scaturisce da quanto ha scritto, il mondo possa respirare facilmente e avere fiducia che, ora senza Trump, le tensioni del sistema internazionale diminuiranno notevolmente.

[1] In Foreign Affairs, marzo-aprile 2020, volume 99, n. 2, pagg. 64-76. 

[2] Il giornalista Rick Gladstone, in un articolo pubblicato sul New York Times del 7 novembre 2020, dopo il suo articolo su Foreign Affairs, assicura che Biden si riferiva a Xi Jinping come “un bullo”.

*Pagina12.com.ar

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Antony Blinken, un falco liberale per la “Biden squad”.

di  Alberto Negri *   

Insieme a Biden sulla Casa Bianca è planato il nuovo segretario di stato Antony Blinken, definito dal New York Times un «interventista liberale», ovvero un «falco democratico» che per non smentirsi è subito passato all’attacco di Europa, Russia e Cina. Linea dura con i nemici e anche con i presunti alleati, trattati da sottoposti.

Del resto Sanders ci aveva avvertito, sfoggiando alla cerimonia di insediamento voluminosi guantoni di lana che hanno spopolato sui social network: forse un suggerimento che questa amministrazione va trattata con una certa cautela, soprattutto in politica estera. L’entusiasmo degli europei per Biden potrebbe presto raffreddarsi.

Il «falco» Blinken infatti ha subito sfoderato gli artigli. Che per altro già conoscevamo.  Come consigliere del vicepresidente Biden nel 2011 si pronunciò per una intromissione nella crisi egiziana e appoggiò con convinzione i raid contro Gheddafi: ce lo conferma lo stesso ex presidente Obama nel suo libro “Una Terra Promessa”. 

Non solo. Blinken, secondo il Financial Times, nel 2013 era un convinto sostenitore dell’intervento militare contro Assad, senza neppure passare dal Congresso, dopo il presunto uso di armi chimiche da parte di Damasco: una strada che Obama si rifiutò di seguire. 

Il nuovo segretario di stato ha inoltre apprezzato pubblicamente la decisione di Trump di colpire la Siria nel 2017 con un’azione dimostrativa. Mai ovviamente da lui una critica per l’assassinio ordinato da Trump del generale iraniano Soleimani, oppure per quello dello scienziato di Teheran Fakhrizadeh a opera del Mossad.

L’«interventista liberale» nell’audizione al Senato, alla vigilia dell’insediamento, ha preso subito di mira il gasdotto russo Nord Stream 2 minacciando sanzioni a Berlino. «Bisogna utilizzare ogni strumento persuasivo anche verso la Germania per impedire il completamento di Nord Stream e se serve imporre sanzioni ai partner europei». 

Blinken ha espresso la stessa posizione di Trump e Pompeo per sanzionare le compagnie che lavorano alla pipeline, ormai in via di completamento. Non c’è da meravigliarsi. Michael McFaul, ex ambasciatore Usa in Russia che ha lavorato a stretto contatto con Biden, ha detto che Blinken e altri democratici, dopo la sconfitta di Kerry contro Bush jr. nel 2004, avevano fondato un gruppo chiamato “Iniziativa Phoenix”, sostenendo che il partito democratico avesse bisogno di un approccio sulla sicurezza nazionale più «duro». Un interventismo perfettamente in linea con i neoconservatori del partito repubblicano.

Blinken ha attaccato anche gli accordi commerciali europei con la Cina appena firmati dalla cancelliera Merkel con Macron. La Cina, ha detto, è l’avversario principale con il quale «bisogna assumere una posizione di forza». E per fugare ogni dubbio dei senatori ha aggiunto: «Credo che il presidente Trump avesse ragione. Non sono molto d’accordo con il modo in cui ha affrontato la questione cinese in una serie di settori ma il principio di base era quello giusto e penso sia utile alla nostra politica estera». 

Blinken non è stato neppure turbato dall’ultima mina vagante lanciata da Pompeo contro Pechino: la decisione di definire la condotta cinese contro gli uiguri «genocidio». «Questo sarebbe stato anche il mio giudizio», ha tagliato corto.

Quanto all’Iran Blinken è apparso meno ottimista del suo capo per un rientro nell’accordo sul nucleare del 2015 cancellato da Trump. «È ancora molto lontano – ha detto – e qualora dovesse accadere, ci consulteremo prima con Israele e gli stati del Golfo». 

Blinken ha messo subito i paletti per una nuova intesa: «Qualsiasi accordo con Teheran dovrà includere il programma missilistico e la fine del sostegno alle milizie “per procura” in Medio Oriente». Esattamente come avrebbe voluto Trump che aveva già incassato il rifiuto dell’Iran a un negoziato sui programmi militari.

È evidente che il Patto di Abramo in funzione anti-iraniana tra Israele e le monarchie arabe e il riconoscimento di Gerusalemme capitale con il trasferimento dell’ambasciata Usa non sono in discussione. Ma queste eredità di Trump renderanno ancora più inestricabile il dossier palestinese.  

In realtà alle mine vaganti lasciate da Trump – sanzioni rafforzate all’Iran, lista nera per Cuba e gli Houthi yemeniti – se ne è appena aggiunta un’altra: Avril Haines, nuova direttrice dell’intelligence, ha annunciato che il governo declassificherà una nota segreta della Cia sull’assassinio, nell’ottobre del 2018, del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

Per la Cia l’ordine di ucciderlo sarebbe arrivato direttamente dal principe ereditario Mohammed bin Salman. Biden, oltre a detestare Erdogan, non ama neppure i sauditi verso i quali ha avuto parole poco affettuose in campagna elettorale lasciando intendere che gli Usa potrebbero ridurre la vendita di armi a Riad, il maggiore cliente di Washington. 

Se come diceva Frank Zappa «la politica in Usa è la sezione intrattenimento dell’apparato militar-industriale», questo evento, qualora si verificasse, sarebbe davvero una novità planetaria.

 * da il manifesto

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